Risultato della ricerca: utopia

Bisogno di Pace!

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Il progetto costituente
Fermiamo subito tutte le guerre – Raniero la Valle a Campiglia Marittima
16/11/2024
Una saletta comunale colma di persone interessate ad ascoltare Raniero La Valle, pronte a condividere o dibattere il pensiero di un giovane novantatreenne che riesce a coinvolgere profondamente con la sua visione pacifista e razionale del mondo da, come si autodefinisce, “militante per la pace”
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In sintonia con gli amici di Costituente Terra, pubblichiamo il comunicato stampa del Comune di Campiglia Marittima sull’evento che si è tenuto il 14 novembre 2024.
RANIERO LA VALLE FA IL PIENO ALLA SALETTA COMUNALE DI VENTURINA TERME
Iniziativa di Costituente Terra per ripudiare la guerra da subito come unica via di salvezza per l’umanità
Una saletta comunale colma di persone interessate ad ascoltare Raniero La Valle, pronte a condividere o dibattere il pensiero di un giovane novantatreenne che riesce a coinvolgere profondamente con la sua visione pacifista e razionale del mondo da, come si autodefinisce, “militante per la pace”
Raniero La Valle, fondatore di Costituente Terra, deputato della sinistra indipendente per quattro legislature, intellettuale e scrittore, è stato invitato dal Circolo di Costituente Terra – Val di Cornia per dialogare sull’urgenza della pace globale e di un percorso che porti ad un nuovo ordinamento degli stati dove le guerre siano definitivamente escluse. Hanno aderito all’organizzazione numerose associazioni del comprensorio (*). Il Comune di Campiglia, rappresentato dalla sindaca Alberta Ticciati e dall’assessora alla pace Silvia Benedettini ha voluto dare il patrocinio all’iniziativa nel solco dell’attività di promozione di una cultura di pace avviato con l’istituzione dell’assessorato specifico e con una prima camminata tenuta con successo a fine settembre. La Valle ha apprezzato il clima di cordialità che ha percepito nella sala, perché, come ha detto, il primo modo in cui si manifesta la pace, è il rapporto tra le persone, quindi la disponibilità verso l’altro, l’ascolto, la gentilezza, la non aggressività, sono una condizione necessaria per costruire la pace, che non si può realizzare solo invocandola, ma occorre far sì, con la nostra azione quotidiana dal basso, che chi ci governa e chi ha il potere di decidere la persegua. L’intervento ricco di riferimenti storici e culturali, ha argomentato che la guerra, invenzione dell’uomo, può e deve essere ripudiata: oggi non è facile eliminarla perché le nostre culture ne sono permeate, ma se vogliamo che l’umanità abbia un futuro è necessario fermarla subito. Un obiettivo, un sogno, che potrebbe sembrare un’utopia, ma che in realtà, per l’alto rischio attuale di escalation verso la distruzione del genere umano l’utopia della pace è molto più praticabile e ragionevole del lasciare che le guerre prendano il sopravvento. Non dobbiamo lasciare che la guerra sia il principio regolatore del mondo perché una volta superato il limite della disumanità, rappresentato dalle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, siamo entrati in un’era in cui la guerra è un crimine, fuori dalla ragione e dal diritto e, se è sempre stata un orrore, oggi quell’orrore non ha neanche più regole, e nessun vincitore: solo distruzione. Le riflessioni sulle guerre russo-ucraina e israeliano-palestinese, hanno evidenziato le contraddizioni e le atrocità di conflitti armati di cui non si vede la fine, anche se le soluzioni potrebbero non essere così impossibili e lontane. La possibilità concreta di fermare le guerre e dare all’umanità la prospettiva di un futuro, la prospettiva che la storia possa continuare, è stata una finestra sulla speranza che Raniero La Valle ha aperto facendo respirare aria fresca e nuova a una platea in cui adulti e ragazzi si sono sentiti motivati ad agire. Molti gli interventi del pubblico, le domande, le riflessioni, da quelle più provocatorie alle dimostrazioni di stima e di gratitudine. L’incontro si è chiuso con la proposta di Raniero la Valle di costituire dei comitati per la pace e l’invito è stato subito accolto con la sottoscrizione di un elenco di adesioni. Inoltre, per il mese di gennaio, il Comune tramite l’assessora Benedettini si propone di costituire un tavolo della pace.
(*)Università Libera Val di Cornia, Consulta del sociale del Comune di Campiglia, Anpi Piombino-Campiglia, Spi Cgil, Arci Piombino Val di Cornia, Pubblica Assistenza Piombino, Legambiente Val di Cornia, Auser, Acat, Rete Radie Resch, Associazione Ruggero Toffolutti, Croce del Sud Commercio equo solidale, Circolo interculturale Samarcanda, Gruppo per la pace Massa Marittima, Libera.
COMUNE DI CAMPIGLIA MARITTIMA
Ufficio stampa: Luciana Grandi email: l-grandi@comune.campigliamarittima.li.it cell. 3338760991 – whatsapp 3892792777
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Save the date – Punta de billete – Prendi nota.
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Documentazione
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https://m.youtube.com/watch?v=5LXG1cOgmBQ
Luigi Ferrajoli

Lettera di Papa Francesco a Costituente Terra: “No es una utopía”

img_8281La lettera di Papa Francesco a “Costituente Terra”

Pubblichiamo la lettera di Papa Francesco ai partecipanti al convegno “Il problema della guerra e le vie della pace”
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22 MAGGIO 2024 / COSTITUENTE TERRA / L’UNITÀ UMANA /

Francesco scrive a Costituente. E le sue parole rievocano speranza e determinazione. Dice “No es una utopía”

Riportiamo la versione tradotta in italiano e la versione originale spagnola della lettera di Papa Francesco alla nostra Associazione

Me complace conocer la realización de este encuentro y el trabajo conjunto que vienen realizando para dar vida a un constitucionalismo global.

El derecho es una práctica y una herramienta. Condensa valores que pueden ser muy caros a nuestros sentimientos, claro, per realmente sirve en la medida en que es efectivo y genera cambios en el mundo. Las catástrofes descriptas por el profesor Ferrajoli y sobre las que tantas veces alertamos, demuestran que se acaba el tiempo y que es necesario trabajar en acciones concretas. Acuerdos vinculantes a nivel global sobre el cuidado mutuo son necesarios para contener los peligros que también a nivel global la propria acción del hombre ha y sigue generando. Ninguno debe sentirse extraño frente a lo que sucede en nuestra casa común. Ahí es donde el derecho debe actuar y hacerse efectivo, diferenciándose de las meras declaraciones. Como dijimos: “El bien, como también el amor, la justicia y la solidaridad, no se alcanzan de una vez para siempre; han de ser conquistados cada día”.

Me alegra que estén trabajando sobre una propuesta de Constitución de la Tierra y que estén pensando en esa eficacia cada vez más dramáticamente necesaria para asegurar el bien común. Es imperioso alcanzar “organizaciones mundiales más eficaces, dotadas de autoridad para asegurare el bien común mundial, la erradicación del hambre y la miseria, y la defensa cierta de los derechos humanos elementales”.

El derecho romano transmitió al mundo el principio alterum non laedere. Los animo a que lo completen en un hacer por el otro y hagamos juntos realidad el sueño mundial de hermandad. No es una utopía. Piensen también en la periferia porque “cuando la sociedad – local, nacional o mundial – abandona en la periferia una parte de sí misma, no habrá programas políticos ni recursos policiales o de inteligencia que puedan asegurar indefinidamente la tranquilidad”. Los despidos con la alegría de ver detrás de este encuentro y en el compromiso de todos ustedes la esperanza que acompaña a los grandes ideales. Os bendigo de corazón.

Vaticano, 20 de mayo de 2024

FRANCISCO

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Mi fa piacere la notizia della realizzazione di questo incontro e del lavoro che con esso si viene realizzando, al fine di dar vita a un costituzionalismo globale.

Il diritto è una pratica e uno strumento. Incorpora valori che, è chiaro, possono ben corrispondere ai nostri sentimenti. Ma esso serve veramente soltanto nella misura in cui è effettivo e genera cambiamenti nella realtà del mondo. Le catastrofi descritte dal prof. Ferrajoli, sulle quali tante volte abbiamo espresso il nostro allarme, ci dicono che non c’è più tempo e che è necessario impegnarsi in azioni concrete. Per fronteggiare i pericoli di carattere globale, che l’azione stessa degli uomini ha generato e continua a generare, sono necessari accordi effettivamente vincolanti di mutuo soccorso. Nessuno deve sentirsi estraneo a ciò che succede nella nostra casa comune. E’ così che il diritto deve attuarsi e rendersi effettivo, differenziandosi dalle mere dichiarazioni di principio. “Al pari dell’amore”, abbiamo detto, “anche la giustizia e la solidarietà non si raggiungono una volta per sempre ma vanno conquistate giorno per giorno”.

Mi fa piacere che si stia lavorando al progetto di una Costituzione della Terra e che si stia pensando alla sua efficacia, sempre più drammaticamente necessaria per assicurare il bene comune. E’ doveroso pervenire a “organismi mondiali più efficaci, dotati dell’autorità necessaria per garantire il bene comune mondiale, lo sradicamento della fame e della miseria e l’effettiva difesa dei diritti umani elementari”.

Il diritto romano trasmise al mondo il principio alterum non laedere. Vi invito a completarlo con il principio agire a favore degli altri, affinché tutti insieme possiamo realizzare il sogno mondiale della fraternità. Non è un’utopia. Pensiamo alla periferia del mondo, perché “quando la società – locale, o nazionale o globale – abbandona nella periferia una parte di se stessa, non ci saranno programmi politici né misure di polizia che possano garantire a lungo la sicurezza”.

Concludo esprimendo la gioia di vedere, dietro questo incontro e nell’impegno di tutti voi, la speranza che accompagna i grandi ideali. Vi benedico di cuore.

Vaticano, 20 maggio 2024

FRANCESCO

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Lettera all’Unione Europea del Card. Matteo Maria Zuppi, Presidente della CEI, e di Mons. Mariano Crociata, Presidente della COMECE, in occasione della Giornata dell’Europa 2024 e in vista delle prossime elezioni

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Lettera all’Unione Europea

[Dal sito web della CEI] Pubbichiamo la Lettera all’Unione Europea del Card. Matteo Maria Zuppi, Presidente della CEI, e di Mons. Mariano Crociata, Presidente della COMECE, in occasione della Giornata dell’Europa 2024 [9 maggio 2024] e in vista delle prossime elezioni europee [8-9 giugno 2024] .

Cara Unione Europea,

darti del tu è inusuale, ma ci viene naturale perché siamo cresciuti con te. Sei una, sei “l’Europa”, eppure abbracci ben 27 Paesi, con 450 milioni di abitanti, che hanno scelto liberamente di mettersi insieme per formare l’Unione che sei diventata. Che meraviglia! Invece di litigare o ignorarsi, conoscersi e andare d’accordo! Lo sappiamo: non sempre è facile, ma quanto è decisivo, invece di alzare barriere e difese, cancellarle e collaborare. Tu sei la nostra casa, prima casa comune. In questa impariamo a vivere da “Fratelli Tutti”, come ha scritto un tuo figlio i cui genitori andarono fino alla “fine del mondo” per cercare futuro.

Nel cuore un desiderio

Ti scriviamo perché abbiamo nel cuore un desiderio: che si rafforzi ciò che rappresenti e ciò che sei, che tutti impariamo a sentirti vicina, amica e non distante o sconosciuta. Ne hai bisogno perché spesso si parla male di te e tanti si scordano quante cose importanti fai! Durante il COVID lo abbiamo visto: solo insieme possiamo affrontare le pandemie. Purtroppo, lo capiamo solo quando siamo sopraffatti dalle necessità, per poi dimenticarlo facilmente! Così, quando pensiamo che possiamo farcela da soli finiamo tutti contro tutti.

Dagli inizi ad oggi

Non possiamo dimenticare come prima di te, per secoli, abbiamo combattuto guerre senza fine e milioni di persone sono state uccise. Tutti i sogni di pace si sono infranti sugli scogli di guerre, le ultime quelle mondiali, che hanno portato immense distruzioni e morte. Proprio dalla tragedia della Seconda guerra mondiale – che ha toccato il male assoluto con la Shoah e la minaccia alla sopravvivenza dell’umanità intera con la bomba atomica – è nato il germe della comunità di Paesi sovrani che oggi è l’Unione Europea. C’è stato chi ha creduto che le nazioni non fossero destinate a combattersi, che dopo tanto odio si potesse imparare a vivere assieme. Tra quelli che ti hanno pensata e voluta non possiamo dimenticare Robert Schuman, francese, Konrad Adenauer, tedesco, e Alcide De Gasperi, italiano: animati dalla fede cristiana, essi hanno sentito la chiamata a creare qualcosa che rendesse impossibile il ritorno della guerra sul suolo europeo. Hanno pensato con intelligenza, ambizione e coraggio. Non sono mancati momenti difficili, ma la forza che viene dall’unità ha mostrato il valore del cammino intrapreso e la possibilità di correggere, aggiustare, intendersi.
La Comunità Europea venne concepita nel 1951 attorno al carbone e all’acciaio, materie allora indispensabili per fare la guerra, per prevenire ogni velleità di farne uso ancora una volta l’uno contro l’altro. In realtà quei tre grandi uomini, e tanti altri con loro, hanno cercato di più, e cioè la riconciliazione tra i popoli e la cancellazione degli odi e delle vendette.
Trovare qualcosa su cui lavorare insieme, anche solo sul piano economico, come dimostrano i Trattati firmati a Roma nel 1957, è stato l’inizio di un cammino che ha visto poco alla volta nuovi popoli entrare nella Comunità e, dopo la caduta del muro di Berlino, nel 1989, il cambiamento del nome, nel 1992, in Unione Europea, e l’allargamento, nel 2004, ai Paesi dell’allora Patto di Varsavia, ben dieci in una volta. I problemi non sono mancati, ma quanto sono stati importanti la moneta unica e l’abbattimento delle barriere nazionali per la libera circolazione delle persone e delle merci! Ultimo, l’accordo sulla riforma con il Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel 2009.

Il senso dello stare insieme

Cara Unione Europea, sei un organismo vivo, perciò forse viene il momento per nuove riforme istituzionali che ti rendano sempre più all’altezza delle sfide di oggi. Ma non puoi essere solo una burocrazia, pur necessaria per far funzionare organizzazioni così complesse come quella che sei diventata. Direttive e regolamenti da soli non fanno crescere la coesione. Serve un’anima! In questi anni abbiamo visto compiere passi avanti significativi, quando per esempio hai accompagnato alcuni Paesi a superare le crisi economiche, ma abbiamo anche dovuto registrare fasi di stallo e difficoltà. E queste crescono quando smarriamo il senso dello stare insieme, la visione del nostro futuro condiviso, o facciamo resistenza a capire che il destino è comune e che bisogna continuare a costruire un’Europa unita.

Il ritorno della guerra

Perciò, qualche volta ci chiediamo: Europa, dove sei? Che direzione vuoi prendere? Sono questi anche gli interrogativi del Papa: «Guardando con accorato affetto all’Europa, nello spirito di dialogo che la caratterizza, verrebbe da chiederle: verso dove navighi, se non offri percorsi di pace, vie creative per porre fine alla guerra in Ucraina e ai tanti conflitti che insanguinano il mondo? E ancora, allargando il campo: quale rotta segui, Occidente?» (Discorso, Lisbona, 2 agosto 2023).
In tutti questi anni siamo molto cambiati e facciamo fatica a capire e a tenere vivo lo spirito degli inizi. Dopo un così lungo periodo di pace abbiamo pensato che una guerra su territorio europeo sarebbe stata ormai impossibile. E invece gli ultimi due anni ci dicono che ciò che sembrava impensabile è tornato. Abbiamo bisogno di riprendere in mano il progetto dei padri fondatori e di costruire nuovi patti di pace se vogliamo che la guerra contro l’Ucraina finisca, e che finisca anche la guerra in corso in Medio Oriente, scoppiata a seguito dell’attacco terroristico del 7 ottobre scorso contro Israele, e con essa l’antisemitismo, mai sconfitto e ora riemergente. Lo dice così bene anche la nostra Costituzione italiana: è necessario combattere la guerra e ripudiarla per davvero!
Se non si ha cura della pace, rischia sempre di tornare la guerra. Lo diceva Robert Schuman nella sua Dichiarazione del 9 maggio 1950, che ha dato avvio al processo di integrazione europea: «L’Europa non è stata fatta: abbiamo avuto la guerra». Egli si riferiva al passato, ma le sue parole valgono anche oggi. L’unità va cercata come un compito sempre nuovo e urgente. Non dobbiamo aspettare l’esplosione di un altro conflitto per capirlo!

Il ruolo internazionale e la tentazione dei nazionalismi

Che ruolo giochi, Europa, nel mondo? Vogliamo che tu incida e porti la tua volontà di pace, gli strumenti della tua diplomazia, i tuoi valori. Risveglia la tua forza così da far sentire la tua voce, così da stabilire nuovi equilibri e relazioni internazionali. Le tue divisioni interne non ti permettono di assumere quel ruolo che dalla tua statura storica e culturale ci si aspetterebbe. Non vedi il rischio che le tue contrapposizioni intestine indeboliscano non solo il tuo peso internazionale ma anche la capacità di far fronte alle attese dei tuoi popoli?
Tanti pensano di potere usufruire dei benefici che tu hai indubbiamente portato, come se fossero scontati e niente possa comprometterli. La pandemia o le periodiche proteste, ultima quella degli agricoltori, ci procurano uno sgradevole risveglio. Capiamo che tanti vantaggi acquisiti potrebbero svanire. Il senso della necessità però non basta a spingere sempre e tutti a superare le divisioni. Alcuni vogliono far credere che isolandosi si starebbe meglio, quando invece qualunque dei tuoi Paesi, anche grande, si ridurrebbe fatalmente al proverbiale vaso di coccio tra vasi di ferro. Per stare insieme abbiamo bisogno di motivazioni condivise, di ideali comuni, di valori apprezzati e coltivati. Non bastano convenienze economiche, poiché alla lunga devono essere percepite le ragioni dello stare insieme, le uniche capaci di far superare tensioni e contrasti che proprio gli interessi economici portano con sé nel loro fisiologico confrontarsi.
Ha detto Papa Francesco: «In questo frangente storico l’Europa è fondamentale. Perché essa, grazie alla sua storia, rappresenta la memoria dell’umanità ed è perciò chiamata a interpretare il ruolo che le corrisponde: quello di unire i distanti, di accogliere al suo interno i popoli e di non lasciare nessuno per sempre nemico. È dunque essenziale ritrovare l’anima europea» (Discorso, Budapest, 28 aprile 2023).
Vorremmo che tutti sentissimo l’orgoglio di appartenerti, Europa. Oggi appare distante, a volte estraneo, tutto ciò che sta oltre i confini del proprio Paese. Eppure, le due appartenenze, quella nazionale e quella europea, si implicano a vicenda. La tua è stata fin dall’inizio l’Unione di Paesi liberi e sovrani che rinunciavano a parte della loro sovranità a favore di una, comune, più forte. Perciò non si tratta di sminuire l’identità e la libertà di alcuno, ma di conservare l’autonomia propria di ciascuno in un rapporto organico e leale con tutti gli altri.

