Risultato della ricerca: vanni tola piano di rinascita

Verso il Convegno su Adriano Olivetti e la Sardegna – Documentazione

img_4862img_4876Verso il Convegno di Cagliari del 27 e 28 ottobre 2023. ADRIANO OLIVETTI E LA SARDEGNA, quando il comunitarismo incontrò il sardismo.
di Salvatore Cubeddu, sul sito della Fondazione Sardinia.
La storia del rapporto tra Adriano Olivetti e il partito sardo nelle elezioni politiche del 1958. Il racconto dell’intellettuale lussurgese Antonio Cossu inviato da Ivrea in Sardegna. Il testo dell’accordo elettorale tra Adriano Olivetti e Titino Melis, segretario del PSd’A(z) (i due nelle foto). Il programma politico-economico-culturale (stralcio). Le elezioni politiche del 1958 in Sardegna.
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Il pensiero di Adriano Olivetti per il superamento della crisi della Sardegna

img_4771Adriano Olivetti 1 Nei giorni 27 e 28 ottobre prossimo si terrà a Cagliari un importante Convegno sulla figura di Adriano Olivetti – intitolato “Adriano Olivetti e la Sardegna – Attualità di una prospettiva umanistica” – che ne riproporrà a tutto tondo il pensiero, soffermandosi specificamente su “teorie e pratiche di comunità”, che lo caratterizzano e informarono la sua prassi politica, purtroppo interrottasi con la sua morte improvvisa e prematura, impedendone una diffusione nel paese. Olivetti trovò felice corrispondenza del suo pensiero anche in Sardegna,
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- Foto: Archivi Fondazione Sardinia e Fondazione Adriano Olivetti
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dove strinse fecondi rapporti di collaborazione culturale e politica con il Partito Sardo d’Azione e con diversi esponenti della cultura operanti in Sardegna, come appunto Antonio Cossu, sul quale è incentrato il saggio del prof. Duilio Caocci. In particolare l’esperienza di Olivetti in Sardegna sarà approfondita nella ricerca degli elementi utili per proporre oggi una possibile alternativa all’attuale modello sociale, politico, culturale, nonché istituzionale, o, perlomeno, migliorare la situazione di crisi che attraversa la nostra Regione. Oltre l’autonomia verso un federalismo solidale? Il Convegno è organizzato dalla Fondazione Sardinia, dall’Università di Cagliari, dalla Pontificia Facoltà Teologica, con il patrocinio della Fondazione Adriano Olivetti. Aladinpensiero e il manifesto sardo assicurano la funzione di media partner della manifestazione. Proprio in questa veste, assumiamo l’impegno di pubblicizzare al massimo la meritoria iniziativa, prima, durante e successivamente. In questo contesto rilanciamo qui (e rilanceremo nei prossimi giorni/mesi) materiali di approfondimento a cura della Fondazione Sardinia, tratti dal suo sito web. Non ripetiamo quanto ben spiegato nelle premesse.
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Antonio Cossu, uno scrittore olivettiano in Sardegna
di Duilio Caocci su Fondazione Sardinia.

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Antonio Cossu, uno scrittore olivettiano in Sardegna
di Duilio Caocci su Fondazione Sardinia.

“Il primo contatto tra Antonio Cossu e Adriano Olivetti è decisivo”. Questo importante saggio di Duilio Caocci – professore ordinario di letteratura italiana presso l’Università di Cagliari – sull’intellettuale lussurgese Antonio Cossu (nella foto) rappresenta la ripresa delle tematiche “comunitarie” poste dal pensiero e dall’azione di Adriano Olivetti ed il loro importante passaggio in Sardegna a partire dagli anni Cinquanta dello scorso secolo. Un discorso che continueremo.

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All’interno della cosiddetta letteratura olivettiana, porzione minima e però importante della letteratura industriale, Antonio Cossu – per la quantità e per la qualità delle opere schiettamente olivettiane – dovrebbe occupare una posizione di primo piano. Se si conviene su una definizione ampia (1), ovvero sul fatto che con l’aggettivo derivato dal cognome del grande industriale si possa definire un gruppo ampio ed eterogeneo di prodotti letterari – poesie, saggi, romanzi, diari – che si ispirano alle idee di Adriano Olivetti (o evocano l’ingegnere, o rappresentano la vita nelle fabbriche di Ivrea e Pozzuoli, oppure ancora discutono i grandi temi dell’illuminato imprenditore), allora l’intera produzione dello scrittore sardo di cui vorremmo ora scrivere rientrerebbe pienamente in questo campo molto popolato. Anche quando – come accade nella più gran parte dell’opera – Antonio Cossu non parla affatto di fabbriche. Anzi, proprio perché riflette sul futuro dell’isola senza industria, in una fase storica in cui, dopo il fecondo dibattito sulle ragioni dell’autonomia, si pianifica l’attuazione dell’articolo 13 dello Statuto, quello che afferma che lo Stato col concorso della Regione dispone un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale dell’Isola. Tale ‘rinascita’, secondo un’idea di sviluppo condivisa nel clima politico degli anni Cinquanta e Sessanta, doveva prevedere una radicale trasformazione delle dinamiche sociali e un rapido passaggio dall’economia rurale a quella industriale.

Tra i quattro romanzi di Cossu – I figli di Pietro Paolo, Il riscatto, Mannigos de memoria, Il sogno svanito – la Sardegna evoluta in senso industriale compare solo nel Sogno svanito, perché lo scrittore quando si dispone a fare letteratura non è tanto interessato al lavoro nella catena di montaggio, ma a questioni che riguardano più direttamente la sua terra: la modernizzazione dei processi economici in campo agropastorale in relazione al miglioramento della qualità di vita delle comunità, il perfezionamento dei rapporti di potere tra centri decisionali e periferie. Tutti nodi che Cossu aveva imparato a considerare con attenzione dalle letture dei filosofi personalisti francesi prima e da Adriano Olivetti poi.

Il primo contatto tra Antonio Cossu e Adriano Olivetti è precoce e decisivo. Risale al tempo immediatamente successivo alla Laurea conseguita presso la Statale di Milano2 e fu favorito da Diego Are (Santu Lussurgiu, 1914-2000), un intellettuale compaesano di Cossu che aveva fondato nella capitale il Movimento internazionale di unione e fraternità3 e si era presto avvicinato al Movimento Comunità. Nel 1954 si tiene a Roma un convegno organizzato dal Movimento di Are e dalla sede romana del Movimento Comunità, intitolato Abolire la miseria. Per un fronte di riforme e di lotta popolare contro il bisogno. È in quel contesto che Antonio Cossu, allora ventisettenne, viene reclutato dall’ingegnere per una collaborazione con il settimanale «La via del Piemonte» allora diretto da Geno Pampaloni4 e pubblicato a Ivrea dalle Edizioni di Comunità. A partire da quel momento il giovane lussurgese diventa protagonista di un grande progetto politico e culturale e ha la possibilità di lavorare accanto a una schiera di intellettuali composita e valorosa.
Nel settembre 1955 appare su «Comunità» (a. XI, n. 32) un racconto ibrido di Cossu, Sardegna a passo di carro e di cavallo, di quelli che si posizionano sulle zone di confine tra generi: reportage giornalistico, riflessione sociale e racconto finzionale, collocabile perciò tra quei non pochi scritti letterari olivettiani «che camuffano il rapporto tra narrativa e sociologia sotto la falsariga di una letteratura a carattere documentario perché oscillano tra scrittura d’invenzione e di testimonianza»5.

Il protagonista racconta in prima persona l’esperienza di un viaggio compiuto con suo padre in un’ampia area tra i paesi dell’oristanese, sino a Macomer, insistendo sulle condizioni arretrate del territorio e su una lentezza – quella appunto del carro – incompatibile con la modernità dei mezzi di trasporto a motore. Le descrizioni si accreditano come ‘oggettive’ per lo stile asciutto che caratterizza l’intera narrazione e per il corredo di fotografie scattate dall’autore al fine di documentare con maggiore evidenza i fenomeni tipici di un ritardo economico e culturale dell’Isola rispetto allo sviluppo frenetico di altre aree d’Italia. Ma le finalità documentarie del reportage non bastavano a Cossu neppure in quella fase di esordio e di formazione. Esse dovevano considerarsi – secondo un modello che l’autore aveva appreso dai personalisti francesi e che si era rafforzato e ‘aggiornato’ nel contatto con Adriano Olivetti e con l’ambiente olivettiano – un passo preliminare, una presa di coscienza e di conoscenza delle condizioni di una comunità, cui avrebbe necessariamente fatto seguito il momento dell’individuazione delle responsabilità prima e quello dell’azione individuale e collettiva poi, assieme all’impegno per la rimozione dei problemi. Il viaggio consente al protagonista di descrivere una serie di caratteristiche del paesaggio fisico e socio-antropologico di una parte della Sardegna e di esaltare la vocazione peculiare, l’irriducibile specificità di ciascuna comunità. È questo un modo di presentare l’Isola molto diverso rispetto a quello praticato da molta pubblicistica politica e da altrettanta produzione letteraria: qui la ‘frammentazione’ e la differenza sono considerate un valore e un punto di partenza per il riscatto collettivo; nelle negoziazioni tra Stato e Regione e nel dibattito politico interno, a pochissimi anni (sette per la precisione) dalla promulgazione dello Statuto Speciale per la Sardegna (26 febbraio 1948) e in un momento di grande entusiasmo per i poderosi investimenti promessi dallo Stato per la Rinascita, si preferiva confezionare discorsi identitari che puntavano sui tratti comuni più che su quelli divisivi.

A Cossu e all’intero gruppo di cui faceva parte interessava invece mostrare come si sviluppano nel tempo lungo le relazioni tra un paese e quello vicino. Il cosiddetto ‘campanilismo’, cioè il municipalismo, il provincialismo, è certamente un sentimento negativo se porta il cittadino alla chiusura nel piccolo spazio e al disprezzo per l’altro, ma nell’ottica personalistica e olivettiana il paese è il luogo in cui inizia la promozione dell’individuo a ‘persona’ capace di agire verso il prossimo e con il prossimo, a vantaggio di collettività sempre più ampie. Bisognava dunque senza timore restituire valore alle caratteristiche di ogni individuo, famiglia, quartiere, paese, regione e fare in modo che tale valore si aprisse verso lo spazio esterno. È per questa ragione che il racconto passa da Milis, paese di commercianti scialacquatori e pigri, a Macomer, cittadina industriosa, ricca di bestiame di qualità e capace di produrre ricchezza con i suoi caseifici e con la lavorazione della lana e attraversa la superba Ghilarza fino alla Cuglieri spagnolesca e esterofila. In quell’arcipelago ben delimitato di paesi ben delimitato era necessario anzitutto – secondo la prospettiva di Cossu – compiere un’indagine seria e capace di mettere in evidenza vizi e virtù di ciascuna comunità e di restituire la giusta dignità a ogni campanile. Con la giusta coscienza identitaria, si sarebbe dovuto incentivare e favorire il moto solidale di un paese verso l’altro, per il progresso dell’intera area.

Il campanile, o meglio, la campana è proprio il simbolo che salda istituzionalmente la più olivettiana delle imprese di Antonio Cossu al Movimento Comunità: la fondazione del «Montiferru. Periodico della Comunità del Montiferru». A partire dal primo numero – il numero unico provvisorio in attesa di registrazione del 20 febbraio 1955 – il periodico assume il logo della campana con il cartiglio su cui è incisa la locuzione humana civilitas, un’immagine che Leonardo Sinisgalli aveva trovato tra alcune carte cinquecentesche e che Giovanni Pintori6 aveva ridisegnato come logo per le Edizioni di Comunità e per la rivista «Comunità»7.

Si tratta dunque di un progetto che si inscrive all’interno del reticolo di pubblicazioni promosse dalle Edizioni di Comunità e che rappresenta uno degli ideologemi personalisti di Adriano Olivetti, il quale spiegherà così le ragioni di quell’invocazione umanistica e le finalità che tengono insieme, come un tutto omogeneo, le molte attività industriali e culturali:

Noi guardiamo all’uomo, sappiamo che nessuno sforzo sarà valido e durerà nel tempo se non saprà educare ed elevare l’animo umano, che tutto sarà inutile se il tesoro insostituibile della cultura, luce dell’intelletto e lume dell’intelligenza, non sarà dato ad ognuno con estrema abbondanza e con amorosa sollecitudine8.

