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Brexit

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L’abbandono della UE e il pericolo di “implosione” del Regno Unito

di Gianfranco Sabattini

Gli Inglesi, cioè gli abitanti dell’Inghilterra (uno degli Stati che compongono il Regno Unito), costituiscono un popolo per vocazione imperiale; a sostenerlo è Krishan Kumar, un docente inglese di sociologia presso l’Università della Virginia, in “Lo strano caso dell’imperialismo britannico e del nazionalismo inglese” (Limes, n. 5/2019). Nell’articolo, il sociologo sostiene che, nella visione dei Brexiteers, l’abbandono dell’UE dovrebbe consentire “al Regno Unito – ormai libero dagli intrighi europei e dalla ‘dittatura’ di Bruxelles – di riappropriarsi della propria storia”; secondo questa visione, la Brexit, con la sua dimensione nazionalista e le sue implicazioni imperiali, sarebbe un trionfo del nazionalismo inglese.
Ciò sarebbe provato dal fatto che, a parere di Kumar, molti commentatori e analisti dell’esito del referendum del 2016 associano il risultato della consultazione referendaria con quello della Battaglia d’Inghilterra del 1040, quando, sotto la leadership di Winston Churchill, il Regno Unito è riuscito da solo a sconfiggere l’aggressione aerea tedesca. Secondo questi commentatori ed analisti, buona parte dell’atteggiamento britannico verso i Paesi dell’UE originerebbe proprio dal lascito della seconda guerra mondiale, soprattutto in considerazione del fatto che gli inglesi non sopporterebbero che il loro “vecchio nemico”, la Germania, sia diventato il pivot dell’Unione, mal tollerando perciò di “aver vinto la guerra per permettere ai tedeschi di aver vinto la pace”.
Altri commentatori e analisti rinvengono nella Brexit la nostalgia dei britannici per il potente impero perduto; non casualmente, molti intellettuali e potenti operatori economici stanno supportando – afferma Kumar – “una strategia volta a riesumare l’unione e l’interdipendenza imperiale dei Paesi anglofoni” (Regno Unito, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Stati Uniti), nella convinzione che, se l’impero è perduto, i legami imperiali sono rimasti tanto forti da “costituire la base per sviluppare una nuova Anglosfera, una comunità di popoli anglofoni, analoga a quella immaginata da Winston Churchill” negli anni Quaranta per sconfiggere il nazismo e ristrutturare l’ordine mondiale postbellico sotto la leadership britannica.
L’idea che il futuro del Regno Unito non fosse l’Unione Europea, ma l’Anglosfera, era diventata centrale nel dibattito che si è svolto nella fase precedente il referendum del 2016; nell’area elettorale euroscettica si era, infatti, rafforzata la convinzione che esistessero profonde affinità geopolitiche tra i Paesi dell’alleanza “Five Eyes”. Il concetto di Anglosfera, non è tuttavia, come alcuni ritengono, solo “uno spasmo di nostalgia imperiale”; esso origina – come sostiene Nick Pearce, ricercatore presso l’università inglese di Bath, nell’articolo “L’Anglosfera è un’illusione geopolitica” (Limes n. 5/2019) da “una tradizione geopolitica consolidata”, le cui radici risalgono ai “modelli commerciali e geopolitci sviluppati all’apogeo dell’imperialismo vittoriano”.
A spiegare il revival dell’idea di ricostituire l’Anglosfera perduta e il convincimento che il destino della Gran Bretagna sia strettamente legato alle “economie di mercato liberali del mondo anglofono” e non all’Unione Europea, concorrono l’ascesa della Cina sul tetto del mondo e le “innovazioni tecnologiche che hanno alimentato la crescita americana negli anni Novanta e Duemila”. Questi due eventi, a parere di Pearce, avrebbero “alterato in modo strutturale la percezione dell’Unione Europea da parte dei britannici, rendendo sempre più concreta e allettante la prospettiva di separarsi dai Paesi europei in evidente declino economico”, per abbandonare lo sclerotico modello di regolazione continentale.
Dall’epoca immediatamente precedente il referendum del 2016, la ripresa del controllo della politica commerciale internazionale è divenuta l’istanza principale con la quale i Brexiteer hanno sostenuto la necessità di abbandonare l’UE; istanza supportata dall’”influente European Research Group, che raccoglie i deputati conservatori euroscettici, secondo i quali i Paesi dell’Anglosfera sarebbero i partner ideali coi quali sottoscrivere accordi di libero scambio e intese con cui rimuovere le barriere tariffarie e non tariffarie al commercio e la pastoie dell’economia sociale di mercato dell’Unione Europea.
