Risultato della ricerca: territorio intelligente
Quale Italia? Sud, Sardegna: poveri noi!
Sud e Nord, la Costituzione vangelo di una fede laica
Massimo Villone su il manifesto
[Pubblicato 8 giorni fa - Edizione del 20 luglio 2023]
SVIMEZ 2023. Il divario territoriale non si riduce, ed anzi tende per molti profili ad allargarsi, sia pure meno e più lentamente rispetto alla caduta seguita alla crisi del 2008
Negli ultimi giorni due voci si sono segnalate con forza nella cacofonia della politica italiana. Una è lo Svimez, che ha presentato le Anticipazioni sul Rapporto 2023. L’altra è quella di don Mimmo Battaglia, arcivescovo di Napoli, che ha rivolto una dura critica all’autonomia differenziata.
Tema principale in entrambi i casi la faglia tra il Sud e il resto del paese.Per la Svimez il divario territoriale non si riduce, ed anzi tende per molti profili ad allargarsi, sia pure meno e più lentamente rispetto alla caduta seguita alla crisi del 2008.
Dopo quell’anno il Sud non ha mai del tutto recuperato, rimanendo tuttora a -7 punti di PIL. Così, vediamo al Sud una inflazione più alta, una perdita di potere di acquisto dei salari maggiore, una più alta quota di lavoro precario e a termine, nonché di salari al di sotto dei 9€ all’ora tanto osteggiati dalla destra (25% al Sud, circa il 16% al Centro-Nord). Al Sud il termine lavoro povero non è un’espressione letteraria, ma la condizione di vita di milioni.
PREOCCUPANO, POI, le previsioni Svimez fondate su dati settoriali, come ad esempio l’industria che nel Sud contribuisce alla crescita assai meno che nel Centro-Nord (10% vs 25%), o i minori investimenti in macchine e attrezzature. Questi elementi suggeriscono che non si rafforza la capacità produttiva, in ipotesi essenziale per il rilancio del Sud come secondo motore del paese. Preoccupano, altresì, i dati sugli investimenti in materia di istruzione che non risultano mirati ai territori con maggiori carenze e bisogni. Uno scenario coronato dalla terribile cifra di 460000 laureati emigrati dal Sud verso il Centro-Nord nell’arco di venti anni.
NELLE ANTICIPAZIONI Svimez le parole autonomia differenziata non compaiono. Ma non sono invero necessarie, perché la posizione critica della Svimez sul tema è nota, è stata in molteplici occasioni manifestata dal presidente Adriano Giannola e dal direttore Luca Bianchi, ed è da ultimo ribadita nella memoria per l’audizione in Senato (che si legge sulla pagina web della I Commissione). Anche per la Chiesa potremmo dire che la critica all’autonomia differenziata non è una prima assoluta. Ma certo le parole dell’Arcivescovo Battaglia segnano un salto di qualità per chiarezza di posizione e forza argomentativa.
Don Battaglia non parla solo in termini di fede e carità. Critica duramente la scarsa tensione morale di una parte della politica, che ha indebolito le istituzioni e sprecato risorse pubbliche. Censura una voglia di separatezza che viene dall’idea di fare “tante piccole Italie”, attraverso riforme costituzionali rabberciate. Attacca direttamente l’autonomia differenziata. Parole – argomenta – che prese singolarmente recano un messaggio positivo. Ma in perversa sinergia spaccano il paese ed accrescono la povertà che già colpisce milioni. Contesta persino la tesi – cara ai fan – dell’autonomia differenziata come attuazione della Costituzione, che invece persegue l’eguaglianza, impegnando lo stato a realizzarla.
CONDIVIDIAMO. Se le parole di Don Battaglia indicano che la Chiesa come istituzione scende esplicitamente in campo contro l’autonomia differenziata siamo di fronte a una importante e positiva novità. Non sembra dubbio che questa dovrebbe essere la posizione della Chiesa di Papa Francesco. Ma esiste pur sempre una parte della Chiesa che potrebbe dissentire. Per questo sarebbero opportune iniziative utili a dimostrare che la posizione di Don Battaglia non è isolata.
Inoltre, è in atto una discussione sulla collocazione politica dei cattolici. Il contrasto all’autonomia differenziata meriterebbe un posto di onore in un manifesto o una carta di valori. Nell’esperienza quotidiana capita di incontrare qualcuno che frequenta con devozione formale i sacramenti mentre si nega alla mano che chiede aiuto. Don Battaglia ammonisce che non è “politicismo” se la Chiesa prende parte per gli ultimi e i bisognosi. E conclude che oggi “questo sostegno deve andare anche ai territori, affinché non siano lasciati soli. A quelli del Sud …”. È la stessa conclusione cui deve arrivare la politica, con le proprie ragioni.
CARO DON BATTAGLIA, un passaggio ci è molto piaciuto nella sua riflessione. Laddove racconta che ha scritto avendo per caso davanti uno accanto all’altro il Vangelo e la Costituzione, le cui parole “stanno bene insieme”. Non potrebbe essere diversamente. Cos’è infine la Costituzione se non il vangelo di una fede laica?
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Riforme. «Autonomia differenziata, da Vangelo e Costituzione i criteri per un giudizio»
Mimmo Battaglia su Avvenire sabato 15 luglio 2023*
L’arcivescovo di Napoli interviene nel dibattito sulla discussa riforma che incide sulla struttura dello Stato e, ancor più, sullo spirito e i valori che lo animano, sorretti dall’idea di persona
C’è un’aria strana che si muove nel cielo. Da troppo tempo, ormai. Non si comprende bene se è di vento, e di che vento. O di temporale che minaccia. È certa, però, la direzione in cui essa si muove. È quella della povera gente, resa ogni giorno più povera da una certa politica che non la considera, se non per la convenienza, magari elettorale. La gente, resa più distante dalle istituzioni, che si vorrebbero asservite al potere e questo a pochi uomini, e assai più poche donne, che lo detengono. La gente, trascurata anche dalla cultura che, smarrendo la sua vocazione originaria, si volta dall’altra parte e si ubriaca di parole che essa stessa ha consumato. La gente, che non riesce più a sentirsi popolo, perché le antiche bandiere sono ferme e gli inni gloriosi muti, davanti a una falsa idea di nazione che scambia la patria per un campo di battaglia, dove una parte si contrapponga a un’altra. E dove ciascuno è straniero se viene da lontano, da una terra che non li caccia, la propria. E da un’altra, di là dal mare, che non li vuole.
L’Italia, il nostro bel Paese, ricco di storia buona e di cultura bella, di paesaggi ineguagliabili e di ricchezze artistiche e culturali incommensurabili, è sotto quel cielo, a respirare quest’aria strana. E io, nell’umiltà della mia fatica pastorale, in una terra di confine sono preoccupato seppur non rassegnato. Terra di confine, è la mia Napoli. Territoriale, tra il Sud e il Nord, in tutte le accezioni considerabili. Di confine tra un Sud che non parte e un Nord che non viene. E dove Sud è l’arretratezza, con tutto il carico di dolori e di errori, e il Nord è lo sviluppo, con tutto il peso delle sue contraddizioni. Terra di confine, è la mia Napoli, tra un Meridione che si modernizza e cresce, come essa sta facendo da non pochi anni (pur con le ferite che le squarciano il petto e sanguinano nelle carni di tanti ragazzi) e la mia Calabria, la regione da cui provengo, che resta, nonostante i buoni sforzi di parti della politica e delle istituzioni, ferma al palo dell’antico abbandono e delle moderne speculazioni. Su cui, pesante come un macigno, grava la scarsa tensione morale di parte della politica che ha indebolito le istituzioni e sprecato in un tempo lungo ingenti risorse pubbliche.
E non è la sola a essere in queste situazioni. All’interno di questo quadro, il nostro Paese, che dalla grave pandemia è uscito impoverito e diviso, rischia di essere trascinato in un campo in cui l’egoismo che ci prende sempre di più si codifica in scelte politiche nette. Scelte che alimentano quel desiderio di separatezza di una parte del territorio da tutto il resto del Paese. Un desiderio, questo, che ha un’origine lontana. In quel tempo in cui si pensava a una diversa articolazione dello Stato, di fatto divisiva e separatista, mascherata da decentramento e partecipazione dal basso, quando invece altro non era che il tentativo di fare dell’Italia, nazione grande e prestigiosa, tante piccole italie, lontanissime dalla più grande e potente che si sarebbe agganciata all’Europa. Quel tentativo, di cui non è responsabile solo una parte della rappresentanza parlamentare, si confuse in modifiche costituzionali rabberciate, i cui danni si vedono a occhio nudo ancora adesso. Oggi quella cultura della divisione, quel sentimento di egoismo che si è progressivamente trasformato in una sorta di indifferenza collettiva nei confronti della sorte dell’altro, sta prendendo sempre più la forma di un’altra legge possente. Di un altro colpo, cioè, all’impalcatura democratica dello Stato fondato sulla partecipazione di tutti (territori e cittadini e istituzioni e culture, nessuno escluso) alla costruzione della ricchezza del Paese.
Lo chiamano in più modi, questo disegno di legge, che, varato dal Governo, ha già fatto un gran pezzo di strada parlamentare. Lo chiamano in tanti modi, ripeto, alcuni leggeri ed eleganti, per indorare la pillola sbagliata da ricetta ancora più sbagliata. La più nota denominazione é “Autonomia differenziata”. Ecco l’eleganza delle parole. Sono due sole. Prese autonomamente procurano una sensazione più piacevole di quella che pure si prova se lette insieme. Autonomia. Che bella questa parola! Cosa c’è in un qualsiasi consorzio umano di meglio che avere garantita l’autonomia. Autonomia si coniuga con libertà. È magnifico essere autonomi, magnifico essere liberi. Poter decidere del proprio futuro e della propria vita attraverso il pieno utilizzo dei propri mezzi è il sogno di tutti. Qui si potrebbe innestare un principio anch’esso affascinante, di chiara marca liberista o come meglio dir si voglia: a ciascuno secondo le proprie capacità. Fin qui potremmo essere quasi felici, se non intervenisse la fatica dell’essere autonomo e il rischio che la libertà applicata in quel contesto possa procurare voglia di fare senza gli altri. Ovvero, di non vedere altro interesse che il proprio. Del territorio e di quanti all’interno di esso vivono, specialmente. Forte crescerebbe qui il desiderio di costruire tutt’intorno a quella autonomia confini più rigidi e invalicabili.
L’altra parola, egualmente bella e affascinante, è “differenziata”. Essere differenti, cioè sé stessi diversi dagli altri per legge determinati, è interessante. Fare cose differenti, agire in maniera differente in un’area differenziata, è atto straordinario, che solletica vanità e senso di superiorità. Voglia di far da soli e per sé stessi e con le proprie risorse, senza, soprattutto, dover dar conto agli altri e fare i conti con gli altri, non è vantaggio da buttare, direbbero gli interessati se già non l’hanno pensato.
Dicono i sostenitori della nuova legge in itinere che è tutto previsto dalla Carta costituzionale, che da tempo attenderebbe che venisse attuata in quel principio più largamente affermato nelle cinque regioni autonome. Ed è forse davvero così. Costoro, però, dimenticano, che la Costituzione, prima, durante e dopo, quell’articolo narra dell’eguaglianza autentica fra tutti cittadini e prescrive che sia lo Stato a garantire l’effettiva parità, secondo modi e criteri che non sto qui a elencare. In tanti ancora dimenticano che la bellezza della nostra Costituzione è nella inscindibile unità tra autonomie e solidarietà, tra libertà individuale e azione sociale, tra ricchezza individuale e ricchezza complessiva, tra singoli territori e unità territoriale. Tra regioni e nazione. Tra comuni e Stato, tra pluralismo e compattezza. Dimenticano che al centro di ogni divenire sociale c’è la persona, non l’individuo singolo privo di tutto quel corredo umano che fa l’uomo l’essere speciale che è.
L’autonomia differenziata, per quanto la si voglia edulcorare con nuovi innesti terminologici che la gente non comprende, rompe questo concetto di unità, lacera il senso di solidarietà che è proprio della nostra gente, divide il Paese, accresce la povertà già troppo estesa ed estrema per milioni di italiani. Infine, cancella d’un colpo quel bagaglio ricchissimo di conquiste democratiche realizzato dalle lotte popolari dal Risorgimento a oggi. Abbiamo di recente visto che da soli non si va da nessuna parte, che anche le zone ricche subiscono il rischio di diventare povere e di incontrare la sofferenza e il dolore. Il terribile terremoto e la devastante alluvione che in due ravvicinate “sventure” ha subito la nobile e fiera Emilia Romagna, hanno visto ancora una volta la straordinaria grandezza del popolo italiano. La solidarietà è partita subito. Specialmente dal Sud il cuore della generosità è volato su quelle terre così duramente colpite. Nessuno ha fatto i conti della spesa. Qui al Sud si è pregato e tifato, e si è gioito quando il Governo ha elargito somme considerevoli, che anche qui sono considerate insufficienti per far tempestivamente rinascere quella parte della nostra Italia. Il territorio è la prima ricchezza che hanno i poveri, indebolirglielo è colpa grave, non solo politica. Le ferite ai territori, in qualsiasi modo inferte, sono ferite sulle carni già aperte dei poveri. Sfugge ai responsabili della cosa pubblica il significato della parola “gente”, della parola “popolo”. Della parola “comunità”. Essa ha valore se si comprende che gente, popolo, comunità è la Persona, con tutto il suo carico di diritti inalienabili.
Sono un prete, soltanto un prete, che ha toccato e tocca ogni giorno la sofferenza. Della persona che lotta e non vince mai. Che si affatica e non si riposa un minuto. Che sta sempre in fondo alla fila che non scorre mai. Che vorrebbe avere fiducia e non trova ascolto. Che vorrebbe parlare e non la si lascia esprimere. Il Santo Padre, che si batte strenuamente per difendere le persone da ogni guerra che si muove loro contro (quella della fame è la guerra che un miserabile mondo opulento e obeso muove prima di quelle guerreggiate), ci esorta a non abbandonare quella che si manifesta sempre di più come la più grande delle azioni umane, la solidarietà verso gli ultimi. La difesa della vita umana e della tutela della sua piena dignità. Dinanzi alle enormi sofferenze di famiglie intere che non riescono a fronteggiare il più piccolo dei bisogni nessuno osi tirarsi indietro. La Chiesa non può e non lo farà. Il prete non può e non lo farà. E non tema alcuno di essere accusato di politicismo: la Chiesa prende parte, sì, quella dei poveri, dei bisognosi. Si fa parte essa stessa degli ultimi e non perché li carezzi mentre li si vorrebbe ultimi ma per dar loro la forza di riscattarsi dalla povertà e dall’arretratezza. Oggi questo sostegno deve andare anche ai territori, affinché non siano lasciati soli. A quelli del Sud perché in essi splenda pienamente il sole. Il sole incontro al quale devono correre i nostri ragazzi, per costruire insieme la felicità. Di tutti.
Ho scritto questa riflessione di getto, lasciando parlare solo il mio cuore. Di prete e di uomo. L’ho fatto trovandomi sulla scrivania, l’uno accanto all’altro, così casualmente, il Vangelo e la Costituzione. Tenendo ben divisi questi due “libri”, trovo felicemente che la Parola e quelle parole stanno proprio bene insieme. Questa sensazione in me è bellissima. La dirò domattina ai miei amici più piccoli, che si chiamino Ciro, Concetta, Carmela, Gennaro, o altri nomi che ho conosciuto attraverso i loro volti bellissimi, affinché provino gioia e desiderio di camminare con questi valori e questi princìpi. Ma non da soli, però. Da soli no. Con gli altri. Sempre più numerosi. Perché la Bellezza vince sempre. E l’Amore pure.
Arcivescovo di Napoli
*Questo testo è pubblicato in contemporanea da Avvenire e www.chiesadinapoli.it. Una sintesi sull’edizione di Avvenire del 16 luglio.
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Se son rose fioriranno. Qualcuna è già fiorita!
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di Franco Meloni
Il dibattito politico sulle prossime elezioni sarde è in rapida crescita. Per quanto riguarda il centro destra tutto sembra ruotare sulla contrastata ricandidatura di Christian Solinas, che solo la Lega e la parte maggioritaria del PSdAz propongono. La destra rampante di Fratelli d’Italia e quella moderata di Forza Italia più cespugli vari vogliono un cambio di cavallo. E a parere di molti credibili osservatori ci riusciranno. E anch’io così penso. Basterà trovare un beatiful exit per l’ingombrate Christian: per lui si aprirebbe un dorato pensionamento al Parlamento europeo. La destra vincente punterebbe su un candidato di prestigio come l’attuale leader della Coldiretti Sardegna Luca Saba. Scelta intelligente che riunirebbe in una sola coalizione il centro destra. Sulla sponda opposta il centro sinistra stenta a trovare l’unità, nonostante una sola lista avrebbe ragionevoli previsioni di vittoria. Ma, si sa, come per primo disse il prof. Luigi Gessa: “il più grande avversario della sinistra è la stessa sinistra”.
Purtroppo le diverse formazioni della sinistra rischiano ancora una volta di perdere, perché incapaci di costruire un’alleanza intorno a un solo candidato presidente, con diverse liste che garantirebbero la diversità di posizioni. Viaggiano nell’ipotesi di una sola coalizione il Pd, il M5S, i Progressisti, Possibile, e altre importanti aggregazioni, tra le quali Demos con Insieme, queste ultime due rappresentanti un’area di Cattolici democratici, che in questa fase tentano, con qualche successo, di riportare molti Cattolici (o comunque persone che si ispirano ai valori cristiani) all’impegno politico. Significativo al riguardo un esplicito gradimento della conferenza dei vescovi italiani (CEI), che non manca di richiamare la entusiasmante stagione del grande compromesso costituzionale del dopoguerra. Il Vangelo e la Costituzione (Vangelo laico), sono i due fondamentali riferimenti; ma come non vedervi l’incitamento esplicito in dimensioni planetarie di Papa Francesco? Nel nostro piccolo, questa posizione è maggioritaria nell’ambito del Movimento Patto per la Sardegna, che si muove vivacemente nel nostro ambiente.
Ma torniamo al centro sinistra e dintorni. In direzione contraria alla grande coalizione si muovono, allo stato, l’arcipelago degli indipendentisti e, separatamente, la sinistra tout court. Sembrerebbe prevalere per ciascuna di queste aggregazioni la scelta di liste separate. Scelta sciagurata, soprattutto in caso di presentazione di coalizioni (anziché di liste singole), inesorabilmente punite dall’attuale pessima legge elettorale sarda. In sostanza: si può vincere e conquistare il governo della Regione solo con la presentazione di un’unica lista con un solo candidato presidente. Semplice a spiegarsi, duro a capirsi nonostante l’esperienza delle ultime tornate elettorali. Da segnalare l’incognita del neo movimento di “Sardegna chiama Sardegna”, che ha costruito un bellissimo programma per la Sardegna, ma che stenta a concretizzare la scelta sulla presentazione, attualmente affascinata da uno “splendido isolamento”. Noi di Aladinews siamo schierati senza alcuna reticenza per l’unica lista di coalizione del centro sinistra, guidata da un candidato (meglio da una candidata) scelta attraverso il meccanismo delle primarie. Si discuta apertamente senza preclusioni, badando al possibile e auspicabile risultato vittorioso. Il programma va costruito sulle bozze esistenti, trovando l’unità su una serie di punti, rispettando le diversità che devono essere esplicitate. Avanti nell’interesse dei sardi e dell’intera Sardegna!
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In Italia e nel Mondo
Costituente Terra Newsletter n. 113 del 19 aprile 2023
Chiesadituttichiesadeipoveri n. 294 del 19 aprile 2023
STEREOTIPI CADUTI
Cari amici,
lo smantellamento della protezione speciale per gli immigrati, appassionatamente perseguito dal governo, in realtà era stato sancito nel decreto legge varato dal macabro Consiglio dei ministri riunito a Cutro dopo il tragico naufragio. Si trattava di un messaggio rivolto ai cadaveri appena finiti sulla riva. Diceva loro: “siete venuti per godervi la protezione speciale, e noi ve la togliamo”. Di questa norma, in attuazione della linea Piantedosi, nessuno, tranne l’Avvenire, si era accorto, mentre l’attenzione generale si era rivolta alle fantasiose norme penali che la presidente Meloni voleva andare a far valere in tutto l’orbe terracqueo. Se ne sono accorti ora, quando il decreto legge è arrivato all’aula del Senato, e a questo punto l’unica speranza è che non sia convertito in legge. Le norme abrogate sono quelle, non a caso chiamate umanitarie (sicché è ora disumano abolirle), per le quali anche gli immigrati che non godevano della protezione internazionale ordinaria in virtù del diritto di asilo, non potevano essere espulsi dall’Italia se si erano inseriti in modo “effettivo” nella sua vita sociale, e se vi avevano contratto o potevano eccepire effettivi vincoli di natura familiare, sicché il loro allontanamento coatto avrebbe comportato “una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare del migrante”. Mettere ora i migranti fuori del diritto, significa renderli clandestini, ascritti a una “regola non bollata”, non più “occupabili”, se non in nero, e ridurli a “paria” (come i russi per Biden), esiliati e apolidi.
Aggiunto alla proclamazione dello stato di emergenza, alla lettura come errori di grammatica del fascismo di ritorno celebrato al vertice delle istituzioni, e a tutto il resto, lo smantellamento della protezione per i naufraghi, i profughi , i migranti e i loro familiari, fa cadere anche l’ultimo stereotipo della celebre definizione che Giorgia Meloni in spagnolo ha dato di se stessa. Infatti una donna non si fa chiamare “il Signor Presidente del Consiglio”, una madre non manda armi che imparzialmente vanno a uccidere bambini e altri figli di mamma che si combattono tra loro, una italiana non fa la sovranista in Italia e la suddita (o vassalla, come dice Macron) degli Stati Uniti e del norvegese Stoltenberg, e una cristiana non toglie protezione a nessuno, anzi addirittura dovrebbe soccorrere il prossimo, amare i nemici e considerare fratelli gli stranieri. E non va in Abissinia (come i fascisti chiamavano l’Etiopia) ad abbracciare i bambini neri “a casa loro”.
Resta però una domanda che riguarda Silvio Berlusconi. Le sue condizioni sono migliorate e l’augurio sincero (non come quello di certi “coccodrilli” troppo precipitosi) è che guarisca del tutto e torni al suo ruolo e alle sue responsabilità politiche. E la domanda è: che cosa c’entra Berlusconi con queste impietose politiche del governo? Non voleva interpretare una destra liberale, democratica, inclusiva, non voleva con le sue televisioni e promesse di governo raccontare un mondo di felicità e festose relazioni? Che cosa c’entra con l’accanimento contro i migranti e i naufraghi, cosa c’entra con la guerra ad oltranza che uccide l’Ucraina e vuole eliminare la Russia, che cosa c’entra con la riabilitazione del fascismo il cui abbandono da parte di Fini a Fiuggi consacrò sdoganando il Movimento Sociale-Alleanza Nazionale? Che c’entra con questo governo di destra retrodatata? Nella sua esperienza di governo egli ne ha fatte molte di cattive e sbagliate, ma come non vedere che quest’ultima, tenendo in piedi questo governo, è la peggiore, e perfino tradisce la coscienza che egli ha di sé? Non lo diciamo per tornare sulla sua vicenda personale, ma perché ne va della democrazia italiana.
Nel sito pubblichiamo di Gaetano Azzariti un articolo su “Un altro regionalismo è possibile”, di Domenico Gallo un articolo su “Guerra e finzione di guerre”, di Raniero La Valle una relazione a Brescia su “Origini vicine e lontane della guerra in Ucraina” e di Alessandro Marescotti un articolo sul fallimento dell’invio di armi e di Mauro Castagnaro un ricordo di Vittorio Bellavite.