Valori europei e fede cristiana

Le nostre idee e i nostri valori definiscono il tuo volto, cara Europa. Anche in questo la fede cristiana ha svolto un ruolo importante, tanto più che dal suo sentire è uscito il progetto e il disegno originario della tua Unione. Come cristiani continuiamo a sentirne viva responsabilità; e del resto troviamo in te tanta attenzione alla dignità della persona, che il Vangelo di Cristo ha seminato nei cuori e nella tua cultura. Soffriamo non poco, perciò, nel vedere che hai paura della vita, non la sai difendere e accogliere dal suo inizio alla sua fine, e non sempre incoraggi la crescita demografica.
«Penso – dice il Papa – a un’Europa che non sia ostaggio delle parti, diventando preda di populismi autoreferenziali, ma che nemmeno si trasformi in una realtà fluida, se non gassosa, in una sorta di sovranazionalismo astratto, dimentico della vita dei popoli. […] Che bello invece costruire un’Europa centrata sulla persona e sui popoli, dove vi siano politiche effettive per la natalità e la famiglia […], dove nazioni diverse siano una famiglia in cui si custodiscono la crescita e la singolarità di ciascuno» (Discorso, Budapest, 28 aprile 2023).

Il tema dei migranti e le sue implicazioni

Cara Europa, tu non puoi guardare solo al tuo interno. Non si può vivere solo per stare bene, ma stare bene per aiutare il mondo, combattere l’ingiustizia, lottare contro le povertà. Ormai da decenni sei il punto di arrivo, il sogno di tante persone migranti che da diversi continenti cercano entro i tuoi confini una vita migliore. Tanti vogliono raggiungerti perché sono alla ricerca disperata di un futuro. E molti, con il loro lavoro, non ti aiutano forse già a prepararne uno migliore? Non si tratta di accogliere tutti, ma che nessuno perda la vita nei “viaggi della speranza” e tanti possano trovare ospitalità. Chi accoglie genera vita! L’Italia è spesso lasciata sola, come se fosse un problema solo suo o di alcuni, ma non per questo deve chiudersi. Prima o poi impareremo che le responsabilità, comprese quelle verso i migranti, vanno condivise, per affrontare e risolvere problemi che in realtà sono di tutti.
Tu rappresenti un punto di riferimento per i Paesi mediterranei e africani, un bacino immenso di popoli e di risorse nella prospettiva di un partenariato tra uguali. Compito essenziale perché in realtà un soggetto sovranazionale come l’Unione non può sussistere al di fuori di una reciprocità di relazioni internazionali che ne dicano il riconoscimento e il compito storico, e che promuovano il comune progresso sociale ed economico nel segno dell’amicizia e della fraternità.

Compiti e sfide

Cara Europa, è tempo di un nuovo grande rilancio del tuo cammino di Unione verso una integrazione sempre più piena, che guardi a un fisco europeo che sia il più possibile equo; a una politica estera autorevole; a una difesa comune che ti permetta di esercitare la tua responsabilità internazionale; a un processo di allargamento ai Paesi che ancora non ne fanno parte, garanzia di una forza sempre più proporzionata all’unità che raccogli ed esprimi. Le esigenze di innovazione economica e tecnica (pensiamo all’Intelligenza Artificiale), di sicurezza, di cura dell’ambiente e di custodia della “casa comune”, di salvaguardia del welfare e dei diritti individuali e sociali, sono alcune delle sfide che solo insieme potremo affrontare e superare. Non mancano purtroppo i pericoli, come quelli che vengono dalla disinformazione, che minaccia l’ordinato svolgimento della vita democratica e la stessa possibilità di una memoria e di una storia non falsate.
Insieme alle riforme istituzionali democraticamente adottate, c’è bisogno di far crescere un sentire comune, un apprezzamento condiviso dei valori che stanno alla base della nostra convivenza nell’Unione Europea. Ci vuole un nuovo senso della cittadinanza, un senso civico di respiro europeo, la coscienza dei popoli del continente di essere un unico grande popolo. Ne siamo convinti: è innanzitutto questo senso di comunità di cittadini e di popoli che ci chiedi di fare nostro, cara Europa.

Le prossime elezioni

Le prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo e la nomina della Commissione Europea sono l’occasione propizia e irripetibile, da cogliere senza esitazione. Purtroppo, a farsi valere spesso sono le paure e il senso di insicurezza di fronte alle difficoltà. Anche questo andrebbe raccolto e ascoltato per mostrare come proprio tu sia lo strumento e il luogo per affrontare e vincere paure e minacce.
Facciamo appello, perciò, a tutti, candidati e cittadini, a cominciare dai sedicenni che per la prima volta in alcuni Paesi andranno a votare, perché sentano quanto sia importante compiere questo gesto civico di partecipazione alla vita e alla crescita dell’Unione. Non andare a votare non equivale a restare neutrali, ma assumersi una precisa responsabilità, quella di dare ad altri il potere di agire senza, se non addirittura contro, la nostra libertà. L’assenteismo ha l’effetto di accrescere la sfiducia, la diffidenza degli uni nei confronti degli altri, la perdita della possibilità di dare il proprio contributo alla vita sociale, e quindi la rinuncia ad avere capacità e titolo per rendere migliore lo stare insieme nell’Unione Europea.
L’augurio che ti facciamo, cara Unione Europea, è che questa tornata elettorale diventi davvero un’occasione di rilancio, un risveglio di entusiasmo per un cammino comune che contiene già, in sé e nella visione che proietta, un senso vivo di speranza e di impegno motivato e convinto da parte dei tuoi cittadini.

Un nuovo umanesimo europeo

Sogniamo perciò ancora con Papa Francesco: «Con la mente e con il cuore, con speranza e senza vane nostalgie, come un figlio che ritrova nella madre Europa le sue radici di vita e di fede, sogno un nuovo umanesimo europeo, “un costante cammino di umanizzazione”, cui servono “memoria, coraggio, sana e umana utopia”» (Discorso, Vaticano, 6 maggio 2016).

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Europa, Europa

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Europa, Europa: dove vai?
Alfonso Gianni
La costruzione di un sistema di guerra nella Ue

Ora se nel mondo c’è una cosa che conviene affrontare con esitazione – ma che dico, che bisogna in tutti i modi evitare, scongiurare, tenere lontana – di sicuro è la guerra: non c’è iniziativa più empia e dannosa, più largamente rovinosa, più persistente e tenace, più squallida e nell’insieme più indegna di un uomo, per non dire di un cristiano. Invece – chi lo crederebbe? – oggi si entra in guerra di qua, di là, dappertutto, con estrema leggerezza, per le ragioni più futili; e la condotta di guerra è caratterizzata da un’estrema crudeltà e barbarie.
Erasmo da Rotterdam

Sono trascorsi cinque secoli abbondanti da quando le parole del grande intellettuale olandese, poste in esergo, uscirono a stampa dai torchi di Aldo Manuzio. Se può esserci ancora qualche dubbio sulla validità delle teorie sul progresso più o meno lineare della civiltà umana, la loro falsificazione trova conferma nei terribili avvenimenti di questi ultimi mesi. La guerra continua, si incancrenisce e si allarga. I vari pezzetti della guerra mondiale descritta da papa Francesco, si congiungono tra loro in un mostruoso puzzle. Da ultimo Israele conduce un attacco “mirato” contro il consolato iraniano a Damasco, uccidendo comandanti dei “guardiani della rivoluzione”; l’Iran riempie il cielo di droni e missili; aerei statunitensi, francesi e britannici, unitamente a quelli israeliani, si alzano in volo per abbatterli. Nel contempo la guerra “dimenticata” in Sudan assomma un bilancio di 12mila morti e oltre sette milioni di sfollati. Ogni appello alla moderazione, per non dire alla trattativa e alla pace, viene immediatamente travolto, per quanto sia alto lo scranno dal quale è stato rivolto.
L’anonima sentenza latina, Si vis pacem para bellum, che ingenuamente consideravamo ormai persino impensabile, esce con sempre maggiore frequenza dalla bocca dei leader europei. Fra questi non poteva mancare Giorgia Meloni che ha voluto fare sfoggio di cultura, pronunciandola nel febbraio del 2022, pochi giorni dopo l’invasione russa dell’Ucraina, davanti ad una platea di conservatori riuniti in Florida per l’annuale Conservative Political Action Conference (Cpac), per poi ripeterla in altre più recenti occasioni nella veste di Presidente del Consiglio. La stessa frase, per quanto abusata, è stata utilizzata dall’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrel, nel commentare il documento conclusivo emerso dal Consiglio europeo del 21-22 marzo. E non si può certo dire che si sia trattato di un uso improprio.
Per quanto trita e ritrita la vecchia sentenza è in grado di fare da sintesi di quanto si è detto e deciso in quella riunione, che può ben dirsi essere propria di un Consiglio di guerra. Una riunione, cui seguirà quella di metà aprile dedicata ai temi dell’economia, che è solo un passaggio dentro una escalation di decisioni e comportamenti che conducono l’Europa in un’unica direzione: la guerra. Il passaggio da una “guerra grande” – come l’ha denominata Limes -, da una guerra “allargata” – come l’ha definita Alberto Negri guardando al teatro mediorientale – dalla più volte citata guerra mondiale a pezzetti secondo la celebre definizione di papa Francesco, ad una guerra globale vera e propria, tale da non escludere l’uso di armi nucleari, non è più solo una distopia.

Le conclusioni del Consiglio europeo
Quanto deciso nel recente Consiglio europeo non basta. Lo ha detto con chiarezza il premier polacco Donald Tusk, uscito vincitore dalle elezioni dello scorso ottobre, che in una intervista rilasciata a diversi quotidiani europei, fra cui un quotidiano italiano, avverte che la guerra è “alle porte”, che per la prima volta dal 1945 non è più un concetto del passato ma è un fatto “reale”, che dunque “dobbiamo abituarci mentalmente all’arrivo di una nuova era. L’era prebellica.” Rispetto alla quale però la Ue non è ancora pronta e quindi bisognerebbe fare di più, anche rispetto alle decisioni del Consiglio europeo di marzo.
Eppure quelle decisioni non sono lievi. Basta scorrere il documento conclusivo per accorgersene, al di là di qualche espressione retorica o fumosa, che appare proprio per questo inquietante per quello che può nascondere e per quello che ci aspetta. Per quanto riguarda il fronte russo-ucraino il testo non fa il pur minimo accenno alla possibilità di cessare il fuoco, di aprire una trattativa, di muoversi in una direzione di pace. Quest’ultimo termine non compare mai, se non con un significato completamente stravolto, si potrebbe dire, con ironico cinismo. Infatti il Consiglio europeo chiede di lavorare all’ottavo pacchetto di sostegno per l’Ucraina nell’ambito dello strumento europeo per la pace. Invita a prendere in considerazione la possibilità di “destinare a beneficio dell’Ucraina, compresa la possibilità di finanziare il sostegno militare, le entrate straordinarie derivanti dai beni russi bloccati”, quindi superando i dubbi sollevati anche da commentatori mainstream sul rischio che un simile atto porti un indesiderato scompiglio nelle “regole” che tutelano il mercato e il movimento dei capitali. Spinge per un rafforzamento ed una piena attuazione delle sanzioni alla Russia, anche colpendo paesi terzi che ne facilitano l’elusione. Pur nella impossibilità di impedirlo totalmente – rendendosi conto della complessità e dell’intreccio degli interessi economici in gioco – il documento raccomanda di limitare “al massimo” l’accesso della Russia “a prodotti e tecnologie sensibili che hanno rilevanza nel campo di battaglia”. Ribadisce la richiesta agli Stati membri di aumentare la spesa militare. Prospetta apertamente l’utilizzo della Banca europea per gli investimenti per fornire risorse e strumentazione finanziaria al fine di supportare l’ingente aumento delle spese belliche.
Come si vede le previsioni e gli strumenti di intervento economico si concentrano sulle spese militari. Con un facile, quanto terribile, scambio di consonanti, i famosi Eurobond, di cui si era tanto parlato, si tramutano di colpo in Eurobomb. E’ l’intero sistema delle imprese europee che deve rispondere alle nuove esigenze belliche. Lo chiariscono in particolare tre punti importanti sottolineati dal documento conclusivo. Il primo riguarda l’incentivazione della “ulteriore integrazione del mercato europeo della difesa in tutta l’Unione, agevolando l’accesso alle catene di approvvigionamento della difesa, in particolare per le Pmi e le società a media capitalizzazione, riducendo la burocrazia”. Il secondo punto riguarda la necessità di “garantire che la regolamentazione dell’Ue non costituisca un ostacolo allo sviluppo dell’industria della difesa”. Il terzo invita a “investire nella manodopera qualificata per fare fronte alle prevalenti carenze di manodopera e di competenze nell’industria della difesa”. Quindi via tutti i rimanenti lacci e lacciuoli ed ogni regolamentazione d’impaccio al fare presto se non subito. Il tutto – si preoccupano di precisare gli estensori del documento – deve risultare “complementare alla Nato, che rimane il fondamento della difesa collettiva per i suoi membri”

Come era considerata nel mondo la Ue
La puntualizzazione è tutt’altro che rituale, anche perché la costruzione di un simile sistema di guerra europeo mal si acconcia con la definizione un po’ riduttiva di Wolfgang Streeck per cui l’Ue sarebbe semplicemente “un ausiliario economico della Nato”. Appare più convincente dal punto di vista dell’analisi dinamica delle forze in campo la conclusione cui perviene Lucio Caracciolo e cioè che il ruolo della Nato e quello della Ue tendono negli ultimi anni a sovrapporsi, come risulta ancora più evidente in relazione al conflitto russo-ucraino. L’una prepara il terreno per l’avanzata dell’altra e viceversa. Anche se lascia un po’ straniti l’idea che Caracciolo ha recentemente avanzato, quella di “un’intesa bilaterale speciale fra Italia e Stati Uniti” al fine di tenere il nostro paese “sopra la linea di galleggiamento durante la Guerra Grande e prefigurare equilibri meno instabili nell’immediato dopoguerra”. Una idea che lo stesso autorevole direttore di Limes definisce “controintuitiva” e rispetto alla quale sollecita egli stesso “critiche e controproposte”. Ma prima è forse opportuno fare qualche passo indietro.
Certamente la guerra russo-ucraina non ha solo risuscitato la Nato da una condizione che aveva autorizzato Macron a stilare un affrettato certificato di morte cerebrale, ma ha messo in moto un’accelerazione dell’armamento europeo ad ogni livello. Tuttavia sarebbe sbagliato cogliere solo la tempistica di quest’ultima vigorosa corsa alle armi e non vederne i passaggi precedenti, pur se più lenti nel loro svolgersi, nel corso dei quali l’Ue è riuscita persino ad abbattere l’immagine che si era fatta nel mondo. Anche se si trattava di un’immagine più dettata da un forte wishful thinking che da una rigorosa analisi del processo di costruzione dell’Unione europea.
Per un non breve periodo in America latina molti vedevano nell’Europa la proiezione dei propri desideri di costruire l’utopia bolivariana, dove contrasti e confini sarebbero stati superati da intese politiche ed economiche nel nome del Sud del mondo. Se ne ha prova leggendo, in un recente libro, le parole dell’ex presidente uruguayano José “Pepe” Mujica, che manifesta il suo stupore e il suo spavento per l’impotenza dell’Europa di fronte al conflitto russo-ucraino: “Quello che più mi spaventa è l’impotenza dell’Europa, che è diventata un polo senza alcun potere decisionale autonomo. È incredibile. Ovviamente, la pace in Europa avrebbe dovuto includere la Russia e non segregarla, e invece quello che hanno fatto è stato spingerla dall’altra parte, la stanno regalando alla Cina. Da un punto di vista geopolitico, sono dei salami [ride], dei salami… Sì. Sono sbalordito dal declino politico dell’Europa, al punto da guardare con «nostalgia», tra virgolette, ai vecchi conservatori europei, che almeno vedevano un po’ più lungo e avevano un po’ più di dignità. Proprio come De Gaulle, il quale pensava che l’Europa dovesse arrivare fino agli Urali e intuì che un processo di pace doveva inevitabilmente includere anche la Russia all’interno dell’Europa. La stupida rottura da parte della Nato del Patto di Varsavia fu un passo privo della benché minima lungimiranza politica. Penso anche che, dietro tutto questo, vi sia una sorta di duello in cui gli Stati Uniti temono di perdere la supremazia a favore della Cina.”