Con la sua rivista Antonio Cossu intendeva portare nel suo paese le buone pratiche che si sperimentavano a Ivrea. Si trattava di favorire la costruzione di una comunità vera e solidale in un piccolo paese periferico, Santu Lussurgiu, ma evitando che la stessa si concepisse irrelata, autosufficiente. È infatti a un’area antropologicamente omogenea che si rivolge la testata, il Montiferru appunto, una sub-regione della Sardegna centro-occidentale caratterizzata da un’economia prevalentemente agro-pastorale. Il primo editoriale di Cossu, intitolato Oltre il campanilismo, colloca l’intera operazione tra due tendenze insidiose della modernità politica, il centralismo e l’individualismo, e chiarisce il senso dell’impegno coesivo e solidaristico in chiave federalista. Se la stampa e la politica ignorano e sottovalutano gli interessi dei piccoli paesi, è necessario avere una rivista che ne accolga e amplifichi le istanze, al fine di dotare le piccole patrie comunali di una forza contrattuale maggiore nei confronti delle istituzioni centrali. A supporto degli argomenti esposti, Cossu chiude l’editoriale con la citazione di un brano tratto da un libro di Luigi Einaudi e con un Appello del Consiglio dei Comuni d’Europa. Il brano di Einaudi – che avrebbe terminato il suo mandato da Presidente della Repubblica nel maggio di quello stesso anno 1955 – è particolarmente incisivo per il modo in cui connette il tema del federalismo a quello della libertà:

Federalismo è il contrario di assoggettamento dei vari stati e delle varie regioni ad un unico centro. Il pericolo del concentramento della cultura in un solo luogo si ha negli stati altamente accentrati, dove la vita fluisce da un solo centro politico verso la periferia, dall’alto verso il basso. Ma federazione vuol dire invece liberazione degli stati dalle funzioni accentratrici.9

La questione del rapporto tra il centro del potere e le periferie è – come dicevamo – una costante olivettiana nella rivista, sino all’ultimo numero del luglio-settembre 1957, dove Antonio Cossu presenta un intervento intitolato La Regione e i comuni, per dare conto della terza edizione del Convegno Sardegna d’oggi tenutosi nell’agosto del medesimo anno. La questione del decentramento si pone in relazione al compimento dell’Autonomia regionale e alla pianificazione della rinascita della Sardegna garantita dall’articolo 13 dello Statuto. Per una vera rinascita – sostiene Cossu – occorre creare un reticolo di comuni dotati di sufficiente autonomia, ma saldati l’uno all’altro dagli interessi condivisi e da un progetto più grande, di respiro almeno regionale.

Non si può tuttavia pensare di giungere a un impegno corale di tante comunità verso il bene comune se non si agisce correttamente sui presupposti di ogni relazione, cioè sulla formazione dei singoli cittadini, per fare in modo che ogni individuo acquisti la dignità e la consapevolezza di persona. A questo tema è dedicato il fascicolo che raccoglie i numeri 7-8-9 dell’ottobre-novembre-dicembre 1955. Più precisamente il tema centrale del fascicolo è quello dell’istruzione nella scuola e l’epigrafe viene da Manlio Rossi Doria, politico ed economista di primissimo piano:
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XII Dossier Caritas 2022

a85bae2d-b8f0-419b-88bc-ca0f538185a3Sarà presentato oggi lunedì 19 dicembre, alle ore 9,30, presso la sala “Giorgio Pisano” de L’Unione Sarda il Dossier Caritas della Diocesi di Cagliari 2022. Riportiamo dal dossier il contributo del direttore di Aladinpensiero, che abbiamo ritenuto utile e simpatico corredare con alcune pertinenti immagini.
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Sulle orme del Concilio, in ascolto e partecipi delle sfide e dei cambiamenti del mondo.
Alcune riflessioni e proposte per la Chiesa e la Società sarda, nel secondo anno del cammino sinodale.

di Franco Meloni, giornalista
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acd2b997-d604-4b7c-8846-31c8c58cc2eaIn un intervento sul Dossier 2021 online (1) ho riportato un’esperienza personale su come insieme a tanti altri della mia generazione (anni 50) e di altre contigue, vivemmo, il Concilio Vaticano II – seppure con qualche ritardo rispetto alla sua celebrazione – come tempo del rinnovamento e della speranza e, al contrario, il post Concilio con grande delusione, per le attese frustrate dalla sua incompleta attuazione.
Mi sembra interessante riprendere quell’articolo con alcune ulteriori considerazioni e opportuni aggiornamenti.
5344d758-4682-4a84-9814-d9fb4991f4f0Allora io ero molto giovane e nonostante militante della Gioventù di azione cattolica (Giac) nell’associazione Giuseppe Toniolo della parrocchia S.Anna di Cagliari, poco avvertii la portata del Concilio, se non per toniolo-unogli aspetti di innovazione nella liturgia. [segue]

Ricordando Roberto Porrà

1c218a99-f695-4f32-9553-65a02786872c[Franco Meloni] L’amicizia con Roberto risale agli inizi degli anni 70, quando ci trovammo a militare insieme nelle formazioni della cd sinistra extraparlamentare: Pdup, Democrazia Proletaria. Entrambi approdati all’impegno politico direttamente dalla spinta dei valori della cultura cattolica di cui eravamo impregnati. [segue]

Percorrendo il cammino sinodale

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Sostenuti dallo Spirito, in attuazione del Concilio.
Nei cammini sinodali, in ascolto e partecipi delle sfide e dei cambiamenti del mondo.
Alcune riflessioni e proposte per la Chiesa e la Società sarda.
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di Franco Meloni
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Il Concilio ecumenico Vaticano II, convocato da Giovanni XXIII e cominciato l’11 ottobre 1962, chiuso da Paolo VI l’8 dicembre 1965, fu indubbiamente un avvenimento grandioso per la Chiesa, che si affermava sempre più cattolica, nel significato di universalità, e per il Mondo.
Allora io ero molto giovane e nonostante militante della Gioventù di azione cattolica (Giac) nell’associazione Giuseppe Toniolo della parrocchia S.Anna di Cagliari, poco avvertii la portata del Concilio, se non per gli aspetti di innovazione nella liturgia. Certo, insieme con gli amici della mia e vicine generazioni avvertimmo il vento del cambiamento, ma senza capirne il profondo significato, ignorando quanto il Concilio aveva sancito nelle sue costituzioni e negli altri documenti. Solo alcuni anni più tardi cominciammo a prenderne consapevolezza, quando con la presidenza diocesana della Giac organizzammo momenti di riflessione e confronto in ambito studentesco (di frequente a La Madonnina di Cuglieri). Su quell’onda cominciammo a collegarci con le esperienze di comunità ecumeniche (Taize’, S.Paolo fuori le mura a Roma, Isolotto a Firenze; e anche in Sardegna: S.Rocco e S.Elia a Cagliari, Bindua). E a frequentare appuntamenti sulle grandi tematiche di rilievo della fase storica (Convegni giovani promossi dalla Pro Civitate Christiana di Assisi). Furono per noi le premesse culturali dell’impegno nel sociale, soprattutto nei quartieri urbani, contemporaneamente coinvolti nei Movimenti contestativi del ‘68. Circostanze che segnarono un accentuarsi delle difficoltà di rapporti con la Chiesa istituzionale da cui gradualmente in molti ci staccammo. Poteva andare diversamente, ma di sicuro non sentimmo il sostegno della Chiesa nelle nostre scelte esistenziali e vivemmo progressivamente il post Concilio come un “tornare indietro” rispetto alle attese dei primi tempi. Insomma non il Concilio ma la sua concreta attuazione fu per noi e per molti altri una delusione, o perlomeno una “mancata opportunità”, una “grande incompiuta”. Senza per questo disconoscerne i grandi frutti prodotti – come non dimenticare che uno di questi fu proprio la creazione della Caritas, ad opera di Paolo VI (1) – ma sicuramente non nella misura in cui il suo potenziale avrebbe consentito e ci saremo aspettati. È ora giunto il momento di riprendere quel cammino interrotto per noi e per molti. Sarà anche questo un frutto del Sinodo. Lo speriamo e sappiamo che molto dipende da ciascuno di noi.

Ho narrato di una personale esperienza, che non pretende di assurgere ad analisi generale, perché mi pare scorgervi un’assonanza con considerazioni di altre persone, tra cui quelle autorevoli di mons. Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea, l’ultimo vescovo vivente che ha partecipato al Concilio Vaticano II. In una recente intervista (2) così rispondeva alla domanda su quale sia la principale eredità del Concilio: «L’impegno ad attuarlo compiutamente, affidandolo alla responsabilità personale di ciascuno». E su cosa in particolare, debba essere ancora attuato: «Il riconoscimento del popolo di Dio. Noi siamo stati abituati come gerarchia ad agire e chiedere l’obbedienza dei fedeli: questa responsabilità della gerarchia rimane, ma dopo aver ascoltato, dobbiamo maturare insieme col popolo di Dio. L’importante compito che hanno i laici è di portare le sensibilità, le mentalità, i problemi del mondo d’oggi per poter tutti insieme preparare la decisione finale della gerarchia. (…) Quindi è importante questo spirito di dialogo, di comunione, di incoraggiamento all’interno della Chiesa, affinché la gerarchia sia in grado di dire l’ultima parola (…) Pertanto non credo serva un nuovo Concilio perché dobbiamo ancora attuare quello passato e il rischio sarebbe di tornare indietro invece che andare avanti. Purtroppo se guardiamo alla liturgia, al clericalismo… ancora tanto c’è da fare. Fortunatamente però il Signore ci ha donato un Papa come Francesco che, pur non avendo vissuto i giorni del Concilio, lo sta mettendo in pratica».
La vera continuità del Concilio sta dunque nel Sinodo, attraverso i percorsi sinodali intrapresi dalla Chiesa universale e dalle Chiese particolari, affidati al protagonismo di tutto il popolo di Dio, assistito dallo Spirito santo.

Come è noto i percorsi sinodali avviati nel 2021 sono due, che ovviamente si intrecciano: il “Sinodo 2021-2023” della Chiesa universale, intitolato «Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione», che si è aperto il 9-10 ottobre in Vaticano e il 17 ottobre in tutte le diocesi del mondo (3); l’altro è il cammino sinodale italiano, ufficialmente aperto dall’Assemblea della CEI dello scorso giugno, che si snoderà fino al 2025 nel solco delle indicazioni emerse dal Convegno ecclesiale di Firenze del 2015 (4).

In questo scritto focalizziamo le nostre riflessioni soprattutto sulla missione apostolica della Chiesa, in particolare con riferimento alla Chiesa italiana, in ascolto e partecipi delle sfide e dei cambiamenti del mondo contemporaneo. Lo facciamo in sintonia con le indicazioni della Chiesa italiana, formulate attraverso la CEI, con particolare attenzione alle problematiche della nostra Regione.

Dai tanti documenti esplicativi dei percorsi sinodali, pubblicati nei siti web dedicati, riprendiamo solo alcuni spunti, utili per i nostri ragionamenti (5).

“Nell’intraprendere questo cammino, la Chiesa di Dio che è in Italia non parte da zero, ma raccoglie e rilancia la ricchezza degli orientamenti pastorali decennali della CEI, elaborati fin dagli anni ’70 del secolo scorso, i quali, in un fecondo intreccio con il magistero dei Pontefici, da Paolo VI a Francesco, costituiscono una mappa articolata e sempre valida per la vita delle nostre comunità. Nel suo documento programmatico Evangelii Gaudium, Papa Francesco ha rilanciato con parole nuove e vigorose la dimensione missionaria dell’esperienza cristiana, disegnando piste coraggiose per l’intera Chiesa, provocandola a mettersi più decisamente in cammino insieme alle donne e agli uomini del nostro tempo; quel documento, dispiegatosi poi sempre più chiaramente nei gesti, nelle scelte e negli insegnamenti del Papa, costituisce un’eccezionale spinta a dare carne e sangue all’ispirato inizio della Costituzione conciliare Gaudium et Spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (6):

“Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. La loro comunità, infatti, è composta di uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre, ed hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti. Perciò la comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia”.

E’ una missione che la Chiesa svolge da sempre, ma ovviamente noi pensiamo soprattutto al Mondo di oggi, con tutti i suoi problemi, ai quali corrisponde con la sua presenza, le sue opere e le sue sollecitazioni pastorali. E con il suo respiro universale, guidato da Papa Francesco, purtroppo “in solitudine” o perlomeno con pochi “compagni di strada” nelle realtà delle compagini umane (7). Se ci riferiamo agli ultimi tempi i capisaldi del messaggio evangelico della Chiesa sono le ultime due encicliche sociali di Papa Francesco, Laudato sì’ e Fratelli tutti. Verrebbe da dire che l’Umanità “chiama e invoca aiuto” anche quando il suo lamento non è precisamene indirizzato. La Chiesa comunque risponde, proponendo non le soluzioni, ma le condizioni perchè queste vengano costruite, rivolgendosi a tutto il popolo di Dio, che si allarga a tutti gli uomini e donne di buona volontà, in ultima analisi a tutta l’Umanità. Come non trovare in questa azione della Chiesa l’anelito alla fratellanza, all’eguaglianza, alla solidarietà, alla libertà di tutto il genere umano nella salvaguardia della Terra, la nostra casa comune.

Commenta mirabilmente la CEI l’incipit della Gaudium et Spes (6):

“In queste righe è racchiuso il significato del cammino sinodale, perché vi è concentrata la natura della Chiesa: non una comunità che affianca il mondo o lo sorvola, ma donne e uomini che abitano la storia, guardando nella fede a Gesù come il salvatore di tutti (cf. Lumen Gentium 9) e pellegrinando insieme agli altri con la guida dello Spirito, verso la meta comune che è il regno del Padre. La Chiesa è stata concepita in movimento, nel viaggio di Abramo da Ur dei Caldei (cfr. Gen 11,31) e nelle chiamate di Gesù ai discepoli sul lago e sulle strade (cfr. Mt 4,18‐23); la Chiesa è popolo pellegrino, che non percorre sentieri privilegiati e corsie preferenziali, ma vie comuni a tutti; la Chiesa non è fatta per stabilirsi, ma per camminare. La Chiesa è Sinodo (syn‐odòs), cammino‐con: con Dio, con Gesù, con l’umanità”.