Con i più cordiali saluti,
Chiesadituttichiesadeipoveri – Costituente Terra (Raniero La Valle)
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Dati drammatici
L’INVIO DELLE ARMI IN UCRAINA È STATO UN FALLIMENTO
19 APRILE 2023 / EDITORE / DICONO I FATTI / su Costituente Terra.
Invece di far diminuire le vittime l’invio delle armi in Ucraina le ha accresciute al punto tale che oggi è ufficialmente vietato dalle autorità fornire i dati. Siamo di fronte alla logica della faida, non alla guerra di difesa.
Alessandro Marescotti*
Si combatte in realtà per sconfiggere la Russia, per ottenerne la capitolazione così come avvenne nella prima guerra mondiale quando la potente Germania nel 1918 stramazzò nella polvere, stremata, assieme all’Austria, il cui impero finì per smembrarsi. Se questo è il vero scopo della guerra in Ucraina, è ovvio che vengono messe nel conto vittime a non finire, da non conteggiare per non deprimere il morale della popolazione ucraina che dovrà immolarsi per una vittoria strategica dell’Occidente
Mai come ora, dopo l’inutile strage di Bakhmut, la guerra si sta dimostrando un fallimento, per entrambi gli attori.
Su Youtube si susseguono dibattiti e approfondimenti fra esperti militari. C’è modo di documentarsi da una pluralità di fonti bucando il muro della propaganda a reti unificate. Si trova di tutto su Internet, con aggiornamenti quotidiani. Cartine digitali dell’Ucraina, mappe geolocalizzate del Donbass, dettagliate ricostruzioni dei combattimenti con l’uso dei satelliti. E poi testimonianze oculari raccolte da giornalisti freelance, inchieste di approfondimento della stampa internazionale. Dopo mesi e mesi di attenta ricerca, osservazione e verifica ho imparato a distinguere le fonti più affidabili da quelle che non lo sono.
Top secret il numero dei morti
Tantissimi elementi consentono di comprendere quello che avviene sui campi di battaglia. Possiamo conoscere giorno per giorno i movimenti delle truppe con una precisione straordinaria. I morti invece no: quelli non ce li dicono. Sono segreto militare. Né i governi occidentali li chiedono. Non li conoscono i parlamentari, i quali votano l’invio delle armi come puro atto di fede, senza alcuna possibilità di sapere se quelle armi hanno effettivamente salvato le vite umane degli aggrediti tenendo alla larga gli aggressori. Se non si hanno i dati dei morti in guerra nessuna verifica è possibile circa l’efficacia dell’invio delle armi, né si può verificare la coerenza degli effetti dell’invio delle armi rispetto ai fini auspicati in origine. Piaccia o non piaccia, anche la guerra ha una sua scienza statistica e si possono fare sofisticati calcoli prendendo come riferimento copiosi database con i dati delle vittime subite e di quelle inferte.
Il vero scopo dell’invio delle armi
Il fatto che non ci vengano comunicati i dati delle vittime la dice lunga sui veri fini della guerra e dell’invio delle armi. Che non sono più quelli di una romantica difesa della popolazione. Si combatte in realtà per sconfiggere la Russia, per ottenerne la capitolazione così come avvenne nella prima guerra mondiale quando la potente Germania nel 1918 stramazzò nella polvere, stremata, assieme all’Austria, il cui impero finì per smembrarsi. Se questo è il vero scopo della guerra in Ucraina, è ovvio che vengono messe nel conto vittime a non finire, da non conteggiare per non deprimere il morale della popolazione ucraina che dovrà immolarsi per una vittoria strategica dell’Occidente, il tutto in palese contraddizione con quanto dicono di voler fare i nostri governanti europei con l’invio delle armi.
Quello che emerge è drammaticamente evidente nell’assurdità di ciò che si è consumato a Bakhmut. Quelle armi inviate dall’Occidente sono servite per mandare allo sbaraglio e alla morte un numero impressionante e imprecisato di giovani, spesso privi di esperienza.
Lo sgomento degli esperti militari
Mai come ora gli esperti militari sono imbarazzati di fronte all’insensata serie di scelte fatte in questa lunghissima battaglia condotta alla fine per mere ragioni di immagine, senza rilevanza militare. Con effetti persino controproducenti rispetto agli obiettivi dichiarati e perseguiti settimana dopo settimana. Gli esperti e gli stessi militari – di ottimo livello tecnico – che partecipano a questi webinar sono stupiti e avviliti per l’insensata sequenza di scelte compiute con enormi sacrifici umani. Scelte compiute a volte varcando il labile confine che divide la ragion militare dall’idiozia. Noi pacifisti questa strage la vediamo sotto il profilo della “crudeltà”. Loro, gli esperti della guerra, la vedono sotto il profilo dell’inefficacia ai fini pratici del successo militare. Perché questa guerra è un affastellarsi di frustrazioni dall’una e dall’altra parte, con risultati attesi che non arrivano a fronte di enormi perdite umane e di mezzi.
Dall’una e dall’altra parte vengono annunciate offensive e controffensive che si traducono in avanzate di poche centinaia di metri alla settimana e in capovolgimenti militari di modesta rilevanza che le vanificano. E nel frattempo si scavano doppie e triple linee di trincee. Lo spettro che si profila è quello di una guerra infinita. Altro che difesa della popolazione civile, si raschierà il fondo andando ad arruolare vecchi barbuti e giovani imberbi per buttarli nel tritacarne.
La guerra: da medicina amara a veleno
Quello che sta accadendo è il disvelamento dell’assurdità. La guerra, proposta come medicina amara ma necessaria, si sta rivelando veleno. Dopo averla trangugiata fa morire il paziente invece di guarirlo.
C’è materia di riflessione per gli interventisti democratici che, dopo oltre un secolo dalla fine della prima guerra mondiale, ricalcano oggi pari pari gli errori di cent’anni fa. L’interventismo democratico che spaccò il fronte del socialismo pacifista europeo risorge oggi per commettere gli stessi errori, come se la storia non fosse mai stata studiata.
Elly Schlein e il “Washington Post”
Contrariamente a ciò che alcuni avevano sperato, la nuova segretaria del PD continua a sostenere le ragioni dell’invio delle armi. Lo scopo è apparentemente semplice e non sembra fare una grinza: fermare l’aggressore e proteggere l’aggredito.
Nella lettera aperta a Elly Schlein ho cercato tuttavia di fornire qualche elemento di riflessione: le ho scritto (senza ottenere ad oggi risposta) evidenziando che le armi inviate, alla lunga, non hanno fermato il massacro ma hanno illuso Zelensky della vittoria. E da questa illusione nasce la mostruosa situazione descritta dal Washington Post. Battaglioni di 500 uomini, con 100 morti e 400 feriti, rimpiazzati da ragazzi di leva che, quando possono, scappano. Tutte cose a cui occorre dare risposta perché se l’obiettivo dell’invio delle armi è quello di difendere le persone in Ucraina allora esiste un solo modo di verifica: conteggiare le vittime. Ma le vittime della guerra sono coperte dal segreto di Stato in Ucraina. Perché se ci fosse una verifica trasparente e oggettiva si vedrebbe che all’aumentare dell’invio di armi non è seguita una diminuzione delle morti ma al contrario un crescendo impressionante. Stiamo proteggendo l’aggredito o lo stiamo mandando allo sbaraglio?
I dati drammatici del “Kyiv Independent”
L’invio di armi doveva difendere i civili ma è diventata la ragione di nuovi arruolamenti forzati che avvengono rastrellando i giovani a Kiev e in altre città dell’Ucraina. Sono tantissimi i giovani che fuggono alla leva e che stanno diventando renitenti. Se ne parla poco ma il problema c’è, ed è vasto
Qualcuno dirà che quei giovani servono a difendere altri civili indifesi. La verità è un’altra. Vengono impiegati in missioni suicide simili a quelle che ordinava il generale Cadorna nella prima guerra mondiale. Ecco qui qualche sprazzo di questa lucida follia. “Il battaglione è arrivato a metà dicembre… tra tutti i plotoni eravamo 500”, racconta Borys, un medico militare della regione di Odessa che combatte intorno a Bakhmut. “Un mese fa eravamo letteralmente 150”, confessa a The Kyiv Independent. “Quando si va in posizione, non c’è nemmeno il 50% di possibilità di uscirne vivi”, afferma un altro soldato. È più un 30/70″.
Capovolgere la narrazione
Più si fa ricerca e più si scopre che la narrazione della guerra si discosta dalla realtà della stessa. E la contraddice.
E’ pertanto il momento di rivendicare orgogliosi la nostra scelta di pacifisti. Occorre capovolgere la narrazione della guerra come scelta dolorosa ma necessaria, perché quella narrazione oggi non regge più alle dure smentite dell’evidenza. Siamo nel pieno di una “battle of narrative”, e la Nato presta molta attenzione allo storytelling della guerra.
La giusta “guerra di difesa”, la retorica dell’aggressore e dell’aggredito, tutto sta saltando perché la guerra diventa pluriennale, rischia di diventare come la prima guerra mondiale. Siamo di fronte alla logica della faida, non alla guerra di difesa e spiace vedere gente intelligente, che ha scritto libri, perdersi di brutto pensando per di più di indicare la strada agli altri.
Persino Luttwak è sconfortato dallo stallo militare e ha parlato di referendum nelle zone di guerra per uscire dal pantano. Ci hanno illuso che bastassero poche settimane di sanzioni per far collassare economicamente la Russia e l’invio delle armi doveva servire il tempo necessario ad aspettare che arrivasse l’effetto delle sanzioni. Non è stato così.
La tenuta militare della Russia
La Russia – basta studiare, ricercare e approfondire i dati – ha armi, uomini, consenso e risorse economiche per continuare per molto tempo. Ha dimostrato una resilienza notevole. Il resto è propaganda per convincerci che Putin si può scalzare e che un altro invio di armi o altre sanzioni possano fare la differenza. L’unica differenza è se entrano in campo gli F-16 o i missili a lungo raggio per colpire la Crimea o le basi nel territorio della Russia. Ma in questo caso andiamo dritti verso lo scontro nucleare. Dunque la guerra contro la Russia non può essere vinta. E va chiusa al più presto perché non ha senso mandare al massacro altri soldati per non ottenere alcun risultato, tanti costi per zero benefici. I militari lo dicono, lo dice lo stesso generale Milley, capo del Pentagono.
Gli anarchici interventisti
Per concludere, un cenno a chi – di fronte all’aggressione russa verso l’Ucraina – ha sentito sinceramente intollerabile la situazione fino al punto di rinnegare i propri principi pacifisti pur di salvare gli aggrediti.
Di fronte alla prima guerra mondiale, oltre alla fine dell’internazionale socialista, si verificò un’altra crisi interna ad un fronte che tradizionalmente era contro gli eserciti: gli anarchici. La Germania invase il Belgio neutrale e lo devastò brutalmente. Lo definirono “lo stupro del Belgio”. La cosa scosse chi credeva nella neutralità. Fu così che Pëtr Kropotkin e altri 15 intellettuali anarchici si espressero a favore della guerra contro la Germania, sostenendo che la Germania rappresentava una minaccia per la libertà e la democrazia, e che l’intervento alleato sarebbe stato giustificato per difendere l’Europa dal militarismo tedesco. Fu criticato dall’anarchico italiano Errico Malatesta.
Quante similitudini!
Kropotkin poi si pentì. Ma ormai era troppo tardi.
* Alessandro Marescotti
Presidente di PeaceLink
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Eventi segnalati
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Venerdì 21 aprile 2023
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Martedì 25 aprile 2023 Festa di Liberazione
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Venerdì 28 aprile 2023 Sa Die de sa Sardigna
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Lunedì 1 maggio 2023 Festa del lavoro e dei lavoratori
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Lunedì 1 maggio 2023 Sagra di Sant’Efisio
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Mercoledì 3 maggio 2023
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Diario di un Pellegrinaggio in Terrasanta
Terra Santa – Diario di un Pellegrinaggio solidale.
[segue]
Che succede?
Cosa pensare cosa fare di fronte alle migrazioni dai Paesi africani?
13 Gennaio 2023 by Giampiero Forcesi | su C3dem
Siamo scandalizzati quando Giorgia Meloni parla di “blocco navale” (ora, sembra, non più), o quando il ministro Piantedosi rende dura la vita alle Ong. Ma cosa pensiamo veramente che si debba e possa fare? Porre un argine alle migrazioni, accompagnato da una impegno complessivo di tutta la comunità nazionale per aprirci a un’accoglienza seria e di reciproco vantaggio e ad una cooperazione stabile, senza interventi predatori o complici di classi dirigenti locali corrotte, è un obiettivo ineludibile. (Nella foto una pietra ricorda il massacro di 1.500 cristiani copti compiuto dall’esercito italiano nel maggio 1937 in Etiopia)
Critichiamo i decreti sicurezza, quelli di Minniti prima, poi di Salvini, oggi di Piantedosi, ed è giusto. Questo ultimo, con la sua dichiarata ostilità alle Ong che operano i salvataggi in mare, appare davvero irricevibile. Però stentiamo ad assumere un punto di vista complessivo su questo grande e drammatico problema.
Mi sembra che, mano mano che passa il tempo, ci si accorge che una risposta che sia in qualche misura adeguata, o comunque ragionata e responsabile, è davvero difficile. Di qui parto per qualche considerazione personale.
Sappiamo che ciò che spinge tante persone, dall’Africa sub-sahariana, come dal Nord Africa e dal Medio Oriente, è un insieme enorme di problemi. Da un lato, in alcuni casi, conflitti armati gravi oppure oppressione insostenibile da parte di governi dittatoriali (un esempio l’Eritrea); dall’altro lato, la perdurante povertà, lo sconvolgimento di intere regioni provocato dai cambiamenti climatici, la mancanza di speranza di una vita migliore in Paesi che sembrano condannati ad avere classi dirigenti per lo più incapaci o corrotte (talvolta anche per colpa di imprese multinazionali se non anche di governi occidentali).
Questa distinzione . certo spesso difficile a farsi – tra profughi e cosiddetti migranti economici penso che non possa essere elusa. Innanzitutto perché ci mette di fronte a un preciso dovere, quello di dare asilo ai profughi, secondo le sacrosante norme del diritto internazionale. Su questo punto si dovrebbe essere assai più chiari, a livello di consapevolezza, di normative ad hoc e di organizzazione per un’accoglienza intelligente e davvero solidale. L’asilo politico è una cosa seria e va fatta con altrettanta serietà
Per quanto riguarda coloro che chiamiamo “migranti economici” la questione è diversa. Non solo non ci sono obblighi di diritto internazionale all’accoglienza, ma c’è un gigantesco problema di numeri. Quanti? Quanti sono? Quanti potranno essere? E c’è un altrettanto grande problema di tenuta sociale da parte delle comunità civili europee, e quella italiana già in affanno, chiamate ad affrontare le difficoltà dell’accoglienza, dell’integrazione, della convivenza (certo non ci sono solo le difficoltà, ci sono anche esperienze e prospettive di arricchimento umano, e non solo…).
Dicevo che, a fronte dei migranti economici, non ci sono norme di diritto internazionale (ci sono però certo quelle che impongono di salvarli in mare!). E però ci rendiamo conto che il desiderio di dare una chance alla propria vita e a quella dei propri figli è forte, è umanissimo, e non può essere ignorato. A questo desiderio corrisponde un’istanza fondamentale di libertà: gli uomini sono liberi di cercare una vita diversa e migliore, di tentare di farlo; e i confini tra le nazioni non debbono essere muri invalicabili.
Questo desiderio e questa libertà spingono molti – generalmente non i più poveri, ma quelli con qualche minima risorsa – a tentare ogni strada possibile. E qui veniamo alla questione dei cosiddetti trafficanti e degli scafisti. Una questione scabrosa. Mi stupisco che non si rifletta sul fatto che, certamente, queste persone che fanno traffici per consentire ai migranti di attraversa migliaia di chilometri e poi il mare per giungere in Europa sono per lo più gente immorale, che sfrutta, che a volte tortura, gente talvolta disumana, ma sono anche l’unico e indispensabile mezzo che hanno i migranti per fare il loro viaggio. Sono, diciamo le cose come stanno, necessari per chi vuole affrontare un’impresa così difficile. Impresa che non si potrebbe certo tentare di fare ricorrendo alle norme in vigore (passaporti, visti d’ingresso, biglietti aerei etc.). Avere, quindi, come obiettivo politico la lotta ai trafficanti e agli scafisti significa poco, e ha la sua parte di ipocrisia.
Io credo che, in ogni caso, qualsiasi misura si riuscirà a prendere per affrontare, in modo che sia almeno serio e coraggioso, il problema, questo tentativo illegale di migrare proseguirà nel tempo. E, per quanti scappano per salvare la vita, è una “fortuna” che possano trovare un trafficante che consenta loro di mettersi in salvo. Però, la responsabilità nostra di provare ad affrontare il problema in modo, appunto, serio resta.
Mi sono sempre venuti i brividi quando sento parlare certi esponenti della destra di come affrontare questo problema. Fino all’altro giorno si sentiva parlare di blocchi navali. Ma a sinistra, mi sembra, si dice poco. E anche in Europa si dice poco di convincente. La parola “blocco” è dura, semplifica; e poi, fatto in mare dalle navi, il blocco è impresa è impensabile e rovinosa. Ma, se andiamo al cuore del problema, l’idea che si debba porre un argine a questa migrazione disperata è valida. Ma è un argine che va costruito con infinita cura e pazienza nei luoghi più vicini ai Paesi di migrazione, e soprattutto nella consapevolezza delle popolazioni locali e delle loro istituzioni. Va posto con una presenza – costosa, impegnativa – di uomini e mezzi, non solo in funzione di polizia e di repressione, ma soprattutto di dialogo, di informazione e anche di capacità di portare sollievo nei casi personali più delicati.
Questo argine deve andare insieme, strettamente e contestualmente, a una presa di coscienza, nel nostro Paese, nella nostra società, nell’opinione pubblica, del fatto che abbiamo sia il bisogno sia la possibilità di accogliere e integrare ogni anno decine di migliaia di migranti stranieri nella nostra comunità. Bisogno, perché sappiamo bene quanti lavori cosiddetti umili non trovino più i nostri cittadini disponibili a svolgerli; bisogno, perché abbiamo una bassa natalità e stanno venendo a mancare le nuove leve di lavoratori, in tutti i campi, necessari tra l’altro per portare in equilibrio il sistema pensionistico. E, per questa accoglienza, abbiamo le possibilità. Siamo un Paese sufficientemente ricco e benestante, con comunità territoriali in grado di far posto ai nuovi venuti. Vi sono molteplici esperienze positive in questo senso. Certo, vi sono anche quelle negative. Ma per questo parlo di una “presa di coscienza” collettiva, necessaria per affrontare con serietà questo grande problema, questa realtà non eludibile. Certo, ci vuole una classe politica più coraggiosa, che promuova questa presa di coscienza, che ne faccia un suo obiettivo imprescindibile.
Il modo per consentire che migliaia di migranti, provenienti dai paesi africani, possano venire in Italia è quello dell’incremento dei numeri di accessi legali. Una misura, questa, che va studiata insieme al mondo produttivo, alle istituzioni locali e al terzo settore, e che va accompagnata da concrete iniziative che consentano inserimenti dignitosi nei vari territori, tempi e luoghi di formazione e di prima integrazione.
Infine, l’argine di cui ho detto, e che a mio avviso va posto, ha un altro grande fondamento, altrettanto indispensabile: quello della costruzione di una nuova stagione delle politiche di cooperazione e di dialogo con i Paesi africani e del Vicino Oriente. Ora Giorgia Meloni parla di “piano Mattei”, nel senso di una cooperazione industriale paritaria e non vessatoria. Posizione sensata, che tocca un aspetto importante. Ma la questione è più complessa. Cooperare con buona parte dei Paesi dell’Africa, sia a nord che a sud del Sahara, è estremamente difficile perché le loro classi dirigenti sono scarsamente affidabili. Certo non si può aggirarle andando a stabilire rapporti diretti con le comunità locali (è difficile anche per le Ong di cooperazione allo sviluppo); ma si possono stabilire dialoghi con le classi dirigenti locali (franchi e senza sconti), porre condizioni, offrire stimoli e opportunità di formazione ai vari livelli.
E bisogna molto investire in questa direzione, con la consapevolezza che molto del nostro futuro avrà a che vedere con questa capacità di porsi con coraggio e intelligenza in dialogo con il mondo a sud del Mediterraneo, e che saperlo fare darà all’Italia un ruolo di rilievo nell’Unione europea. E ci farà crescere in umanità. Ci farà anche perdonare, almeno un po’, quella stagione imperialistica che ci ha portati, a fine ‘800 e nella prima metà del ‘900, a compiere misfatti e crimini in tante parti del Corno d’Africa (Eritrea, Etiopia, Somalia) e in Libia. Certo, non abbiamo compiuto solo crimini; abbiamo anche fatto alcune cose buone (che sono state ricordate a lungo dalle popolazioni locali); ma poi, una volta venuti via, ci siamo per lo più dimenticati di quella storia, di quei legami, di quelle responsabilità, ed oggi assistiamo a, anche proprio in quei Paesi, a un totale disfacimento politico e civile, e a continue tragedie. Dovremmo tornare, in modo nuovo, sui nostri passi.
Giampiero Forcesi
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Gli italiani e lo Stato: un rapporto da decifrare meglio
15 Gennaio 2023 by c3dem_admin | su C3dem
Non è così vero che gli italiani siano sempre più sfiduciati nei confronti della cosa pubblica e delle sue istituzioni. Un recente rapporto di ricerca mostra dati ancora certamente preoccupanti, ma anche segnali significativi di una certa risalita rispetto agli anni scorsi. Servirebbe un dibattito meno catastrofista da parte di mass media e opinione pubblica per cogliere questi esili segnali positivi e impegnarsi a rafforzarli. Il Paese ha un grande bisogno di recuperare fiducia e generare speranze attive
Sulla base di quali informazioni possiamo provare a comprendere la situazione del comune sentire dei cittadini del nostro Paese, per coglierne lo spirito, le idee, gli orizzonti, le visioni e per poter poi valutare, almeno per accenni, cosa fare per una politica lungimirante? Detto che è comunque (oggi più che mai) un’operazione complicata, proviamo a farlo a partire da alcune ricerche e sondaggi (fatti con criterio) che possano dare utili coordinate. Di sicuro il XXV Rapporto su “Gli italiani e lo Stato”, pubblicato a dicembre 2022 e curato della società di ricerche Demos&Pi (http://www.demos.it/), del sociologo Ilvo Diamanti, è fra questi. Anche se, è bene precisare, le letture che ne sono seguite nei giorni a ridosso dell’uscita, non sempre hanno colto bene alcuni aspetti.
Intanto emerge il dato al momento forse più “politicamente” rilevante, e abbondantemente rimarcato da alcuni articoli: una larga maggioranza dei cittadini (62%) afferma che il Paese dovrebbe essere guidato da un “leader forte”. E inoltre più dei due terzi dei cittadini esprimono apertamente il proprio favore verso l’elezione diretta del Presidente (69%). Segno, questo, che si viene così palesemente a confermare la sfiducia verso le tradizionali forme del nostro sistema politico che abbiamo condiviso dalla Costituzione in poi? Non direi. Vediamo altri dati.
Vediamone prima due di carattere più generale, ma che mi sembrano significativi e che sono stati un po’ trascurati dalle veloci esigenze della cronaca.