Fuori dall’UE, secondo i Brexiteers, il Regno Unito avrebbe acquisito un maggior margine di manovra nel governo dei propri traffici commerciali, sebbene con una minore influenza globale rispetto al periodi imperiale vittoriano; essi erano anche convinti che “la geografia [potesse] essere trascesa mediante l’avvento delle nuove tecnologie [dell’informazione]” e che il governo dei nuovi equilibri commerciali potesse prescindere dal peso che la “prossimità spaziale” esercita sulla strutturazione dei traffici commerciali mondiali.
Le aspettative dei laeavers dall’UE e le chance che questi riponevano nel ricupero di una rinnovata Anglosfera sono state per lo più “congelate” dalle reazioni dei Paesi anglofoni altri dal Regno Unito; essi, infatti, hanno tutti teso a guardare alla Brexit e all’instabilità politica che ne è seguita con molto disorientamento e poco entusiasmo, tanto che l’idea di abbandonare la UE, per il ricupero di una più profonda cooperazione economica del Regno Unito con i restanti Paesi anglofoni, al fine di riproporre una nuova Anglosfera, è stata confinata ai margini delle aspirazioni dei circoli nazionalistici dei conservatori inglesi.
Secondo gli analisti critici della Brexit, la fuoriuscita del Regno Unito dall’UE sarebbe stata voluta dal nazionalismo inglese; al riguardo, gli analisti come Kumar, ad esempio, osservano che lo stesso termine Brexit è “improprio e fuorviante”, perché lascia intendere che siano stati la Gran Bretagna e i britannici a volere l’uscita dall’Unione Europea, mentre in realtà sono stati “soprattutto l’Inghilterra e gli inglesi” a mobilitare l’opinione pubblica britannica per esprimersi a favore del Leave. Chi avesse dubbi sul fatto che la “corsa” al referendum del 2016 sia stata prevalentemente organizzata dai nazionalisti inglesi, può facilmente attenuarli, considerando che il risultato referendario ha riscosso, tra le nazioni costitutive del Regno Unito, la più alta percentuale di voti a favore del Leave (53,38%) proprio in Inghilterra.
Anche il Galles ha votato a favore della Brexit (52,53%), ma gli analisti critici sono del parere che ciò sia da ricondursi al fatto che i gallesi siano molto più integrati sul piano identitario con gli inglesi di quanto non lo siano gli scozzesi e gli irlandesi del Nord; ciò a causa delle forti migrazioni di inglesi, avvenute nel corso del XIX secolo, verso il Galles meridionale, attratti dalle opportunità di lavoro offerte dalle attività estrattive di carbone e da quelle delle acciaierie. Al contrario dei gallesi, gli scozzesi e i nordirlandesi hanno votato per rimanere nell’Unione Europea (con il 62% gli scozzesi e con il 55,78% gli irlandesi del Nord).
Si tratta di risultati che, a parere di Kumar, potrebbero avere conseguenze rilevanti sull’unità del Regno Unito; ipotesi resa ancora più probabile dal fatto che il referendum sull’indipendenza della Scozia del 2014 è stato bocciato dal 55,30% degli elettori, a causa del timore, nutrito allora dagli scozzesi, di esser separati dall’UE, nel caso in cui il referendum si fosse concluso con la vittoria del “si”. Ora che è stato l’intero Regno Unito ad aver votato per il Leave dall’Europa, gli scozzesi, osserva Kumar, sono determinati a chiedere un secondo referendum indipendentista; il Parlamento scozzese, infatti, non ha tardato, dopo il voto britannico a favore del Leave, ad inoltrare una richiesta in tal senso a Westminster.
Inoltre, la disunione del Regno Unito potrebbe essere causata anche da una possibile scissione dell’Irlanda del Nord; per quanto il distacco sia improbabile, occorre tener presente – ricorda Kumar – che, rispetto al passato, oggi le cose sono profondamente cambiate. Dopo il Venerdì Santo del 1998, le relazioni tra le due Irlande sono migliorate, e il confine che le separa, per via degli intensi scambi e del libero transito delle persone, si è fortemente allentato; l’uscita del Regno Unito dall’UE causerebbe irrimediabilmente la reimposizione del vecchio confine, con la riproposizione della crisi delle relazioni tra Dublino e Belfast. La Brexit, dunque, per tutte le ragioni indicate, sta esponendo il Regno Unito al pericolo di una irreversibile implosione. Per gli inglesi, quali sarebbero le conseguenze?