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Ma per venire a “cose da fare”, dando atto delle numerose iniziative avviate nella nostra Diocesi, come anche riportate sul sito dedicato (3), scegliamo di dare un nostro contributo che pensiamo contribuisca ad integrare e arricchire le attività già in atto e quelle programmate, per i primi due anni del cammino sinodale. Proposte che si rivolgono anche a quanti poco o niente oggi frequentano la Chiesa e che ci sembra corrispondano all’impostazione data dall’Arcivescovo di Cagliari, di cui alla nota del Vicario generale (8), laddove è detto:

“Il Cammino Sinodale vuole contribuire a mettere in movimento le nostre comunità e suscitare una rinnovata consapevolezza del senso profondo del nostro essere Chiesa; la sinodalità vuole costituire anche l’occasione per un impulso alla missionarietà delle nostre comunità.
I primi due anni, costituiti da una prima fase narrativa, saranno caratterizzati dal mettersi all’ascolto di “ciò che lo Spirito dice alle Chiese”; sarà pertanto necessario il coinvolgimento, il più ampio possibile, degli organismi pastorali, consigli pastorali parrocchiali, consigli per gli affari economici, movimenti, gruppi di catechesi, senza dimenticare che «può essere significativo interpellare anche chi guarda alla Chiesa dall’esterno, per provare ad ascoltare quel che hanno da dirci e da chiedere. Confrontarsi con la percezione che della comunità ecclesiale e delle sue dinamiche interne ha la gente comune, con ciò che le persone si attendono. Questo può sicuramente contribuire a fare acquisire quel metodo che la carta d’intenti del Sinodo della Chiesa in Italia definisce “dal basso”, anche in rapporto al contesto» (cfr CEI, Prima bozza di esempio di percorso sinodale, Roma, 27-29 settembre 2021).
Non andrebbero esclusi dal Cammino Sinodale anche i luoghi della fragilità e della cura, i luoghi della cultura e dell’arte, i luoghi del lavoro e dell’economia, i luoghi della cittadinanza e della politica. Come da questi luoghi si percepisce la comunità ecclesiale?”

Il nostro contributo mira proprio a facilitare tale coinvolgimento, calato nella realtà della nostra regione, la quale vive oggi una situazione di estremo disagio.

Accumunati a molte altre realtà in Italia e nel Mondo, la Sardegna ha molti problemi, che l’epidemia del Covid ha aggravato e aggrava ogni giorno che passa. Non vogliamo qui farne ulteriore elenco. Chi lo volesse non ha che da sfogliare i quotidiani locali o consultare le News online di informazione politica. E neppure vogliamo parlare delle ricette per risolvere o perlomeno affrontare questi problemi. Anche queste le troviamo ogni giorno esposte, più o meno bene, negli stessi media.

Qui vogliamo semplicemente lanciare un messaggio e proporre una riflessione su che cosa possono fare i cattolici insieme con tutte le persone di buona volontà disposte a fare un percorso di comune impegno. Il messaggio è il seguente: la Sardegna ha soprattutto bisogno di fiducia. Innanzitutto della fiducia dei sardi verso se stessi, che è la condizione perché gli altri abbiano fiducia nei sardi. Dobbiamo pertanto impegnarci tutti a creare quel clima di fiducia che ci consenta di affrontare i problemi e di impegnarci a risolverli mettendo a frutto le capacità personali e delle comunità di appartenenza. Tutto ciò sembra banale, ma non lo è affatto. Sicuramente è difficile. Pensate cosa significa creare fiducia nel mondo della politica. Significa praticare rapporti di scambio tra persone che nella ricerca del bene comune, anche nel confronto e nello scontro dialettico, arrivino a soluzioni ottimali. La condizione è che si pratichi l’ascolto reciproco, come prevede il cammino sinodale, che si persegua l’obbiettivo della massima partecipazione. Cosa abbastanza diversa da quanto accade oggi, laddove la politica tende a selezionare le idee e le scelte sulla base degli interessi dei gruppi prevalenti e la partecipazione popolare alla gestione della cosa pubblica è sempre più ristretta. Allora, se si vuole invertire la rotta, occorre allargare gli spazi di partecipazione democratica sia per quanto riguarda l’accesso alle rappresentanze istituzionali (riforma delle leggi elettorali), sia per la promozione della cittadinanza attiva, sia per la valorizzazione delle competenze che devono prevalere sulle appartenenze.

Se dunque è la “partecipazione” la chiave giusta per ridare speranze di rinascita al popolo sardo, occorrono impegni concreti per favorirla, avendo come chiaro e virtuoso riferimento l’art. 3 della nostra Costituzione, laddove al comma 2 recita: “E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Insomma, c’è da dibattere e lavorare, nella consapevolezza che occorre maggiore dinamismo e disponibilità all’incontro esattamente come previsto dai percorsi sinodali, ovviamente sorretti da spirito evangelico e da correlato ottimismo della volontà! Ci sarebbe molto da discutere a tutto tondo sull’impegno dei cattolici in Politica, che, come ci ha insegnato Paolo VI, costituisce la più alta forma dell’esercizio della Carità. Ma in questo contributo scegliamo di soffermarci in prevalenza su quella parte della Politica che attiene alle questioni sociali, a sottolinearne urgenze e priorità, anche per quanto argomentiamo di seguito.

Siamo convinti che la situazione attuale della nostra società migliorerebbe fortemente se si sviluppasse un impegno politico che consentisse di rendere più incisivo e produttivo il poderoso lavoro che sul piano dell’impegno sociale fanno i volontari nelle diverse organizzazioni cattoliche e laiche al servizio della gente, in modo particolare degli ultimi. Innanzitutto ai volontari è richiesto che diano un aiuto alla Politica, anche se la stessa non la chiede. Al riguardo condividiamo in toto un invito formulato da Walter Tocci in un recente convegno della Caritas romana (9).

In questa sede avanziamo alcune proposte autonomamente elaborate o che riprendiamo da altri – una in particolare da uno scritto di Enzo Bianchi (fondatore della Comunità di Bose) (10) – che riecheggiano le riflessioni del “Patto per la Sardegna” lanciato nel novembre 2020 da un gruppo di intellettuali cattolici sardi (11).

1. Moltiplicare gli spazi di partecipazione, ascolto, confronto, discernimento.
In piena sintonia con l’impostazione dei cammini sinodali, si tratta di dare vita nelle chiese locali, diocesane e regionale, e in tutte le diverse realtà parrocchiali e di altra natura di appositi spazi nei quali “tutti i cattolici che si sentono responsabili nella vita ecclesiale e nella società possano essere convocati e quindi partecipare: incontri realmente aperti a tutti, che sappiano convocare uomini e donne muniti solo della vita di fede, della comunione ecclesiale, della consapevole collocazione nella compagnia umana”. Si tratta di chiamare tutte e tutti a “esprimersi in merito a una lettura della vita sociale, delle urgenze che emergono, occasioni di confronto in cui si esaminano i problemi che si affacciano sempre nuovi nella vita del paese e si cerca di discernere insieme alla luce degli insegnamenti del Vangelo. Da questo ascolto reciproco, da questo confronto, possono emergere convergenze pre-politiche, pre-economiche, pre-giuridiche che confermano l’unità della fede ma lasciano la libertà della loro realizzazione plurale insieme ad altri soggetti politici nella società”. Spazi pubblici reali in cui “pastori e popolo di Dio insieme, in una vera sinodalità, ascoltino ciò che lo Spirito dice alle chiese e facciano discernimento per trarre indicazioni e vie di testimonianza, di edificazione della polis e della convivenza buona nella giustizia e nella pace”. È in questi spazi che si possono “delineare le istanze evangeliche irrinunciabili, che poi i singoli cattolici con competenza e responsabilità tradurranno in impegni e azioni diverse a livello economico, politico, giuridico”.

Da queste attività si può partire per ulteriori indispensabili interlocuzioni con il “resto del mondo” per comuni percorsi nel perseguire il bene comune. Ovviamente il coinvolgimento di appartenenti ad altre confessioni religiose e anche di non credenti sarebbe possibile è auspicabile fin da subito, decidendosi caso per caso le modalità di apertura.

2. Cattedra dei non credenti e Cortile dei Gentili: esperienze da proporre, opportunamente adattate, anche nella nostra realtà sarda.
Un’altra proposta, che s’iscrive nell’esortazione a «interpellare anche chi guarda alla Chiesa dall’esterno, per provare ad ascoltare quel che hanno da dirci e da chiedere» è quella di ripercorrere le orme della «Cattedra dei non credenti», del grande uomo di chiesa cardinale Carlo Maria Martini (12), cogliendone l’essenzialità, anche se in forme attuative diverse dall’esperienza originale. Forse avvicinandosi a quella tuttora viva e di largo seguito del «Cortile dei Gentili», animata dal cardinale Gianfranco Ravasi (13). Ovviamente anche qui in programmi e modalità corrispondenti alle energie che persone di buona volontà vogliono mettere in campo, risorse che non mancano anche dalle nostre parti.

3. L’ascolto nell’esperienza della Caritas (14)
Quantunque presi dalla frenesia di fare cose nuove o proporre iniziative collaudate in altri ambienti che per noi avrebbero il gusto dell’inedito, non possiamo certo dimenticare quanto di buono già si fa dalle nostre parti, magari con la voglia di migliorare. Con questo intento, ripercorriamo in particolare, anche come esemplificazione, le iniziative di “ascolto” della nostra Caritas.
In tale ambito un’iniziativa pastorale di rilievo concerne il rafforzamento del Centro di Ascolto Giovani. Esso offre le seguenti forme concrete di aiuto: sostegno emotivo, ossia tutte quelle attività che permettono di prendersi cura dei ragazzi per le loro fragilità relazionali, sociali e psicologiche e sostegno strumentale, per assistere i giovani nelle operazioni di natura burocratica e per affrontare la condizione di disoccupazione.
In sinergia con il Centro di Ascolto Diocesano, si segnala l’implementazione di un servizio di supporto psicologico gratuito, fondamentale per i giovani, specie nelle situazioni di disagio emotivo ed esistenziale in momenti critici della vita. Il servizio di supporto psicologico mira a promuovere lo sviluppo e la valorizzazione delle risorse personali, facilitare le capacità decisionali dei giovani per sviluppare una migliore consapevolezza del proprio agire nell’affrontare problematiche di carattere personale e/o professionale. In sinergia con gli interventi istituzionali, in gran parte sostenuti dall’Unione Europea, dallo Stato e dalla Regione Sarda, il Centro di Ascolto Giovani svolge un ruolo di informazione e di formazione, in cui gli operatori accolgono i ragazzi, anche aiutandoli negli adempimenti di natura burocratica, per intraprendere la strada della propria vocazione professionale. In tale ambito se un giovane ha un’idea imprenditoriale meritevole di supporto, il Centro di Ascolto Giovani può mettere a disposizione un’ampia rete di professionisti per assisterlo con competenza nella realizzazione del suo progetto, utilizzando le numerose opportunità fornite dai soggetti istituzionali, tra le quali quelle che si iscrivono nel PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) (15) e nei Fondi strutturali europei di coesione sociale territoriale.
Di tale rete fa parte anche il Progetto Policoro, realtà condivisa tra Caritas, Pastorale Sociale e del Lavoro e Pastorale Giovanile che ha come missione i giovani, il Vangelo ed il lavoro. Il servizio del Centro di Ascolto Giovani è esteso alle persone dai 15 ai 40 anni di età. Un Centro di Ascolto “a tutto tondo”: uno spazio di libertà, in cui i giovani possano sentirsi accolti, ascoltati e compresi nelle loro importanti esigenze per costruire insieme progetti di vita piena e finalizzati alla loro autonomia.
Per tutto ciò, si rimarca la necessità di agire nella prospettiva di percorsi sinodali di ampio respiro capaci di intessere reti, alleanze ed occasioni di corresponsabilità nella consapevolezza che è fondamentale operare insieme nella direzione della giustizia sociale e del bene comune.
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Queste proposte, che ci sembrano collimino con le posizioni di tanti altri partecipanti al dibattito, in certa misura già in attuazione, appaiono ulteriormente migliorabili e percorribili nei cammini sinodali.

Infine una considerazione: la Chiesa propone e pratica concretamente un metodo, quello sinodale ispirato dal Vangelo, che può costituire un decisivo aiuto per rafforzare le democrazie contemporanee che in tutto il mondo stanno attraversando fasi di crisi, in talune realtà fino al pericolo della propria sopravvivenza. Anche su questo versante, nel rispetto dei diversi ambiti, si può camminare insieme con tutti gli uomini e le donne di buona volontà e con le tante e diverse organizzazioni di impegno sociale e culturale che animano le nostre società, verso la Salvezza dell’Umanità e di tutto il Creato.

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Note [segue]

Che fare? Dove andare?

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Dopo il Covid svolta a sinistra
Rachele Gonnelli

Sbilanciamoci! 11 Maggio 2021 | Sezione: Apertura, Politica.
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Un testo per il nuovo riformismo con proposte per la ripresa post pandemica e sollecitazioni sul ruolo dello Stato e le riforme necessarie. Lo hanno elaborato una cinquantina di economisti e intellettuali dopo mesi di discussioni online, sintetizzato da Biasco, Mastropaolo e Tocci.
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C’è sempre qualcuno che brechtianamente riprende il discorso e cerca di riparare agli errori fatti per dare nuova vita a una sinistra ormai povera di idee e di programmi, sconfitta e travolta da sé stessa più che dagli insulti della storia e dall’egemonia del fronte opposto. Così il gruppo di economisti, politologi e intellettuali riuniti nella rete “Ripensare la cultura politica della sinistra” ha elaborato una sintesi della serie di webinar interni svolti a partire dalla fine di dicembre fino ai primi di marzo.