Le radici del processo di militarizzazione europeo
E’ bene quindi non dimenticare che l’attuale fase di intensa militarizzazione della Ue che stiamo attraversando in questo sciagurato presente, affonda le sue radici in alcune tappe fondamentali che hanno determinato la costituzione materiale dell’unità europea. Una buona e non trascurabile parte del prolisso Trattato di Maastricht del 1992 è costituita dalla cosiddetta nuova Politica estera di sicurezza comune (Pesc). Una manciata di anni dopo, il Trattato di Amsterdam istituì il ruolo di Alto rappresentante per la Pesc. Il primo a ricoprire tale carica fu Javier Solana, che la condusse per dieci anni fino al 2009, dopo essere stato Segretario generale della Nato tra il 1995 e il 1999, incarnando così la fluidità delle cariche apicali fra Ue e Nato.
Il vero banco di prova delle effettive capacità della Ue di intervenire sullo scenario internazionale per mettere in atto quei principi e quei valori di pace, libertà, giustizia e democrazia così enfaticamente richiamati nei suoi atti costitutivi e ancor più nelle dichiarazioni dei suoi massimi esponenti, furono senz’altro le tragiche vicende dei Balcani a cavallo del secolo. E fu un disastro. Le parole di Perry Anderson esprimono un giudizio tanto severo quanto giusto e inequivocabile: “Beneficiaria della Pax americana piuttosto che progenitrice della stessa, l’Unione ha affrontato la sua prima prova come vero e proprio custode della pace in Europa dopo la guerra fredda. Fallì miseramente, non impedendo ma alimentando la guerra nei Balcani, poiché la Germania appoggiò la secessione slovena dalla Jugoslavia, il colpo che innescò i successivi conflitti omicidi che la Ue, trascinata sulla scia di Helmut Kohl, si dimostrò incapace di moderare o di far cessare. Ancora una volta non è stata Bruxelles, ma Washington a decidere finalmente il destino della regione. Anche l’allargamento dell’Unione agli ex paesi del Patto di Varsavia, la sua grande conquista storica, ha seguito le orme degli Stati Uniti, la loro inclusione nella Nato prima del loro ingresso nella Ue”

I bombardamenti sulla Serbia
Infatti l’intervento aereo contro la Serbia costituì una rottura delle già fragili regole che in qualche modo caratterizzavano l’ordine mondiale di allora. A tal punto che un fine giurista come Luigi Ferrajoli poteva mettere in fila tutte le violazioni che venivano commesse nei confronti di Costituzioni, Trattati, Carte costitutive, Convenzioni, fino a profilare una sorta di colpo di stato internazionale: “Innanzitutto la violazione della Costituzione italiana che all’articolo 11 bandisce la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali e all’articolo 78 richiede che la guerra (di difesa) sia deliberata dalle Camere. In secondo luogo la violazione della Carta dell’Onu, che non solo vieta la guerra ma prescrive ‘mezzi pacifici’ volti ‘a conseguire la composizione e la soluzione delle controversie internazionali, a cominciare dal negoziato ad oltranza … In terzo luogo la violazione del trattato istitutivo della Nato, che configura l’alleanza come esclusivamente difensiva e vincolata alla carta dell’Onu … In quarto luogo [la violazione] dello statuto della Corte penale internazionale … Infine le violazioni delle convenzioni di Ginevra, in base alle quali sono crimini di guerra i bombardamenti delle popolazioni civili”.
Tutto ciò, è bene ribadirlo, non sarebbe potuto avvenire senza la direzione diretta, non solo supervisione, da parte degli Usa. Come ha giustamente sottolineato Domenico Gallo “Il retroterra dell’attacco dell’Alleanza atlantica alla Serbia, scattato il 24 marzo 1999, era costituito dal nuovo ruolo strategico militare che gli Stati Uniti avevano concepito per la Nato dopo la fine della Guerra fredda”.
Per quanto riguarda il nostro paese il via libera all’utilizzo delle basi italiane per il decollo dei bombardieri, venne offerto dal governo D’Alema. L’insieme dell’operazione venne guidata da Francesco Cossiga che riteneva che la sinistra, quella rappresentata allora dai Ds, avrebbe fatto cose che neppure la destra avrebbe potuto compiere senza provocare e attirarsi contro, se non una sollevazione popolare, certamente una lunga e forte contrapposizione nelle istituzioni e soprattutto nelle piazze. Lo dice esplicitamente Carlo Scognamiglio, allora ministro della Difesa, in una dichiarazione a un quotidiano, in polemica con James Rubin, ex portavoce di Madeleine Albright : “A Rubin sfugge che in Italia avevamo dovuto cambiare governo proprio per fronteggiare gli impegni politico-militari che si delineavano … Prodi ad ottobre aveva espresso una disponibilità di massima all’uso delle basi italiane, ma per la presenza di Rifondazione nella sua maggioranza non avrebbe potuto impegnarsi in azioni militari. Per questo il senatore Cossiga ed io ritenemmo che occorreva un accordo chiaro con l’on. D’Alema” e l’accordo in sintesi si articolava in due parti: “la prima era il rispetto dell’impegno per l’euro […] la seconda era il vincolo di lealtà alla Nato: l’Italia avrebbe dovuto fare esattamente ciò che la Nato avrebbe deciso di fare”. E così fu.
La guerra dei Balcani convinse le elite europee che era necessario imprimere una nuova svolta nel campo della difesa comune, naturalmente senza uscire dal quadro della sudditanza nei confronti della Nato e degli Usa. Così nel 2004 nasce L’Agenzia europea per la difesa (Aed), attualmente presieduta da Josep Borrel con sede a Bruxelles, il cui compito è quello di permettere ai 27 Stati membri dell’Ue di sviluppare le loro risorse militari, di stabilire accordi anche con paesi extra Ue (come è avvenuto per Norvegia, Serbia, Svizzera e Ucraina), avendo concluso un accordo amministrativo con il dipartimento della Difesa degli Stati Uniti che prevede una maggiore cooperazione transatlantica nel campo della difesa in settori specifici, compreso lo scambio di informazioni. [segue]

Verso il 25 aprile. L’Italia è una repubblica democratica antifascista

img_6801Ecco il testo integrale del monologo di Antonio Scurati sul 25 aprile che lo scrittore avrebbe dovuto portare a “Che sarà” e censurato dalla Rai.

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Da leggere, rileggere, studiare e, soprattutto, condividere in ogni modo e con ogni mezzo, fare arrivare lontano, alla faccia di questa destra miserabile e neofascista che crede di poter cancellare la Storia.
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“Giacomo Matteotti fu assassinato da sicari fascisti il 10 di giugno del 1924.
Lo attesero sotto casa in cinque, tutti squadristi venuti da Milano, professionisti della violenza assoldati dai più stretti collaboratori di Benito Mussolini. L’onorevole Matteotti, il segretario del Partito Socialista Unitario, l’ultimo che in Parlamento ancora si opponeva a viso aperto alla dittatura fascista, fu sequestrato in pieno centro di Roma, in pieno giorno, alla luce del sole. Si batté fino all’ultimo, come lottato aveva per tutta la vita. Lo pugnalarono a morte, poi ne scempiarono il cadavere. Lo piegarono su se stesso per poterlo ficcare dentro una fossa scavata malamente con una lima da fabbro.

Mussolini fu immediatamente informato. Oltre che del delitto, si macchiò dell’infamia di giurare alla vedova che avrebbe fatto tutto il possibile per riportarle il marito. Mentre giurava, il Duce del fascismo teneva i documenti insanguinati della vittima nel cassetto della sua scrivania.
In questa nostra falsa primavera, però, non si commemora soltanto l’omicidio politico di Matteotti; si commemorano anche le stragi nazifasciste perpetrate dalle SS tedesche, con la complicità e la collaborazione dei fascisti italiani, nel 1944.

Fosse Ardeatine, Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto. Sono soltanto alcuni dei luoghi nei quali i demoniaci alleati di Mussolini massacrarono a sangue freddo migliaia di inermi civili italiani. Tra di essi centinaia di bambini e perfino di infanti. Molti furono addirittura arsi vivi, alcuni decapitati.
Queste due concomitanti ricorrenze luttuose – primavera del ’24, primavera del ’44 – proclamano che il fascismo è stato lungo tutta la sua esistenza storica – non soltanto alla fine o occasionalmente – un irredimibile fenomeno di sistematica violenza politica omicida e stragista.

Lo riconosceranno, una buona volta, gli eredi di quella storia?
Tutto, purtroppo, lascia pensare che non sarà così. Il gruppo dirigente post-fascista, vinte le elezioni nell’ottobre del 2022, aveva davanti a sé due strade: ripudiare il suo passato neo-fascista oppure cercare di riscrivere la storia. Ha indubbiamente imboccato la seconda via.
Dopo aver evitato l’argomento in campagna elettorale, la Presidente del Consiglio, quando costretta ad affrontarlo dagli anniversari storici, si è pervicacemente attenuta alla linea ideologica della sua cultura neofascista di provenienza: ha preso le distanze dalle efferatezze indifendibili perpetrate dal regime (la persecuzione degli ebrei) senza mai ripudiare nel suo insieme l’esperienza fascista, ha scaricato sui soli nazisti le stragi compiute con la complicità dei fascisti repubblichini, infine ha disconosciuto il ruolo fondamentale della Resistenza nella rinascita italiana (fino al punto di non nominare mai la parola “antifascismo” in occasione del 25 aprile 2023).

Mentre vi parlo, siamo di nuovo alla vigilia dell’anniversario della Liberazione dal nazifascismo. La parola che la Presidente del Consiglio si rifiutò di pronunciare palpiterà ancora sulle labbra riconoscenti di tutti i sinceri democratici, siano essi di sinistra, di centro o di destra.
Finché quella parola, Antifascismo, non sarà pronunciata da chi ci governa, lo spettro del fascismo continuerà a infestare la casa della democrazia img_6803
Europa, Europa: dove vai?
Alfonso Gianni
La costruzione di un sistema di guerra nella Ue

Ora se nel mondo c’è una cosa che conviene affrontare con esitazione – ma che dico, che bisogna in tutti i modi evitare, scongiurare, tenere lontana – di sicuro è la guerra: non c’è iniziativa più empia e dannosa, più largamente rovinosa, più persistente e tenace, più squallida e nell’insieme più indegna di un uomo, per non dire di un cristiano. Invece – chi lo crederebbe? – oggi si entra in guerra di qua, di là, dappertutto, con estrema leggerezza, per le ragioni più futili; e la condotta di guerra è caratterizzata da un’estrema crudeltà e barbarie.
Erasmo da Rotterdam

Sono trascorsi cinque secoli abbondanti da quando le parole del grande intellettuale olandese, poste in esergo, uscirono a stampa dai torchi di Aldo Manuzio. Se può esserci ancora qualche dubbio sulla validità delle teorie sul progresso più o meno lineare della civiltà umana, la loro falsificazione trova conferma nei terribili avvenimenti di questi ultimi mesi. La guerra continua, si incancrenisce e si allarga. I vari pezzetti della guerra mondiale descritta da papa Francesco, si congiungono tra loro in un mostruoso puzzle. Da ultimo Israele conduce un attacco “mirato” contro il consolato iraniano a Damasco, uccidendo comandanti dei “guardiani della rivoluzione”; l’Iran riempie il cielo di droni e missili; aerei statunitensi, francesi e britannici, unitamente a quelli israeliani, si alzano in volo per abbatterli. Nel contempo la guerra “dimenticata” in Sudan assomma un bilancio di 12mila morti e oltre sette milioni di sfollati. Ogni appello alla moderazione, per non dire alla trattativa e alla pace, viene immediatamente travolto, per quanto sia alto lo scranno dal quale è stato rivolto.
L’anonima sentenza latina, Si vis pacem para bellum, che ingenuamente consideravamo ormai persino impensabile, esce con sempre maggiore frequenza dalla bocca dei leader europei. Fra questi non poteva mancare Giorgia Meloni che ha voluto fare sfoggio di cultura, pronunciandola nel febbraio del 2022, pochi giorni dopo l’invasione russa dell’Ucraina, davanti ad una platea di conservatori riuniti in Florida per l’annuale Conservative Political Action Conference (Cpac), per poi ripeterla in altre più recenti occasioni nella veste di Presidente del Consiglio. La stessa frase, per quanto abusata, è stata utilizzata dall’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrel, nel commentare il documento conclusivo emerso dal Consiglio europeo del 21-22 marzo. E non si può certo dire che si sia trattato di un uso improprio.
Per quanto trita e ritrita la vecchia sentenza è in grado di fare da sintesi di quanto si è detto e deciso in quella riunione, che può ben dirsi essere propria di un Consiglio di guerra. Una riunione, cui seguirà quella di metà aprile dedicata ai temi dell’economia, che è solo un passaggio dentro una escalation di decisioni e comportamenti che conducono l’Europa in un’unica direzione: la guerra. Il passaggio da una “guerra grande” – come l’ha denominata Limes -, da una guerra “allargata” – come l’ha definita Alberto Negri guardando al teatro mediorientale – dalla più volte citata guerra mondiale a pezzetti secondo la celebre definizione di papa Francesco, ad una guerra globale vera e propria, tale da non escludere l’uso di armi nucleari, non è più solo una distopia.

Le conclusioni del Consiglio europeo
Quanto deciso nel recente Consiglio europeo non basta. Lo ha detto con chiarezza il premier polacco Donald Tusk, uscito vincitore dalle elezioni dello scorso ottobre, che in una intervista rilasciata a diversi quotidiani europei, fra cui un quotidiano italiano, avverte che la guerra è “alle porte”, che per la prima volta dal 1945 non è più un concetto del passato ma è un fatto “reale”, che dunque “dobbiamo abituarci mentalmente all’arrivo di una nuova era. L’era prebellica.” Rispetto alla quale però la Ue non è ancora pronta e quindi bisognerebbe fare di più, anche rispetto alle decisioni del Consiglio europeo di marzo.
Eppure quelle decisioni non sono lievi. Basta scorrere il documento conclusivo per accorgersene, al di là di qualche espressione retorica o fumosa, che appare proprio per questo inquietante per quello che può nascondere e per quello che ci aspetta. Per quanto riguarda il fronte russo-ucraino il testo non fa il pur minimo accenno alla possibilità di cessare il fuoco, di aprire una trattativa, di muoversi in una direzione di pace. Quest’ultimo termine non compare mai, se non con un significato completamente stravolto, si potrebbe dire, con ironico cinismo. Infatti il Consiglio europeo chiede di lavorare all’ottavo pacchetto di sostegno per l’Ucraina nell’ambito dello strumento europeo per la pace. Invita a prendere in considerazione la possibilità di “destinare a beneficio dell’Ucraina, compresa la possibilità di finanziare il sostegno militare, le entrate straordinarie derivanti dai beni russi bloccati”, quindi superando i dubbi sollevati anche da commentatori mainstream sul rischio che un simile atto porti un indesiderato scompiglio nelle “regole” che tutelano il mercato e il movimento dei capitali. Spinge per un rafforzamento ed una piena attuazione delle sanzioni alla Russia, anche colpendo paesi terzi che ne facilitano l’elusione. Pur nella impossibilità di impedirlo totalmente – rendendosi conto della complessità e dell’intreccio degli interessi economici in gioco – il documento raccomanda di limitare “al massimo” l’accesso della Russia “a prodotti e tecnologie sensibili che hanno rilevanza nel campo di battaglia”. Ribadisce la richiesta agli Stati membri di aumentare la spesa militare. Prospetta apertamente l’utilizzo della Banca europea per gli investimenti per fornire risorse e strumentazione finanziaria al fine di supportare l’ingente aumento delle spese belliche.
Come si vede le previsioni e gli strumenti di intervento economico si concentrano sulle spese militari. Con un facile, quanto terribile, scambio di consonanti, i famosi Eurobond, di cui si era tanto parlato, si tramutano di colpo in Eurobomb. E’ l’intero sistema delle imprese europee che deve rispondere alle nuove esigenze belliche. Lo chiariscono in particolare tre punti importanti sottolineati dal documento conclusivo. Il primo riguarda l’incentivazione della “ulteriore integrazione del mercato europeo della difesa in tutta l’Unione, agevolando l’accesso alle catene di approvvigionamento della difesa, in particolare per le Pmi e le società a media capitalizzazione, riducendo la burocrazia”. Il secondo punto riguarda la necessità di “garantire che la regolamentazione dell’Ue non costituisca un ostacolo allo sviluppo dell’industria della difesa”. Il terzo invita a “investire nella manodopera qualificata per fare fronte alle prevalenti carenze di manodopera e di competenze nell’industria della difesa”. Quindi via tutti i rimanenti lacci e lacciuoli ed ogni regolamentazione d’impaccio al fare presto se non subito. Il tutto – si preoccupano di precisare gli estensori del documento – deve risultare “complementare alla Nato, che rimane il fondamento della difesa collettiva per i suoi membri”

Come era considerata nel mondo la Ue
La puntualizzazione è tutt’altro che rituale, anche perché la costruzione di un simile sistema di guerra europeo mal si acconcia con la definizione un po’ riduttiva di Wolfgang Streeck per cui l’Ue sarebbe semplicemente “un ausiliario economico della Nato”. Appare più convincente dal punto di vista dell’analisi dinamica delle forze in campo la conclusione cui perviene Lucio Caracciolo e cioè che il ruolo della Nato e quello della Ue tendono negli ultimi anni a sovrapporsi, come risulta ancora più evidente in relazione al conflitto russo-ucraino. L’una prepara il terreno per l’avanzata dell’altra e viceversa. Anche se lascia un po’ straniti l’idea che Caracciolo ha recentemente avanzato, quella di “un’intesa bilaterale speciale fra Italia e Stati Uniti” al fine di tenere il nostro paese “sopra la linea di galleggiamento durante la Guerra Grande e prefigurare equilibri meno instabili nell’immediato dopoguerra”. Una idea che lo stesso autorevole direttore di Limes definisce “controintuitiva” e rispetto alla quale sollecita egli stesso “critiche e controproposte”. Ma prima è forse opportuno fare qualche passo indietro.
Certamente la guerra russo-ucraina non ha solo risuscitato la Nato da una condizione che aveva autorizzato Macron a stilare un affrettato certificato di morte cerebrale, ma ha messo in moto un’accelerazione dell’armamento europeo ad ogni livello. Tuttavia sarebbe sbagliato cogliere solo la tempistica di quest’ultima vigorosa corsa alle armi e non vederne i passaggi precedenti, pur se più lenti nel loro svolgersi, nel corso dei quali l’Ue è riuscita persino ad abbattere l’immagine che si era fatta nel mondo. Anche se si trattava di un’immagine più dettata da un forte wishful thinking che da una rigorosa analisi del processo di costruzione dell’Unione europea.
Per un non breve periodo in America latina molti vedevano nell’Europa la proiezione dei propri desideri di costruire l’utopia bolivariana, dove contrasti e confini sarebbero stati superati da intese politiche ed economiche nel nome del Sud del mondo. Se ne ha prova leggendo, in un recente libro, le parole dell’ex presidente uruguayano José “Pepe” Mujica, che manifesta il suo stupore e il suo spavento per l’impotenza dell’Europa di fronte al conflitto russo-ucraino: “Quello che più mi spaventa è l’impotenza dell’Europa, che è diventata un polo senza alcun potere decisionale autonomo. È incredibile. Ovviamente, la pace in Europa avrebbe dovuto includere la Russia e non segregarla, e invece quello che hanno fatto è stato spingerla dall’altra parte, la stanno regalando alla Cina. Da un punto di vista geopolitico, sono dei salami [ride], dei salami… Sì. Sono sbalordito dal declino politico dell’Europa, al punto da guardare con «nostalgia», tra virgolette, ai vecchi conservatori europei, che almeno vedevano un po’ più lungo e avevano un po’ più di dignità. Proprio come De Gaulle, il quale pensava che l’Europa dovesse arrivare fino agli Urali e intuì che un processo di pace doveva inevitabilmente includere anche la Russia all’interno dell’Europa. La stupida rottura da parte della Nato del Patto di Varsavia fu un passo privo della benché minima lungimiranza politica. Penso anche che, dietro tutto questo, vi sia una sorta di duello in cui gli Stati Uniti temono di perdere la supremazia a favore della Cina.”