La fiducia? Non è cosa rara…
Partiamo da una non secondaria “soddisfazione per la democrazia”. Dopo il crollo che ha visto passare dal 42% di soddisfatti del marzo 2008, a un misero 28 del marzo 2013, vi è stata una costante risalita fino ad un sorprendete 53 del novembre 2022. Poco? Forse, ma è comunque un trend che sembra contraddire il pensiero diffuso della “crisi drammatica” della democrazia. Certo, sono questi anche gli effetti delle cattive “prestazioni” delle cosiddette autocrature di alcuni Paesi ben noti, ma di fronte a questo dato (soprattutto perché frutto di un percorso in crescita) occorre riflettere, invece della sterile lamentela, per consolidarlo e farlo crescere.
Secondo elemento, in un certo senso collegato al primo: il tema della cosiddetta “tecnocrazia” (che richiama il tema del merito). Alla domanda se un governo di tecnici sia da preferire a quello di politici (convinzione che per lo più porta a delegittimare partiti e istituzioni, ritenuti incapaci di fare scelte giuste perché affidate a criteri di alleanze e fedeltà politiche) il risultato, se non proprio sorprendente, lascia spazio a qualche interrogativo: sono pari al 47 per cento sia i cittadini che preferiscono che a governare siano i tecnici sia quelli che preferiscono i politici (a fronte di un 6% che non ha risposta). Come dire: da un lato, la democrazia deve essere fondata sul valore, ma dall’altro il meccanismo di scelta tramite il voto popolare è un elemento non rinunciabile
Le istituzioni riemergono dal tunnel?
Poi ci sono le domande esplicite che riguardano il tasso di fiducia dei cittadini nei confronti dei principali soggetti della scena pubblica. Non viene dato direttamente un giudizio, ma lo si fa intendere.
Vengono rilevati due dati rispetto a questo tasso di fiducia: uno relativo alla variazione tra il 2022 e l’anno precedente, l’altro riferito alla variazione tra il 2012 e il 2022. Ebbene, non manca qualche sorpresa. In particolare, per i dati sulla fiducia in partiti e istituzioni.
Cresce la fiducia per il Presidente della Repubblica, sia nel primo che nel secondo raffronto (facile aspettarselo visto il consenso che riscuote Sergio Mattarella ad ogni uscita). Ma cresce anche la fiducia verso istituzioni sempre apparentemente “sotto schiaffo”. Il Comune: solo +3% nella prima rilevazione, ma +10% nella seconda nel secondo). L’Unione Europea: +1% in entrambe. Cresce persino la fiducia nella Regione: ben +17% nel dato “storico”. Ma ecco una vera sorpresa: cresce persino la fiducia che riguarda il tanto vituperato Parlamento: +16% dal 2012 (seppure un tasso sempre bassissimo, il 23%, rispetto ai dati di altre istituzioni). E persino, udite udite, la fiducia nei partiti: una briciola, +1 per cento, nel dato ad un anno di distanza e ben +8% sul 2012 (dati sempre assai bassi – solo un complessivo 14 per cento, segno che i tanto decantati anni “ruggenti” forse sono proprio lontani, o andrebbero riletti bene).
Passiamo allo Stato. Rispetto all’anno scorso la fiducia decresce dell’1 per cento, ma dal 2012 è in risalita del 14%, ottenendo un alto gradimento per il 36 per cento del campione dei cittadini. Poco, per fare massa positiva, vero, ma continuerei a sottolineare il percorso, troppo trascurato da una “legenda” sempre incline al pessimismo. Un dato, inoltre, che fa il paio con il riscontro relativo al gradimento di alcuni importanti servizi: assistenza sanitaria pubblica, scuola pubblica, ferrovie, trasporti urbani, che per tanti cittadini danno volto alle istituzioni nella vita privata. Tutti in crescita rispetto agli inizi del decennio, ma in leggero calo per Assistenza e Scuola pubblica, rispetto al 2021. Qui pandemia e il relativo lockdown hanno lasciato il segno, è bene tenerne conto. Ma complessivamente ci si può chiedere: il settore pubblico, allora, può ancora ottenere consensi? Certo, va fatto funzionare bene….
Il cittadino non appare distratto
Altri campi di indagine, significativi per chi si occupa di società civile, sono quelli relativi al tema della partecipazione. Si era registrata una comprensibile contrazione dovuta alla paura del virus e ancor più al lockdown. Ora, però, riprende la voglia di esserci. Scrivono i curatori del Rapporto: «È vero che la partecipazione elettorale ha sofferto dell’astensione più alta della storia repubblicana, ma su altri fronti si osserva un certo dinamismo. Se si confronta il quadro di oggi con quello pre-pandemico, la distanza appare ancora importante, ma gli italiani stanno recuperando in termini partecipativi. Il volontariato è tra le attività più praticate (42%). Le tematiche ambientali, del territorio e della città hanno mobilitato un cittadino su tre (32%). Anche le azioni più esplicitamente politiche, come partecipare a manifestazioni di partito, proteste e flashmob, hanno coinvolto una componente non trascurabile di italiani (17%). Più dello scorso anno, ma un po’ meno del 2019». Ma allora: sullo stato della democrazia nel nostro Paese perché i giudizi sono sempre scettici e preoccupati? C’è una “narrazione” diffusa e assecondata che vuole lasciare in mano di alcuni (esperti? tecnici? facoltosi? potenti?) le leve del potere? Leggiamo ancora (da Democrazia e (tiepido) orgoglio nazionale di Fabio Bordignon e Alice Securo): «Nonostante tutto, la soddisfazione sul funzionamento della democrazia è cresciuta, negli ultimi anni. Per la prima volta diventa maggioranza (53%) la quota di intervistati che si esprime positivamente. (…) Analizzando i dati del rapporto, tuttavia, sembra mancare una definizione comune di cosa intendiamo, quando pensiamo alla democrazia. (…) È significativo notare come il favore per il governo tecnico cresca soprattutto fra gli under trenta. Sono gli stessi giovani a dichiararsi, in percentuale più ampia, a favore di un “leader forte”. (…) Si intiepidiscono, per contro, i sentimenti di orgoglio nazionale. Tanti gli intervistati che passano dal dirsi “molto” (44%) orgogliosi di essere italiani al più incerto “abbastanza” (39%). Il rapporto era di 65 a 29 all’ingresso nel nuovo millennio. Segno che, anche ai tempi della destra di governo, l’identità italiana non risulta ancora così solida (…) Su una cosa, però, le persone interpellate sembrano essere d’accordo: siamo un Paese dalla corruzione politica endemica, tenace. I cittadini che la percepiscono come più (o ugualmente) diffusa rispetto a Tangentopoli non sono mai scesi sotto l’80% in tutti gli anni di rilevazione»-
Conclusioni
Abbiamo, infine, lasciato da parte il giudizio relativo alla fiducia “concessa” alla istituzione Chiesa. Già non era molto alta nell’anno di rilevazione 2012, (44% per cento), non alta almeno rispetto ad altre istituzioni, scuola, presidente, forze dell’ordine; sebbene più alta di stato, magistratura e sindacati), ma in ulteriore calo del 3 per cento nel 2022. Scandali? Controversie interne? Desacralizzazione degli eventi? O cos’altro? Ci si rifletta su nell’anno del Cammino sinodale.
Ma così come occorrerebbe riflettere con più attenzione anche riguardo alle istituzioni civili. Le modalità di discussione e dibattito andrebbero affrancate da quel giudizio “comodamente” negativista che impregna spesso i nostri pensieri sul comune sentire, e adeguatamente rinforzate da una visione più fiduciosa e possibilista (seppure non scevra dallo spirito critico). Di certo faticosa e responsabilizzante, ma proprio per questo, forse, corretta e foriera di speranze attive.
Vittorio Sammarco
Terra Santa – Diario di un Pellegrinaggio solidale.
Che succede? Che fare?
Destra, sinistra e il sistema elettorale
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by c3dem_admin | su C3dem
Nella situazione italiana servirebbe una legge proporzionale: le alleanze, viste le difficoltà, si farebbero a posteriori, in una forma non obbligata dalla ricerca dei voti, ma per un accordo a governare in base a un patto esplicito
Tanto i sondaggi, quanto i pareri degli esperti e le analisi dedicate ai singoli seggi, danno per certa la vittoria delle destre nelle prossime elezioni politiche.
Del resto, non occorre un particolare acume, né calcoli troppo complicati, per prendere atto che un’ampia parte dei seggi uninominali sarà appannaggio della destra, che si presenta unita e compatta a differenza della sinistra.
D’altronde che poteva fare il PD? Letta ha disperatamente cercato di mettere insieme il più ampio schieramento possibile, cioè le diverse forze presenti, ad esclusione dei 5Stelle (dopo il loro comportamento inaccettabile) e Renzi (uscito dal partito in passato).
L’operazione non è riuscita ed in effetti era difficile, anche se tutt’altro che sbagliata: certo che se se ipoteticamente si dovesse scegliere tra Calenda e la sinistra, sarebbe meglio un’alleanza politica con Calenda rispetto a un accordo elettorale con una sinistra del no.
Così si esprime anche Arturo Parisi che, in un’intervista sull’Avvenire, sostiene che il PD doveva allearsi solo coi partiti favorevoli a Draghi, ma poi lui stesso dice che il sistema (elettorale) è bipolare. Ma questo non obbliga a fare alleanze con tutti se si vuole concorrere?
Se contassimo i voti degli elettori, probabilmente destra e sinistra si troverebbero pressappoco alla pari, ma, ciononostante, la destra sembra destinata a vincere nettamente.
E’ facile desumere che ci sia qualcosa che non funziona in questa legge elettorale: legge ibrida – la cui responsabilità è tanto della destra che della sinistra – che risponde a varie spinte in senso maggioritario, bipolare e a favore della governabilità.
Il risultato finale è un pasticcio: poiché il sistema “reale” non è bipolare (come mettere insieme PD, Calenda, Renzi, 5Stelle, Sinistra Italiana, Impegno Civico, Europa+), il sistema elettorale risulta sbilanciato.
E’ necessaria una precedente realtà bipolare dei partiti perché si possa applicare una legge elettorale bipolare, altrimenti si genera uno sconquasso ed è ciò che sta per accadere.
Fra parentesi: il sistema bipolare è un’idea molto bella, ma di difficile realizzazione e va sparendo di fatto nei paesi europei.
Dunque, nella situazione italiana, sarebbe meglio pensare a una legge proporzionale (con una quota minima di accesso): le alleanze, viste le difficoltà, si farebbero a posteriori, in una forma non obbligata dalla ricerca dei voti, ma per un accordo a governare in base a un patto esplicito.
L’ansia per il maggioritario e la governabilità ha portato ad altri provvedimenti elettorali tanto esagerati quanto chiaramente antidemocratici: tutte le liste e i candidati sono decisi a Roma e l’elettore può solo esprimere un sì o un no, ma non esprimere preferenze per i candidati.
Si tratta di vere e proprie prevaricazioni che non hanno alcuna giustificazione: occorre ritornare a liste di candidati decise a livello locale e mettere i cittadini in grado di scegliere i candidati che preferiscono.
Questo è anche un modo – certamente non l’unico, ma efficace – di rivitalizzare i partiti: se i candidati vogliono essere scelti e votati devono impegnarsi a livello locale, farsi conoscere, meritare il consenso, ciò che rende l’intero partito più vivo e la partecipazione più attiva.
Possono certamente manifestarsi consorterie locali (sono sempre esistite) e verificarsi operazioni non limpide: su questo deve vigilare il centro, che ha compiti di controllo e di orientamento.
Se avvengono fatti di questo genere significa che in quella città o provincia il partito non funziona e dunque l’intervento dovrà essere realizzato a monte per garantire un partito democratico e trasparente.
Se si andasse nella direzione qui proposta, si potrebbe forse realizzare un passo in avanti nella democrazia, tanto nel paese che nei partiti.
Sandro Antoniazzi
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Concordo sulla necessità di una nuova legge elettorale proporzionale con uno sbarramento ragionevole. Non invece sull’individuazione delle responsabilità per la caduta del governo Draghi. Stante i vicoli della pessima (e incostituzionale) legge elettorale vigente, avrei voluto che si costruisse un’alleanza costituzionale tra diversi per contrastare e perfino battere la destra. Così è andata, diversamente purtroppo. Ne prendiamo atto. La situazione è sotto gli occhi di tutti. Cerchiamo di limitare i danni. Come? Innanzitutto votare e convincere a votare una delle liste credibili dello schieramento avverso alla destra, puntando su buoni candidati, che comunque a ben vedere ci sono!
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LA CHIESA E LE ELEZIONI. IL PAPA E LA GUERRA. MELONI DRAGHIANA?
31 Agosto 2022 su C3dem
Lorenzo Prezzi, “Il silenzio della Chiesa nella campagna elettorale è pieno di messaggi” (Domani). Eugenia Roccella, “Dopo Andrea Riccardi anche Ernesto Galli Della Loggia torna sull’irrilevanza dei cattolici in politica” (Foglio). PAPA E GUERRA: una nota del Corriere della sera: “Il Vaticano: inaccettabile la guerra iniziata da Mosca”. Franco Monaco, “La pietà del papa per le vittime e la resa politica alla guerra” (Avvenire). PARTITI / FRATELLI D’ITALIA: Marcello Sorgi, “Se Meloni si riscopre draghiana” (La Stampa). Francesco Bei, “L’ambiguità di Meloni e l’eredità di Draghi” (Repubblica). Claudio Cerasa, “La forza del non essere” (Foglio). Flavia Perina, “Il bisogno di essere mamma e premier” (La Stampa). Gianluca Passarelli, “Giorgia Meloni potrebbe vincere le elezioni e perdere Palazzo Chigi” (Domani). Karima Moual, “I ‘patrioti’ contro i migranti” (La Stampa). Roberto Napoletano, “E’ Salvini la spina nel fianco di Meloni” (Il Quotidiano). Claudio Tito, “Il Ppe sdogana Meloni ma punta a sostituire Salvini con Calenda” (Repubblica). 5 STELLE: Simone Canettieri, “Ecco il nuovo format del Conte rosso” (Foglio). DEM: Giuseppe Provenzano, “Destra unita soltanto contro i più poveri” (intervista a La Stampa). Elsa Fornero, “Sinistra incapace di un messaggio forte” (intervista a La Stampa). Gianfranco Pasquino, “Letta, il Pd e gli elettori indecisi da conquistare” (Domani). SINISTRA: Walter Siti e Luciana Castellini, “La sinistra e l’identità, un dialogo” (Domani). GOVERNO: Daniele Manca, “L’illusione di ricette semplici” (Corriere della sera). Stefano Folli, “Partiti, gas e Ue, un banco di prova” (Repubblica). Fausta Chiesa, “Chi decide la quotazione del gas e perché serve legarla alle rinnovabili” (Corriere). Paolo Romani, “Capire una crisi” (Foglio). IDEE: Angelo Panebianco, “Il mondo multipolare e il valore della linea atlantica” (Corriere). Giuliano Ferrara, “Quanti danni ha fatto l’ambientalismo. Una provocazione” (Foglio). Mauro Magatti, “Addio al sonno della ragione, fine dell’abbondanza, illusioni e iniquità” (Avvenire).
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ELEZIONI IN TEMPO DI CAMBIAMENTO, È L’ORA DI DARE DI PIÙ – DI LUCIA FRONZA CREPAZ
Set 2, 2022 – 05:35:52 – CEST su Politicainsieme.
Siamo in una fase di grande trasformazione dove le crisi ricorrenti sono l’indice di un cambiamento in atto che stenta a trovare soluzioni. Il ruolo indispensabile della partecipazione politica nel segnare strade nuove a partire dall’affrontare ogni questione da una prospettiva sovranazionale.
Le frasi scritte e dette per descrivere il desolante panorama politico in atto in Italia che hanno portato a queste elezioni sono ormai tutte esaurite. Una su tutte: «È tutto solo un circo, perché parteciparvi con il mio voto?». Eppure, mi sento di dire che oggi la prospettiva giusta sia, invece, quella di dare di più, non di meno! A cominciare proprio dal voto.
Quello che vediamo e che giustamente ci dà la nausea è l’ennesima prova che cercare di capire da dove è partita la valanga risulterebbe poco più che una perdita di tempo. Qui occorre mettere mano al sistema, poiché le crisi subentranti sono indice di un cambiamento in atto che stenta a trovare soluzioni. Chi è sovrano, il popolo, ovvero tutti noi, dobbiamo metterci alla stanga.
Quali i punti chiave su cui occorre aumentare l’impegno per capire e agire di conseguenza?
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2022
MESSAGGIO DI SUA SANTITÀ
PAPA FRANCESCO
PER LA LV GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
1° GENNAIO 2022
Dialogo fra generazioni, educazione e lavoro:
strumenti per edificare una pace duratura
1. «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace» (Is 52,7).
Le parole del profeta Isaia esprimono la consolazione, il sospiro di sollievo di un popolo esiliato, sfinito dalle violenze e dai soprusi, esposto all’indegnità e alla morte. Su di esso il profeta Baruc si interrogava: «Perché ti trovi in terra nemica e sei diventato vecchio in terra straniera? Perché ti sei contaminato con i morti e sei nel numero di quelli che scendono negli inferi?» (3,10-11). Per questa gente, l’avvento del messaggero di pace significava la speranza di una rinascita dalle macerie della storia, l’inizio di un futuro luminoso.
Ancora oggi, il cammino della pace, che San Paolo VI ha chiamato col nuovo nome di sviluppo integrale, [1] rimane purtroppo lontano dalla vita reale di tanti uomini e donne e, dunque, della famiglia umana, che è ormai del tutto interconnessa. Nonostante i molteplici sforzi mirati al dialogo costruttivo tra le nazioni, si amplifica l’assordante rumore di guerre e conflitti, mentre avanzano malattie di proporzioni pandemiche, peggiorano gli effetti del cambiamento climatico e del degrado ambientale, si aggrava il dramma della fame e della sete e continua a dominare un modello economico basato sull’individualismo più che sulla condivisione solidale. Come ai tempi degli antichi profeti, anche oggi il grido dei poveri e della terra [2] non cessa di levarsi per implorare giustizia e pace.
In ogni epoca, la pace è insieme dono dall’alto e frutto di un impegno condiviso. C’è, infatti, una “architettura” della pace, dove intervengono le diverse istituzioni della società, e c’è un “artigianato” della pace che coinvolge ognuno di noi in prima persona. [3] Tutti possono collaborare a edificare un mondo più pacifico: a partire dal proprio cuore e dalle relazioni in famiglia, nella società e con l’ambiente, fino ai rapporti fra i popoli e fra gli Stati.
Vorrei qui proporre tre vie per la costruzione di una pace duratura. Anzitutto, il dialogo tra le generazioni, quale base per la realizzazione di progetti condivisi. In secondo luogo, l’educazione, come fattore di libertà, responsabilità e sviluppo. Infine, il lavoro per una piena realizzazione della dignità umana. Si tratta di tre elementi imprescindibili per «dare vita ad un patto sociale», [4] senza il quale ogni progetto di pace si rivela inconsistente.
2. Dialogare fra generazioni per edificare la pace
In un mondo ancora stretto dalla morsa della pandemia, che troppi problemi ha causato, «alcuni provano a fuggire dalla realtà rifugiandosi in mondi privati e altri la affrontano con violenza distruttiva, ma tra l’indifferenza egoista e la protesta violenta c’è un’opzione sempre possibile: il dialogo. Il dialogo tra le generazioni». [5]
Ogni dialogo sincero, pur non privo di una giusta e positiva dialettica, esige sempre una fiducia di base tra gli interlocutori. Di questa fiducia reciproca dobbiamo tornare a riappropriarci! L’attuale crisi sanitaria ha amplificato per tutti il senso della solitudine e il ripiegarsi su sé stessi. Alle solitudini degli anziani si accompagna nei giovani il senso di impotenza e la mancanza di un’idea condivisa di futuro. Tale crisi è certamente dolorosa. In essa, però, può esprimersi anche il meglio delle persone. Infatti, proprio durante la pandemia abbiamo riscontrato, in ogni parte del mondo, testimonianze generose di compassione, di condivisione, di solidarietà.
Dialogare significa ascoltarsi, confrontarsi, accordarsi e camminare insieme. Favorire tutto questo tra le generazioni vuol dire dissodare il terreno duro e sterile del conflitto e dello scarto per coltivarvi i semi di una pace duratura e condivisa.
Mentre lo sviluppo tecnologico ed economico ha spesso diviso le generazioni, le crisi contemporanee rivelano l’urgenza della loro alleanza. Da un lato, i giovani hanno bisogno dell’esperienza esistenziale, sapienziale e spirituale degli anziani; dall’altro, gli anziani necessitano del sostegno, dell’affetto, della creatività e del dinamismo dei giovani.
Le grandi sfide sociali e i processi di pacificazione non possono fare a meno del dialogo tra i custodi della memoria – gli anziani – e quelli che portano avanti la storia – i giovani –; e neanche della disponibilità di ognuno a fare spazio all’altro, a non pretendere di occupare tutta la scena perseguendo i propri interessi immediati come se non ci fossero passato e futuro. La crisi globale che stiamo vivendo ci indica nell’incontro e nel dialogo fra le generazioni la forza motrice di una politica sana, che non si accontenta di amministrare l’esistente «con rattoppi o soluzioni veloci», [6] ma che si offre come forma eminente di amore per l’altro, [7] nella ricerca di progetti condivisi e sostenibili.
Se, nelle difficoltà, sapremo praticare questo dialogo intergenerazionale «potremo essere ben radicati nel presente e, da questa posizione, frequentare il passato e il futuro: frequentare il passato, per imparare dalla storia e per guarire le ferite che a volte ci condizionano; frequentare il futuro, per alimentare l’entusiasmo, far germogliare i sogni, suscitare profezie, far fiorire le speranze. In questo modo, uniti, potremo imparare gli uni dagli altri». [8] Senza le radici, come potrebbero gli alberi crescere e produrre frutti?
Basti pensare al tema della cura della nostra casa comune. L’ambiente stesso, infatti, «è un prestito che ogni generazione riceve e deve trasmettere alla generazione successiva». [9] Vanno perciò apprezzati e incoraggiati i tanti giovani che si stanno impegnando per un mondo più giusto e attento a salvaguardare il creato, affidato alla nostra custodia. Lo fanno con inquietudine e con entusiasmo, soprattutto con senso di responsabilità di fronte all’urgente cambio di rotta, [10] che ci impongono le difficoltà emerse dall’odierna crisi etica e socio-ambientale [11] .
D’altronde, l’opportunità di costruire assieme percorsi di pace non può prescindere dall’educazione e dal lavoro, luoghi e contesti privilegiati del dialogo intergenerazionale. È l’educazione a fornire la grammatica del dialogo tra le generazioni ed è nell’esperienza del lavoro che uomini e donne di generazioni diverse si ritrovano a collaborare, scambiando conoscenze, esperienze e competenze in vista del bene comune.
3. L’istruzione e l’educazione come motori della pace
Negli ultimi anni è sensibilmente diminuito, a livello mondiale, il bilancio per l’istruzione e l’educazione, considerate spese piuttosto che investimenti. Eppure, esse costituiscono i vettori primari di uno sviluppo umano integrale: rendono la persona più libera e responsabile e sono indispensabili per la difesa e la promozione della pace. In altri termini, istruzione ed educazione sono le fondamenta di una società coesa, civile, in grado di generare speranza, ricchezza e progresso.
Le spese militari, invece, sono aumentate, superando il livello registrato al termine della “guerra fredda”, e sembrano destinate a crescere in modo esorbitante. [12]
È dunque opportuno e urgente che quanti hanno responsabilità di governo elaborino politiche economiche che prevedano un’inversione del rapporto tra gli investimenti pubblici nell’educazione e i fondi destinati agli armamenti. D’altronde, il perseguimento di un reale processo di disarmo internazionale non può che arrecare grandi benefici allo sviluppo di popoli e nazioni, liberando risorse finanziarie da impiegare in maniera più appropriata per la salute, la scuola, le infrastrutture, la cura del territorio e così via.