Il documento, lungo una trentina di pagine, si intitola “Governare la società del dopo Covid” e si confronta con il momento attuale, l’alba di una nuova era almeno per quanto riguarda il ruolo e la responsabilità dello Stato e quindi della politica nel progettare e intervenire direttamente nella trasformazione economica e sociale dell’Italia, provata dalla pandemia e dai postumi di un’adesione anche culturale alle logiche del neoliberismo. È uno sforzo di elaborazione e di sintesi ammirevole, firmato alla fine da Salvatore Biasco, Alfio Mastropaolo e Walter Tocci, ma al quale hanno partecipato una cinquantina di intellettuali, tra i quali Nadia Urbinati e Laura Pennacchi, ma anche Gianfranco Dosi, Andrea Roventini, Gianfranco Viesti e Maurizio Franzini e altri che da anni collaborano anche con le elaborazioni della campagna Sbilanciamoci!.

L’assunto iniziale è che “la sconfitta della sinistra” e quindi la caduta del governo Conte bis non possa essere rubricata “solo come una questione di numeri parlamentari” ma debba essere invece inquadrata in una perdita di egemonia dalle radici profonde e che il Pd, “trasformato in partito d’opinione”, da solo non riesce e non riuscirà a superare. Il rischio che si vede profilarsi è quello che una gran parte dell’elettorato “fuori dalla Ztl” pesantemente colpito dalla crescita delle diseguaglianze aggravate dalla pandemia e dai processi di marginalizzazione e precarizzazione si rifugi nell’astensione o perda definitivamente l’interesse per un progetto di “socialismo democratico” e partecipativo, al quale gli estensori del documento vogliono ancorarsi agganciandosi alla società civile del Terzo settore, dei sindacati, dei movimenti di cittadinanza attiva e anche ai pezzi di partiti della sinistra ancora “non omologati”. L’idea è quindi quella di rilanciare un “grande progetto di trasformazione sociale”, un progetto deliberatamente riformista che parte dalla constatazione che “il capitalismo anche se ha i secoli contati in questa epoca non ha alternative”. E tuttavia il capitalismo può essere riorientato, attraverso una politica coerente e attraverso, appunto, lo Stato, piegato in una sua forma meno vorace dal punto di vista ambientale e più equa dal punto di vista dei “diritti universali”.

Per quanto riguarda l’Italia di oggi e del Pnrr appena abbozzato, due sono le riforme che vengono messe in primo piano: quella della pubblica amministrazione con una modernizzazione che non vada verso la creazione di nuove agenzie o verso nuove privatizzazioni e il rafforzamento della scuola pubblica, intesa anche come polo di attrazione di un vivere civile associato ai beni comuni, alle comunità territoriali, alla cittadinanza partecipata e non ultimo ad un grande piano di educazione degli adulti e formazione permanente. Come obiettivo di fondo si vuole superare la frantumazione della società e del mondo del lavoro, si vuole cioè agevolare una ricomposizione sociale, sia con lo strumento di un nuovo Statuto dei lavori che evoca quello da tempo proposto dalla Cgil, sia in termini più esistenziali e culturali riaffermare la possibilità di una “felicità collettiva”, battendo una tendenza contraria antropologicamente in atto.

Il documento si sofferma sulla necessità di una redistribuzione dei redditi, proponendo una riforma fiscale più progressiva che tocchi anche le “valutazioni patrimoniali dei cespiti” insieme a strumenti in grado di premiare l’uso produttivo dei capitali. Qui non si entra nel dettaglio, non si delineano percentuali e scaglioni di aliquote. Si tratteggia semplicemente i luoghi degli interventi: il grande patrimonio ereditario, la finanza speculativa, l’evasione fiscale sia dei redditi da capitale che si impiantano nei paradisi fiscali sia dei professionisti autonomi e delle piccole e medie imprese la cui elusione è finora coperta dal mancato incrocio dei dati rilevanti sul piano fiscale. Oltre a chiedere un impegno contro la superfetazione di norme che hanno ingigantito la bolla burocratica fino a rasentare la paralisi delle pubbliche amministrazioni, il documento pur senza parlare esplicitamente di un ritocco del Titolo V, nota come la pandemia abbia messo in evidenza l’inefficienza di una eccessiva regionalizzazione in settori come la sanità e le politiche attive del lavoro. Si evidenzia quindi una esigenza di sfoltimento di norme e semplificazione e di ringiovanimento e ammodernamento del personale pubblico.

Complessivamente il testo si pone con un evidente intento di apertura di un dibattito anche tra diverse anime quindi non entra nel dettaglio e appare piuttosto come una piattaforma iniziale di mediazione, per la rinascita di un pensiero riformista che dovrà trovare altre voci e altre gambe. Inoltre i temi trattati sono tutti di natura più economica che sociale. Così si avvertono alcuni vuoti, soprattutto sul welfare, sul reddito di cittadinanza, sull’essenziale riforma degli ammortizzatori sociali (si propende in ogni caso per l’introduzione di un salario minimo orario) e su questioni che pure riguardano i piani industriali e gli input da dare alle imprese partecipate dallo Stato come la riconversione dell’industria bellica. Rispetto ad una proposta di inasprimento della Web Tax, stranamente si ripropone invece, senza dettaglio, la “bit tax” degli anni ’90 che intendeva rincorrere i flussi di traffico sul web anziché i fatturati delle multinazionali.

Alla fine della lettura resta la sensazione di uno sforzo di organicità e di prospettiva che potrebbe davvero essere utile se non per un partito sinceramente socialdemocratico, almeno per un campo più ampio di coalizione.
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c3dem_banner_04Che succede?
RIFORMARE IL CAPITALISMO, LOTTARE CONTRO LA POVERTA’…
14 Maggio 2021 by Giampiero Forcesi | su C3dem.
Ugo Colombino, “Riformare il capitalismo, si può. Ma come?” (lavoce.info). Stefano Lepri, “Per aiutare i poveri bisogna andare a conoscerli” (La Stampa). Leonardo Becchetti, “C’è un interesse a conciliare utili e licenze obbligatorie” (Avvenire). PARTITI E GOVERNO: Lina Palmerini, “Perché il costo delle liti sta pesando su Letta e Salvini” (Sole 24 ore). Alessandro Campi, “Se i partiti in frantumi non imparano la lezione” (Messaggero). Nadia Urbinati, “Il Pd ha perso il controllo delle primarie a livello locale” (Domani). Emanuele Felice, “L’occasione da non perdere per abbattere l’evasione” (Domani). Tito Boeri e Roberto Perotti, “Gli intoccabili del fisco” (Repubblica). Stefano Feltri, “Siete pronti per la prossima crisi? Arriva l’inflazione” e “L’errore di sottovalutare la sfida epocale del Pnrr” (Domani). Sabino Cassese, “L’errore di evitare i concorsi” (Corriere della sera). GIUSTIZIA: Marco Conti, “Prescrizione e appello, rivoluzione Cartabia. In gioco il Recovery” Messaggero). Giovanni Bianconi, “Prescrizione, le due ipotesi” (Corriere della sera). Gianluca De Feo, “Draghi affronta la sfida più difficile” (Repubblica). Gustavo Zagrebelsky, “La giustizia e la vita” (Repubblica). OMOFOBIA: Luigi Manconi, “La legge Zan e i confini delle libertà” (Repubblica). Gianni Santamaria, “Zan, Letta spinge ma primi no nel Pd” (Avvenire). Giovanni Maria Flick, “Ddl Zan, errori seri. Il Senato rifletta bene” (intervista all’Avvenire). Francesco Lepore, “La proposta autolesionista del centrodestra contro il ddl Zan” (Linkiesta).
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Oggi domenica 14 aprile 2019

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Avvenimenti&Dibattiti&Commenti&Appuntamenti—————
Marco Paolini: volete ridere o piangere?
14 Aprile 2019
Gianna Lai su Democraziaoggi.
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———————————–Oggi alla Comunità di San Rocco – Cagliari
disturbatoriloc2 Disturbatori della quiete pubblica: alcune voci profetiche degli ultimi 100 anni.

Santa Igia

img_7035Il territorio di Santa Igia e il progetto di fondazione del Castello di Cagliari, città nuova pisana del 1215
Riassunto
Il nucleo della città nuova fu progettato dai pisani nel 1215 nei territori di Santa Igia, capitale del Giudicato di Cagliari. L’analisi di alcune parti pervenute del contesto originario permette una più ampia valutazione di vari aspetti della fondazione pisana, quali la strategia adottata per disconnettere l’assetto territoriale precedente e l’introduzione di innovazioni sul piano della costruzione urbanistica ed edilizia.
La caratura culturale della città nuova è quella di una “grande opera” in un panorama europeo nel quale le fondazioni sono una pratica diffusa. Il progetto di Cagliari interpreta istanze politiche e mercantili, eseguite secondo i più avanzati dispositivi militari, estetici, simbolici e culturali.
[segue]

Ripensare la Sardegna. Un Nuovo Piano di Rinascita della Sardegna Possibile e Auspicabile

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di Roberto Mirasola

Ultimamente gli impegni politici mi portano spesso fuori Cagliari consentendomi un riscontro sempre più preciso delle ripercussioni nel territorio che ha avuto l’istituzione della città metropolitana con l’approvazione della Legge Regionale 2/2016 con la quale si è proceduto al riordino del sistema delle autonomie locali in Sardegna. La città metropolitana di Cagliari ha un senso se riuscirà a svolgere un ruolo guida al servizio dell’isola, se riuscirà ad essere motore per lo sviluppo economico di tutti, se riuscirà a redistribuire nel territorio le molte risorse che riceve sia dall’U.E. sia dal governo centrale. Questo del resto era previsto nella relazione introduttiva alla legge.
Il timore è che invece tutto sia incentrato nella sola città madre ovvero Cagliari. Queste stesse preoccupazioni hanno fatto si che durante il percorso legislativo che l’ha istituita si creassero polemiche dannose che hanno trovato il culmine nella localizzazione della sede dell’Ats a Sassari. Riforme di questo genere devono essere quanto mai condivise e devono unire e non dividere.
Il problema se vogliamo non riguarda la sola novità della città metropolitana ma l’intera riforma degli enti locali. Riforma incentrata sull’esigenza minima di razionalizzare la spesa senza preoccuparsi di dare un’adeguata risposta alle esigenze dei territori, perché non si è voluto tener conto delle differenze. Pensate alla provincia del Sud Sardegna con capoluogo a Carbonia ma che si estende fino all’Ogliastra (fagocitata dalla provincia di Nuoro). Si è pensato di aumentare gli enti senza curarsi delle conseguenze, con il rischio di un ulteriore spopolamento delle zone interne a vantaggio delle aree urbane più sviluppate e verso i centri costieri. Rischio rafforzato e purtroppo confermato dalla Legge sull’urbanistica.
Le riforme istituzionali dovrebbero essere incentrate in un’ottica di sviluppo locale oggi totalmente assente. L’altro giorno ho osservato con grande attenzione i dati sulla disoccupazione in Sardegna che ha ricavato Salvatore Multinu dalla lettura dei dati ISTAT. Così mentre il Sistema Informativo del Lavoro sostiene che l’occupazione su base annua aumenta del 3% i dati ricavati dall’Istat ci dicono che i disoccupati sono aumentati dal 2006 al 2016 del 6,6%. Certo lo stesso Sistema Informativo spiega che l’analisi di questi dati può indurre in errore travisando la realtà. A questo punto noi spostiamo la nostra visuale e chiediamoci come mai tra il 2007 e il 2016 ben 21.746 sardi sono emigrati all’estero e nel solo 2016 le persone che hanno lasciato l’isola sono ben 3.370. Se consideriamo che partono generalmente i laureati e i diplomati allora ci dobbiamo chiedere quale futuro può avere questa terra se molti tra i suoi figli migliori vanno via.
Dico queste cose perché i temi istituzionali e quelli dello sviluppo sono strettamente connessi e quando parliamo di sviluppo dobbiamo chiederci se è il caso di continuare con un sistema industriale completamente estraneo al contesto Sardo basato sulle importazioni più che sulle esportazioni, con industrie come la chimica, la petrolchimica, la produzione dell’alluminio che hanno portato disoccupazione e miseria lasciando tra l’altro l’ambiente circostante fortemente compromesso avendolo inquinato, oppure voltare pagina e puntare sulle energie rinnovabili, l’agroalimentare, l’economia del mare, il turismo e il rilancio della nostra agricoltura.
Concludo con una riflessione. Noi abbiamo bisogno di una Regione snella capace di decentrare funzioni alla periferia per stimolare la capacità a risolvere i problemi locali, che le consenta di concentrarsi maggiormente in un rapporto alla pari con lo Stato Centrale, perché non è pensabile che da una parte lo Stato declini le sue responsabilità e faccia sparire dalla Costituzione il tema delle isole e del mezzogiorno e dall’altra faccia onore all’impegno previsto dallo Statuto sardo che all’art.13 recita: lo Stato col concorso della Regione dispone un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale dell’isola. Forse è proprio dalla rivendicazione di un Nuovo Piano di Rinascita che occorre ripartire, unificando su questo grande obbiettivo i movimenti e i partiti che li sostengono e rappresentano.
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lampadadialadmicromicro133Recente dibattito su ipotesi di Nuovo Piano di Rinascita della Sardegna: Vanni Tola su Aladinews.

C’era una volta il Piano di Rinascita

nonno Qualcuno crede ancora nelle favole? C’era una volta il Piano di Rinascita, ventitré anni fa.