Le radici del processo di militarizzazione europeo
E’ bene quindi non dimenticare che l’attuale fase di intensa militarizzazione della Ue che stiamo attraversando in questo sciagurato presente, affonda le sue radici in alcune tappe fondamentali che hanno determinato la costituzione materiale dell’unità europea. Una buona e non trascurabile parte del prolisso Trattato di Maastricht del 1992 è costituita dalla cosiddetta nuova Politica estera di sicurezza comune (Pesc). Una manciata di anni dopo, il Trattato di Amsterdam istituì il ruolo di Alto rappresentante per la Pesc. Il primo a ricoprire tale carica fu Javier Solana, che la condusse per dieci anni fino al 2009, dopo essere stato Segretario generale della Nato tra il 1995 e il 1999, incarnando così la fluidità delle cariche apicali fra Ue e Nato.
Il vero banco di prova delle effettive capacità della Ue di intervenire sullo scenario internazionale per mettere in atto quei principi e quei valori di pace, libertà, giustizia e democrazia così enfaticamente richiamati nei suoi atti costitutivi e ancor più nelle dichiarazioni dei suoi massimi esponenti, furono senz’altro le tragiche vicende dei Balcani a cavallo del secolo. E fu un disastro. Le parole di Perry Anderson esprimono un giudizio tanto severo quanto giusto e inequivocabile: “Beneficiaria della Pax americana piuttosto che progenitrice della stessa, l’Unione ha affrontato la sua prima prova come vero e proprio custode della pace in Europa dopo la guerra fredda. Fallì miseramente, non impedendo ma alimentando la guerra nei Balcani, poiché la Germania appoggiò la secessione slovena dalla Jugoslavia, il colpo che innescò i successivi conflitti omicidi che la Ue, trascinata sulla scia di Helmut Kohl, si dimostrò incapace di moderare o di far cessare. Ancora una volta non è stata Bruxelles, ma Washington a decidere finalmente il destino della regione. Anche l’allargamento dell’Unione agli ex paesi del Patto di Varsavia, la sua grande conquista storica, ha seguito le orme degli Stati Uniti, la loro inclusione nella Nato prima del loro ingresso nella Ue”

I bombardamenti sulla Serbia
Infatti l’intervento aereo contro la Serbia costituì una rottura delle già fragili regole che in qualche modo caratterizzavano l’ordine mondiale di allora. A tal punto che un fine giurista come Luigi Ferrajoli poteva mettere in fila tutte le violazioni che venivano commesse nei confronti di Costituzioni, Trattati, Carte costitutive, Convenzioni, fino a profilare una sorta di colpo di stato internazionale: “Innanzitutto la violazione della Costituzione italiana che all’articolo 11 bandisce la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali e all’articolo 78 richiede che la guerra (di difesa) sia deliberata dalle Camere. In secondo luogo la violazione della Carta dell’Onu, che non solo vieta la guerra ma prescrive ‘mezzi pacifici’ volti ‘a conseguire la composizione e la soluzione delle controversie internazionali, a cominciare dal negoziato ad oltranza … In terzo luogo la violazione del trattato istitutivo della Nato, che configura l’alleanza come esclusivamente difensiva e vincolata alla carta dell’Onu … In quarto luogo [la violazione] dello statuto della Corte penale internazionale … Infine le violazioni delle convenzioni di Ginevra, in base alle quali sono crimini di guerra i bombardamenti delle popolazioni civili”.
Tutto ciò, è bene ribadirlo, non sarebbe potuto avvenire senza la direzione diretta, non solo supervisione, da parte degli Usa. Come ha giustamente sottolineato Domenico Gallo “Il retroterra dell’attacco dell’Alleanza atlantica alla Serbia, scattato il 24 marzo 1999, era costituito dal nuovo ruolo strategico militare che gli Stati Uniti avevano concepito per la Nato dopo la fine della Guerra fredda”.
Per quanto riguarda il nostro paese il via libera all’utilizzo delle basi italiane per il decollo dei bombardieri, venne offerto dal governo D’Alema. L’insieme dell’operazione venne guidata da Francesco Cossiga che riteneva che la sinistra, quella rappresentata allora dai Ds, avrebbe fatto cose che neppure la destra avrebbe potuto compiere senza provocare e attirarsi contro, se non una sollevazione popolare, certamente una lunga e forte contrapposizione nelle istituzioni e soprattutto nelle piazze. Lo dice esplicitamente Carlo Scognamiglio, allora ministro della Difesa, in una dichiarazione a un quotidiano, in polemica con James Rubin, ex portavoce di Madeleine Albright : “A Rubin sfugge che in Italia avevamo dovuto cambiare governo proprio per fronteggiare gli impegni politico-militari che si delineavano … Prodi ad ottobre aveva espresso una disponibilità di massima all’uso delle basi italiane, ma per la presenza di Rifondazione nella sua maggioranza non avrebbe potuto impegnarsi in azioni militari. Per questo il senatore Cossiga ed io ritenemmo che occorreva un accordo chiaro con l’on. D’Alema” e l’accordo in sintesi si articolava in due parti: “la prima era il rispetto dell’impegno per l’euro […] la seconda era il vincolo di lealtà alla Nato: l’Italia avrebbe dovuto fare esattamente ciò che la Nato avrebbe deciso di fare”. E così fu.
La guerra dei Balcani convinse le elite europee che era necessario imprimere una nuova svolta nel campo della difesa comune, naturalmente senza uscire dal quadro della sudditanza nei confronti della Nato e degli Usa. Così nel 2004 nasce L’Agenzia europea per la difesa (Aed), attualmente presieduta da Josep Borrel con sede a Bruxelles, il cui compito è quello di permettere ai 27 Stati membri dell’Ue di sviluppare le loro risorse militari, di stabilire accordi anche con paesi extra Ue (come è avvenuto per Norvegia, Serbia, Svizzera e Ucraina), avendo concluso un accordo amministrativo con il dipartimento della Difesa degli Stati Uniti che prevede una maggiore cooperazione transatlantica nel campo della difesa in settori specifici, compreso lo scambio di informazioni. [segue]

Cagliari amore mio. Progetto innovativo per la città e il territorio (I).

0030bc2e-77b8-4c0a-8b64-16dbc79636ffUn Museo della città e del territorio per Cagliari: un sogno da tradurre in realtà
di Carla Deplano (*)

Sono sempre più convinta che Cagliari, città più unica che rara nella sua morfologia, si meriti un Museo della città e del territorio.
Un Ecomuseo urbano inquadrabile all’interno di una dimensione storico culturale sostenibile imperniata sul “patrimonio diffuso” stratificato nella città e nel territorio, che travalica la vecchia concezione tradizionale di museo quale mero contenitore basato sull’industria della conservazione.
Occorre una visione globale e al contempo unitaria delle reti di relazioni della città, in una sinergia tra ambiente, beni culturali, contesto economico e sociale, in linea con l’interpretazione della struttura urbana come ecosistema.
In una fruizione ragionata e consapevole dei luoghi cospicui e dei beni culturali da parte della collettività, al servizio della società e del suo sviluppo, della ricerca, della comunicazione, dell’esposizione per scopi di studio, di educazione e diletto, delle testimonianze materiali della comunità e dell’ambiente, delle testimonianze della vita economica e sociale del territorio, della divulgazione culturale.
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Cattolici in Politica

ccf95694-9b45-424f-8e27-a4c7fe9e7815Pubblichiamo il testo dell’intervento di Paolo Matta al Convegno promosso da Demos e altre formazioni politiche di ispirazione cristiana, il 6 dicembre 2023 a La Collina, Serdiana. Presente la candidata della coalizione di centro-sinistra a presidente della Sardegna, Alessandra Todde
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di Paolo Matta
A tutti noi, in presenza o attraverso il mezzo televisivo, sarà capitato di sicuro di assistere a un concerto.
E di certo, al termine dell’esecuzione, fissare la nostra attenzione al direttore, specie se di fama, al primo violino o al solista, fosse l’oboe o un flauto.
A me, per un’inclinazione naturale, ha sempre suscitato curiosità e simpatia, l’intervento (magari per il tempo di una sola battuta) di strumenti forse anche insignificanti per l’armonia complessiva del brano (penso al minuscolo triangolo) ma che, invece, mantengono intatta tutta la loro dignità e importanza.
Nulla di più vuole essere questo mio intervento nello spartito dell’incontro di oggi: una piccola battuta, spero non stonata o fuori tempo.
***
A sessant’anni dal Concilio Vaticano II, moderno spartiacque della teologia e della pastorale ancora, in gran parte, inattuato forse perché mal digerito e non ancora metabolizzato, ci ritroviamo ancora a parlare (e confrontarci) di cattolici e politica, di pensiero e valori cristiani e di azione nella polis. 
Parliamo, proprio alla luce del Vaticano II, di un qualcosa – la politica, appunto – definita dal Magistero pontificio (una di quelle definizioni raramente citate e ricordate) «la forma più alta di carità», sola cifra e metro di giudizio – personale e universale – una volta uscite, dalla scena di questo mondo, la fede e la speranza.
Per un credente, allora, quella alla vita politica resta “vocazione alta” assimilabile in toto a quella al sacerdozio o al matrimonio, alla vita claustrale, alla consacrazione verginale.
Un profeta dei giorni nostri, scomodo e ingombrante come tutti i profeti, don Tonino Bello, (scomparso neanche sessantenne nel 1993, consumato da una devastante forma tumorale) ebbe a scrivere: «Se uno mi chiedesse a bruciapelo di dargli una definizione di politico, non avrei esitazioni e direi: “un operatore di pace”».
Pace intesa come shalòm, non semplice assenza di conflitti, personali o tribali, ma sommatoria e sintesi di giustizia, libertà, dialogo, crescita, uguaglianza, ma soprattutto solidarietà, l’unico imperativo morale che noi credenti chiamiamo anche comunione. Pace come frutto dell’etica del volto, il vivere radicalmente il faccia a faccia con l’altro.
Pace come saper deporre l’io dalla sovranità per far posto all’altro, una deposizione che – più che fatto politico – è prima ancora un fatto di giustizia e alta moralità.
***
Se la vocazione è quella di essere operatori di pace, una delle condizioni è quella della protesta, della sana indignazione, è quella della contestazione permanente dell’ideologia, se non se ne vuole fare un idolo, il bisogno di usare del partito ma sapendo andare oltre le indicazioni e le logiche del partito, quando corre il rischio di diventare anch’esso un idolo. Quelle che, sempre il vescovo prossimo beato Tonino Bello chiamava le “sporgenze dell’utopia”.
Un’altra condizione è quella della contempl-attività, scusando il bisticcio dei termini.
Contemplativi in azione.
Donne e uomini che non si lasciano distruggere la vita dalla dimensione faccendiera, non si sperperino nella dissolvenza delle manovre di contenimento o di conquista.
***
Viviamo, ne siamo tutti consapevoli, tempi di aridità e di stanchezza.
Prendo lo spunto da alcuni versi di Pierpaolo Pasolini.

«Vi siete assuefatti voi,
servi della giustizia, leve della speranza
al voluto tacere, al calcolato parlare,
al denigrare senza odio,
all’assaltare senza amore,
alla brutalità della prudenza
e all’ipocrisia dell’amore.
Avete, accecati dal fare, servito il popolo
non nel suo cuore ma nella sua bandiera.
Dimentichi che deve, in ogni istituzione, sanguinare perché non torni mito,
e continuo il dolore della creazione»
.

Mai come oggi occorre riandare, con coraggio e radicalità,
alle fonti della vocazione politica, quella evangelica del sale e del lievito. Entrambi, sale e lievito, ben poca cosa, tutti prodotti che si trovano a buon mercato, a straccu barattu senza i quali, però, i cibi non avrebbero sapore, la pasta sarebbe inutilizzabile.
Un tempo ambita e protetta “riserva di caccia” (quando tutti andavano alla ricerca del voto cattolico, da destra e da sinistra) oggi viviamo invece l’epoca
del senza:
una scuola senza studenti,
una sanità senza medici,
una politica senza cittadini,
che rinunciano persino al diritto di voto. 
E possiamo tranquillamente aggiungere anche:
una chiesa senza cristiani,
una famiglia senza figli.

***
Non sembri facile e accidioso catastrofismo: è, al contrario, il quadro di riferimento del documento preparatorio della prossima Settimana sociale dei cattolici italiani, sul tema – altamente significativo e quanto mai pertinente – “Al cuore della democrazia” in programma a Trieste dal 3 al 7 luglio 2024, proprio a un mese esatto dall’appuntamento elettorale europeo del 6-9 giugno, decisivo per confermare o meno lo spostamento a destra dell’asse politico continentale.
Sarà, ancora una volta, dopo Cagliari e Taranto (per citare le ultime due edizioni), un grande laboratorio di partecipazione reale che, seppure parta da questi chiari segnali di riflusso al privato, da «una stanchezza che non lascia spazio alla vita comunitaria», da una «rinuncia alla fatica delle relazioni» chiede, pur tuttavia e con forza, «occhi nuovi» per scorgere la novità delle nuove forme di aggregazione e per leggere nel cuore della democrazia.
***
Scriveva Giorgio La Pira: «L’alba del terzo millennio sarà, così come fu l’alba del secondo, il tempo dei mistici e degli artisti».
“L’immaginazione al potere”, scrivevano sui muri della Sorbona gli studenti del ’68. Qualche anno dopo, Paolo VI, oggi santo della Chiesa cattolica, nell’enciclica Octogesima Adveniens affermava: «In nessun’altra epoca l’appello all’immaginazione sociale è così esplicito come nella nostra. Occorre dedicarvi sforzi di inventiva e capitali altrettanto ingenti come quelli impiegati negli armamenti o nelle imprese tecnologiche».

Mi piacerebbe concludere, allora, questa mia testimonianza con due brevissimi riferimenti ad altrettanti macro-temi che, mi pare in posizione mediaticamente marginale, stanno caratterizzando questa stagione pre-elettorale.
Insularità e difesa del creato, temi che si prestano a letture e approfondimenti non solo sociologici e politici ma anche in chiave cristiana.
***
Ho seguito, devo ammettere, con tiepido entusiasmo, via via sempre più raffreddatosi, la battaglia per l’inserimento della insularità in Costituzione.
Perché, alla fine, mi è parsa, sempre di più, manovra elitaria, bandiera di pochi (al di là di una farisaica, comoda convergenza dalle larghe intese) dalle scarse o, ancora oggi, nulle ricadute istituzionali e, men che meno, sociali ed economiche.
La Sardegna, terra nobile e antica, può configurarsi oggi – nel cuore del Mediterraneo –come un’autentica “Galilea delle genti”, crocevia di lingue, culture, commerci e scambi proprio come lo era, al tempo di Gesù, la regione fra Cesarea e il lago di Genezareth.
L’insularità può diventare allora – più che leva per sempre più stanche rivendicazioni – un autentico valore aggiunto, sale e lievito evangelici di cui si parlava, nella misura in cui sapremo declinare la disponibilità di territorio e di risorse con un’oculata accoglienza, che sappia mettere insieme emergenze e criticità con il sapere, le nuove economie e le nuove frontiere dell’intelligenza.
Ruolo fondamentale può giocarlo l’Università e tutto il sistema accademico per affermarsi come Ateneo autenticamente mediterraneo, (pensate, un auspicio contenute nelle dichiarazioni programmatiche del sindaco De Magistris risalenti appena al 1985, giusto 40 anni fa), faro sodale e solidale per tutte le terre che si affacciano sul mare nostrum per affrancarlo definitivamente, si spera, da un destino di maresanto, di liquido sarcofago per decine di migliaia di disperati e sfollati.
Questa, mi sembra, possa essere una vera battaglia di valorizzazione della nostra insularità e, forse, una delle chiavi per superare l’attuale spopolamento.
***
Altro tema che vede la Chiesa tutta, comunità in cammino dietro il suo pastore, è quello della difesa del creato, contenuta nella trilogia di Papa Francesco, “Laudato Sì’”, “Fratelli tutti” e, ultima, in ordine di tempo, “Laudate Deum”.
Parliamo di una sfida che non è solo dei credenti, ma di tutti gli uomini “di buona volontà”, sfida lanciata all’umanità intera, oramai da otto anni, da un uomo, Papa Francesco, icona vivente di cosa sia la politica per e dei cristiani.
Con buona pace di chi, presbiteri o laici, continua a essere più preoccupato delle forme e del culto, rinchiusi come sono nella loro torre d’avorio di devozioni e consuetudini in cui pensano, sperano, si illudono di circoscrivere la fede nel Risorto.
C’è una limpida correlazione tra san Francesco e Papa Francesco. Ai tempi del poverello d’Assisi la Chiesa era smarrita, diabolicamente invaghita della ricchezza e del potere.
Francesco e Chiara emersero come figure capaci di riportare tutti all’essenza del messaggio cristiano: compassione e comunione con l’uomo e con il creato.
Anche Papa Francesco ha sentito la chiamata a riparare la sua casa. Che, se per Francesco era la chiesetta di San Damiano, per Papa Francesco è una casa decisamente più grande, il globo intero.
E se c’è chi, come il segretario generale dell’ONU António Guterres, parla di “ebollizione globale” e non più di “riscaldamento globale”, anche la Laudate Deum riconosce che «forse, ci stiamo avvicinando a un punto di rottura, di non-ritorno».
Fa persino tenerezza questo papa nonno, la sua caparbietà a non arrendersi, che osa rompere gli schemi e venire in soccorso alla politica che non ha il coraggio di raccontare tutta la storia. Che continua a esortare: riproviamoci, aprite gli occhi!, non c’è più tempo, convertiamoci.
Perché il nostro futuro, il nostro solo futuro, è una questione di conversione, laica o religiosa poco importa, e non di pannelli solari.
Una conversione in cui fede e intelligenza (ma, forse, basterebbe anche il più basilare buon senso) finalmente si incontrano.