Auspico che all’investimento sull’educazione si accompagni un più consistente impegno per promuovere la cultura della cura. [13] Essa, di fronte alle fratture della società e all’inerzia delle istituzioni, può diventare il linguaggio comune che abbatte le barriere e costruisce ponti. «Un Paese cresce quando dialogano in modo costruttivo le sue diverse ricchezze culturali: la cultura popolare, la cultura universitaria, la cultura giovanile, la cultura artistica e la cultura tecnologica, la cultura economica e la cultura della famiglia, e la cultura dei media». [14] È dunque necessario forgiare un nuovo paradigma culturale, attraverso «un patto educativo globale per e con le giovani generazioni, che impegni le famiglie, le comunità, le scuole e le università, le istituzioni, le religioni, i governanti, l’umanità intera, nel formare persone mature». [15] Un patto che promuova l’educazione all’ecologia integrale, secondo un modello culturale di pace, di sviluppo e di sostenibilità, incentrato sulla fraternità e sull’alleanza tra l’essere umano e l’ambiente. [16]
Investire sull’istruzione e sull’educazione delle giovani generazioni è la strada maestra che le conduce, attraverso una specifica preparazione, a occupare con profitto un giusto posto nel mondo del lavoro. [17]
4. Promuovere e assicurare il lavoro costruisce la pace
Il lavoro è un fattore indispensabile per costruire e preservare la pace. Esso è espressione di sé e dei propri doni, ma anche impegno, fatica, collaborazione con altri, perché si lavora sempre con o per qualcuno. In questa prospettiva marcatamente sociale, il lavoro è il luogo dove impariamo a dare il nostro contributo per un mondo più vivibile e bello.
La pandemia da Covid-19 ha aggravato la situazione del mondo del lavoro, che stava già affrontando molteplici sfide. Milioni di attività economiche e produttive sono fallite; i lavoratori precari sono sempre più vulnerabili; molti di coloro che svolgono servizi essenziali sono ancor più nascosti alla coscienza pubblica e politica; l’istruzione a distanza ha in molti casi generato una regressione nell’apprendimento e nei percorsi scolastici. Inoltre, i giovani che si affacciano al mercato professionale e gli adulti caduti nella disoccupazione affrontano oggi prospettive drammatiche.
In particolare, l’impatto della crisi sull’economia informale, che spesso coinvolge i lavoratori migranti, è stato devastante. Molti di loro non sono riconosciuti dalle leggi nazionali, come se non esistessero; vivono in condizioni molto precarie per sé e per le loro famiglie, esposti a varie forme di schiavitù e privi di un sistema di welfare che li protegga. A ciò si aggiunga che attualmente solo un terzo della popolazione mondiale in età lavorativa gode di un sistema di protezione sociale, o può usufruirne solo in forme limitate. In molti Paesi crescono la violenza e la criminalità organizzata, soffocando la libertà e la dignità delle persone, avvelenando l’economia e impedendo che si sviluppi il bene comune. La risposta a questa situazione non può che passare attraverso un ampliamento delle opportunità di lavoro dignitoso.
Il lavoro infatti è la base su cui costruire la giustizia e la solidarietà in ogni comunità. Per questo, «non si deve cercare di sostituire sempre più il lavoro umano con il progresso tecnologico: così facendo l’umanità danneggerebbe sé stessa. Il lavoro è una necessità, è parte del senso della vita su questa terra, via di maturazione, di sviluppo umano e di realizzazione personale». [18] Dobbiamo unire le idee e gli sforzi per creare le condizioni e inventare soluzioni, affinché ogni essere umano in età lavorativa abbia la possibilità, con il proprio lavoro, di contribuire alla vita della famiglia e della società.
È più che mai urgente promuovere in tutto il mondo condizioni lavorative decenti e dignitose, orientate al bene comune e alla salvaguardia del creato. Occorre assicurare e sostenere la libertà delle iniziative imprenditoriali e, nello stesso tempo, far crescere una rinnovata responsabilità sociale, perché il profitto non sia l’unico criterio-guida.
In questa prospettiva vanno stimolate, accolte e sostenute le iniziative che, a tutti i livelli, sollecitano le imprese al rispetto dei diritti umani fondamentali di lavoratrici e lavoratori, sensibilizzando in tal senso non solo le istituzioni, ma anche i consumatori, la società civile e le realtà imprenditoriali. Queste ultime, quanto più sono consapevoli del loro ruolo sociale, tanto più diventano luoghi in cui si esercita la dignità umana, partecipando così a loro volta alla costruzione della pace. Su questo aspetto la politica è chiamata a svolgere un ruolo attivo, promuovendo un giusto equilibrio tra libertà economica e giustizia sociale. E tutti coloro che operano in questo campo, a partire dai lavoratori e dagli imprenditori cattolici, possono trovare sicuri orientamenti nella dottrina sociale della Chiesa.
Cari fratelli e sorelle! Mentre cerchiamo di unire gli sforzi per uscire dalla pandemia, vorrei rinnovare il mio ringraziamento a quanti si sono impegnati e continuano a dedicarsi con generosità e responsabilità per garantire l’istruzione, la sicurezza e la tutela dei diritti, per fornire le cure mediche, per agevolare l’incontro tra familiari e ammalati, per garantire sostegno economico alle persone indigenti o che hanno perso il lavoro. E assicuro il mio ricordo nella preghiera per tutte le vittime e le loro famiglie.
Ai governanti e a quanti hanno responsabilità politiche e sociali, ai pastori e agli animatori delle comunità ecclesiali, come pure a tutti gli uomini e le donne di buona volontà, faccio appello affinché insieme camminiamo su queste tre strade: il dialogo tra le generazioni, l’educazione e il lavoro. Con coraggio e creatività. E che siano sempre più numerosi coloro che, senza far rumore, con umiltà e tenacia, si fanno giorno per giorno artigiani di pace. E che sempre li preceda e li accompagni la benedizione del Dio della pace!
Dal Vaticano, 8 dicembre 2021
Francesco
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[1] Cfr Lett. enc. Populorum progressio (26 marzo 1967), 76ss.
[2] Cfr Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 49 .
[3] Cfr Lett. enc. Fratelli tutti (3 ottobre 2020), 231.
[4] Ibid., 218.
[5] Ibid., 199.
[6] Ibid., 179.
[7] Cfr ibid., 180.
[8] Esort. ap. postsin. Christus vivit (25 marzo 2019), 199.
[9] Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 159.
[10] Cfr ibid., 163; 202.
[11] Cfr ibid., 139.
[12] Cfr Messaggio ai partecipanti al 4° Forum di Parigi sulla pace, 11-13 novembre 2021.
[13] Cfr Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 231; Messaggio per la LIV Giornata Mondiale della Pace. La cultura della cura come percorso di pace (8 dicembre 2020).
[14] Lett. enc. Fratelli tutti (3 ottobre 2020), 199.
[15] Videomessaggio per il Global Compact on Education. Together to Look Beyond (15 ottobre 2020).
[16] Cfr Videomessaggio per l’High Level Virtual Climate Ambition Summit (13 dicembre 2020).
[17] Cfr S. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Laborem exercens (14 settembre 1981), 18.
[18] Lett. enc. Laudato sì’ (24 maggio 2015), 128.
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COSTITUTENTE TERRA – CHIESADITUTTICHIESADEIPOVERI
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Editoriale di aladinpensiero dell’8 settembre 2019.
Documentazione: Evangelii gaudium
Evangelii gaudium
(…)
CAPITOLO SECONDO
NELLA CRISI DELL’IMPEGNO COMUNITARIO
[segue]
Anpi
DOCUMENTO PER IL XVII CONGRESSO
NAZIONALE DELL’ANPI APPROVATO DAL
COMITATO NAZIONALE IL 7 MAGGIO 2021
Carla Nespolo ha tracciato una strada, quella del rapporto unitario, del confronto con le altre forze democratiche, della stretta relazione col mondo dell’associazionismo, che intendiamo continuare a perseguire a maggior ragione nella situazione di straordinaria emergenza in cui ci troviamo. Ma ciò che di più profondo ci ha consegnato è la propensione a guardare sempre oltre, a osservare con spirito critico e senso di responsabilità il mondo e il Paese che stanno cambiando, ad ascoltare le opinioni degli altri come un possibile contributo alle nostre, e – assieme – a tenere saldissime le radici dell’Anpi nella concreta esperienza storica della Resistenza e in quell’insieme di valori che sta a noi attualizzare in ogni momento di ogni presente.
CAMBIARE L’ITALIA
Siamo nel pieno di una tragedia mondiale a causa della pandemia e della gigantesca crisi economica e sociale da questa determinata. Da ciò derivano la gravità, l’eccezionalità, l’incertezza del tempo che viviamo. Ma proprio perché crescono la sfiducia, lo scoramento e perfino in tanti casi la disperazione, tanto più occorre promuovere un’idea di cambiamento e così diffondere un messaggio di speranza e di fiducia. Questo è il tempo di una visione del futuro, la visione di un Paese che ritrova le sue radici e dà vita ad una svolta storica.
In Italia, le emergenze attuali, della salute e del lavoro, si aggiungono a tanti ritardi e problemi antichi, di una economia in difficoltà da oltre dieci anni, di un Paese che produce meno ricchezza e poi la distribuisce in modo ineguale e ingiusto, in cui il potere pubblico è insidiato da poteri criminali, che troppi giovani abbandonano perché all’estero trovano migliori condizioni di lavoro e di prospettive personali. Se sono a rischio le condizioni economiche e sociali, è l’intero sistema che si trova in discussione, e si produce una situazione critica per la stessa tenuta della democrazia italiana. La crisi può nascere dalla prolungata difficoltà di reagire, di mantenere le promesse di uguaglianza e giustizia scritte nella Costituzione. Ecco perché vi è bisogno di una risposta straordinaria, che può venire solo, da una piena partecipazione democratica, da un impegno diretto delle forze migliori della società, costruendo una larga unità popolare, dando vita ad una vera e propria nuova fase della lotta democratica e antifascista.
Questo è il senso concreto ed attuale che l’Anpi attribuisce alla storia e tradizione antifascista che rappresenta e per queste ragioni l’Anpi ha avanzato la proposta di una grande alleanza per la persona, il lavoro, la società. La stagione congressuale dell’Anpi mette a tema ‒ in stretto dialogo con la società e la politica ‒ il Paese, la forza della democrazia, un ruolo ed un orizzonte nuovo dello Stato. La piena realizzazione della Costituzione, assumendo l’art. 3 come timone di tutta la rotta da percorrere, è la condizione culturale, ideale, politica nel senso più alto del termine, per il non breve impegno di ricostruzione del Paese su basi più avanzate e solidali. E’ un contributo all’unità del Paese, per superare ritardi storici e disuguaglianze accresciute, per ricostruire un clima di fiducia.
Il nostro Congresso ridisegna così la funzione dell’Anpi nel contesto di una nuova fase storica per l’Italia. L’Anpi delle partigiane e dei partigiani nata nel 1944 si è arricchita diventando, nel 2006, l’Anpi aperta agli antifascisti: oggi definisce la sua natura nazionale e popolare nel vivo del cambiamento indispensabile al Paese, guardando con impegno rinnovato alle giovani generazioni e delle donne, come forze portatrici di rinnovamento e in grado di suscitare nuove energie democratiche. Non una nuova Anpi, ma un’Anpi rinnovata, un’associazione che promuove impegno e nuove forze, che realizza uno spazio pubblico antifascista e repubblicano, parte fondamentale e determinante della più ampia area di associazioni resistenziali.
Da queste premesse deriva la necessità che tutta la fase congressuale sia intrecciata alla costruzione di una vasta rete di relazioni da parte di ogni struttura dell’Anpi che, nella sua autonomia, dialoga con l’associazionismo, il volontariato laico e di ispirazione religiosa, il mondo delle culture, dell’informazione, della scienza, del lavoro in generale, delle istituzioni e delle forze democratiche, oltre che – e in primo luogo – con le altre associazioni resistenziali.
Libertà, eguaglianza, democrazia, solidarietà, pace: sono questi i pilastri valoriali della Resistenza, successivamente incarnati nella Costituzione. E sono perciò anche gli ideali fondamentali dell’Anpi. Ideali che hanno una portata universale, in quanto forniti di uno straordinario carattere espansivo, ma che vanno storicamente declinati in luoghi e tempi determinati. La loro piena realizzazione infatti tende ad essere un orizzonte verso cui muoversi sempre, piuttosto che una realtà compiuta una volta per tutte. Si tratta, appunto, di idee la cui funzione è di essere guida permanente, di dare senso, significato e traguardo alle azioni che vengono condotte.
Tali valori e ideali sono oggi di fatto messi in discussione in modi diversi, e in Paesi e territori diversi. Le libertà spesso sono negate o ridotte: le “libertà di” (per esempio di opinione, di circolazione, di stampa), – peraltro spesso limitate e condizionate ‒ di rado si coniugano con le “libertà da” (per esempio dal bisogno, dallo sfruttamento, dalla fame); l’uguaglianza sembra una chimera, anche perché si accentuano le disuguaglianze; la democrazia viene esplicitamente conculcata, oppure dimezzata, oppure ancora ridotta al pur
necessario diritto di voto. E mentre si affievolisce la partecipazione popolare, in tanti regimi parlamentari la rappresentanza è sacrificata sull’altare di una astratta governabilità; la solidarietà viene incrinata o semplicemente negata, e si tenta di contrapporre situazioni di povertà a situazioni di maggiore povertà e disagio; alla volontà ‒ sempre sostenuta a parole ‒ di garantire una pace globale e duratura si sostituisce nei fatti una macabra normalità della guerra come presunta forma legittima di soluzione delle controversie internazionali.
Eppure nel mondo e nel nostro Paese esistono forze diffuse e operanti che difendono tali valori e ideali perché in essi si riconoscono, e perché sono consapevoli che nessuna prospettiva di cambiamento positivo è possibile a prescindere dalla loro attuazione. Sono forze eterogenee e variamente diffuse, organizzate e non, attente a temi diversi, che vanno dal lavoro alla pace, dalla difesa dell’ambiente alla lotta per la democrazia alla liberazione del proprio Paese.
Veniamo da una lunga storia, quella dell’antifascismo, della dignità e della emancipazione, iniziata durante il regime fascista, proseguita nella Resistenza, continuata nelle lotte per la democrazia e l’attuazione della Costituzione.
Per memoria attiva intendiamo appunto la capacità di trasferire tale eredità nell’azione civile e sociale, politica nell’accezione più larga ed alta della parola, in modo che essa non si limiti alla custodia del passato, ma diventi stella polare del presente e forza propulsiva per il futuro. Dalla memoria attiva della Resistenza, evento fondativo della Repubblica democratica, dobbiamo attingere l’energia e la determinazione necessarie a fronteggiare ogni circostanza sfavorevole, la fiducia nella possibilità di cambiare le cose attraverso l’unità e la partecipazione, lo stimolo alla politica perché riprenda appieno la missione indicata dalla Costituzione, cioè la capacità di progettare e governare il futuro del Paese.
PRIMA PARTE – IL MONDO VISTO DALL’ANPI
Ci sono almeno tre fattori di portata globale che non semplicemente incidono sulle singole situazioni nazionali ma cambiano il modo di pensare della politica, delle culture, delle società. Siamo nella situazione che viene definita di cambio del paradigma: la scala degli avvenimenti è di tale ampiezza, le scelte indispensabili sono di tale grandezza e complessità che il nostro modo di pensare al presente, al futuro, allo sviluppo dell’umanità deve cambiare radicalmente e basarsi su criteri e metodi del tutto nuovi.
Il primo fattore è il cambiamento climatico: il riscaldamento del pianeta procede in modo accelerato, produce devastanti fenomeni atmosferici, determina fenomeni enormi di desertificazione, di riduzione delle masse umide, di mutamento degli equilibri termici degli oceani, di scioglimento dei ghiacci polari e continentali, tanto da minacciare la scomparsa non solo di
aree costiere ma di grandi metropoli di rilievo planetario.
Il secondo fattore è la crisi degli strumenti ‒ che segue alla crisi delle volontà – di governo sovranazionale. L’ONU è da tempo bloccata in una difficoltà di azione, non presente in numerosi punti di tensione ed anche di conflitto armato in Africa, Medio oriente, Asia, in netto deficit di autorevolezza. Il confronto tra grandi potenze, Paesi e soggetti sovranazionali regionali avviene
al di fuori dell’Onu ed anche delle altre Agenzie sovranazionali.
Il terzo fattore è la rivoluzione tecnologica digitale, ampiamente in corso, che ha cambiato e cambierà modalità di lavoro, organizzazione sociale, abitudini, costumi; che incide profondamente sulla formazione del senso comune e lo farà in modo sempre più ampio; che condizionerà i rapporti globali per la stretta connessione con i temi della sicurezza, economica e militare.
Tre fattori estremamente diversi ma per i quali occorre un cambiamento netto di prospettiva, che ciascun Paese può e deve contribuire a determinare.
E il primo cambiamento deve essere la consapevolezza che nessuno si salva da solo: c’è bisogno di un impegno enorme, che richiede grandi sforzi e straordinarie risorse. Il cambiamento climatico ci dice che la politica non può intervenire sulla natura: che, al contrario, la natura decide come deve essere la politica e cosa essa deve fare. La pandemia ha amplificato ulteriormente questo profondo mutamento. Il modello di sviluppo che si è affermato sul pianeta, senza differenze di regime politico, è un modello dissipativo e distruttivo dell’equilibrio tra attività dell’uomo e natura. I rapporti tra i Paesi, in secondo luogo, non si “aggiustano” per forzature progressive ma solo tornando a determinare insieme nuovi strumenti e nuovi obiettivi di coesistenza ed anche competizione, comunque pacifica. E va ripreso con urgenza il tema del superamento degli armamenti nucleari, la cui esistenza si giustifica sempre meno. La rivoluzione digitale inciderà fortemente sullo sviluppo dei singoli Paesi, le cui economie sono attraversate da veloci e intensi processi di trasformazione: occorre operare affinché i dati siano considerati un bene comune, e perché il digitale diventi lo strumento per politiche industriali e sociali non dissipative e sostenibili.
Cambiare il Paese: dalla crisi alla rinascita
È in corso una depressione che colpisce la vita quotidiana dell’intera comunità nazionale, dall’industria ai servizi al commercio alle più disparate forme di lavoro dipendente e di lavoro autonomo, mentre cresce l’esercito degli invisibili e si allarga il differenziale fra nord e sud del Paese.
La crisi è piombata su di una penisola già fortemente segnata dalle iniquità sociali, dal divario economico, dagli squilibri territoriali e dalle contraddizioni insanabili generati da un modello di sviluppo che si è dimostrato incapace di garantire un progresso armonico perché si è fondato sulla abolizione di una ragionevole regolazione e controllo dello Stato sul mercato, sul dominio del privato sul pubblico, sull’esaltazione del concetto di individuo e sulla riduzione e penalizzazione del ruolo della cittadinanza.
Il fallimento di questo modello di sviluppo non riguarda perciò solo la dimensione economica, ma ogni aspetto della vita sociale e culturale del Paese. Da tempo assistiamo ad un progressivo affievolirsi della socialità, ad una caduta verticale della partecipazione popolare, al diffondersi di sentimenti di smarrimento, di paura e di rancore. Il dramma della pandemia ha fatto precipitare la situazione, aggravando la solitudine sociale e creando un’angoscia esistenziale causata dall’incertezza, se non dall’impossibilità di programmare in alcun modo il proprio futuro e persino il proprio presente.
In questo scenario la politica ha dimostrato tratti di larga inadeguatezza, aderendo in modo subalterno alla cultura del neoliberismo, spesso negando legittimazione a qualsiasi indirizzo alternativo di politica economico-sociale, abdicando alla sua vocazione di servizio e al compito di proporre progetti, orizzonti, visioni, ripiegando sulla amministrazione del quotidiano e spesso contaminandosi col malaffare e con l’illegalità. L’attuale sistema dei partiti ha progressivamente smarrito la sua funzione, propria dei primi decenni della repubblica, di cerniera fra società e Stato, rinunciando alla rappresentanza politica degli interessi sociali e arroccandosi nelle istituzioni. Le istituzioni stesse, svuotate della linfa vitale del sistema dei partiti, non più organicamente connesso alla società reale, hanno perso funzionalità, prestigio ed autorevolezza.
Entro questo quadro, in un periodo di tempo relativamente breve, sono cresciute e si sono spesso affermate spinte che chiamiamo populiste,
caratterizzate dal disprezzo delle istituzioni, del sistema dei partiti, dei corpi intermedi. Si è aperta così una falla nella diga democratica. Nel malfunzionamento generale del sistema-Paese sono cresciute spinte eterogenee, con forti propensioni demagogiche e autoritarie, che hanno prodotto un radicale cambiamento degli equilibri elettorali.
La crisi si manifesta anche nel sistema istituzionale. L’immagine del Parlamento è profondamente compromessa da un meccanismo elettorale per cui la gran parte dei parlamentari è nominata, e dunque scarsamente rappresentativa ma anche ‒ in alcuni casi ‒ di discutibile qualità, nonché dalla frequenza degli scandali che coinvolgono esponenti delle istituzioni, a ogni livello. Il taglio del numero dei parlamentari, che inciderà negativamente sull’attività delle Camere, è l’ennesima conferma di una deriva pericolosa, che può mettere in discussione le radici della repubblica.
La pandemia ha drammaticamente messo a nudo la debolezza e l’ambiguità della riforma del Titolo V della Costituzione, com’è dimostrato dalle
violentissime polemiche fra presidenti di Regioni e governo e fra gli stessi presidenti di Regione. Due grandi problemi sono emersi con tutta evidenza.
In primo luogo, l’incongruità di un sistema istituzionale in cui, mentre a livello nazionale vige, sia pur profondamente depauperato, il modello parlamentaristico, a livello regionale si è affermato di fatto un regime presidenziale, peraltro con ben pochi contrappesi. In secondo luogo, si è via via passati da una forma di regionalismo solidale ad una teoria del primato del più forte; l’autonomia appare sempre meno compatibile con il principio costituzionale della repubblica una e indivisibile, fondata sull’espansione della democrazia e della partecipazione dei cittadini, e sempre più un elemento di costante tensione, generata dall’egoismo localistico e dalla competizione
di mercato. A maggior ragione risulta improponibile qualsiasi proposta di autonomia differenziata: al di là di ogni buona intenzione, essa diventa un ulteriore fattore di separazione e ‒ per alcuni aspetti ‒ di frantumazione del Paese. In particolare, verrebbe ulteriormente drammatizzata la condizione del Mezzogiorno, già oggi per molti aspetti allo stremo.
La pandemia, con la conseguente crisi economica, è esplosa come una bomba su un tessuto già profondamente segnato e indebolito, facendo venire al pettine difficoltà e punti di crisi presenti da anni o addirittura da decenni.