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di Vanni Tola

Questo racconto potrebbe iniziare come nella migliore tradizione favolistica. “C’era una volta, in una antica terra lontana circondata dal mare…” e via dicendo. Il nostro “C’era una volta” parte dalla fine del secolo scorso, più precisamente dal 1999. In quegli anni si concludeva la vicenda del Piano di Rinascita della Sardegna. Cosa è accaduto? Leggendo la narrazione dei fatti così come viene riportata dalla stampa regionale, nello specifico dal quotidiano “La Nuova Sardegna”, si apprende che lo Stato pagherà alla Regione 90 milioni di lire “scordati” nel 1999. L’ultima rata del Piano di Rinascita. Il titolo nelle pagine interne recita: “La Regione trova un tesoretto, 90 milioni dimenticati dal 1999”. L’autore della scoperta viene individuato nella persona dell’Assessore Raffaele Paci al quale si riconosce il merito di avere frugato sapientemente tra le pieghe dei bilanci e di avere trovato il tesoretto. La notizia è intrigante, curiosa, direi quasi sbalorditiva, merita una attenta lettura. Dalla puntuale ricostruzione giornalistica emerge che lo Stato doveva dei soldi alla Regione fin dal 1994, per l’esattezza ben 910 miliardi di lire (pari a 460 milioni di euro) da impiegare in interventi urgenti per sviluppo delle infrastrutture. I contributi statali erano erogati con rate annuali. Dell’ultima rata, quella del 1999 di 90 milioni di lire, non si aveva traccia. Nel 2015, cioè dopo 16 anni di “ritardo”, l’Assessorato al bilancio della regione Sardegna si è reso conto della mancata riscossione dell’ultima rata del finanziamento statale e del fatto che la vicenda Piano di Rinascita, dopo 23 anni, non si era ancora formalmente conclusa. Risparmiamo al lettore la ricostruzione dei diversi passaggi burocratici che si sono resi necessari per arrivare alla conclusione della vicenda. Si arriva così all’anno 2016 per registrare la presa d’atto del Cipe della avvenuta chiusura del Piano di Rinascita e il riconoscimento alla Regione Sardegna del credito dell’ultima rata del Piano, i 90 milioni di lire. Tali risorse, assicura l’Assessore competente, appena riscosse saranno impiegate per saldare i debiti con i Comuni e le imprese. E vissero a lungo felici e contenti. Ci si pone una domanda intrigante che suggerisce qualche riflessione. Quanto sono capienti e vaste le citate “pieghe di bilancio”? Ricordo soltanto, per restare in tempi recenti, che nel mese di luglio del corrente anno si è tenuto in Regione un incontro tra autorevoli rappresentanti della Giunta e le Organizzazioni professionali agricole e della cooperazione. In quella occasione emerse che per fronteggiare la crisi dell’agricoltura e il dramma della siccità la Giunta avrebbe erogato con urgenza 15 milioni di euro. Apparve a tutti come una grande vittoria del mondo contadino, il massimo che si potesse concedere per l’emergenza del comparto. Poche settimane dopo, con una grandiosa manifestazione del Movimento Pastori Sardi, scende in piazza la rabbia e la determinazione dei pastori che incontrono il Presidente Pigliaru e riescono a ottenere l’impegno della Giunta per reperire un ulteriore finanziamento di 30- 35 milioni di euro. In meno di un mese la Giunta riesce nel suo intento, trova e mette sul tavolo altri 30 milioni per la pastorizia. E dove li va a trovare? Naturalmente nelle pieghe del bilancio. Alcune considerazioni si impongono. Quanto sono estese e capienti queste pieghe del bilancio? E’ mai possibile che gli amministratori di una regione con gravi problemi occupazionali e la crisi in atto nei principali comparti produttivi non abbiano conoscenza, fin dall’inizio del loro mandato, di un quadro preciso e dettagliato delle risorse disponibili? La Giunta regionale, il Consiglio, gli apparati burocratici, sono organismi di programmazione e direzione di processi politici ed economici della regione. Tali istituzioni sono nelle mani di individui competenti o, come sembrerebbe, ci si avvale della abilità di improvvisati gestori delle emergenze? Fino a quando si continuerà a fare affidamento sulle pieghe del bilancio?

Un nuovo Piano di Rinascita della Sardegna è possibile? Sì con la forza dell’impegno e della speranza dei Sardi, contro la rassegnazione e la disperazione

sedia di VannitolaLa Sedia
di Vanni Tola.

sardegnaUN NUOVO PIANO DI RINASCITA PER LA SARDEGNA, ENDOGENO E AUTOCENTRATO

Parlare delle prospettive di lavoro e occupazione in Sardegna è possibile a condizione che si acquisiscano alcuni elementi fondamentali per rilevare la situazione attuale. Ne indicherei almeno due. Un’analisi puntuale delle caratteristiche del mancato sviluppo, dell’errata ipotesi di sviluppo che ha governato gli anni dei Piani di Rinascita. Una ricognizione accurata e non idealista delle reali potenzialità produttive e quindi occupazionali della nostra isola e in rapporto con il contesto economico e sociale della parte di mondo nella quale operiamo e con la quale dobbiamo confrontarci. Sintetizzando e rimandando, per brevità espositiva, ai numerosi e validi studi relativi agli anni della Rinascita mancata, direi che c’è un punto comune dal quale partire. Il modello di sviluppo prospettato dai Piani di Rinascita, per certi versi interno alle scelte per il contrasto del ritardo di sviluppo del meridione e quindi con elementi comuni rispetto ad altre aree geografiche dell’Italia, si è rivelato fallimentare per quanto concerneva l’incremento dell’occupazione e una migliore valorizzazione delle poche risorse isolane. Il sogno dell’industria di base (principalmente petrolchimica) concentrata nei “poli industriali”, che avrebbe dovuto generare intorno a se uno sviluppo industriale indotto e una complessiva crescita dell’economia regionale, non ha soddisfatto tali aspettative. Ha anzi concorso a drenare ingenti risorse finanziarie destinate alla Sardegna e a generare profitti che non sono stati reinvestiti nell’isola. Dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul banditismo in poi si è sviluppato un grande dibattito sulle cause del fallimento della politica della rinascita e sul fallimento dell’ipotesi di sviluppo industriale scelta dalla classe politica regionale e nazionale per la Sardegna. Tale riflessione deve costituire il punto di partenza di una nuova ipotesi di sviluppo che concentri l’attenzione e l’impiego delle risorse finanziarie nella direzione della valorizzazione delle risorse locali, prime fra tutte l’agro-pastorizia, l’industria alimentare e quella turistica. Ipotesi di sviluppo appunto, solo ipotesi, non sempre suffragate da validi studi di settore, spesso orientate a soddisfare i desideri di un immaginario collettivo piuttosto che rispondenti alle prospettive di sviluppo effettive che tali comparti produttivi sembravano indicare. Sono gli anni che mi piace definire “delle centralità ”. Una schiera infinita di analisti e tecnici di settore, per qualche decennio, non hanno fatto altro che indicare modelli di sviluppo che traessero origine dalla centralità del proprio comparto di appartenenza. E’ noto, mi si perdoni la battuta, che un cerchio, inteso come figura geometrica, ha un centro, uno solo, non si discute. In Sardegna invece si sono sprecati convegni, studi di settore, si sono scritti libri per dimostrare, di volta in volta, la centralità dell’agricoltura e della pastorizia, la centralità del turismo, la centralità della pesca, la centralità dei trasporti e via dicendo fino alla centralità della produzione di energia alternativa o della chimica verde. Tutte centralità descritte come potenzialmente in grado di innescare meccanismi di sviluppo dell’economia isolana con interessanti ricadute in termini di sviluppo, occupazione e benessere. Quando ci si è resi conto che è difficile immaginare un cerchio con molti centri si è passati alla fase degli abbinamenti tra comparti “centrali”. Sviluppare l’agricoltura per incrementare anche il turismo, sviluppare il comparto agro alimentare per creare una industria agro-alimentare in grado di trasformare i nostri prodotti e via dicendo. Va da se che ciascuna dichiarazione di centralità di un comparto celava la implicita richiesta di orientare i finanziamenti disponibili principalmente a quel comparto piuttosto che agli altri. Una triste e inconcludente lista di desideri. Nella realtà non si è andati oltre le corrette indicazioni per una ipotesi di sviluppo dell’isola che ponga al centro la valorizzazione delle risorse locali con riferimento ai nuovi contesti di politiche e scambi commerciali internazionali. Domandiamoci allora quali fattori, quali elementi hanno impedito lo sviluppo economico e socio culturale dell’isola. Cerchiamo di comprendere se la crisi occupazionale e dell’apparato industriale sardo debba essere esclusivamente attribuita a fattori congiunturali propri del contesto di crisi internazionale o alla oggettiva incapacità della politica regionale di orientare e gestire tali fantasiosi e mai realizzati proponimenti. C’è un’unica risposta da fare crescere la Sardegna e con essa l’occupazione dei Sardi, un nuovo Piano di Rinascita che un gruppo minoritario di intellettuali ha più volte indicato nei decenni passati proponendo e immaginando un Piano di sviluppo “endogeno e autocentrato”. Endogeno nel senso che deve trarre origine dalla valorizzazione delle risorse locali (quelle vere) e delle capacità di sviluppo del sistema Sardegna. Autocentrato nel senso che la sua realizzazione non dovrà rispondere a interessi di altri centri di potere che non siano quelli esistenti e operanti in Sardegna sotto un reale governo della Giunta Regionale. I vecchi Piani di Rinascita sono stati funzionali a una idea di sviluppo che ruotava intorno alla diffusione di un modello di crescita che poneva al centro lo sviluppo dei poli petrolchimici per la chimica di base, prospettando una miracolosa “discesa a valle” delle produzioni con la creazione di un indotto mai nato nell’isola.
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A ottant’anni dalla morte di Antonio Gramsci. Antonio Gramsci ci appartiene, teniamocelo stretto

A-GramsciIO e GRAMSCI

di Piero Marcialis

Il titolo di questo contributo suggerisce già che non è mia intenzione di intrattenervi con un discorso di tipo teorico-politico, ma semplicemente di illustrare come nella vita di ciascuno di noi, nella mia vita in questo caso, si insinua e si intreccia la storia, la parola, la biografia di un grande personaggio come Gramsci.

Gramsci sardo, gobbo, comunista, assassinato per le sue idee.
Ucciso dal fascismo, ma anche a lungo oscurato in epoca democratica e repubblicana.

Oscurato della sua origine sarda, chissà perchè, e ancora troverete qualcuno che si meraviglia che un così grande pensatore sia nato in Sardegna;

oscurato, per educazione, della sua disgrazia di aver sofferto una malattia che lo rese gobbo;

oscurato, per convenienza politica, del suo essersi fatto comunista.

Perchè dico oscurato? Di un uomo che, con Dante Alighieri, è l’autore in lingua italiana più letto nel mondo?
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La classe politica favorisce o contrasta il declino della Sardegna?

Paolo Fadda

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Ho avuto sempre il dubbio che la saggezza dei vecchi non fosse altro che presunzione e che i loro consigli non fossero altro che utopia o, spesso, evidente rammarico per i loro sogni irrealizzati o per i loro progetti mancati. Ora che sono anch’io entrato, e non da poco, nella consorteria dei vecchi (e dei vegliardi) ne ripeto anch’io le manie, cercando di distribuire pillole di saggezza, incurante del fatto che siano frutto di presunzione o di delusioni. Con l’invito, quindi, “a perdonai”!
Cosi ho messo insieme delle riflessioni su quel che sta accadendo di questi tempi in Sardegna, con una politica che ha rimesso ad altri le sue responsabilità elettorali, ritenendo che il governo di una regione possa essere delegata ad altri, magari a dei bravi ed onesti signori, peraltro non titolari di alcun mandato popolare e quindi privi di quelle sensibilità politiche che solo una lunga militanza nelle istituzioni democratiche riesce a dare.
Con queste avvertenze vi invito a leggere quanto ha pubblicato “Sardinia Post” a mia firma.