Grazie per la vostra pazienza.
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E’ online Rocca n. 24/2023
rocca24del2023-non-abbonati_pagina_1-scaled

La Pace è solo un’utopia?

img_4715LA VIA STRETTA
di Anna Foa
Una strada di Betlemme
C’è ancora la possibilità di percorrere la via sempre più stretta che passa tra i sostenitori di Netanyahu e quelli di Hamas, di battersi ancora per la creazione accanto allo Stato di Israele di quello palestinese, per una civile convivenza tra israeliani e palestinesi, contro ogni razzismo e suprematismo, ma anche contro ogni terrorismo fondamentalista come quello di Hamas? Oppure il tempo è scaduto, scaduto nel bagno di sangue e di orrore del 7 ottobre, ma forse anche prima, nel lungo governo Netanyahu e poi nella sua alleanza con fascisti e razzisti, nel suo progetto di rosicchiare poco a poco i territori dell’Autorità palestinese e di sbarazzarsi, alla fine, degli stessi palestinesi in Israele, quelli che sono cittadini israeliani e che avrebbero dovuto esserlo, anche se così non è, a tutti gli effetti? Nel supporto senza limiti ai coloni e alle loro continue violenze senza che l’esercito o la polizia vi si opponessero? Nella pretesa, che rende i coloni ebrei tanto simili ai terroristi di Hamas, di agire in nome di Dio?

Il sonno della ragione. Siamo contro Hamas e contro il Governo israeliano di Netanyahu espressione della destra e di religiosi fanatici. Siamo per la convivenza pacifica tra israeliani e palestinesi. Chiediamo il cessate il fuoco e la fine dei massacri.

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Palestina: «Un caso di genocidio da manuale e il fallimento dell’Onu». Un’Utopia che dobbiamo percorrere comunque: “Uno Stato unico basato sui diritti umani”.

di Craig Mokhiber
A distanza di tre settimane dall’attacco terroristico di Hamas e mentre si susseguono i bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza, il direttore dell’Ufficio di New York dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani dell’Onu, Craig Mokhiber, ha comunicato all’Alto Commissario le sue dimissioni, dopo oltre trent’anni di servizio. La lettera di dimissioni è un duro atto di accusa contro le politiche dello Stato di Israele («Questo è un caso di genocidio da manuale. Il progetto coloniale europeo, etno-nazionalista e colonizzatore, in Palestina è entrato nella sua fase finale, verso la distruzione accelerata degli ultimi resti della vita indigena palestinese in Palestina»), la copertura ad esse assicurata dagli Stati Uniti, dal Regno Unito e dall’Unione Europea, la resa e il fallimento dell’Onu. È un documento che occorre conoscere anche per l’autorevolezza del suo autore. (la redazione di Volerelaluna 2 novembre 2023)
Caro Alto Commissario,

Convegno su Adriano Olivetti. Dibattito

img_4337Rileggendo Adriano Olivetti: che non era utopico ma oggi, forse, lo è.
img_4989di Gianni Loy

Che l’esperienza imprenditoriale di Adriano Olivetti sia da annoverare tra i successi più esemplari dell’industria italiana è fuor di dubbio. Quella fabbrica, per altro verso, non è soltanto il luogo dove si esaltano l’innovazione, l’efficienza, l’organizzazione, ma è anche luogo di sperimentazione di un’idea, di una filosofia, direi persino di una religione, di cui egli è il fondatore.

Adriano Olivetti, sia chiaro sin dall’inizio – in quanto costituisce il presupposto di quanto mi accingo ad esporre – non elabora quella sua filosofia sulla base della propria esperienza imprenditoriale ma, proprio al contrario, prima elabora la sua teoria – altri hanno esposto il percorso e le fonti – e successivamente si trova a doverla applicare all’impresa che governa. La successione è più logica che temporale, visto che i due percorsi, in realtà, procedono in parallelo.

La fabbrica, infatti, a prima vista, potrebbe costituire un ostacolo all’affermarsi di quella filosofia che va predicando per tutto il paese, perché nella fabbrica, come sino a non troppo tempo prima predicavano i papi, la materia esce nobilitata ma l’uomo – e soprattutto la donna – possono uscirne corrotti. La fabbrica, sia che la si osservi attraverso la lente del liberismo – di quello ingentilito ed ossequioso ai comandamenti – dove il padrone, con fare paterno, dovrebbe prendersi cura filiale dei propri operai (su quello più rude non occorre spendere parole); sia che la si osservi attraverso il paradigma del marxismo, che esalta il conflitto di classe proponendosi il rovesciamento dell’ordine costituito, quella fabbrica non sembra proprio il luogo dove possano prosperare “libertà e bellezza”, la libertà e la bellezza che dovrebbero insegnarci ad essere felici.

La fabbrica, quindi, è il luogo dove sarà più difficile dimostrare la fattibilità di quell’ordine, armonico e solidale, immaginato da Adriano Olivetti.

Solo che Adriano Olivetti, da una parte è un intellettuale, un filosofo, un sacerdote che predica l’instaurazione di un nuovo mondo dove regnino l’armonia e il bene ma, per altro verso, è il padrone di un’organizzazione che, secondo i principi dell’economia capitalista, ha quale unico ideale quello di massimizzare il profitto. All’interno della fabbrica si incontrano individui, e non persone, che altro non sono che fattori della produzione, da trattare e da retribuire, in ossequio al comandamento del liberismo, con una salario di pura sussistenza. Sia Pio XII che Adriano Olivetti, in quegli anni, avanzeranno l’auspicio di riconoscere ai lavoratori un salario almeno un po’ più elevato di quanto strettamente necessario alla sopravvivenza, seppure le motivazioni che ispirano quell’auspicio non coincidano del tutto.

Nel porgere gli auguri di Natale ai propri dipendenti, nel dicembre del 1955, – ricordando e annunciando misure che oggi verrebbero rubricate con il nome di welfare aziendale – Adriano Olivetti riconosceva che tali misure, “seppur importanti, non sostituiscono né il pane, né il vino, né il combustibile e non ci sottraggono al dovere di lottare strenuamente alla ricerca di un livello salariale più alto, quello che concederà finalmente ad ognuno la propria libertà, che consiste nel poter spendere qualcosa di più del minimo di sussistenza vitale”.

Ma non del solo salario minimo si tratta: Adriano Olivetti scava più a fondo e si chiede – in occasione dell’inaugurazione del nuovo stabilimento di Pozzuoli – se la finalità dell’impresa debba essere esclusivamente la massimizzazione del profitto o se l’impresa non debba avere qualche altra funzione sociale. «Può l’industria darsi dei fini? – egli scrive – Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinate, una destinazione, una vocazione anche nella vita della fabbrica? La nostra società crede nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina e nella sua possibilità di elevazione e riscatto».

È evidente che, per chi va predicando l’avvento di un mondo dove regnino “Armonia, ordine, bellezza, pace”, dirigere un’impresa in coerenza con quei principi costituisca una grande sfida.

Per meglio capire, occorre tener conto di alcuni aspetti dell’esperienza di Adriano Olivetti, non sempre sufficientemente evidenziati che tracciano uno scenario utile per gli approfondimenti. scenario che consente di per il successivo dibattito.

Innanzitutto, occorre ribadire che la sua esperienza non nasce dal nulla. Essa si muove nel solco di una tradizione familiare e di una formazione giovanile. Il padre, ebreo convertitosi da adulto ad una confessione cristiana, appassionato anticlericale, si era dedicato con cura al percorso formativo del giovane Adriano, che non includeva la formazione religiosa. E la madre, figlia di un pastore valdese. E poi i suo interessi giovanili, a cominciare dalla lettura de “I punti essenziali della questioni sociale”, di Rudolf Steiner, autore che avrebbe poi riempito gli scaffali della sua biblioteca, senza trascurare Freud.

Il padre Camillo, oltretutto, aveva un’idea precisa del rapporto da tenere con gli operai. Viene descritto come un uomo che “assumeva povera gente, facendola lavorare al mattino e insegnandole a leggere e scrivere nel pomeriggio”. Padre prodigo di consigli e di raccomandazioni per un figlio destinato alla sua successione. Padre al quale Adriano muove, però, un rimprovero: quella di averlo costretto ad intraprendere studi tecnici, mentre lo scalpitante Adriano avrebbe preferito seguire gli studi classici ed imparare il latino, a conferma di qual fosse, sin da giovane, la sua vocazione, una propensione che i suoi interessi confermeranno più avanti.

Il secondo aspetto è il rapporto con la fabbrica. Secondo un diffuso costume dell’imprenditoria familiare, anche Adriano fu mandato a fare esperienza di fabbrica ancora adolescente. Egli così descrive quell’esperienza: “Imparai così, ben presto a conoscere e odiare il lavoro in serie: una tortura per lo spirito che stava imprigionato per delle ore che non finivano mai”.

Dopo quella prima impressione, che conferma che il lavoro in fabbrica, come comunemente praticato, non coincideva con i sui istinti, ha approfondito la le proprie conoscenze nelle fabbriche degli Stati Uniti. Ha conosciuto il fordismo e il taylorismo. Da imprenditore non ha potuto che apprezzare i vantaggi derivanti dall’efficienza di quei modelli ritenendo che quella cultura potesse portare, secondo quanto aveva osservato in America, ad una situazione di piena occupazione.

Tuttavia, riteneva che, nell’importarli in Italia, andassero adattati. Occorreva conciliarli con quella sua visione, che qualcuno ancora definisce utopica, per poterli adattare alla propria visione illuministica. Per un certo verso illuministica, ma non troppo, se è vero, come spiega Geno Pampaloni, che la natura di quel pensiero era anche di carattere profetico e religioso.

Pertanto, la fabbrica, per potere essere inserita nella sua visione, per alcuni versi neo-platonica, dovrà essere capace di svolgere un ruolo funzionale all’avverarsi della visone, tutta spirituale, della società: l’armonia, l’ordine la bellezza…

Da qui, per un verso, la ricerca di una funzione della fabbrica diversa dal solo profitto, di cui ho già detto, e, per altro verso, l’introduzione di azioni concrete finalizzate ad una trasformazione della fabbrica che risulti sintonica con il suo iperuranio, nel quale la finalità della fabbrica è, anche, quello di perseguire il bene dei dipendenti e non soltanto il profitto. Fabbrica che dovrà produrre “il bene” e non semplicemente “i beni”.

Una cosa, quindi, sono le idee che stanno nell’altro mondo, altro la dura e faticosa realtà di tutti i giorni, rappresentata delle condizioni penose della classe operaia e dalle regole spietate del profitto.

La peculiarità di Adriano Olivetti è che intende provarci, con juicio, alternato a slanci volontaristici, se si vuole, ma sempre con tenacia e con perseveranza. Quindi Adriano Olivetti non è un utopista, come spesso si racconta; non lo è affatto, per la semplice ragione che di fatto ha trasformato la fabbrica in un laboratorio dove sperimentare – ed effettivamente ha sperimentato – pratiche e modelli indirizzati al superamento degli aspetti più brutali dell’organizzazione aziendale, e lo ha fatto in coerenza con i principi spirituali della verità, della giustizia, dell’amore e della bellezza. E lo ha fatto a tutto tondo, curando anche aspetti come quelli relativi all’estetica, all’architettura, al bello. Non tutti gli hanno creduto sino in fondo, se è vero, come racconta Giuseppe Lupo, che tra i “chierici”, gli intellettuali di cui si era circondato ed aveva accolto nella fabbrica, covava qualche scetticismo.

Le relazioni industriali partivano da una premessa ideologica, ovverossia dal rifiuto dei due modelli contrapposti che si contendevano la scena, quello capitalista e quello marxista, ed esploravano una terza via, collaborativa e non conflittuale. Quella scelta intaccava i territori ipotecati dalle due fazioni che si contendevano il campo, Così Adriano Olivetti si faceva nemici a destra e a manca, e si inimicava persino la Chiesa, per quanto fosse l’organizzazione più in sintonia con la sua visione. Al modello di gestione delle relazioni sindacali, si aggiungono le azioni realizzate all’interno della fabbrica e nelle sue periferie. Istruzione, edilizia, trasporti, tempo libero, conciliazione con la vita familiare e tanto altro. Alcune di queste si sono poi diffuse nella più o meno recente pratica di molte imprese, per libera scelta datoriale, o a seguito della contrattazione o perché introdotte dal legislatore.

Con riguardo a questi temi, occorre tener conto che facciamo riferimento ad un periodo assai lontano nel tempo, caratterizzato da un contesto culturale profondamente diverso. Facile, ad esempio, parlare oggi di cultura diffusa, ma quando la fabbrica di Olivetti si apriva alle biblioteche e si organizzavano eventi culturali, in Italia esisteva ancora l’avviamento professionale secondo il modello disegnato da Gentile, nella scuola si insegnava (solo alle ragazze) l’economia domestica, e l’ingresso delle donne in fabbrica non era guardato con favore. Il diritto al lavoro delle donne, proclamato nella formula costituzionale, era temperato dal richiamo al ruolo già esaltato dal regime fascista. Erano state superate (e neppure tutte) le formule giuridiche, ma quel modello era ancora radicato nella mentalità. Ciò consente di comprendere la portata delle “innovazioni” introdotte da Adriano Olivetti nella sua Fabbrica.

La puntuale ricostruzione del prof. Mastinu ha richiamato, con estrema chiarezza, le condizioni che hanno consentito “l’esperimento” di Adriano Olivetti. Ha ricordato che solo sinché la fabbrica produce profitti è consentito scongiurare i licenziamenti per riduzione di personale, mantenendo fede all’impegno che Adriano aveva ereditato dal padre Camillo. Allo stesso tempo, ha ricordato come le innovazioni in materia di welfare aziendale vengono meno via via che lo Stato sociale le fa proprie, riducendo, o annullando, quel differenziale che nella fabbrica di Adriano Olivetti era tanto evidente, per qualità e quantità, da suscitare preoccupazione presso altri imprenditori non altrettanto “illuminati”.

La successiva evoluzione della fabbrica Olivetti e l’evolversi della situazione economica del paese, in conclusione, non consentono di immaginare che quel modello, maturato in un contesto profondamente differente e in presenza di contingenze oggi non attuali, possa essere riproposto. Le circostante sono cambiate radicalmente. Non siamo più in presenza di due modelli contrapposti da superare attraverso una terza via – soluzione che, al tempo della guerra fredda, molti vagheggiavano -. Oggi governa un solo modello, che non è quello uscito vincente dal confronto con il socialismo reale, bensì una forma di capitalismo, più estremo, privo di quei temperamenti che lo avevano caratterizzato per buona parte della seconda metà del secolo scorso, probabilmente funzionali a reggere il confronto con l’altra campana. Un potere costruito sulla base di un liberismo sempre più sfrenato capace di prevalere sul potere statuale.

In più emergono fenomeni nuovi, come la tendenziale scomparsa della classe media e l’allargamento del divario tra ricchi e poveri; l’acuirsi del fenomeno migratorio che compensa il divario tra le economie ricche, con elevata percentuale di tecnologia e di lavoratori altamente qualificati, e quelle povere a livello di sussistenza.

Oggi, ripensare ad Adriano Olivetti è utile ed opportuno. Ma non può significare, sia ben chiaro, la riproposizione del modello all’epoca sperimentato nella fabbrica e nella società; un modello che, oltretutto, quando si misurò nella dimensione nazionale, non ottenne – salvo che nel proprio territorio – il successo sperato.

Ripensare, oggi, al pensiero di Adriano Olivetti, significa, piuttosto, tornare a porsi le stesse domande che egli si poneva, e che proponeva alla società tutta. Domande che, nonostante l’apparenza, non riguardavano essenzialmente la fabbrica, bensì, l’intera società ed il sistema delle relazioni umane. La fabbrica è il luogo dove Adriano Olivetti concepisce e sperimenta la propria filosofia, perché la sorte lo ha chiamato vivere tale esperienza, È per questo che si chiede, ripetutamente, se l’industria non possa darsi dei fini, se questi fini possano trovarsi semplicemente nell’indice dei profitti, se non vi sia, al di là del ritmo apparente, qualcosa di più affascinante, una vocazione anche nella vita della fabbrica. Ma non se lo chiede per soddisfare un’esigenza di filantropia, o di mecenatismo – esperienze che nella storia dell’impresa non è difficile incontrare – né per differenziarsi dal resto del mondo imprenditoriale. Quel clima che sperimenta all’interno propria fabbrica, con il suo welfare, con le sue relazioni sindacali, egli lo propone, quale modello all’intera società.

Il suo modello non è la trasformazione della fabbrica. Tale obiettivo è strumentale e necessario per il raggiungimento dell’obiettivo; ma il modello, “l’utopia”, è quella di una “nuova e autentica civiltà indirizzata a una più libera, felice, consapevole esplicazione della persona umana (Olivetti 2001, p. 102). È all’interno di tale visione che egli si impegna per “rendere la fabbrica e l’ambiente circostante economicamente solidali” (Olivetti 1952, p. 11).

Un progetto per la società, quindi, non espressione di mero volontarismo. Un progetto che richiede l’intervento dello Stato, per il raggiungimento del benessere materiale e spirituale della società, improntato all’umanesimo e alla solidarietà e finalizzato alla ricerca della felicità.