Per citarne alcuni: il lavoro, declassato da tempo nella gerarchia dei valori sociali, con un gigantesco arretramento dei salari, dei diritti e della sicurezza dei lavoratori, a testimonianza di un vero e proprio travisamento dello spirito e della lettera della Costituzione a cominciare dal suo fondamento (art.1), e per effetto di un quadro legislativo caratterizzato dalle modifiche peggiorative apportate allo Statuto dei lavoratori e dalla simmetrica mancanza di aggiornamenti legati alle novità nell’organizzazione del lavoro, mentre giace da tre anni in parlamento la proposta di iniziativa popolare della CGIL per una nuova Carta dei diritti del lavoro. Il fenomeno migratorio, per il quale non c’è ancora una chiara politica di accoglienza, di solidarietà e soprattutto di integrazione, anche a causa dei ritardi e delle chiusure da parte dell’UE o di alcuni Paesi membri. La sanità, che, messa alla prova terribile dalla pandemia, ha rivelato i danni determinati dal progressivo ridimensionamento del Servizio sanitario nazionale a vantaggio di un modello privatistico che si è dimostrato fallimentare nel fronteggiare l’emergenza. La scuola, che vive una lunga, grave stagione di crisi perché ha perso gran parte del suo prestigio sociale (di cui fa le spese soprattutto il corpo docente), ha smarrito la sua missione fondamentale, che consiste nella formazione del cittadino. La giustizia, su cui pesano soprattutto i tempi lunghissimi dei processi e gli scandali che ne colpiscono profondamente la credibilità. La legalità, messa quotidianamente in discussione dalla criminalità organizzata e dalle organizzazioni mafiose che coprono oramai il territorio nazionale e che rivelano talvolta collegamenti perversi con la politica. L’informazione, la cui concentrazione in mano a editori “non puri” mette di fatto in discussione il pluralismo delle idee, ed esalta la faziosità. Il fisco, che da un lato non riesce a sanare la piaga dell’evasione e dell’elusione e dall’altro non ottempera più a criteri di progressività e di equa distribuzione degli oneri.
Questo groviglio di problemi si intreccia con problemi storici e permanenti: il persistere e l’aggravarsi della questione meridionale, tara storica che data dai tempi e dai modi dell’unità nazionale, e che si è accentuata da alcuni decenni a causa del costante aumento del differenziale produttivo, economico e sociale fra nord e sud del Paese; la diffusione di vecchie e nuove povertà e di
forme sempre più larghe di esclusione e marginalizzazione sociale, che hanno oramai posto all’ordine del giorno il tema dell’abbandono e del degrado di ogni periferia; una drammatica condizione delle nuove generazioni, private di diritti e di prospettive, di lavoro e di luoghi di socialità, costrette in gran parte a vivere alla giornata, alternando disoccupazione ad attività saltuarie, dequalificate, mal remunerate e spesso pericolose.
L’Italia versa perciò in uno stato di crisi organica, che si verifica allorché in un Paese un intero sistema sociale, politico e economico si trova in un stadio di instabilità così forte da mettere in discussione la sua tenuta e la credibilità stessa delle istituzioni. Quando il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere insorgono pericoli di cesarismo, si profila cioè il rischio di regimi in cui un individuo assume il potere in modo autocratico, sostituendo la partecipazione democratica e la rappresentanza con la delega diretta e plebiscitaria.
Tutto ciò pone all’ordine del giorno la difesa, la tenuta e il rilancio della democrazia, anzi, propriamente, della democrazia costituzionale.
Si parla in generale, ed anche per il nostro Paese, di crisi delle democrazie liberali. In realtà tale definizione per l’Italia è riduttiva e per così dire propagandistica. La democrazia disegnata dalla Costituzione infatti è rappresentativa, perché il popolo elegge i suoi rappresentanti; parlamentare, perché ha al centro del sistema istituzionale il parlamento; partecipata, perché presuppone ed evoca, in forme diverse, la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Certo, la nostra democrazia ha tratti liberali, ma ‒ contestualmente ‒ anche imprescindibili tratti sociali, che nascono dagli ideali di libertà ed eguaglianza coltivati in molteplici forme nella Resistenza e sostenuti nei decenni successivi dalle lotte sociali che hanno contribuito in modo determinante al progresso economico, morale e culturale del nostro Paese. Da tempo questi ultimi tratti sono stati messi progressivamente in secondo piano, con la conseguente crescita di contraddizioni e squilibri e con l’aumento esponenziale del tasso di diseguaglianza. I punti di crisi della democrazia italiana corrispondono prevalentemente alla parziale realizzazione del carattere sociale della democrazia costituzionale.
In questi vuoti si innestano le propensioni e le azioni eversive dell’estrema destra italiana: neofascisti, neonazisti e razzisti intervengono sempre più spesso nelle ferite sociali, dalla povertà alle contraddizioni fra poveri e più poveri (acuite anche dal fenomeno migratorio), dal disagio giovanile al declassamento rapidissimo di ampie fasce di ceti medi e medio-bassi. Le iniziative, spesso di natura squadristica, della “galassia nera” sono peraltro alimentate dalla propaganda incessante delle centrali della paura e dell’odio che operano nella politica, nei media, nei social network, e che hanno dato vita a un diffuso senso comune popolare. L’esito è che, mentre negli anni ‘70 la base sociale delle forze di estrema destra si concentrava simbolicamente in piazza San Babila a Milano o ai Parioli a Roma, oggi si trova nelle periferie.
Alla caduta del secondo governo Conte, provocata dal disimpegno di una forza politica della sua stessa maggioranza, hanno fatto seguito una fase di grave incertezza e la nascita del nuovo governo, in un tumultuoso rimescolamento del sistema politico. Nello scenario del tutto inedito cui siamo di fronte, rimane fermo l’obiettivo dell’Anpi di rivendicare la piena attuazione della Costituzione e una chiara azione di sostegno ad ogni concreta iniziativa
giuridica di contrasto ai fascismi e ai razzismi, che sono l’ospite inquietante
della democrazia italiana in crisi e che vanno combattuti anche sul terreno
sociale e culturale.
Si tratta di una battaglia non certo facile, ma che può essere vinta grazie
alla presenza nel nostro Paese di una vastissima area democratica di popolo,
eterogenea, più o meno organizzata in formazioni sociali, di ispirazione laica
o con convincimenti religiosi, che esprime diverse opzioni politiche ma che si ritrova saldamente unita sui principi della democrazia e sugli ideali dell’antifascismo, e che negli ultimi anni si è attivata pubblicamente decine,
centinaia di volte, in modi diversi, ad attestare una presenza, una fiducia, una
speranza. A questa mobilitazione di massa si sono aggiunte le prese di posizione
di personalità del mondo della cultura, dello spettacolo, dell’informazione, del lavoro. L’elemento portante di questo movimento carsico ma costante di partecipazione democratica è stato l’associazionismo, sia nelle espressioni più
stabili e organizzate a livello nazionale (Arci, Acli, Libera, Cgil, Cisl, Uil), sia in forme nuove, come le Sardine, sia in una miriade di esperienze particolari e locali: un movimento che ha visto sempre la presenza attiva dell’Anpi e delle altre associazioni resistenziali. Un forte impulso a tale movimento è venuto dalle ultime encicliche e dal convegno economico di Assisi (Economy of Francesco). L’incontro fra una rinnovata concezione religiosa del mondo e della vita e la visione laica dell’associazionismo sta contribuendo in modo essenziale a dar forza all’obiettivo della costruzione di una società diversa, che abbia a fondamento la centralità della persona umana, cioè un nuovo
umanesimo. Che è poi, in ultima analisi, l’architrave della Costituzione.
Da questo punto di vista non si possono dimenticare due immagini di straordinaria potenza simbolica in piena pandemia: il Papa da solo in piazza
San Pietro il 28 marzo 2020, il Presidente della Repubblica da solo davanti al
Monumento al Milite Ignoto il 25 aprile 2020.
Noi Europei: per una più forte unità politica dell’UE
Il sistema istituzionale dell’Unione Europea non è un sistema pienamente
parlamentare, ed è parte di un complesso meccanismo che rende la
democrazia europea ancora incompiuta. Tale meccanismo merita di essere
profondamente rivisitato in direzione del conferimento di più ampi poteri al
parlamento. È auspicabile che la Conferenza sul futuro dell’Europa produca
il risultato di estendere la partecipazione dei cittadini e di rafforzare la loro reale rappresentanza all’interno delle istituzioni europee.
Com’è noto, un capitolo fondamentale nella storia dell’idea di Europa è stato scritto a Ventotene. L’Europa immaginata da Colorni, Spinelli, Rossi, Hirschmann, si ispirava ai principi di libertà, di democrazia, di eguaglianza
sociale (per mettere fine alle “colossali fortune di pochi” e alla “miseria delle grandi masse”), prima coltivati dagli antifascisti italiani nella clandestinità, poi sbocciati nella Resistenza; un’Europa dei popoli e della solidarietà. Ancora oggi, ottant’anni dopo, il manifesto di Ventotene è un potente antidoto contro i nazionalpopulismi e i sovranismi, e continua a indicarci la prospettiva di una unione continentale come avanzamento ‒ e, per alcuni aspetti, compimento ‒ della rivoluzione democratica che ha sconfitto il nazifascismo.
L’Europa è perciò il luogo dove oggi l’antifascismo può realizzare una delle
sue missioni fondamentali. Sapendo coniugare lo sviluppo con i diritti individuali e collettivi, l’Europa è stata nel dopoguerra la culla del Welfare, e può perciò proporsi come riferimento per altre aree del mondo. Eppure, a
causa della crisi delle democrazie occidentali, in tanti Paesi della UE germina e cresce il virus del nazionalismo, spesso mescolato al razzismo e al nazifascismo: lo stesso virus che portò il mondo alla catastrofe nel 900. Il populismo ha assunto specifici caratteri nazionali, violando, come nel caso della Polonia e dell’Ungheria, alcuni capisaldi del Trattato dell’Unione Europea: ci riferiamo alla tutela della dignità della persona, ai valori della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, allo Stato di diritto e al rispetto dei diritti umani.
Spinte centrifughe e revisioniste di varia natura, provenienti prevalentemente
da alcuni Paesi dell’est, hanno indebolito l’Unione e rischiano di mettere in discussione la sua matrice antifascista; basti pensare alla Risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019 “sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa”, che ha riscritto la storia delle origini della
seconda guerra mondiale attribuendo una notevole responsabilità all’Unione
Sovietica e sminuendo di fatto le colpe del nazifascismo, peraltro in palese
contrasto con lo spirito della Risoluzione del Parlamento europeo del 25 ottobre 2018 “sull’aumento della violenza neofascista in Europa”.
Un’analoga distanza dai principi dello Stato di diritto si verifica in Paesi
europei non UE come l’Ucraina, profondamente inquinata da presenze filonaziste, e la Bielorussia, governata da un regime dispotico e violento.
L’UE, per di più, è da poco uscita da una lunga stagione di politica economica,
aperta dalla crisi del 2007-2008 e improntata alla cosiddetta austerità, che
ha avuto drammatiche conseguenze sociali in vari Paesi, compresa l’Italia, e
risultati catastrofici per la Grecia. Tale politica è stata una delle cause essenziali della caduta di fiducia nell’UE, della crisi della democrazia, del repentino affermarsi dei nazionalpopulismi.
Il cambio di rotta determinato dal dramma della pandemia ha segnato una
discontinuità profonda e positiva che può preludere ad un radicale cambio di
passo, come lasciano intravedere le opzioni relative alla green economy e, più in generale, la maggiore attenzione ai temi dell’ambiente. Eppure rimane
inconfutabile una strutturale debolezza politica e sociale dell’Unione,
dovuta alla mancanza di politiche comuni su temi fondamentali – politica
estera, emigrazione, fisco, lavoro – e all’indebolimento della fiducia dei
popoli nei confronti dell’organismo sovranazionale. Di converso la Brexit, se ha rappresentato traumaticamente un punto di crisi dell’Unione, ha altresì rafforzato la tenuta dell’Unione stessa davanti al pericolo della disgregazione.
In ogni caso l’UE non si mostra ancora pienamente all’altezza della sfida
globale, per la persistenza di piccoli e grandi egoismi nazionali, per i riflessi politici della teoria economica del neoliberismo (da tempo applicata di
fatto in modo esclusivo, seppure con diverse articolazioni, dall’insieme della
UE), per i condizionamenti postumi della Guerra fredda. Va segnalato in proposito il tormentato rapporto con la Russia. Alle giuste critiche per i limiti e le distorsioni del sistema politico di questo Paese e per l’opacità di eventi, situazioni ed episodi imputabili a decisioni del governo russo, si aggiunge spesso nei confronti della Russia un sovraccarico di polemiche e di scontri di carattere geopolitico, che innalzano la tensione in modo preoccupante. Il mondo che ci attende richiede un assetto multipolare, il superamento di ogni residuo di eurocentrismo e al contempo il rafforzamento dell’UE sotto tutti i punti di vista, affinché il vecchio continente, unito, regga la sfida delle grandi potenze politiche ed economiche in occidente e in oriente, a cominciare da Stati Uniti e Cina, senza per questo rinunciare alla cooperazione, al negoziato e a ogni altro strumento che garantisca la pacifica convivenza, il progresso economico e sociale, l’autodeterminazione dei popoli.
È bene che l’Europa abbia confermato il suo sistema di alleanze internazionali e i suoi rapporti transatlantici; ma tale sistema va collocato nel contesto del mondo attuale, in cui la mission difensiva della Nato nei confronti dei Paesi dell’est è venuta ovviamente meno, ma non è chiaro quale sia la nuova funzione ‒ e tantomeno il significato della natura esclusivamente difensiva ‒ dell’alleanza militare. Anche per questo deve essere messa all’ordine del giorno la costruzione di un autonomo sistema di sicurezza europeo.
Inquieta in questo scenario la proliferazione di gruppi e organizzazioni che si
richiamano al fascismo, al nazismo e al razzismo, e che interessa soprattutto
i Paesi dell’est. Sarebbe un gravissimo errore sottovalutare o tollerare questa
evidente realtà, che costituisce una minaccia permanente per la democrazia
e la libertà. Occorre perciò una piena riaffermazione dell’antifascismo come
architrave della costruzione europea e un profondo rafforzamento della
dimensione continentale dell’antifascismo organizzato.
L’Unione Europea, in conclusione, non è altro argomento, estraneo alla
situazione nazionale; essa rappresenta una dimensione decisiva della battaglia
politica, sociale e culturale, e deve diventare il teatro principale della nuova
fase della lotta democratica e antifascista nello spirito, nelle mutate condizioni storiche del nuovo secolo e del nuovo mondo, del Manifesto di Ventotene.
Il mondo in cui viviamo
L’Europa e l’Italia nel nuovo mondo. Ma è davvero nuovo? Lascia sconcertati
la vicenda dei vaccini, la cui ricerca è stata finanziata dai poteri pubblici, ma
la cui produzione e commercializzazione è stata affidata alle multinazionali
del farmaco, che hanno agito in base alle leggi del mercato e non in base al
bisogno sociale. Tutti sanno chi è il presidente degli Stati Uniti, della Russia,
della Cina, ma ben pochi sanno chi è l’amministratore delegato di Microsoft, Amazon, JPMorgan Chase. Eppure il giro d’affari di molte multinazionali sovente supera persino il PIL di tanti Paesi. In un mondo davvero nuovo dovrebbero essere messi a tema il controllo pubblico dell’economia e della finanza, un codice di vincoli e di regole per un sistema produttivo privato che opera al di fuori ed al di sopra di ogni legislazione nazionale. In sostanza, la politica deve tornare al posto di comando.
Certo, non c’è più l’inquietante figura del presidente Trump, ma l’onda lunga del “trumpismo” non si è esaurita e continua a ispirare nazionalismi e protezionismi: in America del Sud con l’incredibile presidenza di Bolsonaro, in Europa con una forte e articolata presenza nazionalpopulista, ed in Asia, per esempio col governo di Narendra Modi in India, mentre nel Myanmar l’opposizione al colpo di stato da parte di un larghissimo movimento popolare che chiede il ripristino della democrazia viene represso in modo sanguinoso.
Negli States è alla prova il nuovo presidente Biden, che propone una visione
del mondo senz’altro diversa da quella di Trump e che ha segnato già punti
a suo favore (a partire dal rientro del suo Paese negli accordi di Parigi per la
difesa dell’ambiente), ma che apre anche inquietanti interrogativi sul possibile
ricorso alla forza militare come mezzo di risoluzione delle controversie con
altri Paesi, come confermato dal raid in Siria del febbraio 2021. La sfida più
grande a cui Biden è atteso è quella della pace e della guerra: ci aspetta una
nuova guerra fredda o finalmente una coesistenza pacifica fondata sulla non ingerenza negli affari interni di altri Stati e sul diritto all’autodeterminazione dei popoli? Anche da questo punto di vista il Medio Oriente rimane una cartina di tornasole, perché chiama in causa le endemiche ingerenze politiche e militari dell’occidente, la condizione di popoli senza Stati come i palestinesi e i curdi, il ruolo di potenze regionali come Turchia, Israele, Arabia Saudita, Iran, Egitto. Si protrae il conflitto israelo-palestinese, la cui unica, equa e ragionevole composizione non può che consistere nella formula “due popoli due Stati”; dura la sanguinosa repressione del governo turco nei confronti del popolo curdo; crescono le tensioni fra Paesi a maggioranza sunnita e Paesi a maggioranza sciita; rimane il rebus libico, dopo che lo Stato è stato di fatto dissolto dall’aggressione militare della Nato del 2011, e si è aperto un calvario di guerre tribali che hanno trasformato la Libia in un teatro di scontri per procura di Stati terzi ingolositi soprattutto dalla ricchezza petrolifera del territorio, nel terreno di una complessa partita politica e diplomatica da cui l’Italia è stata finora sostanzialmente assente.
Da tempo in America Latina è in corso un confronto di dimensioni continentali fra una politica che si prefigge una effettiva indipendenza dagli Stati Uniti d’America, e una politica che si richiama alla dottrina Monroe, e dunque tende a imporre la supremazia degli Stati Uniti nel continente americano. Intanto permane l’embargo commerciale, economico e finanziario degli Stati Uniti contro Cuba, iniziato nel 1962 e ultimo retaggio della guerra fredda. È ora di cancellarlo. Le questioni legate al rispetto delle libertà, della democrazia e dei diritti umani nei Paesi dell’America Latina, alle volte reali, altre volte pretestuose, sovente sollevate per denunciare l’illegittimità di questo o quel governo, si possono affrontare esclusivamente a partire dal rispetto dell’autonomia nazionale e dell’autodeterminazione. La teoria dell’esportazione della democrazia ha già determinato catastrofici effetti in Medio Oriente, laddove, viceversa, nei confronti di regimi in cui libertà, democrazia e diritti umani sono parole vuote, come le petromonarchie, si resta inerti e si stabiliscono in qualche caso, come l’Arabia saudita, addirittura rapporti preferenziali. Seppur in ritardo, bene ha fatto il governo italiano a sospendere le commesse commerciali verso la monarchia saudita. Queste contraddizioni chiamano in causa il progressivo svuotamento di poteri e di legittimità dell’Onu e degli organismi internazionali che ne sono espressione.
Le Nazioni Unite devono recuperare il ruolo di garanti del diritto internazionale e del sistema di sicurezza collettiva, prevenendo o sanando i conflitti, tutelando il principio di non ingerenza, richiamando gli Stati membri al rispetto dei diritti umani.
In questo nuovo mondo c’è un generale indebolimento delle democrazie.
Questo vale per le democrazie cosiddette illiberali, in cui, pur in presenza di elezioni, si nega di fatto la divisione dei poteri e si tende ad asservire il potere legislativo e quello giudiziario all’esecutivo, a conculcare i diritti e
le libertà civili, ma vale anche, sia pur in modo diverso, per le democrazie
rappresentative, svuotate di effettiva partecipazione popolare e con una crisi dei partiti, in particolare dei partiti “storici”, sempre più marcata, sia pur in forme diverse a seconda degli Stati. Colpisce la pressoché totale
scomparsa dell’accezione di “democrazia sociale”, cioè di una democrazia che,
salvaguardando le conquiste del liberalismo, vada oltre, affinché le libertà e i diritti declamati siano effettivamente praticati.
In questo scenario si collocano i grandi temi della contemporaneità, a
cominciare dal fenomeno dell’ondata migratoria, che mostra la distanza
abissale fra le dichiarazioni e i comportamenti in materia di democrazia e
di diritti umani. A fronte di un evento di proporzioni eccezionali, prevale
un atteggiamento di ripulsa e di arroccamento, i cui effetti sono visibili dal
Messico al Mediterraneo alla rotta balcanica, con conseguenze catastrofiche
anche a causa della mancanza di un ordine internazionale e della debolezza e
contraddittorietà delle politiche dell’UE. Ma risposte parcellizzate, confuse e
dunque insufficienti vengono date anche ad altri problemi capitali della fase
attuale, dalla fame nel mondo alla catastrofe annunciata del riscaldamento
globale, dalla piaga del terrorismo islamico agli effetti globali della rivoluzione digitale. Per questo democrazia, nuovo umanesimo, sviluppo sostenibile, pace costituiscono le fondamenta della politica che l’umanità di oggi, e specialmente le nuove generazioni, chiedono a gran voce.
SECONDA PARTE – L’ANPI E LA SFIDA DEL PRESENTE
Noi
Come si colloca l’Anpi in questo mondo e in questo nostro Paese, l’uno e l’altro così cambiati? In primo luogo si colloca attivamente, perché l’Anpi non è la custode di un’antica reliquia, ma un soggetto che fa tesoro della memoria per intervenire nel presente e per disegnare il futuro. Non a caso lo Statuto recita fra l’altro, a proposito della missione dell’Associazione: “battersi affinché i princìpi informatori della Guerra di Liberazione divengano elementi
essenziali nella formazione delle giovani generazioni”; “concorrere alla piena
attuazione, nelle leggi e nel costume, della Costituzione Italiana, frutto della
Guerra di Liberazione, in assoluta fedeltà allo spirito che ne ha dettato gli
articoli”. In queste parole c’è la sostanza dell’idea di “memoria attiva” che
ispira l’associazione, e che consiste nel rendere vivo e operante il sistema di
valori incarnato nella Resistenza e dichiarato nella Costituzione.
L’idea di memoria attiva è la base del “fare politica” dell’Anpi, ossia di
un impegno civile e sociale che, oltre a essere un diritto, è un dovere di
cittadinanza. Chi fa coincidere con la sfera dei partiti il perimetro dei
soggetti di qualsiasi iniziativa che attenga alla politica, rivela una concezione profondamente antidemocratica e ignora la funzione essenziale della
partecipazione nell’impianto costituzionale della democrazia italiana.
L’Anpi, peraltro, ha nella sua storia momenti di forte presenza sul terreno
della politica: così fu nel 1953 nell’opposizione alla cosiddetta “legge truffa”, nel 1960 per impedire il congresso del Msi a Genova e per contrastare il governo Tambroni, negli anni 70 e 80 per fermare la strategia della tensione prima e il terrorismo poi. Recentemente ‒ nel 2006, nel 2016, nel 2020 ‒ l’Anpi ha fatto sentire le sua voce nei referendum costituzionali.
L’Associazione è perciò un attore del dibattito pubblico, pronto anche alla
mobilitazione di piazza laddove sussistano gravi pericoli per la democrazia e
il suo assetto costituzionale.
L’Anpi, in sostanza, come tutte le formazioni sociali, è un soggetto politico,
ma mentre tutti i partiti sono soggetti politici, non tutti i soggetti politici sono partiti. L’Anpi non era, non è e non sarà mai un partito, né può essere oggetto di alcuna speculazione partitica, perché la sua forza morale, ideale e pratica deriva dalla sua natura di “associazione che unisce”, che non è portatrice di una ideologia specifica, che è di parte sì, ma della parte della Costituzione.
Questo non vuol dire rifiutare i partiti o diffidarne pregiudizialmente; vuol dire invece avere a mente i diversi ruoli delle comunità organizzate che strutturano e danno anima al funzionamento della democrazia italiana.