Ma la classe politica, come oggi è rappresentata qui da noi, è in grado di impedire il continuo declino dell’isola e di riportarla verso la necessaria ed urgente ripresa? Si tratta di una domanda che da tempo circola fra i sardi ed a cui, purtroppo, sono molte di più le risposte decisamente negative di quelle positive, magari anche parzialmente, che si devono registrare.
C’è dunque molta diffidenza, se non proprio insofferenza, nei confronti di una classe politica a cui sembra mancare proprio quella che dovrebbe essere la sua capacità essenziale, cioè quello di dover essere di guida e sostegno per la comunità regionale che le si è affidata con il voto.
Cosa s’intende d’esserne innanzitutto la guida politica? Quello – chiariamo – d’avere un progetto politico su cui indirizzare il percorso di ripresa e di riscossa dell’isola, in modo da renderla libera dai triboli e dalle difficoltà del presente. Detto ancor più chiaramente: d’avere delle idee chiare su come e verso dove guidare la sua riscossa. Ed è proprio su questo concetto di guida – mancata od abortita, fate voi – che si appuntano quelle risposte negative di molti sardi, a cui si è fatto cenno più sopra.
Andrebbe chiarito inizialmente che non si è di fronte ad un fatto esclusivamente sardo (nei giorni sorsi un editoriale di Angelo Panebianco sul Corriere era titolato emblematicamente “il suicidio della politica”), ma non dovrebbe essere questo un alibi od una discolpa.
Qui in Sardegna, infatti, si è di fronte, se non proprio ad un suicidio della politica, ad una sua diserzione o, ancor meglio, ad una fuga dai propri compiti, anche quelli più impegnativi, trasferendoli a terzi, molto spesso però dimostratisi, con le loro decisioni, degli “impolitici”. Cioè, per essere ancora più chiari, a guidare le istituzioni pubbliche, a partire da quella di più alto grado della Regione, si è data delega a dei “supplenti”, seppure dai curricula autorevoli, non ritenendo quindi sufficienti ed adeguate le proprie capacità e competenze. Non a caso la Giunta di governo dell’isola s’è andata configurando in quest’ultimo tempo come una sorta di consiglio di facoltà, a cui peraltro non si è affidato alcun progetto politico da realizzare, al di là delle solite ed ovvie genericità: meno disoccupazione e più lavoro.
Tra l’altro non risulta certo che chiunque, anche d’alti meriti accademici, possa improvvisarsi bravo e capace politico. Perché governare, e governare bene, significa avere preparazione ed esperienza sufficienti per poter partecipare attivamente alle scelte e ad assumersi responsabilità nella guida politica d’una comunità.
C’è dunque, alla base, di tutto, un’insufficienza ed un’impreparazione della nostra attuale classe politica, a cui mancherebbe il coraggio della responsabilità nella buona gestione della cosa pubblica. Un tempo, quand’erano in auge i partiti, si arrivava ai vertici regionali e nazionali dopo una lunga gavetta politica, partendo dalle più piccole realtà da guidare, della sezione o del villaggio. Oggi, invece, chiunque pensa di potersi candidare autonomamente, non solo a consigliere o a deputato, ma anche a governatore od a sindaco della capitale della Regione, al di là d’ogni idonea selezione e preparazione.
Non è un segnale, questo, da trascurare, perché contiene un’amara e sconsolante verità: gli attuali politici non hanno più la capacità e la disponibilità culturali di conoscere ed interpretare i bisogni e le attese della gente.
Può essere anche quest’isolamento, questo tirarsi fuori dalle responsabilità dirette, unito ad un visibile deficit di esperienze e di capacità, la causa prima dell’avanzata sempre più preoccupante dell’antipolitica, cioè di quei movimenti d’opinione che non riconoscono più all’attuale classe politica, inquinata anche da troppi ed evidenti vizi, la facoltà di dover essere classe di governo. Perché governare, e governare bene, significa saper indicare gli obiettivi da perseguire, organizzare e realizzare il consenso, appianare e comporre interessi anche divergenti, ricercare interventi e soluzioni di spazio generale e mai particolare, siano essi di campanile o di potere. In sintesi saper dare all’intera comunità di tutti i sardi un buon governo, senza discrezionalità o parzialità.
Infine, proprio alcune recenti dichiarazioni di Pietrino Soddu, raccolte anche da questo giornale, hanno riportato chi scrive questa nota ad un’esperienza personale lontana (di oltre mezzo secolo fa), ma rimasta da allora per lui indimenticabile. Erano i giorni ed i mesi di preparazione di quel piano di rinascita che sarebbe risultato poi, checché se ne pensi, il punto d’avvio per la realizzazione della prima effettiva modernizzazione dell’isola. Le lunghe discussioni, i serrati confronti e gli scontri, talora molto aspri, attraverso cui venne varato quel piano, si dimostrarono una straordinaria palestra di idee e di conoscenze, con cui si andò formando, in indifferenza di partito e di schieramento, una classe dirigente politica regionale di ottimo livello, che oggi in molti rimpiangiamo (i nomi di Corrias, Laconi, Melis, Dettori, Cardia, Soddu, Cottoni, Pazzaglia, ecc. ne confermerebbero il giudizio).
Chi ha quindi la memoria lunga ricorderà ancora come quella politica virtuosa avesse sconfitto, proprio con il suo impegno positivo, l’antipolitica di allora che, sotto le insegne del movimento dell’Uomo Qualunque, aveva anticipato, anche nel gergo un po’ sboccato del loro leader Guglielmo Giannini, certi atteggiamenti d’oggi, tra il demagogico ed il populista, di Grillo e dei suoi seguaci.
Ed è un’antipolitica, quella ora di moda, che pur indirizzando il disprezzo dei cittadini verso la classe politica – si cita qui la tesi espressa dal professor Panebianco –, chiede e pretende che quella politica resti l’impicciona di sempre, sollecitando e pretendendo favoritismi, protezionismi od ostracismi secondo gli interessi particolari di qualche casta, camarilla, associazione o corporazione amica.
Resta da proporre, conclusivamente, una domanda finale che cerca di liberare dal pessimismo questa amara riflessione: ma la classe politica sarda può trovare in sé gli anticorpi capaci di sconfiggere gli attuali virus maligni ed è quindi in grado di autorigenerarsi, assumendo appieno il suo ruolo di guida, senza ricercare deleghe o supplenze?

PAOLO FADDA
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- Precedenti pertinenti interventi su Aladinews.
chiederò
Mentre l’Isola sprofonda nel malessere, la politica litiga sulle poltrone
di Paolo Fadda
su SardiniaPost 28 settembre 2016, Pronto intervento.

Stiamo vivendo in una Sardegna in grande sofferenza, attraversata da un persistente, ostinato e diffuso malessere. Come se un qualcosa – una sorta di nocivo ed implacabile virus – ne vada fiaccando e deteriorando la stessa composizione sociale. Determinando un degrado civile e morale che intristisce e spaventa e che rende sempre meno possibile il ritrovare la speranza e la volontà per avviare una riscossa.

Si tratta – e lo si rimarca con profonda tristezza – di un malessere, o di più malesseri che appaiono sempre più pericolosi e gravi, di cui ritroviamo le tracce negli attentati, sempre più frequenti, ai sindaci, quali sentinelle avanzate di uno Stato troppo assente; nell’ampliamento a dismisura delle aree di povertà e di insofferenza per via d’un lavoro divenuto sempre più precario, determinando pericolosi rigurgiti antisistema; nei ripetuti assalti ai furgoni portavalori ed ai bancomat delle banche come capitava nel Far West ottocentesco o nel riversarsi, con sempre più determinazione, nei commerci e negli affari illegali per impadronirsi di futili ma sostanziose ricchezze; nella ribellione dei piccoli centri che lo spopolamento vede privarsi di servizi civili essenziali, come la scuola e la posta; nell’accentuarsi sempre più dannoso delle contrapposizioni corporative, campanilistiche o di potere per la conquista di privilegi personali o di clan, in danno od in contrasto con l’interesse pubblico generale.

È uno stato di malessere generale che con il suo diffondersi a macchia d’olio richiama e determina la ricerca di responsabilità e di colpevolezze. Proprio perché ad esso non sembra che chi dovrebbe, cioè innanzitutto la politica, abbia la volontà o la capacità di creare e di mettere in campo degli antidoti.
Infatti proprio quel malessere (cioè quel virus maligno che deteriora e debilita) ha colpito anche la politica, e questo, purtroppo, in indifferenza di schieramento.
Per quel che si legge sui frequenti “bisticci” interni ai diversi schieramenti, rendono chiara la cruda ed intristente sintomatologia di quel malanno: perché non ci si contrappone se, per il risveglio dell’economia in sonno, occorra puntare sul risanamento dell’industria o sul rilancio dell’agricoltura, ma, al contrario, il nodo principale da dirimere debba essere la nomina di questo o quel personaggio alla guida di questo o di quel partito. Cioè per i propri interessi di parte, di clan o di corrente e non certo per l’interesse generale dei sardi.

Non sarà un caso, ma i problemi più importanti di un’isola afflitta da un’incombente recessione economica (e con tre giovani su cinque senza lavoro) sono apparsi, per il tempo dedicato a trovare la soluzione, i confronti – quasi sempre motivati da logiche di bottega elettorale – ove fosse meglio collocare la sede dell’ASL unica o se il suo direttore generale dovesse, o meno, essere sardo!

Ed ancora: di fronte alle tante e gravi pene di cui soffre la comunità isolana, fa ancor più tristezza (ed anche un po’ di sdegno) il fatto che non poche risorse pubbliche regionali vadano troppo spesso indirizzate ad aree improduttive (talvolta anche nello spettro del “loisir”), quasi che il vecchio detto del panem et circenses che Giovenale attribuì ai governanti dell’antica Roma, sia rimasto attuale anche per i nostri governanti.

Di fronte a tutto questo, occorrerebbe ritrovare la forza per avviare una decisa presa di coscienza, in modo da ritrovare le idealità e la carica morale che furono degli uomini migliori della Prima Regione, da Luigi Crespellani a Pietro Melis, da Efisio Corrias ad Umberto Cardia ed a Paolo Dettori.

Paolo_Dettori sc popol aladinewsProprio di quest’ultimo personaggio, s’intende qui riprendere un pensiero che, proprio di fronte alle difficoltà attuali, appare attualissimo: occorre – diceva negli anni del suo impegno nel Consiglio Regionale – che ci si unisca tutti insieme, senza divisioni di parte, per avviare e realizzare nell’Isola una profonda rinascita intellettuale e morale, per ritrovare ed applicare corrette regole di condotta civile e politica fondate su principi e valori di alta qualità etica, atte soprattutto a determinare, attraverso un impegno volto al servizio della gente e non su calcoli elettoralistici, un rinnovamento radicale ed un positivo rilancio delle condizioni sociali ed economiche di tutti i sardi: cioè, per dirlo più chiaramente, per instaurare in tutta l’Isola un clima di vera e convinta rinascita.

Paolo Fadda
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Quale classe dirigente per la Sardegna che vorremo

lampada aladin micromicrodi Aladin su Aladinews dell’8 maggio 2016.
Giovanni Maria Angioy Memoriale 2«Malgrado la cattiva amministrazione, l’insufficienza della popolazione e tutti gli intralci che ostacolano l’agricoltura, il commercio e l’industria, la Sardegna abbonda di tutto ciò che è necessario per il nutrimento e la sussistenza dei suoi abitanti. Se la Sardegna in uno stato di languore, senza governo, senza industria, dopo diversi secoli di disastri, possiede così grandi risorse, bisogna concludere che ben amministrata sarebbe uno degli stati più ricchi d’Europa, e che gli antichi non hanno avuto torto a rappresentarcela come un paese celebre per la sua grandezza, per la sua popolazione e per l’abbondanza della sua produzione.»
In un recente convegno sulle tematiche dello sviluppo della Sardegna, un relatore, al termine del suo intervento, ha proiettato una slide con la frase sopra riportata, chiedendo al pubblico (oltre duecento persone, età media intorno ai 40/50 anni, appartenente al modo delle professioni e dell’economia urbana) chi ne fosse l’autore, svelandone solo la qualificazione: “Si tratta di un personaggio politico”. Silenzio dei presenti, rotto solo da una voce: “Mario Melis?”. No, risponde il relatore. Ulteriore silenzio. Poi un’altra voce, forse della sola persona tra i presenti in grado di rispondere con esattezza: “Giovanni Maria Angioy”. Ebbene sì, proprio lui, il patriota sardo vissuto tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento, (morto esule e in miseria a Parigi, precisamente il 22 febbraio 1808), nella fase della sua vita in cui inutilmente chiese alla Francia di occupare militarmente la Sardegna, che, secondo i suoi auspici, avrebbe dovuto godere dell’indipendenza, sia pur sotto il protettorato francese (1).
Mario Melis 1E’ significativo che l’unico uomo politico contemporaneo individuato come possibile autore di una così bella frase, decisamente critica nei confronti della classe dirigente dell’Isola (e quindi autocritica) e tuttavia colma di sviluppi positivi nella misura in cui si potesse superare tale pesante criticità, sia stato Mario Melis,, leader politico sardista di lungo corso, il quale fu anche presidente della Regione a capo di una compagine di centro-sinistra nel 1982 e di nuovo dal 1984 al 1989. Evidentemente la sua figura di statista resiste positivamente nel ricordo di molti sardi. E questo è bene perché Mario Melis tuttora rappresenta un buon esempio per le caratteristiche che deve possedere un personaggio politico nei posti guida della nostra Regione: onestà, competenza (più politica che tecnica), senso delle Istituzioni, passione e impegno per i diritti del popolo sardo. Caratteristiche che deve possedere non solo il vertice politico, ma ciascuno dei rappresentanti del popolo nelle Istituzioni. Aggiungerei che tali caratteristiche dovrebbero essere comuni a tutti gli esponenti della classe dirigente nella sua accezione più ampia, che insieme con la classe politica comprende quella del mondo del lavoro e dell’impresa, così come della società civile e religiosa.
Oggi al riguardo non siamo messi proprio bene. Dobbiamo provvedere. Come? Procedendo al rinnovo dell’attuale classe dirigente in tutti i settori della vita sociale, dando spazio appunto all’onestà, alla capacità tecnica e politica, al senso delle organizzazioni che si rappresentano, alla passione e all’impegno rispetto alle missioni da compiere.
Compito arduo ma imprescindibile.

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(1) Sappiamo come andò a finire la storia: i francesi si guardarono bene dall’intervenire, perlomeno in Sardegna – contrariamente a quanto fecero in Piemonte – per la quale tennero fede all’Armistizio di Cherasco (28 aprile 1796) e al successivo Trattato di Parigi (15 maggio 1796) che, sia pure con termini pesantissimi per i sabaudi, consentì loro di mantenere costantemente e definitivamente il potere sull’Isola.
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Grande confusione sotto i cieli d’Europa

nuvoleBrexit e indipendenze delle nazioni senza stato
di Nicolò Migheli

By sardegnasoprattutto/ 27 giugno 2016/ Culture/

Grande confusione sotto i cieli d’Europa. Il Brexit inaspettato, rimescola strategie, rapporti di potenza. Inutile sottolinearlo, l’Europa che conoscevamo, quella uscita dai due eventi traumatici: la II Guerra Mondiale e il crollo dell’Urss non sarà più la stessa. Il percorso di abbandono britannico non si annuncia facile, Nicola Sturgeon la premier scozzese, annuncia una opposizione dura contro il Brexit; in caso di uscita dalla Ue, un secondo referendum sull’indipendenza della Scozia.