Non è facile immaginare come un tale obiettivo possa essere perseguito all’interno della fabbrica . Soprattutto se si tiene conto di quanto sia labile il collante – etico – che dovrebbe tenere assieme tutti gli elementi. Se è vero che “le forze materiali non sono mai intese da Olivetti come fini a sé stesse, ma sempre come strumento al servizio di mete spirituali” e che “l’impresa può vivere e crescere solo attraverso il proprio trascendimento spirituale indotto da una costante tensione religiosa”. (A. Peretti, in FabbricaFuturo, 25.12. 2012).

Le sue realizzazioni, il suo welfare, altro non sono che anticipazioni di un modello che dovrebbe estendersi all’intera società e quindi destinate ad essere superate. Ciò è avvenuto solo in parte. Il liberismo economico – seppure imbellettato dall’ambigua lusinga della responsabilità sociale dell’impresa – non tollera altri Dei se non il profitto, unico vero oggetto di devozione.

La comunità, piuttosto che esprimere solidarietà, si dissolve nell’individualismo.

La fabbrica, ritornando al programma di Adriano Olivetti, dovrebbe essere posta al servizio della verità, della giustizia, della bellezza, dell’amore. Verità intesa come libertà di ricerca e di progresso scientifico; giustizia, concepita come equa ridistribuzione a chi lavora della ricchezza da lui prodotta; bellezza, espressione visibile della raggiunta armonia tra esigenze materiali e spirituali; amore, rivolto all’essere umano, [alla] sua fiamma divina, [alla] sua possibilità di elevazione e di riscatto. (Olivetti 2001, p. 28).

A guardarsi intorno, oggi, rimane un dubbio: se si tratti di un reperto di archeologia rinascimentale o dell’ordito di una novella di fantascienza.

Gianni Loy

Che cosa succede e cosa succederà?

b8d4f079-0a9d-4306-b131-9b630a570a4ecostituente-terra-logo Costituente Terra Newsletter n. 135 del 19 ottobre 2023 – Chiesadituttichiesadeipoveri Newsletter n. 316 del 19 ottobre 2023

QUALE FUTURO

Cari amici,
Dopo la Shoà inflitta dall’Europa del Novecento al popolo ebreo, il mondo ha detto “Mai più!” e stabilito che i popoli non devono uccidersi l’un l’altro ma farsi concittadini e fratelli. Con la fondazione dell’ONU il mondo si è poi chiarito le idee sul delitto di genocidio e la sua singolarità rispetto a ogni altra forma di carneficina, eccidio o strage: una differenza tanto forte da inventargli un nome nuovo, dato che non esisteva la parola né la fattispecie del crimine di genocidio prima della risoluzione delle Nazioni Unite dell’11 dicembre 1946 seguita poi dalla Convenzione internazionale del 1948. Questa definiva il genocidio, indipendentemente dal fatto che fosse perpetrato in tempo di pace o in tempo di guerra, come ciascuno degli atti che venisse commesso “con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso come tale”. Tra questi atti era esplicitamente citato “il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale”. Crimine veniva considerato anche “il tentativo di genocidio” e non venivano chiamati “scudi umani”, quali vittime dell’attacco, i membri del gruppo uccisi o esposti a “lesioni gravi alla loro integrità fisica o mentale”.
Istruiti da tale statuizione, possiamo chiamare per nome gli avvenimenti che stanno dilaniando Israele e Gaza, dalla turpe carneficina di Hamas alla terra bruciata frutto della punizione collettiva di Israele, fino alla strage degli innocenti malati e feriti nell’ospedale di Gaza.
In piena guerra è impossibile fare un bilancio complessivo delle vittime; si sa per certo che 1200 israeliani sono stati uccisi nel raid di Hamas e circa 200 sono gli ostaggi. Quanto ai palestinesi, l’intera popolazione di Gaza, fatta oggetto della ritorsione israeliana, assomma a 2.200.000 persone, di cui più della metà sono minori e non hanno alcuna responsabilità per le gesta di Hamas, essendo nati dopo che questa nel 2006 aveva vinto le elezioni.
Purtroppo né l’Europa, né l’Occidente sono in grado di fare alcunché per alleviare le sofferenze in atto e promuovere la riconciliazione e la pace. Da noi non c’è che una rissa per demonizzare gli uni o gli altri, non c’è una visione capace di prospettare un diverso futuro. È chiaro invece che, fallita la soluzione dei due popoli in due Stati, inutilmente perseguita nei passati decenni, occorrerà mettere in campo nuove idee e proporre nuovi ordinamenti anche al di là dei modelli esistenti. Non è detto che la sovranità degli Stati debba continuare ad essere quella incondizionata del modello hobbesiano, né che i conflitti identitari si possano risolvere solo nella perdita delle rispettive peculiarità religiose e culturali secondo il modello della laicizzazione occidentale. E se da un lato l’identificazione di Israele come Stato ebraico potrebbe volgere a una interpretazione più magnanima e anche più fedele al cuore delle Scritture di quanto sia l’attuale forma dello Stato di Israele, nell’Islam può diventare cultura comune e immune dalle sacche di estremismi violenti la visione di recente enunciata nel documento islamo-cristiano di Abu Dhabi e nella lettera che 126 leaders e sapienti musulmani nel 2014 inviarono ad Al-Baghdadi e all’Isis, rivendicando il primato delle misericordia nel Corano e una lettura storicizzata delle passate guerre religiose con l’affermazione che l’Islam non avanza con la spada: “È proibito accomunare la “spada”, e quindi la collera e il rigore, alla “misericordia” – diceva la lettera – “Non è altresì lecito subordinare l’idea di “misericordia per tutti i mondi” (attribuita a Maometto) “all’espressione “inviato con la spada”, perché ciò sarebbe come dire che la grazia è subordinata alla spada, cosa che è evidentemente falsa. .. La Misericordia che Muhammad rappresenta per tutti i mondi non può essere condizionata al fatto che egli abbia impugnato la spada (in un tempo, un contesto e per una ragione specifici). Non si tratta qui soltanto di una sottigliezza accademica…”.
Non c’è dunque nulla che si deve fare che sia fuori della cultura ebraica e di quella musulmana; al contrario c’è scritto in Isaia 61, lo ha riproposto Gesù nella sinagoga di Nazaret, ed è affermato nella teologia islamica. E anche il Papa è d’accordo contro tutta la tradizione della Cristianità armata, “da Costantino ad Hitler”, come dice lo storico Heer ben noto a papa Francesco.
Se non si mettono in campo queste alternative, nemmeno noi ci salviamo. Perché tutti siamo responsabili, “Sono tutti traviati, tutti corrotti, non c’è chi agisca bene, neppure uno” (Salmi), “tutti hanno smarrito la via, insieme si sono corrotti, non c’è chi compia il bene, neppure uno) (Paolo). Sono detti sapienziali, laici, non confessionali.
Nel sito pubblichiamo un articolo di Maria Paola Patuelli sul ripudio della guerra e un commento sulla visita di Ursula Von der Leyen in Israele.
Con i più cordiali saluti, con la preghiera di un vescovo, don Pino Caiazzo, “Sconfitti nel Sangue Innocente”.

Costituente Terra (Raniero La Valle)
Chiesadituttichiesadeipoveri
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La preghiera di un vescovo
SCONFITTI NEL SANGUE INNOCENTE

I fiumi di Babilonia, Ninive, Samaria, Kfar Aza, Gaza

Ieri lungo i fiumi di Babilonia (Sl 137,9; Is 13,16)
i tuoi piccoli sfracellati contro la pietra!
A Ninive lungo le strade (Naum 3,10)
i suoi bambini furono sfracellati!
Samaria sconta la sua pena (Os 14,1)
e i suoi piccoli saranno sfracellati!

Oggi Kfar Aza, kibbutz insanguinato
da grida sgomente!
A Gaza scorre copioso il sangue
di bambini senza colpa.

Orrore scorre dalla vendetta
ruscello cruento irriga una terra
senza più vita
arida e senza Dio.
Chi tornerà a seminarla?

Quale immensa sconfitta
in una vittoria dal sapore aspro
nello scempio di volti innocenti!
Quanto dovrà piangere Dio
sulla nuova Gerusalemme?

E’ questo il prezzo della guerra:
sconfitta di tutti!
Dalla morte resta
terrore e dolore
su volti impietriti.

Non siamo ideologie ma vita!

Uomini impastati di terra
ma plasmati d’eterno
soffio divino
che si espande nei respiri.

Fratelli non bestie!
Abbattiamo ogni spirale di guerra
in Israele come in Palestina
torniamo a seminare giustizia
e pur nelle doglie partoriamo pace.

Don Pino Caiazzo, arcivescovo di Matera-Irsina e vescovo di Tricarico.
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Convegno Adriano Olivetti e la Sardegna 27/28 ottobre 2023
PARTECIPATE

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Ostinatamente contro la guerra

RIPUDIARE la GUERRA si può!?
O è UTOPIA?

Maria Paola Patuelli

Ci fu un tempo, alle nostre spalle, ma non molto lontano da noi, in cui ripudiare la guerra fu considerato un proposito tanto a portata di mano da finire nella nostra Costituzione.
La prima parte dell’ar.11 recita “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali …”. La scelta del termine RIPUDIA non fu immediata. E’ stato con commozione che, tempo fa, vidi una minuta dei lavori della Costituente, preparatoria alla stesura dell’art.11. Nella prima stesura compare il termine “rifiuta”, poi cancellato – la cancellatura è ben visibile – e che diventa ripudia, ben più forte. Non è solo un no, è un no detto con sdegno, con disgusto.

Mario Tronti: il Regno, se noi lo vogliamo

img_4224Mario Tronti: il Regno, se noi lo vogliamo*
di Marcello Tarì•

Mario Tronti è morto il 7 agosto, nella sua casa di Ferentillo, a 92 anni da poco compiuti; un’«età da patriarchi» disse per i 90 anni di Ingrao[1], così come poi dovette dire di sé stesso con un pizzico della sua consueta ironia, tagliente e dolce allo stesso tempo.

Per buona parte del piccolo e grande pubblico, il suo nome è legato al suo primo e giovanile libro, Operai e capitale, pubblicato da Einaudi nel 1966[2], che fu in seguito definito «la bibbia dell’operaismo». Un libro che, comunque lo si voglia giudicare, segnò, a ridosso del ’68, e specialmente delle grandi lotte operaie del 1969, una grande novità ma anche una forte rottura teorica nel marxismo del secondo Novecento, questo secolo duro e difficile a cui lui è sempre rimasto fedele.

L’opera prima

In quelle pagine Tronti compiva infatti la cosiddetta «rivoluzione copernicana» nell’interpretazione del conflitto epocale tra capitale e lavoro: prima viene il soggetto operaio e le sue lotte, dopo il capitale e il suo sviluppo; quindi, al partito va la tattica, al movimento operaio la strategia, proprio quella che in uno dei passaggi più celebri e densi di conseguenze chiamò la «strategia del rifiuto».

C’era già, a ben guardare, in quel rovesciamento di prospettiva, un aspetto della radicalità evangelica a cui più tardi Tronti avrebbe fatto direttamente riferimento: i primi saranno gli ultimi e gli ultimi saranno i primi. Conflitto radicalissimo, espressione organizzata della forza degli oppressi e tuttavia conflitto senza violenza: «Il conflitto è sapere. (…) La forza è il negativo della resistenza, la violenza è il positivo dell’aggressione. (…) Lo sciopero è per eccellenza decisione collettiva, azione che interrompe le attività, è un dire no, no alla continuazione del lavoro, lotta nonviolenta,
conflitto senza guerra». Il conflitto di classe come alternativa di civiltà alla guerra di massacro, perché sono «le forme della lotta [che] rivelano gli scopi del movimento»[3].

Un comunismo eterodosso

Operai e capitale fu un vero choc anche per il suo linguaggio, il suo stile e i suoi riferimenti teorici: tutto materiale estraneo all’ortodossia comunista di quel tempo. A una cultura militante che in Italia era ancora invischiata nel Diamat staliniano coniugato alla triade Croce-Gentile-Gramsci, Tronti oppose l’urto portentoso del pensiero negativo e della cultura della crisi. Nietzsche e Weber venivano introdotti con grande fracasso tra le mura delle fabbriche, le note di Mahler «tra un disperante adagio e un maestoso presto»[4] accompagnavano la marcia degli operai in sciopero e la grande letteratura della crisi, da Musil a Mann a Dostoevskij, impregnava persino la riflessione sul partito. Tutti i concetti dell’economia politica diventavano motivo di conflitto e questo, dalla fabbrica, arrivava come lava incandescente a investire la società intera. La rivista culturale del Partito comunista italiano, Rinascita, lo stroncò inorridita e spaventata.

Ma la sua storia teorico-militante non si concluse certo con quel libro. In queste righe vorrei piuttosto richiamare il Tronti degli ultimi decenni, quello che, dopo la fase dell’«autonomia del politico» degli anni ’70[5], un passaggio importante e generalmente mal compreso, si è avventurato nello studio della teologia politica, sperimentata dapprima in un inedito e ardito connubio della teoria sviluppata da Carl Schmitt con la tradizione marxiana – “Karl und Carl”, come recita un capitolo del suo La politica al tramonto – e quindi nella coltivazione di una spiritualità che affonda nelle profondità e nelle altezze della Scrittura, dei Padri della Chiesa e della letteratura monastica.

E infine, il comunismo messianico di Walter Benjamin, l’insurrezionalismo escatologico di Ernst Bloch e il san Paolo apocalittico-rivoluzionario di Jacob Taubes, tutti chiamati da Tronti a dare una forte correzione tanto all’apocalittica reazionaria espressa dalla teologia politica di Schmitt, quanto all’aridità del materialismo, dialettico o storico che fosse.

Fu infatti in un dialogo pubblico che avemmo qualche anno fa in un piccolo teatro romano che Tronti disse, scandendo bene le parole, che «in fondo, il materialismo è una cosa da borghesi». È in questo orizzonte, credo, che bisogna comprendere il suo autodefinirsi un «rivoluzionario conservatore». Realista sì, materialista no.

Fallimento della rivoluzione e teologia politica

La teologia politica certamente gli arrivava dalla precoce lettura che, tra i primi a sinistra, fece di Schmitt e dei grandi conservatori e tuttavia concerneva anche una più sottile valutazione di carattere esistenziale, personale: bisognava «correggere» la direzione della storia fin dentro la soggettività, poiché «tutto il Moderno è stato il contrario dell’Annuncio»[6].

Nel 1980, in una discussione sul terrorismo, rispondendo ad Angelo Bolaffi, il quale sosteneva che il limite della sinistra stava nel fatto che aveva prodotto una teologia della rivoluzione, lui, con una delle sue classiche risposte fulminanti, replicava che: «Proprio perché c’è stato il fallimento della rivoluzione in Occidente, la rivoluzione è diventata teologia»[7]. O quanto meno lo era diventata per lui. La sconfitta, il fallimento, anche l’umiliazione, diventavano pienamente categorie teologico politiche per poi trasformarsi in qualcos’altro.

Per il Tronti degli anni a cavallo dei due millenni, la dimensione teologica, da essere sintomo e tentativo di risposta a una catastrofe storica, doveva corrispondere alla necessità di una resistenza soggettiva, espressa paradossalmente tramite un approfondimento della crisi. Perché è il cristianesimo stesso, il Vangelo, ad essere «krisis», nel suo senso più vero di scelta e decisione.

Crisi della soggettività, crisi della storia, crisi del «mondo». Ma specialmente crisi rivoluzionaria perché vissuta per e con gli ultimi, gli espropriati, gli oppressi, gli umiliati e offesi: la parte di umanità a cui Tronti ha sempre sentito intimamente di «appartenere», con il suo punto di vista partigiano che deve lottare sempre e di nuovo contro la totalità di «questo mondo» così com’è: ingiusto, violento, egoista, nichilista, individualista.

Il capitalismo per Tronti non era più solamente un modo di produzione odioso, difeso da un altrettanto odioso sistema politico-ideologico, ma una costruzione antropologica vertiginosa, un’idea e una pratica distruttiva della Terra e della Persona che si è accampata nelle anime, corrompendo gli spiriti, minandone la capacità a discernere il bene dal male. Non si trattava più, per lui, di crisi del modo di produzione o dei rapporti di classe, oppure di quella della politica come gestione degli affari dello Stato, bensì di una verticale «crisi di civiltà».

Il problema del marxismo, diceva Tronti, era invece proprio quello di non essere stato in grado di proporre un’antropologia all’altezza dei tempi e della sfida che questi ponevano. Ed è anche in questo senso che bisogna comprendere quel suo costante lamentare, come una ferita aperta, lo scontro che lui reputava assurdo e che pure ci fu tra movimento comunista e cristianesimo, arrivando a delle conclusioni molto vicine a quelle di padre Turoldo, un uomo, un monaco, un partigiano e un poeta per il quale condividevamo una grande passione, che una volta ebbe a scrivere: «il comunismo poteva essere la vera rivoluzione dei poveri; a una condizione, che non fosse tradita precisamente la legge della povertà. Invece tutto è fallito miseramente.

Non si è tenuto conto della cupido rerum, della possibilità del peccato (…) si è pensato di fare un comunismo prescindendo dalla forza della religione, quando essenza della vera religione è “conservarsi puri da questo mondo”»[8].

Ma l’assunzione del paradigma teologico-politico permetteva anche lo svelarsi di una verità inconfessabile per molti militanti di sinistra: se con Schmitt si assumeva che «tutti i concetti della dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati», allora, seguendo una suggestione benjaminiana, è vero anche che «tutti i concetti della dottrina rivoluzionaria sono concetti teologici secolarizzati», come scrivemmo in un testo del 2020 dal titolo Xeniteia. Contemplazione e combattimento[9].

Questo articolo doveva aprire un piccolo cantiere di ricerca tramite il quale, con il contributo di altri amici, abbiamo voluto provare a pensare nuovamente il legame «originario» tra cristianesimo e comunismo, in specie attraverso quella tradizione monastica che ha ispirato profondamente la riflessione trontiana degli ultimi decenni e la sua stessa vita, attraversata dall’amicizia con il camaldolese dom Benedetto Calati e con Enzo Bianchi insieme alle loro comunità.