Se il Regno Unito implodesse, l’Inghilterra – afferma Kumar – “resterebbe isolata per la prima volta nella sua storia”; ciò perché il Regno Unito è sorto all’inizio del XVIII secolo come “impero inglese”, ai danni delle altre nazionalità britanniche ed è sempre stato chiaro, dopo la costituzione dell’impero d’oltremare, che “il territorio metropolitano era l’Inghilterra e che la capitale imperiale era Londra”. Tuttavia, se gli inglesi si sono sempre identificati in un “popolo imperiale”, non hanno però mai percepito se stessi come nazione; in Inghilterra – continua Kumar – al contrario di altre nazioni (come Francia, Germania e Italia) non esiste “traccia di una tradizione indigena orientata alla riflessione sull’identità nazionale”. Ciò rende palese la profonda contraddizione espressa dal fatto che gli inglesi, pur essendosi “aperti al mondo, fino al punto di occupare e governare un quarto delle terre emerse e della popolazione mondiale”, non hanno mai avuto contezza di sé stessi come nazione.
Gli inglesi, dopo aver perso l’impero d’oltremare (tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso) e corso il rischio di perdere anche il loro primo impero, hanno maturato la necessità di dover iniziare a percepirsi come nazione; un’eventualità, quella di perdere il loro primo impero, riproposta dopo la vittoria del referendum sulla Brexit. Oggi, perciò, essendo divenuti un popolo senza impero, gli inglesi sono costretti a “cercare capri espiatori”, il più importante dei quali viene individuato nell’Unione Europea, “percepita come un mostro dispotico dominato dagli burocrati di Bruxelles”.
Inoltre, gli inglesi giustificano la loro avversione all’Unione, affermando d’essere sempre stati inclini a distinguersi dall’Europa più di quanto non lo siano mai stati gli altri popoli del regno Unito; non casualmente essi tendono a differenziarsi dagli altri popoli britannici, come starebbe a dimostrare il fatto che, mentre negli anni Novanta e Duemila (secondo un sondaggio demoscopico) gli inglesi si consideravano prevalentemente “inglesi e britannici” e non “più inglesi che britannici”, a partire dall’inizio dell’ultimo decennio, invece, “circa il 60% degli inglesi ha iniziato a considerare sé stesso “solo inglese”, mentre appena il 16% si percepisce “più britannico che inglese”. Si tratta di una metamorfosi storica che – secondo Kumar – rivelerebbe il probabile “corso” che seguirà la Brexit, nel senso che, per la prima volta, gli inglesi si stanno separando, non solo dall’Europa, ma anche dalla Gran Bretagna, cioè dalla loro stessa creazione.
Se ciò dovesse accadere, per la prima volta nella storia gli inglesi si troverebbero nella condizione singolare d’essere costretti a “cavarsela da soli”; condizione alla quale essi sono sempre risultati estranei, in quanto hanno sempre fatto parte di “sistemi più vasti”: il regno Unito, prima, e l’impero britannico, successivamente. Ora tutto questo, conclude Kumar, per loro scelta, gli si ritorce contro, e per questo motivo essi “sono alla disperata ricerca di alternative”; sennonché l’idea della ricostituzione di un’Anglosfera basata sui vecchi legami imperiali è del tutto illusoria, in quanto Canada, Australia e Nuova Zelanda perseguono altri obiettivi, come del resto fanno palesemente da tempo gli Stati Uniti.
Quale conclusione è possibile trarre dalle vicende politiche che hanno investito il Regno Unito dopo l’esito del referendum del 2016 e dei difficili problemi interni che esso, da posizioni isolate, dovrà affrontare? Se il Regno Unito fosse rimasto nell’Unione Europea, forse gli inglesi avrebbero potuto più facilmente trovare un modo – come sostiene Kumar – “di forgiare una comunità nazionale sostenibile in grado di appianare le diversità interne”; l’abbandono dell’UE renderà il perseguimento di questo obiettivo molto irto di ostacoli. Ironia della sorte, per evitare la possibile implosione interna, l’unico aiuto che il Regno Unito potrà ricevere sarà solo quello degli ex partner europei; infatti, se si esclude che alcuni di essi possano “trarre piacere” delle disgrazie che si stanno abbattendo sull’antico partner, è noto che i Paesi dell’UE sono avversi al disfacimento degli Stati nazionali per iniziative di minoranze ad essi interne.