Da tutto ciò deriva la legittimità ed anche l’urgenza, in questa fase drammatica, di una capacità di critica e di proposta, sempre in riferimento a grandi questioni di carattere costituzionale, istituzionale, politico, sociale.
L’impegno dell’Anpi oggi
La grande alleanza democratica e antifascista
Proprio perché portatrice di una visione laica e libera della cittadinanza
attiva, l’Anpi ha avanzato la proposta della grande alleanza democratica e
antifascista per la persona, il lavoro e la socialità, raccogliendo un’adesione
ampia di movimenti, associazioni, sindacati, forze politiche, ed in primo
luogo di associazioni partigiane. Il respiro di tale proposta infatti richiede
innanzitutto il concorso di tutte le associazioni nate dalla comune esperienza
della Resistenza. Tali associazioni si sono divise e articolate in ragione di uno scenario politico da tempo scomparso, e va perciò avviato un percorso che
prenda atto del superamento delle antiche divisioni nella prospettiva di una
sempre maggiore vicinanza e di una auspicabile ricomposizione.
La proposta è di un’alleanza che riproponga nel dramma presente la centralità
dei valori della solidarietà e della prossimità, due parole chiave, ma sappia
anche guardare al futuro, affinché nell’Italia del dopo Covid non si assista
alla restaurazione dei modelli economici e valoriali del recente passato, ma
si imbocchi la strada del cambiamento. O ci sarà una svolta vera, oppure il
domani riproporrà in forma ancora più grave il dramma della diseguaglianza.
Si tratta dunque di un’alleanza per la Costituzione.
Tale proposta nasce dalla estrema gravità della situazione del Paese, dall’urgenza di una risposta unitaria come unica risposta storicamente e logicamente possibile, dalla necessità di non giocare più soltanto di rimessa,
criticando o contestando questo o quel fenomeno di deriva della democrazia,
ma viceversa di andare all’attacco, svolgendo un ruolo positivo e propositivo.
In sostanza, questo è il momento di una piena assunzione di responsabilità
nazionale e generale, a maggior ragione di fronte alla mancanza di soggetti
partitici in grado di svolgere un’analoga funzione di “levatrice” di una nuova
fase della lotta democratica e antifascista.
Questa scelta dell’Anpi è pienamente coerente con le sue radici, anzi per qualche aspetto è dovuta, perché rinvia, in ultima analisi, alla logica unitaria del Cln e allo slancio di solidarietà del Paese nell’immediato dopoguerra, prima
dell’avvio della guerra fredda, cioè alla fase di ricostruzione dell’Italia distrutta da un regime dittatoriale e dalla guerra. Inoltre, esalta il carattere autonomo e unitario dell’Associazione. I due aggettivi non sono in contraddizione, perché il primo esclude qualsiasi rapporto di dipendenza, il secondo esclude qualsiasi propensione alla chiusura e all’autosufficienza. Oggi non c’è stata una guerra e la dittatura fascista è fuori dalla storia presente: ci sono però un Paese da ricostruire, una fiducia da suscitare, un futuro che deve essere nelle mani dei cittadini.
La proposta di grande alleanza serve in primo luogo a stabilire un clima nuovo, di dialogo, di partecipazione, di condivisione, di ascolto, fra forze politiche, forze sociali, istituzioni, ma anche fra persone, perché è vero, come ha affermato Papa Francesco, che “nessuno si salva da solo”. È inoltre un luogo ove esporre analisi e formulare proposte di indirizzo, opzioni di
priorità, gerarchie di valori condivisi. L’obiettivo dell’alleanza non è quello di sostituirsi al legislatore, ma di stimolarlo e di contribuire alla ricostruzione di un rapporto virtuoso fra la società e il sistema istituzionale. La modalità di tale alleanza non si può definire con un accordo a tavolino; l’alleanza deve manifestarsi in un costante processo unitario e realizzarsi attraverso le tante forme possibili che essa può assumere sull’intero territorio nazionale, in considerazione delle specifiche caratteristiche della storia locale. È dal territorio che possono nascere esperienze, proposte, iniziative. I territori sono le officine dell’alleanza.
Ma i territori sono anche per alcuni aspetti l’obiettivo dell’alleanza. A fronte
degli estesi ed evidenti fenomeni di disgregazione, occorre ricostruire i legami
sociali attraverso una crescente partecipazione, una mobilitazione generale
dei cittadini organizzati, per costruire una nuova cultura della cittadinanza.
Questo comporta per l’Anpi una vasta proiezione nella società civile, un
dialogo ed uno scambio continui con la molteplicità dei soggetti sociali.
La nostra anima e le radici
La nostra anima è la memoria delle radici. Essa si incarna in forma simbolica
e rituale nella mole delle celebrazioni, a cominciare dalla più grande e
significativa: il 25 aprile. Tale data viene ricordata con la dovuta solennità
nella grande maggioranza dei comuni italiani; ma c’è ancora una zona grigia in
cui, anche a causa delle scelte di diverse giunte di destra, non viene festeggiata la Liberazione. È compito di tutte le strutture Anpi impegnarsi affinché in ogni comune il 25 aprile venga degnamente commemorato. Ma assieme a
questa e ad altre date importanti (come il 2 giugno, festa della Repubblica),
l’Anpi è impegnata a coltivare la memoria delle radici in molte altre forme,
come l’onore alle lapidi o l’istallazione delle “pietre d’inciampo”. Per
converso, l’Anpi deve impegnarsi su tutto il territorio nazionale a contrastare
la pericolosissima deriva per cui in alcune realtà si erigono piccoli o grandi
monumenti a personalità del regime fascista o compromesse col fascismo.
Il fronte su cui si sta manifestando una vera e proprio offensiva dell’estrema
destra riguarda la toponomastica, con l’intitolazione di piazze, vie, giardini a fascisti scomparsi. A questa indecente opera di riabilitazione del fascismo
noi dobbiamo contrapporre la valorizzazione delle figure della Resistenza di
maggiore rilievo locale, con particolare riferimento alle centinaia e centinaia
di donne – partigiane, staffette o semplici donne del popolo – seviziate e
uccise dai nazifascisti, a cominciare da quelle insignite di Medaglia d’Oro.
In tale contesto va ricordato il prezioso lavoro, svolto per conto dell’Anpi
nazionale con la collaborazione di tanti comitati provinciali e di tante sezioni
e col sostegno dello Spi-Cgil, da Laura Gnocchi e Gad Lerner, che hanno
raccolto centinaia di video-interviste a partigiane e partigiani. Al volume «Noi
partigiani», pubblicato lo scorso anno, segue la costituzione di un “memoriale
virtuale” in cui sono raccolte tutte le testimonianze. Sarà poi utile un serio
contributo dell’ANPI anche all’approfondimento del tema che si potrebbe
definire “la Resistenza e il futuro”, per cogliere le attese, le speranze, gli intenti
e i progetti di quanti parteciparono in qualsiasi forma alla Resistenza. Tale
approfondimento potrà recare un contributo saliente anche a collegare talune
esperienze della Resistenza (per esempio, le Repubbliche partigiane) ai lavori
(ed ai risultati) della assemblea Costituente, per la formazione dell’attuale
Carta Costituzionale, recando un ulteriore contributo alla memoria, non
solo come conoscenza e ricordo, ma anche come riflessione e valorizzazione
dei contenuti, delle attese e delle speranze della Resistenza.
In ultima analisi la “memoria” dell’Anpi, e cioè la conoscenza, il ricordo,
la valorizzazione del passato e la sua elaborazione critica, a partire dalla
complessa esperienza della Resistenza e della Liberazione, dalla Consulta
nazionale istituita dopo la fine della guerra per portare il Paese alle elezioni
politiche, dai lavori dell’Assemblea Costituente ed infine dall’approvazione
della Costituzione, rappresenta un patrimonio irrinunciabile per affrontare
in modo critico, positivo e propositivo il presente ed il futuro. Siamo davanti
ad una dilagante e generalizzata riscrittura della storia, e a una vera e propria
delegittimazione della ricerca storica, da parte di centri di potere politico e
istituzionale della destra. È urgente perciò dar vita a una nuova narrazione
che faccia della verità storica uno strumento potente di impegno civile e di
cambiamento sociale.
L’antifascismo e l’antirazzismo oggi
Tutta la vigenza congressuale, dal 2016 ad oggi, è stata costellata di iniziative
antifasciste e antirazziste da parte dell’Anpi, nella maggioranza dei casi
unitamente ad altre forze sociali. Dobbiamo essere sempre in prima fila nella
denuncia dell’attività squadristica in ogni sua forma, dei tentativi revisionistici
che si sono moltiplicati negli ultimi anni con l’evidente disegno di ridare
legittimità storica e politica al ventennio, di ogni manifestazione di razzismo, di
discriminazione e di antisemitismo. L’antisemitismo è vivo e vegeto in Europa
e si manifesta con frequenza sempre più preoccupante. È essenziale avere a
mente che qualsiasi riferimento diretto o indiretto al fascismo è in conflitto
con lo spirito della Costituzione e con la natura democratica della repubblica.
Oggi la suggestione fascista non è più limitata ad un gruppo di nostalgici, ma
è condivisa da una parte significativa, pur se non maggioritaria, della pubblica
opinione, ed è assecondata dai gruppi dirigenti dei partiti più vicini al punto
di vista nazionalpopulista, che hanno in gran parte sdoganato il fascismo
legittimandone storia, teorie, idee, costumi, luoghi comuni. L’egemonia della
cultura antifascista passa in primo luogo dalla sconfitta di questi fenomeni.
Negli ultimi anni i punti più alti dell’impegno antifascista dell’Anpi sono
stati la grandiosa manifestazione “Mai più fascismi, mai più razzismi”, da noi
promossa insieme con un vasto arco di forze e tenutasi a Roma il 24 febbraio
2018; la raccolta unitaria di firme su scala nazionale per la messa fuorilegge
delle organizzazioni fasciste e razziste; l’esposto presentato alla Procura della
Repubblica di Roma contro Casa Pound; la lunga campagna di denuncia
della “Galassia nera” sul web lanciata da «Patria indipendente» e ripresa in
vari modi da istituzioni e media; la vasta attività di ricerca storico-giuridica
sulla legislazione antifascista e antirazzista compiuta dall’Anpi nazionale.
Analogamente, la battaglia antirazzista ha avuto carattere permanente e
continuativo su diversi fronti: i migranti, i rom, gli ebrei, gli afroamericani. Un
punto particolarmente alto di impegno è avvenuto a partire dal luglio 2020,
dopo l’omicidio negli States di George Floyd. Assieme, la critica al razzismo
si è realizzata con diverse riflessioni e approfondimenti, in particolare sulle
pagine di «Patria indipendente». È stato messo a fuoco il nesso strettissimo
fra contrasto a fascismi e razzismi e piena attuazione della Costituzione; il
carattere antifascista della Carta fondamentale non si riduce infatti alla pur
essenziale XII Disposizione finale, ma ispira ogni sua parte perché disegna uno
Stato, una società ed un insieme di regole esattamente opposti all’ideologia
fascista e razzista.
La memoria del passato avviene sempre nel presente. Da questo punto di
vista la Resistenza, la guerra, il dopoguerra, la Costituente, la Costituzione
sono temi straordinariamente attuali e oggetto di ricerca storica tutt’altro
che conclusa. L’Anpi ha dato in questi anni un importante contributo alla
conoscenza della Resistenza come fenomeno nazionale (valorizzando il
ruolo del Mezzogiorno e dei meridionali) e come laboratorio istituzionale (le
repubbliche partigiane). Eppure stiamo assistendo a un’offensiva revisionista
senza precedenti, tesa a screditare il movimento partigiano e l’intera lotta
di Liberazione; valga a esempio la ricorrente e stucchevole polemica sulle
foibe. Anche su questo terreno l’Anpi ha risposto non solo contestando un
presunto negazionismo, peraltro mai esistito, ma analizzando il drammatico
fenomeno nel più ampio contesto delle vicende del confine orientale, dal
fascismo di confine all’invasione della Jugoslavia. Questi fronti di ricerca
devono rimanere aperti, e devono essere approfonditi aspetti finora non
sufficientemente studiati: le atrocità commesse dai nazifascisti nei confronti
delle partigiane, delle staffette e in generale delle donne; il ruolo specifico dei ragazzi e dei ragazzini nella Resistenza; il suggestivo e inesplorato argomento del paesaggio partigiano; la “resistenza passiva” degli Internati Militari Italiani.
In ogni attività di ricerca sarà ovviamente necessario coinvolgere gli Istituti
Storici, con particolare riferimento all’Istituto Nazionale “Ferruccio Parri”.
La nostra lotta è la Costituzione
Negli ultimi anni la nostra Carta costituzionale è stata sottoposta a numerosi
tentativi di revisione da noi respinti, in particolare nel 2006 e nel 2016. Nostro compito è, come sempre, concorrere alla sua difesa ed alla sua attuazione. Ma non solo. L’Anpi da tempo è impegnata a favorire la conoscenza, non solo nella lettera ma nello spirito, della Costituzione, nella consapevolezza che essa contiene anche criteri di interpretazione di processi di lunga durata. La conoscenza della Carta fondamentale e la conseguente necessità di difenderla e di applicarne integralmente i princìpi sono da anni un aspetto centrale della nostra attività, a diversi livelli: dalla collaborazione con il Ministero dell’Istruzione, che va potenziata, all’impegno nei referendum costituzionali, all’approfondimento del versante culturale dell’antifascismo attraverso diverse pubblicazioni e seminari. Questo impegno deve incrementarsi e generalizzarsi sul territorio nazionale. Anche per questi aspetti sarà opportuno promuovere la massima collaborazione con le altre associazioni partigiane e resistenziali.
Una nuova statualità democratica e antifascista
La questione generale strategicamente più importante riguarda la natura, i compiti e le funzioni dello Stato italiano; è questa la ragione che porta l’Anpi a proporre alcune linee guida di riforma.
Il disastro della pandemia, il conseguente crollo di tante attività produttive,
commerciali e di servizio, lo scenario di crisi organica in cui versa il Paese
possono e devono essere affrontati dallo Stato, cioè dall’insieme delle
istituzioni che governano il territorio e rappresentano il popolo, all’altezza
delle contraddizioni del nostro tempo. Assistiamo all’anomalo sviluppo di poteri economici e finanziari svincolati da ogni controllo democratico, di fatto concorrenti con i poteri dello Stato, alle volte in grado persino di condizionare tali poteri. Oggi lo Stato italiano, in quanto ancora segnato dalle contraddizioni del passato, è sì parte della soluzione, ma anche del problema, e diviene perciò terreno di lotta politica finalizzata a un suo profondo cambiamento. È giunto il momento di manifestare un nuovo patriottismo
costituzionale, che postula una rigenerazione in senso pratico ed etico della politica.
Già nel 2016, il 22 marzo, il Presidente nazionale dell’Anpi, Carlo Smuraglia,
e la Presidente dell’Istituto Alcide Cervi, Albertina Soliani, consegnarono
al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, un ampio documento contenente proposte operative “Per uno Stato pienamente antifascista”.
Nel documento, assieme alla denuncia dei ritardi e dei limiti di uno Stato
che non si è ancora del tutto uniformato alla natura antifascista della
Costituzione e della Repubblica, si suggeriva una serie di provvedimenti in
materia di legislazione, giustizia, scuola, autonomie, e si affermava la necessità appunto di “un forte patriottismo costituzionale, come base di una corretta convivenza civile”.
In verità le istituzioni di questo Paese non sono mai diventate pienamente
“antifasciste”, come vorrebbe la Costituzione; e ciò perché non sono stati
fatti fino in fondo i conti col fascismo, non si è insegnato sul serio che cosa
è stato veramente il fascismo, si è tenuto un comportamento lassista nei
confronti di atteggiamenti e azioni inaccettabili e pericolosi, non solo nella
società, ma anche nelle istituzioni. Basti pensare ai fatti accaduti a Genova del luglio 2001 durante il G8 e ai comportamenti della polizia, qualificati dalla Corte Europea dei diritti come “ torture”.
Su quali temi si deve impegnare oggi l’Anpi? E per quali proposte? Senza
pretendere di dettare l’agenda del governo e del parlamento, e di surrogare
i partiti nella formulazione di un programma politico generale, ci limitiamo
di seguito a riassumere il punto di vista dell’Associazione su alcune questioni
che hanno particolare rilevanza nel discorso pubblico e che appaiono cruciali
per il futuro della democrazia repubblicana e del nostro Paese.
Anche a partire dalle richieste del documento del 2016, peraltro sostanzialmente
inevase, è opportuno mettere a punto un’idea di Stato che coniughi la sua
necessaria modernizzazione con l’attuazione del disposto costituzionale e con
un profondo arricchimento della natura della democrazia italiana, a partire
dal dettato del secondo comma dell’art. 3 della Costituzione: “E` compito
della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che,
limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Sono perciò i diritti incomprimibili a dover essere garantiti dal bilancio dello Stato, e non l’equilibrio di bilancio a condizionare la loro piena soddisfazione, come già osservato anche dalla Corte Costituzionale. Il principio del pareggio di bilancio (art.81 Cost. nuova formulazione) non può e non deve insomma pregiudicare la tutela dei diritti sociali, essi pure costituzionalmente garantiti.
Occorre, allora, riaffermare lo statuto costituzionale dei diritti sociali contro le tendenze alla loro decostituzionalizzazione, per rivalutare in concreto il principio di solidarietà collettiva, pilastro fondante della nostra democrazia, e la conseguente esigenza di protezione dei soggetti deboli.
Tutto ciò rinvia al carattere sociale della democrazia italiana, in gran parte
inattuato, e pone allo Stato urgenze e doveri finora spesso disattesi.
Lo scopo è dar vita ad una democrazia che si organizza, sia attraverso una
riforma del sistema politico coerente con l’art. 49 (“Tutti i cittadini hanno
diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo
democratico a determinare la politica nazionale”), che comporta anche
l’osservanza di regole di democrazia interna ai partiti, sia attraverso altre forme di partecipazione popolare.
Parlamento, Regioni, enti locali
Il Parlamento deve tornare ad essere specchio del Paese, esaltando la
sua funzione di rappresentanza e riconquistando centralità. Va perciò
contrastata l’allarmante tendenza a dar vita ad una sorta di presidenzialismo
“di fatto”.
Le Regioni non possono essere poteri separati e conflittuali, ma istituzioni
democratiche che valorizzano il territorio di competenza, che operano in
concerto col governo nazionale e in cui va esaltato il ruolo del consiglio
regionale in quanto massima espressione della rappresentanza politica: a
esso deve essere restituita la prerogativa di eleggere il presidente, il cui potere non può non essere bilanciato da opportuni contrappesi. L’Italia risente di decenni di propaganda di secessione delle Regioni ricche e, successivamente, di un federalismo sempre presentato in antitesi e in competizione con lo
Stato unitario. Viceversa, occorre ritornare allo spirito costituzionale per determinare un corretto rapporto fra poteri dello Stato, Regioni e comunità
locali. Lo Stato unitario va ancora pienamente compiuto, superando
differenze e diffidenze che datano dal Risorgimento. Il regionalismo deve
ritrovare il nesso fra la sua specificità territoriale e l’anima solidaristica che fa la Repubblica una e indivisibile. L’Italia è il Paese dei mille Comuni,
cioè di una diffusione di comunità locali con specifiche identità, che vanno
valorizzate e che costituiscono un ineliminabile patrimonio storico, civile,
culturale di carattere nazionale.
Lo Stato, le imprese e i lavoratori
Bisogna accantonare una visione dello Stato come notaio dello sviluppo
e come pagatore in ultima istanza della crisi delle imprese; lo Stato
dev’essere viceversa soggetto regolatore dell’economia, come si legge fra
l’altro negli artt. 41, 42, 43 della Costituzione, che stabiliscono la funzione
sociale dell’impresa, le libertà e i vincoli della proprietà privata, il ruolo
del legislatore nella programmazione dello sviluppo. In particolare, va
finalmente e fermamente attuata la norma costituzionale prevista nel
comma 2 dell’art. 41, che recita “La legge determina i programmi e i
controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa
essere indirizzata e coordinata a fini sociali”, e che segue al primo comma,
dove si legge che “L’iniziativa privata è libera. Non può svolgersi in contrasto
con l’utilità sociale”.
Assieme, occorre operare per una radicale trasformazione della cultura
d’impresa privata, superando il mero utilitarismo competitivo che ha caratterizzato gli ultimi quarant’anni come corollario del pensiero
neoliberista, e recuperando le migliori tradizioni della borghesia
imprenditoriale italiana, dal “contratto della montagna” a Adriano Olivetti.
Si tratta di una battaglia fondamentale anche se difficile, perché occorre
misurarsi con una tradizione profondamente arretrata di settori importanti
della piccola e grande impresa nazionale, troppe volte legati alla rendita
più che all’innovazione, abituati ad uno “Stato minimo” cui però rivolgere
sempre richieste di sostegni, incentivi, contribuzioni.
La questione demografica
L’Italia è in piena crisi demografica: stiamo diventando un Paese a sempre
più elevata età media. La politica demografica richiede ampie riforme: servizi
sociali e di sostegno per le famiglie, progetti educativi fin dalla prima infanzia e riforma dei cicli formativi, contrasto all’abbandono scolastico, rilancio della economia e della produzione di beni e servizi di qualità, interventi per la coesione sociale, superamento delle condizioni di lavoro precario e povero.
Vasto programma, si dirà: ma soltanto il conseguimento di questi obiettivi
riuscirà a cambiare concretamente le condizioni che rendono il futuro una
enorme e minacciosa incognita. Serve una organica e lungimirante visione
d’assieme: infatti si progetta una famiglia, si decide per una genitorialità
consapevole se il Paese si incammina su una strada positiva, aperta al futuro,
di grande innovazione, rassicurante perché comporta una grande, generale
assunzione di responsabilità. Non abbiamo una tradizione e nemmeno una
esperienza in questo campo: abbiamo però la consapevolezza della gravità della
situazione e pensiamo sia una delle priorità per una Italia che guarda avanti.
I beni comuni
Quale soggetto, se non lo Stato nella sua più vasta accezione o – se si vuole
– la Repubblica si deve prendere cura dei beni comuni? Diversi anni fa si
è affermato che “la locuzione ‘beni comuni’ allude non tanto a certi beni,
quanto (soprattutto) a un intero assetto istituzionale che, affermandosi tra il
pubblico e il privato, aspira a costruire un rinnovato circuito democratico: un
pubblico non statalistico e un privato liberato dall’individualismo possessivo”.
Parlare di beni comuni, in sostanza, vuol dire proporre un modello di Stato
democratico che tuteli la fruizione di risorse e servizi essenziali da parte
dell’intera comunità. L’esempio dell’acqua è il più comune ed evidente.
Quello del vaccino è il più attuale. Una nuova statualità e – va aggiunto – una
nuova visione dell’Europa, non possono non misurarsi su questo tema.
Il mondo digitale
Appare riduttivo parlare del digitale solo come un aspetto della organizzazione
della produzione. Siamo di fronte a una innovazione della portata del vapore
o della elettricità, a una forza produttiva nel senso pieno e integrale del
termine, perché tende ad organizzare e a far evolvere in modi nuovi i processi
sociali, conoscitivi, relazionali. Al centro di questa rivoluzione tecnologica
c’è un fattore determinante: i dati. La questione della proprietà dei dati
diventa la questione fondamentale, perché intorno ad essa si intrecciano
tutti gli altri aspetti, relativi all’economia, al controllo sociale, alla tutela della personalità, alla libertà intesa come autodeterminazione [libera e
consapevole]. L’acquisizione, il processamento e l’utilizzazione dei dati può
prefigurare scenari da “grande fratello” orwelliano, ma apre anche prospettive
avanzatissime di progresso individuale e collettivo. La UE è all’avanguardia
nelle misure di tutela della privacy ma è ancora un nano tecnologico, e deve
orientarsi a diventare un protagonista di taglia globale, come il suo livello
scientifico e tecnologico rendono possibile. Al tempo stesso deve sviluppare
una grande iniziativa perché i dati siano considerati e trattati come un bene
comune. La proprietà e il trattamento dei dati è la nuova frontiera delle
battaglie di libertà, per le attuali e per le prossime generazioni.