Il comunismo come forma di vita

«Originario» perché, ne abbiamo molto discusso in questi anni, Tronti si era infine convinto che il comunismo non fosse riducibile al marxismo, che pure ne resta un importante episodio, ma che avesse una più ampia profondità storica e una magnetica dimensione trascendente, indicando una «forma di vita» che contempliamo nelle righe luminose degli Atti degli Apostoli e che poi si può seguire lungo il filo della controstoria dei poveri e degli oppressi: «Che l’idea di comunismo abbia a che fare con il cristianesimo delle origini è un fatto che il movimento comunista del Novecento non ha contemplato. È una grave mancanza»[10]. E d’altronde questo è forse il solo modo di salvare lo spirito del comunismo dall’oblio annichilente a cui «questo mondo», la storia dei vincitori, destina i suoi antagonisti.

Ma dunque, se da un lato la teologia politica riguarda le categorie fondamentali della politica moderna, dello Stato e dei conflitti sul potere – diciamo, per semplificare, le categorie del «che fare?» – dall’altro, quello svelare le radici teologiche del comunismo significa volgere lo sguardo al tema della spiritualità, cioè al «come fare?», ovvero al «come vivere» qui e ora, magari da sconfitti, come Tronti stesso ammetteva senza giri di parole, ma senza mai abiurare l’antica promessa della liberazione.

Insomma, il tema della spiritualità come forma di vita, poiché questo in fondo era stato secondo Tronti il comunismo per molti della sua generazione: un modo d’essere ancor prima di una dottrina o il sogno di un’istituzione alternativa. In uno scambio epistolare, che avemmo attorno a un mio testo sulla spiritualità[11], scriveva: «In fondo in qualche modo la civitas Dei, in contrasto con la civitas hominis, ormai dell’ultimo uomo, è ancora lì ad attendere la forza dello spirito che si proponga di realizzarla. L’uomo nuovo è allora questa forza propositiva generante, non il prodotto finale della realizzazione».

Ancora rovesciamenti di prospettiva: prima lo forza dello spirito, poi la realizzazione; prima l’uomo nuovo, poi le strutture. Il contrario di quanto avevano fatto le rivoluzioni del passato. Nelle quali, all’inizio, diceva Turoldo, c’è sempre la potente presenza disordinante dello Spirito, ma i rivoluzionari non seppero o vollero seguirlo e quindi si perdettero nel credere che l’uomo nuovo dovesse essere il risultato delle unità di produzione, come cantavano i C.S.I. (Consorzio Suonatori Indipendenti): «Sogno Tecnologico Bolscevico/Atea Mistica Meccanica/Macchina Automatica-no anima» (C.S.I., Unità di produzione, 1998).

Coltivare la spiritualità

In realtà, se stiamo a quanto scritto da Tronti, la teologia politica stessa è affare del passato[12], bisogna studiarla e usarla, per afferrare il nesso tra «politica e trascendenza»[13], ma senza illusioni sul presente, perciò quello che invece resta da fare urgentemente è la coltivazione di una forte spiritualità e puntare magari verso un altro continente, quello della «mistica e politica» che l’ultimo Tronti richiamava spesso, anche tramite autori contemporanei come il teologo indiano-catalano Raimon Panikkar, da lui conosciuto per la mediazione di sua figlia Antonia che di Panikkar è una profonda conoscitrice[14]. Lo cita ad esempio in una conferenza tenutasi a Roma nel 2006, nella quale cercava di spiegare che cosa fosse per lui “spiritualità”: «Ora, la spiritualità ha una storia lunga. Arriva a noi da molto lontano.

Panikkar parla di quel terzo senso che è – dice lui – come un barlume più o meno chiaro di consapevolezza che nella vita c’è qualcosa in più di ciò che è percepito dai sensi o inteso dalla mente. (…) non è un prolungamento orizzontale, verso ciò che ancora non sappiamo o che ancora non siamo, è piuttosto un salto verticale verso un’altra dimensione della realtà (…) Stare sulla terra andando verso l’alto, e cioè non piegati sotto qualcosa. Che è poi la condizione dell’essere liberi (…) E tuttavia quella conflittualità della spiritualità – perché io di questo parlo, della conflittualità della spiritualità – credo sia possibile trovarla di più e meglio nella nostra tradizione, la tradizione ebraico-cristiana (…) La mia tesi è questa: la spiritualità è un linguaggio della crisi»[15].

Invece di continuare a dilatare nichilisticamente la secolarizzazione dei concetti teologici, Tronti sembrava impegnato nel senso contrario, cioè nella riteologizzazione dei concetti secolarizzati del politico, come giustamente ha fatto notare il filosofo e teologo svedese Mårten Björk[16].

D’altronde è Tronti stesso che nel 1992, in un saggio significativamente intitolato “Oltre l’amiconemico”, scriveva: «Dobbiamo assumere noi, come filosofia dell’avvenire, il progetto di una riteologizzazione dei concetti secolarizzati? È un problema di pensiero sul politico, ma anche di pratica del politico. Forse occorre tornare a distinguere tra “nuovi cieli” e “nuove terre”. Bisogna darsi il coraggio di riproporre il “regno” utopico di un altro mondo degli uomini e per gli uomini»[17].

I tempi di Bailamme

Di fatto, uno dei laboratori di pensiero più interessanti che Tronti contribuì ad animare a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, insieme a credenti e non, fu quello della rivista Bailamme che portava come sottotitolo programmatico non “rivista di teologia e politica” bensì di “spiritualità e politica”[18].

Se ne apprezzerà la differenza. Dove è importante anche quella e che sta lì in mezzo a dire una possibile congiunzione ma anche un possibile conflitto, una tensione mai del tutto risolvibile e che, proprio per questo, è capace di generare pensiero alternativo e persino di orientare una vita e dargli una forma[19].

Per cui, vi sono due campi: non opposti, anzi strettamente connessi, e tuttavia differenti. Da un lato quello teologico-politico della ricerca sul potere e sulle forme del conflitto attorno ad esso, senza mai dimenticare la dimensione trascendente che agita e informa il tutto, dall’altro quello della spiritualità come «armatura» della soggettività contro il culto dell’ego pubblicizzato dal liberalismo esistenziale, come slancio della libertà dello spirito dentro e contro il deserto mondano, come quella della speranza contro ogni speranza che ti lacera fin nella carne, come l’utopia concreta di un altro mondo, quello che «diventa possibile (…) solo quando diventa necessario»[20]. È di tutto ciò che parla il suo ultimo grande libro, a cui teneva molto, Dello spirito libero, in cui rivendicava la scelta di una spiritualità «non per sé, ma contro il mondo (…) Stare in pace con sé vuol dire entrare in guerra con il mondo»[21].

E a proposito di speranze, in uno dei suoi più bei testi scritti di recente[22], Tronti diede infine la sua definizione di teologia politica, che credo meriti di essere qui ricordata e meditata: «Nel Magnificat leggiamo: abbattere i potenti, innalzare gli umili. Ecco il teologico. Come abbattere i potenti, come innalzare gli umili. Ecco il politico». Ancora una volta: lo Spirito ispira e guida, il politico segue e cerca di operare per la realizzazione del regno.

Teologia della liberazione

Mi diceva che avremmo dovuto riprendere e approfondire la conoscenza della teologia della liberazione perché, scriveva, «lì in effetti c’è il combattimento». E quindi: contemplazione – guardando ai padri del deserto – e combattimento – guardando alle barricate evangeliche del Sud del mondo.

Il suo dubbio, che condivido, era se si potesse davvero impiantare un discorso come quello della teologia della liberazione da noi, in Occidente, dove i poveri, gli ultimi, come soggetto, sono «da noi ormai oltre che non riconosciuti, anche irriconoscibili, per la causa, come si diceva una volta».

Questa invisibilità degli ultimi, che credo cominciò a riconoscere grazie all’intensa amicizia che ebbe con il gesuita Pio Parisi, lo toccava profondamente[23]. Bisogna riuscire a «vedere oltre», appunto, e nel suo ultimo intervento pubblico dello scorso giugno, parafrasando il Gesù di Giovanni 9,39, diceva così la sua speranza, che era anche un incitamento alla lotta: «chi non vede vedrà, chi vede sarà accecato»[24].

Gigi Roggero, che di quell’ultimo incontro è stato l’organizzatore, scrive che in quella frase c’è «un Gesù che non porge l’altra guancia. Un Gesù molto benjaminiano, che lotta per vendicare il passato.

Un Gesù che divide il mondo in due. Ricchi e poveri, per il cristianesimo delle origini. Operai e capitale, per noi. Amico e nemico, nel lessico del realismo»[25].

Credo che in questo commento risuoni un aspetto chiliastico che è effettivamente presente in un certo Tronti – aspetto che, devo dire, io stesso ho coltivato per lungo tempo – e quindi un’impazienza, dunque una tentazione, per cui la divisione finale non è, come è nel Vangelo e come diceva in realtà Benjamin[26], nelle mani del Messia, ma si secolarizza e quindi va fatta qui e ora con le nostre stesse mani, e tanto peggio, se insieme alla zizzania, verranno strappate delle spighe di grano.

Il mistero di una vita

E tuttavia Mario Tronti, come ogni vita umana, è un mistero e vi era in lui anche un’altra tensione, un corpo a corpo con la Parola, attraverso cui credo sentisse che l’ultima, vera e definitiva rivoluzione, la grande divisione escatologica, la «rottura totale» come diceva Bonhoeffer, non è nelle nostre possibilità e che invece a noi tocca adesso forse spostare quel «fuoco nella mente», che sempre ci ha portato in battaglia, per farlo ardere nel cuore, nel mentre volgiamo lo sguardo verso l’alto, lottando, certo, per affrettare la venuta del regno; ma è un affrettare che non corrisponde a una nostra imposizione sul mondo, a una scarica della volontà di potenza, bensì alla forza e all’intensità del nostro desiderio.

In quell’articolo che scrivemmo a quattro mani, alla frase «un regno, ci è stato annunciato, che è già tra noi», fu la sua mano ad aggiungere «se noi lo vogliamo». È qualcosa che ha a che fare con una conversione del cuore e un desiderio di comunione nello spirito, dalle quali consegue una politica.

Almeno così intendo le parole che mi scrisse due anni fa: «Se capisco bene, la direzione di marcia si configura nel senso di tornare a coniugare, dentro e contro tutte le repliche della storia, libertà e comunismo. Libertà dello spirito per resistere al mondo, comunismo degli spiriti per ascendere al regno». È interessante la scelta del verbo: «ascendere». Ma è giusto, perché il Suo regno non è di «questo mondo» e verso l’alto è la direzione della libertà.

Tanto ancora ci sarebbe da dire e verrà il tempo, ma adesso, carissimo Mario, mentre noi continuiamo a guardare le cose «per speculum in aenigmate» e ci prepariamo a mordere ancora la polvere, forse tu già vedi e conosci e ami «facie ad faciem» nella comunione degli spiriti. Così sia.

* in “SettimanaNews” del 23 agosto 2023ripreso sul Blog di Enzo Bianchi del 28 agosto 2023.

Marcello Tarì è autore e traduttore. Si è occupato dei movimenti antagonisti italiani e di teoria politica. Suoi i volumi: Il ghiaccio era sottile, DeriveApprodi 2012 e Non esiste la rivoluzione infelice, DeriveApprodi 2017. Negli ultimi anni la sua ricerca riguarda la spiritualità e la politica dalla radicalità evangelica. Con l’amico e maestro Mario Tronti ha animato dal 2020 al 2022 la rubrica Xeniteia. Contemplazione e combattimento.
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Note

Utopie e rivoluzioni. Ritorna il Contemporary 2023, Festival di arte e avanguardia

img_4015Da giovedì 17 agosto a sabato 19 agosto ritorna Contemporary, Festival di arte e avanguardia, tra i più innovativi e vivaci festival del panorama nazionale. L’edizione corrente che si svolgerà nel piccolo paese di Donori è anche quella che celebra il decimo anniversario della sua fondazione insieme agli artisti e le artiste in residenza Panayiotis Andreou, Satya Forte, Gianmaria Marcaccini, Davide Mariani, Miriam Montani, Fabrizio Segaricci, Tekla Vály, le cui opere saranno visibili per tutta la durata del festival. La troupe del documentario è composta da Camilla Deidda e Marlon Sartore. Le tre serate saranno presentate da Giorgio Manca.

Che succede?

b8d4f079-0a9d-4306-b131-9b630a570a4ecostituente-terra-logo Costituente Terra Newsletter n. 116 del 10 maggio 2023 – Chiesadituttichiesadeipoveri Newsletter n. 297 del 10 maggio 2023

SAGGEZZA DI UN AMBASCIATORE

Cari amici,
ci sono alcune importanti notizie da raccogliere.
Il “Corriere della Sera” dell’8 maggio, forse con qualche imbarazzo, ha pubblicato un clamoroso articolo dell’ex ambasciatore a Mosca Sergio Romano in cui si chiede lo scioglimento della NATO, oggi priva delle ragioni per cui è nata. L’articolo dell’autorevole esperto di politica internazionale dice infatti così: “L’Alleanza atlantica ha avuto una parte utile e rispettabile. Ma la Guerra fredda è finita, il comunismo è sepolto, gli Stati Uniti hanno avuto un presidente come Trump e sarebbe giunto il momento di fare a meno di un’istituzione, la Nato, che ha ormai perduto le ragioni della sua esistenza”. L’accenno a Trump sembra dire che gli Stati Uniti non sono più affidabili, Per giungere a tale conclusione l’articolo richiama l’accordo “fondatore” Nato-Russia del 27 maggio 1997 in cui era scritto che “Nato e Russia non si considerano nemiche e intendono lavorare insieme per contribuire a instaurare in Europa una sicurezza comune e globale in conformità ai principi dell’ONU” . Invece è accaduto il contrario: facendo proprie le parole dello storico Giovanni Buccianti, l’ambasciatore ricorda che “in seguito all’implosione dell’URSS (e non alla vittoria degli Usa nella Guerra Fredda) la NATO prese a svolgere una costosa campagna acquisti di tanti Paesi portandoli tutti a giocare contro la Russia e arrivando ai confini del suo territorio. Possibile che nessuno abbia ancora detto che così facendo si stava favorendo lo scoppio della Terza guerra mondiale?”. Così Sergio Romano e il “Corriere della sera”. Ma allora chi ha aggredito chi?
La Siria è stata riammessa nella Lega Araba. Ciò, insieme alla rappacificazione tra Iran e Arabia Saudita mediata dalla diplomazia cinese, sta cambiando gli equilibri mondiali. Gli Stati Uniti che perseguono altri progetti , e l’Unione Europea, “continuano ad opporsi – scrive lo stesso “Corriere della Sera” – a qualsiasi regolarizzazione dei rapporti”. L’idea sembra essere che alla guerra non si può rinunziare.
In Texas ci sono state altre due stragi, che hanno provocato in tutto 16 morti. Dall’inizio dell’anno ce ne sono state più di 200, cioè più di una al giorno, mentre nel Paese in mani private ci sono più armi (393,3 milioni) che Americani. Questi corpi del reato in mano a tutti i cittadini sono protetti dal secondo emendamento della Costituzione americana. Biden ha detto: “perché continuare con questa carneficina?”. Già, perché continuare? Il problema è che a garantire che dalla “Libera Impresa” – uno dei tre cardini del modello di società che gli Stati Uniti vogliono installare in tutto il mondo – non sia escluso il business delle armi, non c’è solo la Costituzione, ma soprattutto la cultura del Paese. Questa è ancora quella del West, del “chi spara per primo”, ma è anche la cultura che discende dal potere, e che lo stesso Biden e i governi degli Stati Uniti adottano nei rapporti col resto del mondo. È in forza di questa cultura che, riguardo al nucleare, gli Stati Uniti hanno deciso di passare alla dottrina del “first use”: la vecchia concezione basata sulla deterrenza e sulla risposta a un eventuale attacco altrui, non funziona più. Questa opzione non si può più fare, sta scritto, perché non si può lasciare che i nemici colpiscano per primi. La miglior difesa è l’offesa. Quindi è prevista, di fronte a una minaccia, l’azione preventiva.
Sono partite con una fittizia consultazione delle opposizioni le riforme costituzionali. Giorgia Meloni, benché affermi di voler instaurare un sistema che dia più stabilità ed efficienza al sistema, si dice indifferente alla scelta tra presidenzialismo e premierato elettivo, anche se c’è una grande differenza tra le due ipotesi: le basta che ci sia qualcuno eletto al comando. Ciò rivela la ragione personalissima per cui la presidente del Consiglio intraprenda con tale urgenza la via delle riforme costituzionali. Il suo governo è scaturito da un’elezione estiva, con la complicità di una cattiva legge elettorale, di un forte astensionismo e della sbadataggine dei partiti oggi all’opposizione. È molto difficile, se non impossibile, che queste condizioni abbiano a ripetersi. Volendo perpetuare il suo potere oltre gli anni di questa legislatura, l’unica strada per lei è l’elezione popolare diretta, non importa a quale delle due cariche, nell’idea che il favore degli attuali sondaggi ad personam si traducano in un voto plebiscitario a suo favore. Si tratta di un’illusione, quando il Paese, a parte l’establishment, non è affatto di destra. Né si fida di una “destra costituente”, anche per le prove che su questo versante la destra sta dando di sé.
I riformatori costituzionali, di ieri e di oggi, non capiscono che il Paese ama le sue istituzioni; il meno amato è proprio il governo. Da quando Mussolini ha detto che voleva fare della Camera un bivacco di manipoli, il Parlamento è il bene da difendere, non si può profanare. Ora, su regia del suo presidente La Russa, l’aula del Senato è stata trasformata, come scrive “Critica liberale”, in un “bivacco pop”, per far «cantare a Gianni Morandi “Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte” e altre canzonette da discoteca di paese». La Russa si è anche fatto dare dall’Archivio di Stato l’originale della Costituzione che è inserito negli atti ufficiali delle leggi della Repubblica. Tomaso Montanari se ne indigna, ma nota che una profanazione ben maggiore della Costituzione si sta preparando “con la manovra a tenaglia del presidenzialismo e dell’autonomia differenziata, due armi letali che se sommate diventano una bomba nucleare capace di annichilire la Repubblica disegnata dai costituenti”.
Nel sito pubblichiamo l’articolo dell’ambasciatore Romano e un articolo in lode dell’artigiano di Beppe Manni. Vi segnaliamo, nel sito Costituente Terra, il testo del discorso di Putin sulla Piazza Rossa nella ricorrenza del 9 maggio, che non è stato fruibile sulla stampa d’informazione. Se è un nemico, perché non sapere quello che dice? Come sostiene il papa: “ Credo che la pace si faccia sempre aprendo canali, mai si può fare una pace con la chiusura. Invito tutti ad aprire rapporti, canali di amicizia”.
Ricordiamo che si può firmare scrivendo a Ripudio della Guerra l’appello “Per un’alternativa all’impero”.
Con i più cordiali saluti,

Raniero La Valle

Chiesa di Tutti Chiesa dei Poveri
Costituente Terra
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PER UN’ALTERNATIVA ALL’IMPERO
3 MAGGIO 2023 / COSTITUENTE TERRA / LA CONVERSIONE DEL PENSIERO /
Gli ultimi avvenimenti hanno aperto due visioni del mondo: un dominio universale o una pace nelle differenze. Un appello

La guerra in Ucraina è giunta ormai ad essere una guerra suicida: il Regno Unito combatte contro se stesso e la propria stessa immagine annunciando apertamente l’invio di proiettili anticarro ad uranio impoverito, l’Ucraina vuole riconquistare il Donbass grazie a queste armi con componenti nucleari capaci di contaminare l’ambiente per migliaia di anni e di intossicare chi lo inala o chi lo ingerisce: “si sospetta – spiega il pur simpatizzante Corriere della Sera – che arrivi a modificare il DNA, causando linfomi, leucemie e malformazioni dei feti”, tutto ciò a danno delle stesse popolazioni di cui si rivendica l’appartenenza all’Ucraina; la Russia sfida l’esecrazione universale minacciando per tutta risposta di schierare atomiche tattiche in Bielorussia.