Brent_oilfieldOliver Perra dall’Ulster, scrive nel suo blog che il percorso stavolta non si prospetta né facile né tranquillo. Se la GB dovesse lasciare la Ue e la Scozia indipendente, il Vallo di Adriano diventerebbe una frontiera comunitaria esterna, con tutti i controlli usuali, con l’Inghilterra oggi primo partner commerciale della Scozia e il Brent a 50 dollari. Condizioni economiche non facili e gli scozzesi- mi si passi il pregiudizio- sono noti per la loro attenzione al danaro. Allo stesso modo la pace del Venerdì Santo, che ha disarmato l’irridentismo nord irlandese è avvenuta perché il confine tra Ulster e Eire era comunitario, quasi insesistente.

Cosa potrebbe avvenire in futuro? Nessuno lo sa. L’Inghilterra è disposta a perdere l’unica base dei suoi sommergibili atomici, del suo deterrente nucleare, che si trova in Scozia? Chi pagherebbe i costi stratosferici di trasferimento? Lo stessa adesione di una Scozia indipendente alla Ue è in dubbio, verrebbe tenuta nel medesimo limbo in cui oggi versano Serbia, Montenegro, Macedonia e Kosovo? Chi lo sa.

Sergio Romano su LinKinchiesta.it: Mi piacerebbe che se ne andassero [gli scozzesi, n.d.r] dal Regno Unito. Sarebbe una lezione della Storia, un altro modo per fare capire all’Inghilterra che ha sbagliato tutto. L’Unione Europea però non è nata per spaccare gli Stati. Il giorno in cui se ne va la Scozia, come fa un leader catalano ad accontentarsi di meno?

Per le regole che governano i consessi internazionali non basta dichiarare la propria indipendenza, bisogna che gli altri stati la riconoscano, che lo stato nascituro sia all’interno dei loro disegni geopolitici. Se guardiamo ai nuovi stati nati in Europa negli ultimi settant’anni troveremo che le ragioni internazionali o la volontaria cessione di sovranità da parte della potenza dominante sono la costante. Cipro e Malta divennero indipendenti per scelta della Gran Bretagna, la prima dopo una lotta di liberazione, la seconda perché il ruolo della Royal Navy in Mediterraneo si era contratto.

Indipendenze che rientrano nel più vasto panorama di fine dell’Impero britannico e nella seguente decolonizzazione. Gli stati baltici riacquistarono l’indipendenza perduta al principio della II Guerra Mondiale per la scomparsa dell’Urss, così come Bielorussia ed Ucraina, la Moldavia, Georgia, Armenia, per rimanere in Europa. Stati che vennero immediatamente riconosciuti dall’Occidente perché considerati una sorta di bottino della Guerra Fredda. La Jugoslavia scomparve dopo guerre sanguinose, non solo per i conflitti insanabili tra le nazionalità e gli interessi contrastanti, ma anche perché le indipendenze rispondevano al disegno di allargamento di influenza della Germania unificata nei Balcani.

Non dimentichiamoci che il primo stato che riconobbe la Croazia fu il Vaticano del papa polacco. Stato piccolo, ma con un grande peso nel mondo. Come si può vedere il desiderio di autodeterminazione deve incontrare un contesto internazionale che lo consenta, in caso contrario o stati che non esistono per gli altri, come il Donbass, o solo annessioni – peraltro riconosciuta da pochi – come la Crimea o l’Ossezia del Sud. L’unico caso di divorzio consensuale, la separazione pacifica di Cechia e Slovacchia. Oggi è tempo di indipendenze in Europa? Sembrerebbe di no.

La Brexit ha sancito il ritorno di Wesfalia, la rinascita degli stati nazionali ottocenteschi. Muri e frontiere che risorgono, minacce di abbandono della Ue. La guerra permanente ad oriente in Ucraina, e a sud nel Mediterraneo allargato; il terrorismo jihadista, lo spostamento epocale di migliaia di persone per fame, guerra e siccità. Un quadro di instabilità che determina nelle persone paure continue. Non è tempo di referendum per le indipendenze delle nazioni senza stato, anche se venissero concessi dagli stati-nazione classici, probabilmente verrebbero persi.

In periodi come questi l’indipendenza viene vissuta come un ulteriore rischio personale. Non si lascia la casa conosciuta, anche se scomoda, per un’avventura quando il resto del mondo è sconvolto dalla tormenta. Rinunciare a qualsiasi prospettiva di autodeterminazione per luoghi come la Sardegna? No di certo. Paradossalmente l’unica possibilità è una Unione Europea che si configuri come confederazione, o se si vuole federazione, di stati indipendenti, dove anche le nazioni senza stato stiano in un piano di parità giuridica con le altre.

Non solo un sogno, ma l’unica prospettiva realistica, sempre che la parola abbia ancora un senso. Se dovesse crollare l’impianto europeo, il sogno verrebbe rimandato per chissà quanto tempo. La Storia però non procede per cammini razionali, anzi quella condizione gli appartiene raramente. Tutto può succedere, bisogna essere pronti a qualsiasi evenienza, dovremmo avere una classe dirigente, non solo politica, consapevole delle scelte migliori per noi. Una classe dirigente che abbia contatti internazionali con chi poi decide negli scacchieri.

Vicente_Bacallar_SannaPotrebbe succedere come nel 1713, quando il diplomatico Bacallar Sanna cercava un re bavarese per la Sardegna e ritrovarsi con un Savoia. Perché allora perdemmo la possibilità di sceglierci un sovrano? Le condizioni internazionali, gli accordi tra le potenze europee avevano deciso altrimenti. È successo allora potrebbe capitare domani.
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Per correlazione: LUCIO GIORDANO, EDITORIALE SU ALGANEWS
BREXIT, LA MERAVIGLIOSA VENDETTA DI VAROUFAKIS
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Brexit, Ue, Italia e Referendum costituzionale
Europa_Bandiera_Europeasedia di VannitolaC’era una volta l’Europa. Una analisi del giornalista Corradino Mineo esperto osservatore della politica comunitaria.
In Italia c’è un’unica grande arma per salvare il salvabile: il referendum di ottobre. Trasformato in plebiscito pro o contro il realismo dei mercati, pro o contro l’Europa dorotea, pro o contro la politica che pretende deleghe in bianco, da un apprendista stregone che somiglia a Cameron come una goccia d’acqua a un’altra. Battiamoci perché vinca il No, perché si apra una vera fase costituente, con il dialogo con la destra senza inciucio nazareni con una apertura di credito (e con rispetto) nei confronti dei 5 Stelle

C’era una volta l’Europa. Semplice, evocativo, non vanamente consolatorio. Il titolo più efficace è del Manifesto. Gli altri parlano di “tempesta”, la Stampa, di “colpo all’Europa”, il Corriere, di un “piano per salvarla”, La Repubblica. Oppure usano l’esortazione: “Europa svegliati!”, il Sole24Ore. Ricorderete: dopo aver vinto il suo referendum Tsipras fu umiliato dalla Merkel, da Hollande, da Renzi e tutti si accorsero che “Atene non aveva un piano B”. Ora sono gli aguzzini di Trsipras a non avere “un piano B” davanti alla porta che gli elettori britannici gli hanno sbattuto in faccia. Sì, certo, Draghi allaga borse e banche stampando euro, compra titoli del debito italiani e spagnoli per evitare che lo spread torni. Sono risposte necessarie ma il loro effetto è temporaneo: possono attutire il crollo delle borse -pauroso quello di Milano, meno 12,5% -, possono evitare che l’euro si apprezza dopo l’ondata di vendite che investe la sterlina. Ma poi? I commenti di Polito per il Corriere, Scalfari su Repubblica, Napoletano per il Sole, confermano questo vuoto di idee: chiedono – in modo più accorato e urgente il direttore del Sole24Ore- che i politici al governo in Francia, Germania e Italia, facciano ora quello che non hanno fatto fino a ieri: che diano all’Europa, con urgenza, sotto la pressione del Brexit, istituzioni federali e democratiche, che imbocchino per l’Europa la strada di una politica espansiva e più solidale. Dove erano questi commentatori quando gli stessi governanti strozzavano la piccola Grecia, in nome delle regole immutabili che presiedono al modo folle con cui si è costruita l’Europa dell’euro? Dove, quando in Spagna si infliggeva un colpo doppio ai lavoratori e alle famiglie in nome della ripresa: prima il licenziamento poi lo sfratto? Il piano di cui parla Repubblica nel titolo si limita a due mosse. La prima: fare presto, visto che Londra deve uscire, che esca subito. La seconda rimanda come al solito alla BCE e quello che può fare, per limitare i danni, l’onesto Draghi. Non basta. Perché -ha ragione Ezio Mauro- la malattia d’Europa è prima di tutto una malattia politica.
“L’europeismo non è più un sentimento politico, in nessuno dei nostri Paesi”, scrive l’ex direttore di Repubblica. “L’antieuropeismo è invece un risentimento robusto e potente, distribuito a piene mani dovunque”. Siamo arrivati fin qui perché : né Cameron né Merkel, né Hollande né Renzi, sono mai stati leader europei. Sono stati, e sono, leader nazionali pronti a usare a piene mani populismo e demagogia per confermarsi nel loro ruolo. Cameron ha voluto il referendum: pensava di domare gli istinti nazionalisti e secessionisti del suo paese e si è visto con che risultato. In tutti questi anni Merkel ha fatto credere ai tedeschi di aver generosamente contribuito a un progetto -l’Euro e l’Europa- nascondendo i vantaggi incassati dalla Germania nell’operazione e promettendone altri, grazie alla sua leadership e alla sua grinta nell’imporre “compiti a casa” e sacrifici ai partner piùdeboli. Hollande contro ogni evidenza ripete ai francesi “Ca va mieux” mentre strizza l’occhio alla Grandeur gollista, con le sue incursioni in Africa e in Medio Oriente. Renzi, toglie diritti e deprime la partecipazione democratica, come gli chiedono le istituzioni sovra nazionali, ma distribuisce bonus elettorali e sgravi fiscali, e mostra i muscoli da giovanotto con cui -promette- rimetterà in riga “i burocrati” di Bruxelles. E, con questo spettacolo, vorreste che il sentimento europeo vinca il risentimento? Naturalmente ogni segno di rinsavimento, ogni ritorno a una politica degna del nome, l’abbandono del populismo dei governi, sarebbe benvenuto. E non mancherò di segnalarlo e di lodarlo, qualora venisse. Per ora, lasciatemi constatare come questa classe politica e dirigente abbia fatto fallimento. C’erano un tempo elites europee.
Ottimista, nonostante tutto. Lo sapete, a me l’analisi spietata serve per vedere, comunque, la possibilità che si può aprire. Possibilità non vuol dire “probabilità”, è solo uno spiraglio per il quale, comunque, val la pena di battersi. Lo vedo, questo spiraglio, nel voto di domani in Spagna: se Podemos vincesse o arrivasse a un’incollatura dai popolari, forse potrebbe dar vita a un governo delle sinistre, l’ottusità del Psoe. Potrebbe proporre una Spagna federale in un’Europa federale. Anche in Gran Bretagna qualcosa può accadere: i giovani hanno votato contro Brexit, anche se sono andati alle urne in percentuale più bassa degli anziani “risentiti” che hanno scelto il Leave. In tutte le città ha prevalso il Remain, nelle campagne ha trionfato il Leave. Scozia e Irlanda del Nord cercheranno bloccare l’anacronistico nazionalismo imperiale britannico, a costo di disunire il regno, chiedendo di far parte dell’Europa e restando legati a Galles e England in uno stato federale molto lasco. Bernie Sanders, che non si è ritirato dalle primarie, dice però ai suoi millennials: votiamo per la Clinton e contro Trump. Non gli chiede di credere nella Clinton, di tornate sotto l’ala dell’establishment. Vuole almeno che il Partito cambi il suo programma, che si sposti a sinistra, mentre comincia a proporre la sua corsa entusiasmante come quella di un nuovo soggetto. In Italia c’è un’unica grande arma per salvare il salvabile: il referendum di ottobre. Trasformato in plebiscito pro o contro il realismo dei mercati, pro o contro l’Europa dorotea, pro o contro la politica che pretende deleghe in bianco, da un apprendista stregone che somiglia a Cameron come una goccia d’acqua a un’altra. Battiamoci perché vinca il No, perché si apra una vera fase costituente, con il dialogo con la destra senza inciucio nazareni con una apertura di credito (e con rispetto) nei confronti dei 5 Stelle. Se Renzi non Renzi fosse un leader politico, e non solo un tattico che gioca con la politica, prenderebbe atto del no e cambierebbe il verso della sua azione di governo. Altrimenti, senza rimpianti, avremo un Cameron in meno anche in Italia. La rivoluzione copernicana della politica vuol dire oggi partire dai giovani. Quelli che sanno che lavoro sicuro non l’avranno, perché la ripresa che si annuncia fa persino crescere disuguaglianze e precariato. Quelli che lasciano il paese per studiare o fare ricerca, che ma sono pronti a tornare. Quelli che sono italiani o turchi, inglesi o nati in Siria ma hanno un progetto comune: trasformare il mondo al lume della ragione, costruire la convivenza nel diritto. Progetto europeo! L’unico vero progetto europeo. Vedete, fa più per l’Europa un prete che dice a Yerevan, sì’ quello degli armeni fu genocidio, degli esorcismi e delle promesse dei politici professionisti dopo Brexit
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NO NO NOOO
Non solo modifiche, è un’altra Costituzione
di Luigi Ferrajoli, su Left