Lo stato sociale
Va ridisegnato lo stato sociale, cioè l’insieme delle politiche pubbliche tramite
cui si assicurano adeguati livelli di protezione ai cittadini o alla parte di
cittadinanza più in difficoltà.
Il sistema tributario
Va garantita la piena attuazione dell’art. 53 della Costituzione; va cioè
confermato che la tassazione deve essere informata a rigidi criteri di
progressività, e va condotta una lotta senza quartiere contro l’evasione e
l’elusione, anche con l’assunzione di provvedimenti rigorosi nei confronti
delle aziende con sede fiscale all’estero.
L’immigrazione
I temi dell’immigrazione sono di fatto, quanto meno in parte, nell’agenda
di lavoro dell’Anpi. A ciò siamo chiamati dall’art. 2 della Costituzione, che
recita: “La Repubblica (…) richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Pur avendo promosso
numerosissime iniziative di solidarietà e di prossimità nei confronti di varie
comunità di migranti, in particolare nei momenti più pesanti della pandemia,
abbiamo il dovere di occuparci anche del dramma degli sbarchi e dei naufragi,
denunciando innanzitutto le responsabilità morali di quanti hanno voluto
chiudere gli occhi di fronte al fenomeno, sollecitando politiche di accoglienza,
riaffermando gli inderogabili obblighi del soccorso in mare. Assieme, occorre
battersi per una politica alternativa ai respingimenti sul confine orientale, che creano un circolo vizioso tra Slovenia, Croazia e Bosnia, condannando decine di migliaia di migranti al lager. Ma l’attenzione al tema dev’essere più ampia,
perché esso riguarda il prossimo futuro del Paese, dove il calo delle nascite e
l’aumento dell’età media della popolazione diverranno fattori di fortissimo
squilibrio sociale, produttivo ed economico. Attraverso l’attivazione di
politiche di inclusione, è ragionevole supporre che l’afflusso di migranti e
la presenza di migranti di seconda generazione consentirà un riequilibrio
demografico assolutamente necessario. Il tema della immigrazione non
attiene perciò soltanto al pur necessario aspetto della solidarietà umana, ma
anche a quello del futuro della società italiana. Va affrontato di conseguenza
il problema della “alfabetizzazione” dei migranti, sia in senso proprio (la
conoscenza della lingua italiana) sia dal punto di vista civile (la conoscenza
della Costituzione e, per grandi linee, della storia stessa del nostro Paese).
Occorre su questo punto un intervento lungimirante delle istituzioni.
L’emigrazione
Per la prima volta dopo decenni il nostro Paese è protagonista di una
emigrazione costante e di natura profondamente diversa da quella che
storicamente ha caratterizzato e tormentato la nostra organizzazione sociale
e la vita di milioni di persone. E’ una emigrazione di giovani, spesso dotati
di alti livelli di formazione, che trovano in Europa (e non solo) un adeguato
riconoscimento delle loro qualità e capacità, personali e professionali, ma
anche di interi nuclei familiari che cercano all’estero quanto il Paese non è in
grado di offrire. Non sono i premi fiscali o gli sgravi contributivi gli strumenti adatti a fermare questa emorragia di energie giovanili e di competenze; al contrario, interventi di questa natura rischiano di distorcere modalità corrette e di lungo periodo di costruzione dei profili professionali. Occorre il rilancio dell’apparato produttivo italiano, una politica retributiva – nel settore privato quanto in quello pubblico – che riconosca le qualità professionali, la creazione di ambienti di lavoro, di ricerca, di formazione permanente, di mobilità intelligente, di parità tra uomo e donna; occorre un vero e proprio asse innovativo che trasformi un grande potenziale in una realtà al servizio del Paese, che a questi giovani è stato capace di fornire una formazione spesso altamente qualificata e che paradossalmente rinuncia ad avvalersene.
La sanità
La pandemia ha reso evidenti i limiti della sanità: il fallimento del modello
privatistico in una condizione di emergenza, la necessità di ricostruire al più
presto il tessuto della medicina territoriale e preventiva, esigono risposte
tempestive ed efficaci, che devono comprendere il superamento della
diseguaglianza territoriale nell’erogazione dei servizi sanitari e un rapporto
collaborativo fra Stato e Regioni. Colpisce ancora una volta la vitalità dello
“spirito della Resistenza”; fu infatti la partigiana Tina Anselmi, allora ministro della sanità, a promuovere nel 1978 il Servizio sanitario nazionale, che doveva essere caratterizzato da quattro principi: cioè, come ella stessa disse alla Camera, “globalità delle prestazioni, universalità dei destinatari, eguaglianza del trattamento, rispetto della dignità e della libertà della persona”.
La formazione civile
Va sostenuta attraverso un articolato programma di formazione la crescita di
una nuova coscienza civile, democratica e antifascista (diritti e doveri della
cittadinanza), magari prendendo spunto dagli esempi positivi (solidarietà,
prossimità, dedizione, sacrificio) registrati durante il corso della pandemia,
straordinario ed unico contenitore di esperienze, di successi, di fallimenti
da cui va tratto insegnamento. Il programma di formazione deve rivolgersi a
tutti, e riguardare in particolare la scuola, la magistratura, le forze dell’ordine.
Occorre investire fin dalla scuola nelle politiche di genere, educando alla
parità dei ruoli e insegnando a osservare il mondo anche con lo sguardo delle
donne. In sintesi, nello Stato va avviata una grande “riforma intellettuale e
morale” che ne esalti la natura democratica e antifascista.
La scuola
La scuola pubblica deve mantenere una funzione centrale nella nostra società, in quanto rappresenta una delle principali agenzie educative del Paese. Dopo un lungo periodo di politiche ispirate a una visione utilitaristica della cultura e a una concezione aziendalistica dell’organizzazione scolastica, va ribadito che la finalità della scuola consiste nel formare cittadini attivi e consapevoli, non produttori o consumatori.
L’ANPI sostiene e incoraggia la formazione riflessiva degli insegnanti, affinché siano in grado di suscitare l’interesse e la partecipazione degli studenti ai processi di trasmissione e di rielaborazione critica del sapere, di esaltare la loro autonomia intellettuale, di promuovere lo sviluppo di un atteggiamento cooperativo.
Le recenti disposizioni legislative, a cominciare da quelle relative all’insegnamento dell’educazione civica, unitamente all’accordo AnpiMiur, possono dare vita ad iniziative volte a favorire una migliore conoscenza della Costituzione. Si tratta di un eccellente punto di partenza per ulteriori avanzamenti sul piano della progettualità e della generalizzazione di buone pratiche locali.
La giustizia
Vi sono punti intoccabili della nostra Carta Costituzionale: in particolare i
principi fondamentali e il sistema di diritti e doveri dei cittadini definiti neisuoi primi 54 articoli. L’attuale sistema giudiziario si rivela insufficiente a renderli finalmente effettivi.
I ritardi strutturali nella pronuncia delle sentenze e nello svolgimento
dei processi mostrano il volto di un sistema poco efficiente, che sovente
frustra la legittima aspettativa ad un riconoscimento dei diritti in tempi
certi e ragionevoli. La situazione si è ulteriormente aggravata a causa dei
recenti scandali che hanno interessato l’ordine giudiziario. Tutto ciò
ha causato una crescente sfiducia nell’amministrazione della giustizia da parte della maggioranza dei cittadini. La riforma della giustizia
civile, penale, amministrativa, costituisce uno dei nodi fondamentali da
sciogliere perché la nostra democrazia possa dirsi più compiuta. Le tante
riforme processuali adottate negli ultimi decenni per sveltire i processi si
sono rivelate scorciatoie che non hanno ottenuto i risultati sperati. E’ stata
elusa la prima delle riforme necessarie, ovvero il potenziamento degli uffici
giudiziari, perennemente sotto organico, afflitto dalla drammatica carenza
di magistrati e di personale amministrativo. Alla giustizia va la percentuale
intollerabilmente esigua dell’uno virgola qualcosa per cento del bilancio
dello Stato, mentre la gran parte dell’arretrato, e non solo, è affidato al
lavoro di una magistratura onoraria precaria e senza diritti.
Nonostante questo quadro preoccupante, deve essere tributato un alto
riconoscimento al ruolo straordinario che la Magistratura ha svolto e continua
a svolgere nell’impegno contro l’eversione, contro i poteri occulti, contro la
corruzione economica e politica, contro i grandi poteri criminali delle mafie.
Tale riconoscimento deve tradursi nella ferma difesa dell’indipendenza e
della autonomia della Magistratura, che passa anche attraverso una rigorosa
riaffermazione della sua imparzialità, della ferma condanna di ogni possibile
inquinamento, oltre che attraverso uno specifico intervento ai fini della
formazione storico-politico-giuridica dei magistrati.
Un sistema giudiziario moderno è parte di una battaglia generale per una
società più giusta, per difendere i cittadini quando sono lesi nei loro diritti o quando entrano nelle aule giudiziarie, per lasciarci definitivamente alle spalle l’impianto di un codice penale – il codice Rocco – in vigore dal 1931; per superare definitivamente il problema dell’inumano sovraffollamento delle
carceri e della salvaguardia della dignità dei reclusi; per ottenere una profonda revisione delle norme punitive in materia di immigrazione e di manifestazioni politiche e sindacali contenute nei decreti sicurezza dell’ex Ministro dell’Interno; per dare effettività alla tutela dei meno abbienti con riforme che garantiscano a tutti la possibilità di concreto accesso alla Giustizia.
La difesa dell’ordine democratico
Lo Stato ha il compito specifico ed inalienabile della difesa dell’ordine
democratico e della sicurezza dei cittadini; tale compito cioè non può essere
demandato a privati o ad altri enti. Magistratura e forze dell’ordine devono
essere messe in condizione di garantire la sicurezza e ‒ in particolare ‒ di
contrastare efficacemente l’abnorme sviluppo della criminalità mafiosa.
Forze Armate
Un’attenzione specifica va rivolta alle nostre Forze Armate, il cui ordinamento,
come prescritto dall’art. 52, “si informa allo spirito democratico della
Repubblica”. È noto che da tempo si è passati dalla leva obbligatoria e di
massa al reclutamento professionale. Oggi tanta parte delle donne e degli
uomini che prestano servizio nelle varie armi sono impegnati in forme di
supporto nel contrasto alla pandemia: a tutti loro va il ringraziamento del
Paese. Non possiamo dimenticare però che l’attacco ai diritti del lavoro, che
investe il settore privato ma anche quello pubblico, non risparmia neppure
questa fondamentale struttura dello Stato. Perciò occorre garantire a tutti
gli effettivi delle Forze Armate, qualunque sia il grado rivestito, condizioni
di lavoro e di vita sicure e dignitose, al pari di quelle che dovrebbero essere
riconosciute a tutti i lavoratori.
Disciplina e onore
Un particolare rigore dev’essere esercitato nel far rispettare l’art. 54 Cost., che recita: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di
adempierle con disciplina ed onore”.
In sostanza, va avviato in modo rigoroso un processo di democratizzazione
integrale delle istituzioni.
Lo Stato e i rapporti internazionali
La storia degli ultimi decenni è stata caratterizzata, seppur in misura difforme
a livello globale, da una diminuzione dei poteri degli Stati nazionali rispetto ad altri organismi democratici di natura sovranazionale. Contemporaneamente,
tale “cessione di sovranità” non è significativamente avvenuta nelle grandi
potenze (Usa e Cina, per esempio). Si impone una riflessione sulle misure
da adottare per limitare e controllare i poteri multinazionali privati, oggi
essenzialmente liberi da vincoli e condizionamenti significativi in particolare
per quanto riguarda la tutela dei diritti dei lavoratori, ridotti di fatto alla loro mercé, da un lato; dall’altro, sull’ampiezza e sulle modalità dei trasferimenti di sovranità a poteri sovranazionali pubblici come l’UE, che appariranno tanto più legittimi quanto più l’UE metterà a valore la sua natura democratica, in sostanza quanto più sarà concretamente l’Europa dei popoli. Anche qui ci sentiamo di proporre un grande obiettivo per tutte le forze democratiche, la cultura e la scienza del nostro Paese: il controllo e lo smantellamento degli arsenali nucleari.
I giovani e le donne
L’Anpi mette al centro della sua attenzione il tema delle giovani generazioni e delle donne, che sono le categorie più deboli e di conseguenza le più colpite dalla crisi attuale nel mercato del lavoro. Ciò rappresenta un grave ostacolo allo sviluppo civile e sociale del Paese: una generazione condannata alla disoccupazione o a lavori dequalificati, un genere che mantiene ancora,
nonostante tanti avanzamenti, una condizione di subalternità.
Se è vero che la cultura largamente prevalente è quella delle classi dominanti,
va analizzata la cultura delle nuove generazioni, segnata dalla interruzione
della tradizionale trasmissione della memoria e dalla pressoché contestuale
affermazione, specialmente grazie alla rivoluzione tecnologica e alla
progressione geometrica dello sviluppo del web, di modi del tutto inediti di
comunicazione e di socializzazione, di nuovi stili di vita, di diversi linguaggi, cui corrisponde un pesantissimo ritardo formativo, inteso nella sua accezione più ampia. Pure da questa generazione nascerà la futura classe dirigente che, anche per effetto del blocco dell’ascensore sociale, sarà inesorabilmente condizionata dal ceto di provenienza. C’è il pesante rischio di un ritorno al passato, ad una rigida selezione di censo. Peraltro nei più giovani germogliano nuovi fermenti, in particolare sui temi della tutela ambientale e del riscaldamento globale.
L’approccio dell’Anpi deve escludere qualsiasi atteggiamento predicatorio
o paternalistico, come pure di inerte attesa che i giovani vadano all’Anpi.
È l’Anpi con le sue strutture, i suoi gruppi dirigenti, i suoi attivisti, che
deve andare verso i giovani con la massima capacità di ascolto e la massima
disponibilità. Il tema è vitale anche per il futuro dell’Associazione, la cui
età media è molto alta; l’Anpi ha bisogno di nuova linfa, di nuovi modi di
pensare, di una leva giovane che sia in più diretto contatto con le dinamiche
sociali, psicologiche ed anche esistenziali di un mondo che cambia. La nuova
linfa, lungi dal cambiare la natura dell’Associazione, ne rafforzerà le radici,
dal momento che i protagonisti della Resistenza furono prevalentemente
giovani, ragazzi e ragazzini.
La questione femminile è altro tema centrale per l’Anpi. Pur essendo
la maggioranza e pur avendo, dagli albori del voto del 2 giugno 1946,
raggiunto una serie di obiettivi di emancipazione civile e sociale, le donne
italiane vivono ancora in una condizione discriminata, e in più sono vittime
dell’imbarbarimento del nostro tempo; la violenza contro le donne è un
dramma mondiale e nazionale che conferma la carica di brutalità e di aggressività
diffusa nella pancia della società e alimentata da centrali mediatiche dell’odio
e della paura, da una spettacolarizzazione della violenza oramai abituale. In
Italia peraltro si moltiplicano circoli politici e culturali di stampo oscurantista
che auspicano una generale regressione dei diritti di parità.
Questa deriva va attivamente contrastata e va promossa, contestualmente, una valorizzazione di genere all’interno dell’Anpi. Peraltro, anche in questo caso l’insegnamento viene dalla Resistenza: basti pensare alle partigiane e alle staffette, e di conseguenza al contenuto liberatorio di quella esperienza storica per le donne.
Il lavoro e l’occupazione
La crisi del Paese è in gran parte crisi del lavoro e dell’occupazione, specialmente (ma non solo) a causa degli effetti indiretti della pandemia. Si stima in modo approssimativo, su scala mondiale, una perdita nel 2020 di 144 milioni di posti di lavoro. Il tema è propriamente sindacale e ‒ per altro verso ‒ politico; ma è possibile e del tutto legittima una iniziativa del più ampio mondo dell’associazionismo e in particolare dell’Anpi, in primo luogo affinché la Costituzione torni nei luoghi di lavoro e vengano riaffermati i diritti di libertà, il salario dignitoso, la dignità personale dei lavoratori, la sicurezza sul lavoro, purtroppo non ancora adeguatamente garantita.
L’ambiente e il riscaldamento globale
Il tema dell’ambiente e del riscaldamento globale dev’essere assunto dall’Anpi, nell’ambito e nei limiti delle sue competenze, come una delle attenzioni. Il rientro degli States fra i Paesi sottoscrittori degli accordi di Parigi è senz’altro positivo, ed è importante sottolineare il ruolo trainante dell’UE nel sostegno a tali accordi. Nella più ampia questione ambientale l’Italia conserva però un
ritardo dal punto della coscienza civile ed anche del ruolo delle istituzioni.
Basti pensare agli esiti territorialmente eterogenei della raccolta differenziata dei rifiuti. Da questo punto di vista è bene valorizzare la sensibilità delle giovanissime generazioni e contribuire a determinare punti di convergenza nelle istituzioni e con le istituzioni, in una più generale logica di alleanza democratica, sui tema della difesa ambientale.
I saperi
Il tema della cultura è oggi centrale per l’Anpi e riguarda un ampio spettro di interessi: la ricerca, le arti, le scienze, il pensiero filosofico, le dottrine religiose, ed anche lo spettacolo, i costumi, le credenze. Si è superata l’antica distinzione fra “cultura alta” e cultura materiale, popolare, ed è nato col tempo un ceto intellettuale di massa. Da ciò l’importanza della formazione come strumento di trasmissione e di estensione dei saperi. Eppure su questo terreno le forze democratiche registrano un inquietante ritardo perché, a fronte di un’offensiva culturale delle destre che è profondamente penetrata nella società e che è diventata una vera e propria narrazione, spesso acostituzionale e qualche volta anticostituzionale, non c’è una risposta che vada oltre la replica, la contestazione, la rettifica, e fornisca invece un’altra visione, un’altra narrazione. L’Anpi in questi anni ha prodotto numerosi e meritori lavori in controtendenza, in particolare sul tema della Resistenza. Occorre proseguire su questa strada anche attraverso un rapporto diretto con i vari mondi dei saperi, a cominciare dalle università (con particolare riguardo agli storici), con le associazioni dei docenti, con i centri culturali.
L’informazione
Va ricordato che il tema dell’informazione costituisce parte integrante
di una rigenerazione democratica del Paese sotto vari punti di vista. La
concentrazione delle testate in mano ad editori non puri, cioè a grandi gruppi
finanziari e industriali, una concentrazione che presenta il mondo ad una sola
dimensione, da un solo punto di vista in politica interna ed estera; assieme,
i ripetuti tentativi di conculcare la libertà di stampa e persino la libertà dei
singoli giornalisti di scrivere liberamente; il caos più totale nell’informazione
via web e in particolare via social, luogo prescelto per ogni sorta di fake news
e per ogni aggressione mediatica, a fronte di una scarsa regolamentazione del
settore che, salvaguardando i diritti di libertà, riconosca e definisca le eventuali
fattispecie di reato, sono fattori che distorcono le dinamiche di formazione
dell’opinione pubblica e inquinano la stessa dialettica democratica.
La pace e il disarmo
L’impegno per la pace e il disarmo è un tratto permanente nella lunga storia
dell’Anpi. Tale impegno si misura con una fase di inquietante riarmo delle
potenze globali e regionali. Preoccupa la forte esposizione del nostro Paese
nella produzione e nel commercio di armamenti, sovente in direzione di Stati
direttamente o indirettamente impegnati in teatri di guerra. La presenza
costante dell’Anpi alla tradizionale Marcia della Pace di Assisi attesta questo
impegno.
Il Servizio civile
L’Anpi da alcuni anni ha accesso al Servizio Civile Universale con progetti
inerenti alla promozione della memoria della Resistenza, a partire dalla
catalogazione del materiale documentaristico presente negli archivi provinciali
e nazionali della nostra Associazione. Si tratta per le giovani generazioni di
un‘opportunità di approccio all’attivismo antifascista, e di incontro tra le
nostre istanze formative e un vasto mondo in cerca di orientamento e di
buone pratiche di partecipazione.
L’organizzazione
Dal Congresso Nazionale che abbiamo celebrato nel maggio del 2016,
l’Anpi è stata diretta da tre Presidenti: Carlo Smuraglia, Carla Nespolo,
Gianfranco Pagliarulo, fatto unico nella lunga storia dell’Associazione. Negli
ultimi anni l’attività dell’Anpi è stata condizionata dalle restrizioni imposte
dalla pandemia e dalla tragica malattia di Carla Nespolo. Nonostante questo, l’insieme dell’Associazione ha svolto un lavoro di straordinaria quantità e qualità, scandito da eventi nazionali del tutto peculiari: le grandi
manifestazioni antifasciste, la diffusa attività solidale delle Sezioni e dei
Comitati provinciali nei confronti delle persone in difficoltà a causa del Covid, il 25 aprile sui balconi e sui social, la rosa sulle tombe delle Costituenti il 2 giugno, la già menzionata campagna antirazzista sui social, i diversi convegni di carattere storico. Grazie a queste attività e alla forte presenza dell’Anpi nel dibattito pubblico, l’Associazione conta oggi circa 130 mila iscritti e gode, in sostanza, di buona salute. Va pure segnalato che tale andamento appare in controtendenza rispetto in particolare alle adesioni ai partiti, a conferma che alla crisi dell’attuale sistema politico corrisponde un relativo rafforzamento delle comunità di natura associativa.
Questo quadro, pur positivo per l’Anpi, deve essere di sprone per il superamento dei limiti ancora presenti. L’età media degli iscritti è elevata
e occorre di conseguenza, come già detto, una specifica attenzione ai
giovani, con l’obiettivo di dar vita a una nuova leva di antifascisti. Va
inoltre prestata una particolare attenzione alle donne. Ancora: dall’analisi
della composizione sociale dell’Anpi (e in specie dei suoi gruppi dirigenti)
emerge la necessità di promuovere una maggiore presenza di alcune
figure sociali e di cittadini residenti nell’Italia meridionale ove, per ovvie
ragioni storiche, l’Anpi è mediamente più debole. Analogamente, occorre
rinnovare i gruppi dirigenti con la promozione di giovani, di donne, di persone provenienti dal mondo dei lavori subordinati e dei servizi. In questa fase di rinnovamento, nella confusa situazione politica e sociale del Paese, vanno a maggior ragione rigorosamente osservate le regole statutarie e, assieme, va elevata la qualità del dibattito politico-culturale potenziando la formazione degli iscritti e dei dirigenti, valorizzando il pluralismo, contrastando in modo energico personalismi e provincialismi, evitando che il pur salutare confronto dialettico si sclerotizzi su posizioni pregiudiziali e contrapposte laddove è responsabilità di tutti, in primo luogo degli organismi dirigenti, pervenire sempre a una sintesi virtuosa e produttiva.
L’esperienza ha dimostrato l’utilità della nomina da parte del Comitato nazionale di un coordinatore per ognuna delle grandi aree geografiche
che corrispondono al Nord, al Centro e al Sud d’Italia, con l’incarico
di coadiuvare la Presidenza e la Segreteria nazionale nella gestione della
Associazione. È quindi opportuno confermare questa scelta.