A sua volta, dopo una debole tergiversazione, e con la spinta determinante del presidente Biden, il cancelliere tedesco Sholz ha dato il via libera alla distribuzione di carri armati tedeschi a tutti i fornitori di armamenti a Zelenski che insistentemente li chiede. In tal modo settant’anni dopo l’”Operazione Barbarossa” vediamo di nuovo i Panzer tedeschi avanzare nella pianura d’Ucraina per sconfiggere la Russia non più sovietica.

Questa volta però la regia è americana, gli attori ucraini, mentre ogni negoziato è escluso per legge dallo stesso Zelensky.

È difficile ignorare l’impatto emotivo di questa svolta. Si può avere la memoria corta e il cuore indurito, ma nelle viscere della terra corre un sussulto dinanzi al ritorno dei carri tedeschi proiettati a combattere contro i russi nel cuore dell’Europa, quando quell’evento fu al centro della seconda guerra mondiale e ne precedette di poco l’esito con la tragedia della bomba atomica, l’ingresso dell’umanità tutta nell’età del nucleare genocida, l’adozione di un rapporto internazionale postbellico temerariamente fondato sulla “reciproca distruzione assicurata”, fino alle attuali strategie di guerre preventive e di minacciato ricorso all’arma assoluta.

In tal modo va in scena il sempre esorcizzato e incombente conflitto tra la NATO e la Russia in Europa. E dopo? Potrà ancora sussistere l’ONU, quando gli alleati di ieri, diventati i nemici di oggi, dovrebbero stare insieme come Membri Permanenti del Consiglio di Sicurezza per salvaguardare la pace e la sicurezza del mondo, e invece sono intenti a distruggerle? Non a caso l’Ucraina contesta già oggi la presidenza russa pro-tempore del Consiglio di Sicurezza. E siamo sicuri che questa volta, per non scomparire, la Russia invece di versare nell’olocausto 26 milioni e 600.000 morti, non sarà indotta alla scelta disperata di difendersi col “primo uso” dell’arma nucleare?

E tutto ciò accade quando il mondo ha distolto lo sguardo dalla vera priorità, che è salvare la Terra dal disastro ecologico, e anzi va allo scontro proprio sul gas, l’energia. I beni vitali e la reciproca deterrenza nucleare.

È chiaro che la priorità è cercare le vie d’uscita dalla crisi in Ucraina. Se ne sarebbe potuto trovare la soluzione, se non fosse stata sacrificata a interessi estranei all’Europa, fino al 24 febbraio 2022, quando l’assalto militare russo ha gettato tutto nella fornace dello scontro armato; e forse all’inizio un negoziato sarebbe stato risolutivo. E ora ci sono di mezzo centinaia di migliaia di caduti, orfani, vedove, città distrutte, odi implacabili e l’accecamento, nella perdita di ogni verità, della maggior parte dei protagonisti, degli ispiratori, osservatori e narratori del conflitto. Però non possiamo non dire che giunti a questo livello di rischio, i protagonisti palesi od occulti della guerra la devono immediatamente fermare, anche contro ogni irredentismo territoriale: il negoziato è necessario e possibile, la ragione e il cuore hanno sempre la possibilità di risorgere.

Quale visione del mondo?

Qui però vogliamo interrogarci soprattutto sulle due visioni del mondo che gli ultimi avvenimenti hanno aperto davanti a noi, e che ci pongono davanti a scelte da cui dipende un lungo futuro, e forse la possibilità stessa di un futuro. Non si tratta infatti di dettagli, ma di un crinale a cui siamo giunti, da cui si potrebbe cadere in un precipizio senza rimedio, quel crinale che il vecchio La Pira, negli anni più paurosi della guerra fredda, chiamava il “crinale apocalittico della storia”, intendendo col termine “apocalittico” non la fine stessa della storia, ma lo svelamento dell’alternativa radicale cui essa era pervenuta mettendo la guerra come principio e signore di tutte le cose, e nello stesso tempo invitava i sindaci delle città opposte a Firenze.

Qual è la nostra visione del mondo, stando noi su questo crinale?

La visione del mondo che ci viene proposta con grande insistenza, e che ci viene attribuita come connaturale alla nostra civiltà e alla nostra storia, è la visione del mondo propria dell’Occidente, anzi dell’“Occidente allargato”, che ha oggi il suo centro in America, la sua potenza militare negli Stati Uniti e nella Nato, la vocazione a estendersi fino agli estremi confini della terra.

È in nome dei suoi valori che siamo chiamati alle armi, per “mettere il nostro mondo saldamente sulla strada di un domani più luminoso e pieno di speranza”, come promette oggi il presidente Biden nell’illustrare la “Strategia della sicurezza nazionale degli Stati Uniti”.

Di fronte a noi abbiamo però, gravemente inquietanti, due documenti fondativi che propugnano e illustrano questa visione del mondo e la assumono come normativa. Si tratta dei due documenti programmatici in cui, in piena guerra d’Ucraina, il 12 e 27 ottobre 2022, la leadership americana ha enunciato le due strategie fondamentali degli Stati Uniti: il primo è per l’appunto la “National Security Strategy” (october 2022 – The White House Washington) del Presidente Biden (in sigla NSS), il secondo ne è la pianificazione operativa sul piano militare, ed è la “National Defense Strategy of The United States of America 2022” (in sigla NDS) del capo del Pentagono Lloyd Austin, corredata da un dettagliato aggiornamento della “postura” o visione nucleare americana. Questa visione o “postura” ribadisce la decisione di non adottare la politica del “Non Primo Uso” dell’arma nucleare perché essa “comporterebbe un livello di rischio inaccettabile alla luce della gamma di capacità anche non-nucleari degli avversari che potrebbero infliggere danni di natura strategica agli Stati Uniti e ai loro alleati e partners”. È la conferma di quanto era già stato deciso dopo l’attacco alle Torri gemelle: la vecchia concezione basata sulla deterrenza e sulla risposta a un eventuale attacco altrui, non funziona più. Questa opzione non si può più fare perché non si può lasciare che i nemici colpiscano per primi. La miglior difesa è l’offesa. Quindi è prevista, di fronte a una minaccia, l’azione preventiva; la nuova strategia è di ricorrere se necessario per primi all’arma nucleare. scudo al cui riparo si possono condurre senza rischi per gli Stati Uniti le guerre convenzionali necessarie. E questa nuova dottrina, adottata ormai anche dalla Russia, fa sì che dietro questo scudo si pensa che si possnoa combattere tutte le guerre convenzionali, come si è sempre fatto in tutto il corso della storia.

Due documenti programmatici

Per quanto strettamente americani, questi due documenti, di fatto ignorati in Occidente, riguardano tutti, perchè investono non solo l’una o l’altra regione del globo, ma il destino del mondo come tale. E ciò è dimostrato dal fatto che di questo mondo gli Stati Uniti rivendicano globalmente la leadership, che vi installano le loro basi militari da per tutto, e che intendono disporne con l’affermazione che “non c’è nulla che vada oltre le nostre capacità: possiamo farcela, per il nostro futuro e per il mondo”; la posta in gioco sarebbe “di rispondere alle sfide comuni e affrontare le questioni che hanno un impatto diretto sulla vita di miliardi di persone. Se i genitori non possono nutrire i propri figli – specifica Biden – nient’altro conta. Quando i Paesi sono ripetutamente devastati da disastri climatici, interi futuri vengono spazzati via. E come tutti abbiamo sperimentato, quando le malattie pandemiche proliferano e si diffondono, possono aggravare le disuguaglianze e portare il mondo intero al collasso”. Sarebbe questa la preoccupazione degli Stati Uniti, la giusta ragione del loro intervento ma anche il motivo per cui il raggio d’azione entro cui la loro impresa, politica e militare, si deve esercitare è senza limiti territoriali: “Abbiamo approfondito le nostre alleanze principali in Europa e nell’Indo-Pacifico. La NATO è più forte e unita che mai, stiamo facendo di più per collegare i nostri partner e le nostre strategie nelle varie regioni attraverso iniziative come il nostro partenariato di sicurezza con l’Australia e il Regno Unito (AUKUS). E stiamo forgiando nuovi modi creativi per lavorare in comune con i partner su questioni di interesse condiviso, come con l’Unione Europea, il Quadrilatero Indo-Pacifico, il Quadro economico Indo-Pacifico e il Partenariato per la prosperità economica delle Americhe”; e da lì lo sguardo si spinge fino all’Artico.

Si postula dunque un unico potere che si protende alla totalità del mondo, nella presunzione che questo debba avere un unico ordinamento politico, economico e sociale, corrispondere a un unico modello di convivenza umana; e questo è un presupposto che da tempo gli Stati Uniti avevano posto a base della loro relazione col mondo, da quando, dopo l’11 settembre 2001 e lo shock dell’attacco alle Due Torri, avevano enunciato l’ideologia a cui doveva essere conformato l’assetto del mondo, perché questo corrispondesse agli interessi e alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti d’America. Secondo quella ideologia il solo modello valido per ogni nazione sarebbe riassumibile in tre termini: Libertà, Democrazia e Libera Impresa; dunque un modello che mette insieme una definizione antropologica, una indicazione di regime politico ed una forma obbligatoria di organizzazione economico-sociale, e questo composto era dichiarato come normativo per tutti, sulla scia del “progetto”, pubblicato nell’ottobre del 2000, del “nuovo secolo americano”. Dunque non venivano contemplati tanti possibili regimi politici, economici e sociali, corrispondenti eventualmente a diverse teorie. Ce ne sarebbe uno solo che comporta un modello umano, quello dell’individualismo liberale, un modello politico, quello della democrazia occidentale, ed un modello economico, quello del capitalismo d’impresa. Altri modelli non sono ammessi e compito degli Stati Uniti sarebbe di diffondere questo modello in tutto il mondo.

Si potrebbe dire, fin qui, che non possiamo fare obiezioni: ognuno può avere la propria visione del mondo e auspicare e operare perché si realizzi.

Una chiamata alle armi anche per noi

Il problema è però che gli Stati Uniti vogliono fare tutto questo non per conto loro, ma coinvolgendo “l’impareggiabile rete di alleanze e partnership dell’America”. Questi partners nello stabilire l’ordine del mondo sono chiamati in causa 167 volte nei due documenti del presidente Biden e del Pentagono e attraverso la NATO in questa chiamata alle armi siamo coinvolti anche noi.

Dunque la cosa ci riguarda; e da partners e alleati, e non da sudditi o “vassalli”, come ha detto Macron, dobbiamo decidere se questa è la visione del mondo che abbiamo anche noi, se questo è il mondo che vogliamo costruire e qual è la nostra idea dello “stato del mondo” in cui ci troviamo ad operare.

La supremazia americana

La premessa da cui parte Biden e su cui tutta la strategia americana è fondata, “la nostra visione nel tempo”, come egli la definisce, è che “l’era post-Guerra Fredda è definitivamente finita”. Sarebbe una buona notizia se annunziasse la fine della guerra come tale. Purtroppo invece non è così: essa sancisce solo la fine della sua modalità come “guerra fredda”, cioè come una guerra sempre minacciata e mai combattuta, con armi sempre pronte all’uso ma accumulate e tenute ferme negli arsenali. Paradossalmente invece quella che ne deriva è una guerra liberata, non più trattenuta dai rischi di uno scontro nucleare, tornata ad essere libera all’esercizio, come non lo era stata all’epoca della competizione tra I blocchi, fino alla rimozione del muro di Berlino, e poi subito era stata recuperata come necessaria, buona e giusta e persino umanitaria con la prima guerra del Golfo, già nel 1991.

La seconda premessa è che liberato dai vincoli della guerra fredda, l’ovvio modo degli Stati, anzi delle maggiori Potenze, di relazionarsi tra loro, debba essere e sia quello di “una competizione strategica per plasmare il futuro dell’ordine internazionale” e, per gli Stati Uniti, quello di “far avanzare gli interessi vitali dell’America, posizionare gli Stati Uniti per superare i concorrenti geopolitici, affrontare le sfide comuni. Non lasceremo il nostro futuro vulnerabile ai capricci di chi non condivide la nostra visione di un mondo libero, aperto, prospero e sicuro”, dice Biden. Dovranno essere pertanto gli Stati Uniti a vincere in questa competizione: “Essi guideranno con i nostri valori”, “nessuna nazione è meglio posizionata degli Stati Uniti per avere successo”, naturalmente col corteo dei loro seguaci, di “tutti coloro che condividono i nostri interessi”: dunque si parte vincenti e lo spazio di tempo in cui ciò deve avvenire è “il prossimo decennio”, che il documento programmatico del presidente Biden definisce come “decisivo” e che poi nella programmazione della Difesa di Lloyd Austin si estende a comprendere “due decenni” destinati peraltro a prolungarsi nei decenni successivi. Dunque è un testo sul futuro del mondo.

La sfida culminante: la Cina

Questo è il mondo come è visto nel tempo, ma come è visto nello spazio, come viene proposto al nostro sguardo (e alle nostre decisioni) di oggi? Esso è un mondo di cui una parte (peraltro minore) si identifica con la democrazia, ed è contro l’altra, quella delle autocrazie, considerate costitutivamente minacciose e aggressive.

Nel documento del ministro della Difesa Lloyd Austin, esso è considerato come “l’ambito di sicurezza” in cui deve operare l’insieme delle Forze Armate americane (Joint Force), ovvero è il mondo come gli Stati Uniti se lo immaginano e vogliono che sia. È un mondo diviso tra quattro grandi soggetti considerati come contrapposti e in lotta fra loro: 1) Gli Stati Uniti e i loro alleati e partners; 2); la Cina; 3) la Russia, la Corea del Nord e le organizzazioni violente e estremiste, cioè il terrorismo; 4) la “zona grigia” che non è integrata in nessuno dei tre campi suddetti. L’Europa è aggregata al primo mondo, attraverso la NATO.

E subito, sia nel documento della Casa Bianca, sia in quello del Pentagono, vengono designati I due “competitori strategici”, quelli con cui dovrebbe disputarsi il dominio del mondo: e il maggiore non è, a sorpresa, il nemico tradizionale degli Stati Uniti, l’altra grande Potenza della seconda Guerra mondiale, la Russia, i cui “limiti strategici – sostiene Biden – sono stati messi in luce dopo la sua guerra di aggressione contro l’Ucraina”; ora il vero nemico è la Cina. “La Russia – dice Biden – rappresenta una minaccia immediata e continua all’ordine di sicurezza regionale in Europa ed è una fonte di disturbo e instabilità a livello globale, ma non ha le capacità trasversali della Repubblica Popolare Cinese”.

Pertanto è la Cina a rappresentare la “sfida culminante” (pacing challenge) nel prossimo decennio e nei decenni successivi, a causa della sua intenzione e capacità di “rimodellare l’ordine internazionale a favore di un ordine che inclini il campo di gioco globale a suo vantaggio”. È questa la ragione per cui il piano di pace presentato da Xi Jinping per l’Ucraina, non è stato preso in considerazione.

È singolare che mentre per la Russia Biden abbia buon gioco nell’attribuirle “una minaccia immediata al sistema internazionale libero e aperto come ha dimostrato la sua brutale guerra di aggressione contro l’Ucraina”, ragione per cui essa doveva essere ridotta per punizione alla condizione di “paria” (che nel sistema indiano delle caste significa essere gettati fuori dall’umanità e dalla storia) per la Cina non c’è alcuna motivazione che sia addotta per doverla combattere, se non il fatto che essa sarebbe “l’unico concorrente che ha l’intenzione di rimodellare l’ordine internazionale e, sempre più spesso, ha il potere economico, diplomatico, militare e tecnologico per perseguire tale obiettivo”.

Sulla scia di questa “damnatio” pronunciata da Biden, pochi giorni dopo, il 27 ottobre, il documento operativo sulla “Strategia della Difesa Nazionale degli Stati Uniti” pubblicato dal Segretario alla Difesa Lloyd Austin, illustrava in che modo l’immenso potenziale americano sarebbe stato predisposto a sostenere con la deterrenza questa sfida con la Repubblica Popolare Cinese e a “scoraggiare l’aggressione”; esso sosteneva bensì che il conflitto con la Cina non è “né inevitabile né auspicabile” ma anche che gli Stati Uniti sono pronti, se la deterrenza fallisce, “a prevalere nel conflitto”, come del resto in ogni altro conflitto che si trovino a combattere.