La legge di revisione costituzionale Renzi-Boschi investe l’intera seconda parte della Costituzione: ben 47 articoli su un totale di 139. Non è quindi, propriamente, una “revisione”, ma un’altra costituzione, diversa da quella del 1948. Di qui il suo primo, radicale aspetto di illegittimità: l’indebita trasformazione del potere di revisione costituzionale previsto dall’articolo 138, che è un potere costituito, in un potere costituente non previsto dalla nostra Costituzione e perciò anticostituzionale ed eversivo.
La differenza tra i due tipi di potere è radicale: il potere costituente è un potere sovrano, che l’articolo 1 attribuisce al “popolo” e solo al popolo, sicché nessun potere costituito può appropriarsene; il potere di revisione è invece un potere costituito, il cui esercizio può consistere soltanto in singoli e specifici emendamenti onde sia consentito ai cittadini, come ha più volte stabilito la Corte Costituzionale, di esprimere consenso o dissenso nel referendum confermativo alle singole revisioni. È una questione elementare di grammatica giuridica: l’esercizio di un potere costituito non può trasformare lo stesso potere del quale è esercizio in un potere costituente senza degradare ad eccesso o peggio ad abuso di potere.
Ma ancor più gravi sono la forma e la sostanza della nuova costituzione. Per il metodo con cui è stata approvata e per i suoi contenuti, questa legge di revisione è un oltraggio non tanto e non solo alla Costituzione del 1948, ma al costituzionalismo in quanto tale, cioè all’idea stessa di Costituzione.
Innanzitutto per il metodo. Non è con i modi adottati dal governo Renzi che si trattano le costituzioni. Le costituzioni sono patti di convivenza. Stabiliscono le pre-condizioni del vivere civile, idonee a garantire tutti, maggioranze e minoranze, e perciò tendenzialmente sorrette da un consenso generale. Servono a unire, e non a dividere, dato che equivalgono a sistemi di limiti e vincoli imposti a qualunque maggioranza, di destra o di sinistra o di centro, a garanzia di tutti. Così è stato per la Costituzione italiana del 1948, approvata dalla grandissima maggioranza dei costituenti – 453 voti a favore e 62 contrari – pur divisi dalle contrapposizioni ideologiche dell’epoca. Così è sempre stato per qualunque costituzione degna di questo nome.
La costituzione di Renzi è invece una costituzione che divide: una costituzione neppure di maggioranza, ma di minoranza, approvata ed imposta, però, con lo spirito arrogante e intollerante delle maggioranze. È in primo luogo una costituzione approvata da una piccola minoranza: dal partito di maggioranza relativa, che alle ultime elezioni prese il 25% dei voti, corrispondenti a poco più del 15% degli elettori, trasformati però, dalla legge elettorale Porcellum dichiarata incostituzionale, in una fittizia maggioranza assoluta, per di più compattata dalla disciplina di partito e dal trasformismo governativo di gran parte dei suoi esponenti, pur apertamente contrari. Insomma, una pura operazione di palazzo. E tuttavia questa minoranza ha imposto la sua costituzione con l’arroganza di chi crede nell’onnipotenza della maggioranza: rifiutando il confronto con le opposizioni e perfino con il dissenso interno alla cosiddetta maggioranza (“abbiamo i numeri!”), rimuovendo e sostituendo i dissenzienti in violazione dell’articolo 67 della Costituzione, minacciando lo scioglimento delle Camere, strozzando il dibattito parlamentare con “canguri” e tempi di discussione ridotti in sedute-fiume e notturne, ponendo più volte la fiducia come se si trattasse di una legge di indirizzo politico, ottenendo l’approvazione in un clima di scontro giunto a forme di protesta di tipo aventiniano, fino all’ultima, gravissima deformazione del processo di revisione: il carattere plebiscitario impresso al referendum costituzionale dal presidente del Consiglio che lo ha trasformato in un voto su se stesso. Non si potrebbe immaginare un’anticipazione più illuminante di quelli che saranno i rapporti tra governo e parlamento se questa riforma andasse in porto: un parlamento ancor più umiliato, espropriato delle sue classiche funzioni, ridotto a organo di ratifica delle decisioni governative. Del resto, sia l’iniziativa che l’intera gestione del procedimento di revisione sono state, dall’inizio alla fine, nelle mani del governo; laddove, se c’è una questione di competenza esclusiva del Parlamento e che nulla ha a che fare con le funzioni di governo, questa è precisamente la modifica della Costituzione. L’illegittima mutazione del referendum costituzionale in un plebiscito era perciò implicita fin dall’origine del processo di revisione e strettamente connesso a un altro suo profilo di illegittimità: al fatto che il potere di revisione costituzionale, proprio perché è un potere costituito, ammette solo emendamenti singolari e univoci, i quali soltanto consentono che il successivo referendum previsto dall’articolo 138 avvenga, come ha più volte richiesto la Corte costituzionale, su singole e determinate questioni, e non si tramuti, appunto, in un plebiscito.
Si capisce come una simile revisione – quali che fossero i suoi contenuti, anche i più condivisi e condivisibili – meriti comunque di essere respinta, soltanto per il modo con cui è stata approvata. Giacché essa è uno sfregio alla Costituzione repubblicana, dopo il quale la nostra costituzione non sarà più la stessa perché non avrà più lo stesso prestigio. Le costituzioni, infatti, valgono anche per il carattere evocativo e simbolico del loro momento costituente quale patto sociale di convivenza. Questa nuova costituzione sarà percepita come il frutto di un colpo di mano, di un atto di prepotenza e prevaricazione sul Parlamento e sulla società italiana. Sarà la costituzione non della concordia ma della discordia; non del patto pre-politico, ma della rottura del patto implicito in ogni momento costituente: indipendentemente dai contenuti.

Ma sono precisamente i contenuti l’aspetto più allarmante della nuova costituzione. Si dice che con essa viene superato il bicameralismo perfettamente paritario. È vero. Ma il superamento del bicameralismo perfetto avviene con la sua sostituzione con un monocameralismo sommamente imperfetto. Imperfetto per due ragioni.
In primo luogo perché la seconda Camera non è affatto abolita, ma sostituita da un Senato eletto non dai cittadini, come vorrebbe il principio della sovranità popolare, ma dai Consigli regionali “in conformità” – non è chiaro in quali forme e grado – “alle scelte espresse dagli elettori”, e tuttavia dotato di molteplici competenze legislative. Contrariamente alla semplificazione vantata dalla propaganda governativa, ne seguirà un’enorme complicazione del procedimento di approvazione delle leggi. Basti confrontare l’attuale articolo 70 della Costituzione composto da una riga – “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere” – con il suo nuovo testo, articolato in sette commi lunghi e tortuosi che prevedono ben quattro tipi di leggi e di procedure: a) le leggi di competenza bicamerale, come le leggi costituzionali, le leggi di revisione costituzionale, le leggi elettorali e altre importanti e numerose leggi sull’ordinamento della Repubblica; b) tutte le altre leggi, di competenza della Camera ma a loro volta differenziate, a seconda del grado di coinvolgimento del Senato nella loro approvazione, in tre tipi di leggi: b1) le leggi il cui esame da parte del Senato può essere richiesto da un terzo dei suoi componenti e sulle cui modificazioni la Camera si pronuncia a maggioranza semplice in via definitiva; b2) le leggi di cui all’articolo 81 4° comma, le quali vanno sempre sottoposte all’esame del Senato, che può deliberare proposte di modificazione entro quindici giorni dalla data di trasmissione; b3) le leggi di attuazione dell’articolo 117, 4° comma della Costituzione, che richiedono sempre l’esame del Senato e le cui modificazioni a maggioranza assoluta dei suoi componenti sono derogabili solo dalla maggioranza assoluta dei componenti della Camera.
All’unico procedimento bicamerale attuale vengono dunque sostituiti quattro tipi di procedure, differenziati sulla base delle diverse materie ad esse attribuite. È chiaro che questo pasticcio si risolve in un’inevitabile incertezza sui diversi tipi di fonti e procedimenti, ancorati alle diverse ma non sempre precise e perciò controvertibili competenze per materia. Il comma 6° del nuovo articolo 70 stabilisce che «i Presidenti delle Camere decidono, d’intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza». Ma come si risolverà la questione se i due presidenti non raggiungeranno un accordo? E comunque l’incertezza e l’opinabilità delle soluzioni adottate rimangono, e rischiano di dar vita a un contenzioso incontrollabile su questioni di forma che finirà per allungare i tempi dei procedimenti e per investire la Corte Costituzionale di una quantità imprevedibile di ricorsi di incostituzionalità per difetti di competenza.

Ma c’è soprattutto una seconda ragione, ben più grave e di fondo, che rende inaccettabile il monocameralismo imperfetto introdotto da questa revisione: la trasformazione della nostra democrazia parlamentare, provocata dalla legge elettorale maggioritaria n. 52 del 6 maggio 2015, in un sistema autocratico nel quale i poteri politici saranno interamente concentrati nell’esecutivo, e di fatto nel suo capo, ben più di quanto accada in qualunque sistema presidenziale, per esempio negli Stati Uniti, dove è comunque garantita la netta separazione e indipendenza del Congresso, titolare del potere legislativo, dal Presidente. Il sistema monocamerale infatti, in una democrazia parlamentare, implica un sistema elettorale puramente proporzionale, in forza del quale i governi e le loro maggioranze si formano in maniera trasparente in Parlamento, quali frutti del dibattito e del compromesso parlamentare, e restano costantemente subordinati alla volontà della Camera della quale il governo è espressione. Solo così il monocameralismo è un fattore di raffor­zamento, anziché di emarginazione del Parlamento: solo se l’unica Camera – la Camera dei deputati – viene eletta con un sistema elettorale perfettamente proporzionale, in grado di rappresentare l’intero arco delle posizioni politiche, di garantire perfettamente l’uguaglianza del voto, di riflettere pienamente il pluralismo politico e, soprattutto, di assicurare costantemente la presenza e il ruolo di controllo delle forze di minoranza e di opposizione. È stato solo questo il monocameralismo proposto in passato dalla sinistra: quello che, grazie alla massima rappresentatività ed efficienza decisionale dell’unica Camera, alla sua composizione pluralista e alla forza delle opposizioni, assicura quella che chiamavamo la “centralità del Parlamento”, cioè il suo ruolo di indirizzo politico e di controllo sull’attività del governo quale si conviene a una democrazia parlamentare.

Letture per i cittadini, ma soprattutto per i candidati sindaci e consiglieri della città

AladinDibattito-CA_2_2-300x130Un’altra idea di città
di Ilaria Agostini

PERUNALTTRACITTà 29 3 16By sardegnasoprattutto/ 29 marzo 2016/ Città & Campagna/

Eddyburg.it 25 Marzo 2016. La succosa introduzione a un libro collettaneo che racconta come nelle città italiane (non a caso l’esempio scelto è Firenze, cavia dello stregone Renzi) i declina l’idea di città del neoliberismo e come un pugno di urbanisti può animare una molteplice attività di resistenza.

Urbanistica resistente nella Firenze neoliberista, perUnaltracittà 2004-2014, a cura di Ilaria Agostini, AIÒN edizioni 2016, €18,00.

Un’altra idea di città. L’urbanistica neoliberista provoca resistenza popolare. Alla rappresentazione ufficiale delle politiche urbane si contrappone, in queste pagine, il racconto corale e antagonista di cittadine e cittadini, comitati ed esperti critici, uniti a Firenze nel “Gruppo Urbanistica” che ha fornito il sostegno tecnico alla lista di cittadinanza “perUnaltracittà”[1], per due legislature all’opposizione in Consiglio comunale.

Due legislature, dal 2004 al 2014: anni in cui, a livello planetario, si accresce per poi deflagrare, la “bolla” edilizia. Favorita, in Italia, dalla diminuzione dei trasferimenti statali ai comuni e dall’opera demolitoria di Franco Bassanini che, a cavallo del millennio, da una parte incrementava a dismisura il potere nelle mani dei sindaci, mentre dall’altra rendeva possibile riversare gli oneri di fabbricazione nella spesa ordinaria dei comuni. Lo scivolamento progressivo dal welfare state al real estate si traduce in una nuova fase di cementificazione, interpretata a livello nazionale come unica risposta alla penuria di cassa dai comuni sempre più poveri. In epoca di dismissione industriale conclamata, l’economia peninsulare si orienta francamente sul mattone. La città diventa un grosso affare economico, i valori immobiliari aumentano e sulla loro crescita si fonda il consenso politico.

Il «lucido disegno derogatorio» perseguito dagli anni Novanta[2], corrobora l’attività speculativa nell’edilizia. La contrattazione pubblico-privato nel decennio è prassi consolidata che immediatamente si trasforma in arbitrio e che sistematicamente – e legalmente – piega l’interesse comune a quello dei particolari. Il mestiere dell’urbanista, puntualizzava recentemente Edoardo Salzano, si trasforma in «facilitatore delle operazioni immobiliari». Dal canto loro, strette nella morsa del sistema finanziario, le imprese edili – che accedono al credito sulla base del capitale fisso (ossia del costruito) – costruiscono per poter continuare a costruire: è un circolo vizioso. Con un milione di nuovi alloggi invenduti[3], il consumo di suolo in Italia doppia generosamente la media europea. Lo scenario muta quando nel 2008, facendo seguito alla crisi dei mutui subprime, il mercato immobiliare crolla e i prezzi al metro quadro arrivati alle stelle, cadono in picchiata.
- segue –