Più complesso è il tema dei coordinamenti regionali, che hanno dato vita
in questi anni a esperienze eterogenee. Anche alla luce dello Statuto, che
prevede tre soli livelli territoriali di direzione (nazionale, provinciale, di
sezione), sembra preferibile delegare alle strutture provinciali di ciascuna
regione la facoltà di costituire, d’intesa con il Comitato nazionale, un
Coordinamento regionale composto da uno a tre rappresentanti designati
in egual misura da ciascun Comitato provinciale, con il compito primario
di rappresentare l’Associazione nei rapporti con le Istituzioni regionali e
di curare le relazioni con le organizzazioni sociali, sindacali, politiche e
culturali del medesimo livello.
Ove costituito, il Coordinamento regionale, salvo diversa determinazione del Comitato nazionale, ha sede nella città capoluogo della Regione, usufruisce della sede e dei servizi di quel Comitato provinciale ed elegge tra i suoi componenti un Coordinatore che coincide, in linea di massima, con la figura del presidente del Comitato provinciale del capoluogo.
Nelle realtà territoriali di maggior dimensione i Comitati provinciali possono promuovere dei Coordinamenti di Zona, che raggruppino al proprio interno più sezioni e che possono nominare, sempre d’intesa con il Comitato provinciale, una struttura di coordinamento e un coordinatore.
Vanno ulteriormente estese le esperienze di costruzione di autonome Sezioni ANPI sia nel territorio sia nei luoghi di lavoro e di studio.
Anche a questo fine è necessario che le sezioni con un numero rilevante
di iscritti si sdoppino, a maggior ragione se fra i tesserati vi sono gruppi di
lavoratori di un’azienda o di studenti o di personale scolastico.
Viene confermata la scelta di dar vita al coordinamento nazionale donne
perché, sebbene la Costituzione repubblicana stabilisca l’uguaglianza
formale fra i sessi, consuetudini sociali e culturali fanno da freno
all’attuazione di una reale parità fra uomini e donne. Si ravvisa al contempo
l’opportunità di rivedere la composizione dell’organismo, al fine di renderlo
maggiormente rappresentativo, e di riconsiderarne le dimensioni. Il coordinamento nazionale donne deve diventare strumento di lavoro agile e radicato nel contesto dell’attualità politica, presente ed attivo nella rete
delle associazioni che si occupano di tematiche di genere.
Rimane comunque la necessità, per il futuro del nostro Paese, di cambiare il
paradigma di approccio alla politica, stabilendo un riequilibrio degli sguardi
che consenta di individuare nuove strategie utili ad orientare verso politiche di autentica promozione della parità di genere e dell’inclusione, e innanzitutto a estirpare l’odioso fenomeno della violenza contro le donne.
Particolare attenzione va rivolta la tema della formazione interna,
verificando la possibilità di articolarla su un livello elementare e diffuso,
rivolto in particolare ai nuovi iscritti, su un livello medio, riservato ai
dirigenti provinciali, e su un livello più specialistico.
Un importante strumento politico di conoscenza e di orientamento è
l’anagrafe degli iscritti. Grazie all’anagrafe è infatti possibile “conoscere”
l’Anpi: la composizione sociale, l’età media e il genere dei tesserati, nonché
le dinamiche che ne conseguono. Oggi vi sono 65 Comitati provinciali
presenti in anagrafe per un totale di 90.000 iscritti registrati (su circa
130.000), a fronte di 26 Comitati provinciali per un totale di 25.000
iscritti del precedente congresso nazionale (maggio 2016). Si tratta di un
avanzamento fondamentale, sebbene l’allestimento dell’anagrafe sia un
adempimento ancora sottovalutato da parte di alcune realtà, e sebbene si
avverta il bisogno di curarne ulteriormente l’aggiornamento.
Il tema della comunicazione è oggi essenziale. Ai tre strumenti nazionali
già esistenti ed insostituibili – l’ufficio stampa, il sito www.anpi.it e il
periodico www.patriaindipendente.it – si è aggiunta una linea editoriale
anche con l’obiettivo di operare in sinergia con la formazione.
Sono inoltre attivi tre profili social, facebook, twitter e instagram, con un sempre più crescente numero di follower. Comitati provinciali e sezioni si stanno attrezzando per una comunicazione social efficace, e questo processo va intensificato per realizzare una rete antifascista in tutto il Paese.
Nella Federazione Internazionale Resistenti (FIR) l’Anpi è oggi rappresentata da un vicepresidente e da due membri dell’esecutivo. Tali presenze sono indispensabili al fine di un rinnovamento e di una maggiore capacità di intervento della Federazione. A questo proposito, è importante garantire un supporto continuo da parte degli organismi dirigenti nazionali
della nostra Associazione all’attività della FIR, che si mostra ancora troppo
limitata e discontinua, laddove sarebbero urgenti una intensificazione e un
coordinamento unitario dell’attività antifascista e antirazzista nell’intero
spazio europeo. Su proposta della delegazione italiana, è allo studio della
FIR la costituzione di una associazione collaterale molto più larga, che
comprenda associazioni con specifiche mission (sindacali, ambientaliste,
culturali, ecc.) ma impegnate sul terreno dell’antifascismo.
Le regole dell’Anpi
Qualsiasi comunità piccola o grande si organizza in base a un sistema di regole.
Le regole dell’Anpi sono fissate nello Statuto e nel Regolamento. Tali regole
vanno sempre interpretate in modo rigoroso, al fine di una migliore efficacia
dell’attività complessiva dell’Associazione. Tale esigenza vale a maggior
ragione oggi, davanti ad una forte offensiva delle destre estreme e all’insidiosa iniziativa culturale revisionista tesa a colpire la memoria e la funzione della Resistenza nella storia d’Italia.
I dati del tesseramento 2019 e i primi dati del 2020 confermano un forte
rafforzamento dell’Anpi. Contemporaneamente si realizza ogni anno un
notevole turn over sia degli iscritti sia anche di parte dei gruppi dirigenti;
tutto ciò rende urgente un piano di formazione ed assieme richiede una
grande attenzione per il rispetto delle regole, al fine di un’armonica crescita
dell’Associazione.
Va sottolineato che tutti gli incarichi, fino ai più importanti, sono a termine;
che, di pari passo con i processi formativi, vanno promosse nuove leve di
giovani dirigenti; che i gruppi dirigenti devono operare con spirito unitario,
al fine di assicurare la massima concordia nella vita interna dell’Associazione; che l’orientamento sulle questioni di carattere generale viene deciso dal
Comitato Nazionale, il quale (art. 5 dello Statuto) “provvede a controllare le attività dei Comitati provinciali”, “a risolvere eventuali vertenze in seno
all’Associazione”, “ad adottare tutti i provvedimenti necessari al buon
funzionamento dell’Associazione”.
Una particolare attenzione va prestata alle pagine dell’Associazione sui social.
La prudenza e il buon senso devono ispirare qualsiasi intervento affidato a
questi strumenti, evitando prese di posizione e commenti che contraddicano gli orientamenti dell’Anpi o che si prestino ad attacchi ‒ per quanto
strumentali ‒ da parte degli avversari politici, com’è avvenuto in qualche caso
in passato e continua, seppur raramente, ad avvenire. Da questo punto di vista è assolutamente necessario che i gruppi dirigenti locali controllino il dibattito sui social, e che chi segue le pagine Anpi dia prova di senso di responsabilità, distinguendo sempre fra le sue legittime ma personali opinioni e il punto di vista dell’Associazione. Analoga attenzione va prestata agli altri media ed in particolare alla stampa locale, evitando accuratamente di esternare le problematiche interne all’associazione. L’insieme di queste cautele rinvia al punto d) dell’art. 2 dello Statuto, che recita: “Tutelare l’onore e il nome partigiano contro ogni forma di vilipendio e di speculazione”.
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Benessere
Una politica nuova per gli anziani e le RSA a Milano
26 Settembre 2021 by c3dem_admin | su C3dem
[C3dem]Pubblichiamo un interessante documento, frutto della ricerca e della riflessione del gruppo Demos di Milano che, dell’analisi delle condizioni di vita degli anziani più fragili e di come riformare i servizi di cura e di sostegno loro rivolti, ha fatto uno dei temi centrali del suo impegno politico
[segue]
Scelte energetiche per la Sardegna. Che succede?
La sedia di Vanni Tola.
Che accade nel mondo delle energie rinnovabili? Il ruolo di Terna e le scelte del PNRR.
Nei giorni scorsi, un sindacalista Cgil, con un’intervista a la “La Nuova Sardegna”, ha chiesto al Presidente Solinas di intervenire direttamente sulla partita energetica, pretendendo chiarezza, e invitandolo a sollecitare il Governo Draghi affinché sciolga (a favore della dorsale) i dubbi ancora presenti sull’infrastrutturazione del metano e per impedire che il Tyrrhenian Link produca danni alla Sardegna a vantaggio di altri? Che sta accadendo? Vediamo di comprendere meglio alcuni aspetti della questione energetica isolana che, come vedremo, sono anche parte di un più vasto programma di rilancio del piano energetico nazionale. E’ in atto un confronto a distanza tra due colossi della produzione e del trasporto di energia, la società Snam e la società Terna. Del progetto Snam per la rete di distribuzione del metano (dorsale sarda) abbiamo scritto in precedenti articoli ai quali rimandiamo.
I programmi di Terna
Terna – Rete Elettrica Nazionale è il primo operatore di rete indipendente d’Europa e tra i principali al mondo per chilometri di linee gestite. Attraverso Terna Rete Italia, gestisce la Rete di Trasmissione Nazionale con 74669 km di linee elettriche in alta tensione. In Sardegna Terna persegue l’obiettivo di migliorare la rete di infrastrutture in vista della decarbonizzazione del sistema energetico italiano con un intervento finanziario certamente significativo. Il piano industriale 2021-2025 prevede, infatti, un investimento societario di un miliardo, più dell’11% dell’intera somma destinata all’intero territorio nazionale (8,9 miliardi).
Nella provincia di Sassari la società di infrastrutture elettriche ha investito 65 milioni di euro nella linea Santa Teresa-Tempio-Buddusò che consentirà di ammodernare la rete dell’isola in funzione dell’atteso sviluppo delle fonti rinnovabili, in particolare dell’eolico e del fotovoltaico migliorando la trasmissione elettrica nell’area orientale della regione, che è penalizzata dalla ridotta infrastrutturazione e dall’elevata richiesta di elettricità da parte del settore turistico, nei mesi estivi. Inizialmente l’intervento mirerà a garantire una maggiore efficienza del servizio di trasmissione dell’energia e favorire una maggiore continuità di immissione in rete dell’energia prodotta dagli impianti idroelettrici presenti nell’area. Gli sviluppi futuri invece trasformeranno questa iniziativa in un’opera considerata “strategica” anche per il sistema elettrico italiano in quanto “consentirà di ammodernare la rete dell’isola in funzione dell’atteso sviluppo delle fonti rinnovabili, in particolare eolico e fotovoltaico”.
Alcuni ragguagli tecnici.
Il nuovo elettrodotto a 150 kilovolt (kV) si snoda per circa novanta chilometri, in parte con cavo interrato, che passa attraverso otto Comuni nella Sardegna settentrionale. Nasce dopo una serie di confronti tra Terna e le amministrazioni locali e, come dichiara Terna, è “finalizzato alla condivisione degli interventi in ottica di sostenibilità”. Prevede la realizzazione di due stazioni elettriche, una a Tempio e una a Buddusò, che “permetteranno di collegare direttamente i tre snodi principali della rete elettrica locale, creando una nuova direttrice che garantirà più resilienza, sostenibilità, efficienza e affidabilità per la trasmissione elettrica regionale“. Questo progetto si aggiunge ai due progetti che già vedevano protagonista l’Isola: il Sa.Co.I 3, che mira all’interconnessione tra Sardegna, Corsica e penisola italiana, e il Tyrrhenian Link, un elettrodo sottomarino da 3,7 miliardi che unirà Sardegna, Sicilia e Campania.
L’interconnessione Sardegna, Corsica, Italia e la nascita dell’hub energetico nell’isola.
Un’altra grande opera prevista da Terna si chiama Tyrrhenian Link, l’opera che preoccupava il sindacalista della CGIL di cui si parlava in apertura dell’articolo. “Con l’interconnessione tra Sardegna, Corsica e penisola italiana (Sa.Co.I 3) e il Tyrrhenian Link, il nuovo elettrodotto sottomarino da 3,7 miliardi di euro che unirà la Sardegna con la Sicilia e quest’ultima con la Campania, la Sardegna si vedrà assegnare un ruolo strategico a livello internazionale: sia in ottica di phase-out (eliminazione graduale ndr) delle centrali a combustibili fossili e quindi per la decarbonizzazione del sistema energetico italiano grazie allo sviluppo delle fonti rinnovabili, “sia come hub elettrico dell’Europa e dell’area del Mediterraneo per l’integrazione dei mercati”. I documenti concernenti l’iter legislativo e il progetto sono consultabili al ministero della Transizione ecologica e nei comuni interessati. Il progetto, che prende il nome di Driving Energy, fa capo al gruppo presieduto da Valentina Bosetti, che gestisce la rete elettrica nazionale di trasmissione. Un piano centrato sull’Italia ma con uno sguardo rivolto al suo sviluppo come hub del Mediterraneo, attraverso il potenziamento delle interconnessioni con l’Africa da un lato e l’Europa dall’altro. L’obiettivo finale è quello di consegnare alle prossime generazioni un sistema elettrico sempre più affidabile, efficiente e decarbonizzato”, che mette al centro la sostenibilità.
Un mega investimento di Terna, il Driving Energy
Assi portanti del progetto sono: la sicurezza della rete, l’abilitazione delle fonti di energia rinnovabili, il raggiungimento degli obiettivi del Green New Deal europeo e del Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (PNIEC) e la creazione di valore economico e occupazionale. Per arrivare a questo, sono previsti investimenti da record, mai realizzati prima: 9,2 miliardi complessivi, di cui 8,9 miliardi (+22% rispetto al precedente piano) per lo sviluppo delle infrastrutture in Italia di cui 1,4 miliardi già nel 2021. Sull’estero Terna investirà 300 milioni in nuovi progetti, soprattutto in Sud America.
Lo sviluppo della grande rete
Sulle attività avviate in Italia, l’impegno di Terna dei prossimi cinque anni sarà indirizzato verso lo sviluppo, l’ammodernare e il rafforzamento della rete di trasmissione e la messa in sicurezza del sistema, in vista dei 30 GW aggiuntivi di potenza rinnovabile previsti al 2030, per centrare gli obiettivi green fissati dal governo. I benefici attesi saranno molto superiori rispetto al costo dell’investimento. Recenti studi stabiliscono che ogni miliardo di investimenti in infrastrutture ne genera tra due e tre in termini di PIL e circa mille nuovi posti di lavoro. Degli 8,9 miliardi che saranno investiti complessivamente, ne saranno spesi 5,4 per incrementare la capacità di trasporto superando le congestioni ora presenti in alcune aree di mercato, facilitare il transito Nord-Sud (e viceversa) e aumentare le interconnessioni con l’estero.
I progetti attualmente inseriti nel perimetro del Piano sono:
– il Tyrrhenian Link – l’interconnessione tra Campania, Sicilia e Sardegna che contribuirà alla decarbonizzazione della Sardegna, integrando appunto diverse zone di mercato con importanti benefici in termini di efficienza;
– l’elettrodotto che unirà la zona di Colunga (provincia di Bologna) a quella di Calenzano (provincia di Firenze), assicurando così un notevole aumento della capacità di scambio fra Centro-Sud e Centro-Nord;
– l’elettrodotto che collegherà le due sponde della Sicilia da Chiaramonte Gulfi (provincia di Ragusa) a Ciminna (provincia di Palermo) migliorando la qualità e la continuità della fornitura elettrica nella Regione;
– il SA.CO.I.3, con il rafforzamento del collegamento tra Sardegna, Corsica e Penisola Italiana.
Si prevede che il SA.CO.I3 entrerà in esercizio entro il 2025, mentre già nel 2021 dovrebbe essere operativa l’interconnessione Italia – Francia. “Nella prima parte del prossimo anno – ha dichiarato l’amministratore delegato di Terna, Donnarumma – auspichiamo anche il via libera al progetto di collegamento con la Tunisia, che creerà un corridoio tra l’Africa e l’Europa, i cui lavori dovrebbero completarsi entro il 2027, ma forse anche prima” con la naturale intermittenza delle fonti rinnovabili. Quanto all’estero, Terna è oggi attiva in alcuni Paesi dell’America Latina, dove punta a mantenere la sua presenza: oltre ai progetti in essere in Brasile, Perù e Uruguay, il piano 2021-2025 prevede di cogliere nuove opportunità, con investimenti fino a 300 milioni di euro.
Innovazione e digitalizzazione.
Nuove tecnologie e digitalizzazione richiederanno uno sforzo consistente e acquisiranno sempre maggiore importanza, perché ormai questi elementi sono imprescindibili per abilitare la transizione energetica a beneficio di tutto il sistema energetico. Terna dedicherà circa 900 milioni di euro, degli 8,9 complessivi, alla digitalizzazione e all’innovazione, proseguendo nelle attività di controllo da remoto delle stazioni elettriche e delle principali infrastrutture attraverso l’installazione di sistemi di sensoristica, monitoraggio e diagnostica, anche di tipo predittivo, a beneficio della sicurezza della rete e del territorio.
Sostenibilità e tutela del territorio al centro del piano.
Per quanto concerne la sostenibilità, la presidente Bosetti (gestione rete elettrica nazionale) ha ricordatoche “gli investimenti sono disegnati per rispondere a uno scopo di lungo periodo che è quello della decarbonizzazione”. Il 95% degli impieghi di Terna sono per loro natura sostenibili. A tutela dell’ambiente Terna si impegna a minimizzare l’impatto visivo e paesaggistico delle infrastrutture elettriche, anche rimuovendo, nell’arco temporale del Piano, circa 500 chilometri di linee rese obsolete dai nuovi investimenti di sviluppo della rete.
Energia per il futuro. Eccellenza Italia, tecnologia e soluzioni hi-tech. In Sardegna rete elettrica all’avanguardia nel mondo.
Molti non sanno che la Sardegna è già oggi leader per know how e soluzioni di ingegneria: sistemi di accumulo, compensatori sincroni, cavi sottomarini da record e il polo innovativo del Sulcis, Hi-tech e innovazione. L’isola si conferma un importante esempio virtuoso in Italia e nel mondo per la tecnologia e le avanzate soluzioni tecniche e ingegneristiche utilizzate da Terna negli interventi di sviluppo e ammodernamento della rete elettrica. Grazie a una serie di impianti e strumentazioni d’avanguardia, in alcuni casi unici a livello internazionale, la Sardegna è quindi diventata un laboratorio delle high performance tecnologies per le ‘smart grid’, una rete intelligente capace di integrare e bilanciare in sicurezza la produzione crescente di energia da fonti rinnovabili.
Una superficie di oltre 250 mila metri quadrati ospita il polo multi tecnologico di Codrongianos (in provincia di Sassari), un impianto di rilevanza mondiale, il più grande della Sardegna. E’ qui che Terna ha realizzato lo Storage Lab per la sperimentazione dei sistemi di accumulo dell’energia, i compensatori sincroni per stabilizzare la rete elettrica e il terminale sardo del Sa.co.i., lo storico collegamento ad alta tensione in corrente continua (HVDC) su cui transita l’elettricità scambiata con la penisola italiana e con la Corsica.
Quella dell’accumulo di energia è una tecnologia in cui l’Italia è all’avanguardia nel mondo. In particolare, il progetto Storage Lab rappresenta il più grande sito multi tecnologico di batterie d’Europa, e il primo progetto di storage a supporto e protezione delle reti elettriche, che rende Codrongianos il polo elettrico con il maggior numero di tecnologie al mondo. Nella medesima area geografica sorge anche la stazione terminale del moderno elettrodotto in alta tensione in corrente continua, SA.PE.I. che collega direttamente la Sardegna con la penisola italiana grazie a un impianto sottomarino avanzatissimo.
I sistemi di accumulo di energia fondamentali per l’impiego delle rinnovabili.
Nel Sulcis è attivo un laboratorio a cielo aperto per testare le caratteristiche di funzionamento degli isolatori di corrente elettrica. Si chiama Lanpris ed è un campo prove sperimentale che Terna ha realizzato all’interno della stazione elettrica del Sulcis: è uno dei pochi impianti al mondo di questo genere per lo studio degli isolatori e servirà a individuare soluzioni tecnologiche innovative per migliorare la sicurezza sia degli elettrodotti che delle stazioni elettriche.
Terna da anni ha ritenuto necessaria la realizzazione di sistemi di accumulo a batterie, soprattutto al Sud e nelle isole maggiori, per stabilizzare ed equilibrare l’intermittenza tipica delle fonti rinnovabili, che in Sardegna coprono oltre il 40% del consumo energetico.
Le principali soluzioni tecnologiche di accumulo disponibili, richiedono un’adeguata sperimentazione prima di essere giudicate idonee. La sperimentazione dei sistemi di accumulo dello Storage Lab ha l’obiettivo di individuare il giusto mix di tecnologie in grado di ottimizzare il rapporto costi/benefici nonché le caratteristiche di ognuna delle tecnologie come ad esempio vita utile, tempi realizzativi, efficienza, prestazioni, oltre alle possibili soluzioni ‘smart grid’ associabili a ciascuna tecnologia.
Terna possiede il più grande know-how in materia di grid scale energy storage a livello mondiale con circa dodici tecnologie sperimentate, . A Codrongianos, ne stanno sperimentando sette, la società ha già completato l’installazione e la messa in esercizio dei primi 7,4 MW di sistemi di accumulo e altri 0,4 MW di capacità sono in costruzione, come previsto dalla società nel Piano di Difesa della rete elettrica.
Compensatori sincroni, più sicurezza e risparmi per il sistema elettrico.
La Sardegna ha anche il primato di ospitare i primi due compensatori sincroni di Terna specificamente studiati per una migliore gestione delle fonti rinnovabili. Il sito di Codrongianos è stato scelto per la sua posizione strategica rispetto all’obiettivo di regolazione e stabilizzazione della rete sarda che queste complesse apparecchiature sono chiamate a svolgere. Si tratta di macchine di grandi dimensioni, da 320 tonnellate ciascuna, prodotte da Ansaldo Energia collegate alla rete che consentono di migliorare la stabilità e la sicurezza della rete elettrica nella regione.
Come nel resto dell’Italia, anche in Sardegna lo sviluppo delle fonti rinnovabili – che per loro natura sono intermittenti, e quindi non programmabili, e creano sbalzi di tensione – sta interessando in modo sempre più significativo la rete elettrica locale: questo può comportare, soprattutto in reti poco interconnesse tra loro o poco estese (ed è il caso della Sardegna) difficoltà nella loro gestione e nella regolazione della tensione. I compensatori rappresentano così una valida soluzione per ovviare a queste problematiche garantendo maggiore capacità di regolazione e migliore flessibilità di esercizio, e quindi aumentare la funzionalità della rete, evitando sbalzi di tensione e assicurando minori perdite di energia e situazioni critiche.
Alcune considerazioni finali
La Sardegna svolge attualmente e continuerà a svolgere un ruolo importante nella rivoluzione energetica in atto. Concorrono naturalmente diversi fattori, la posizione geografica al centro del Mediterraneo, le condizioni climatiche con grande disponibilità di fonti energetiche rinnovabili (solare ed eolico in particolare). C’è una grande disponibilità di progetti e una mole notevole di finanziamenti disponibili per realizzarli. Alcuni fattori potenzialmente limitanti sono rappresentati da una insufficiente attenzione della classe politica regionale, sostanzialmente poco presente nel governare dei processi in atto. Anche l’attenzione dell’opinione pubblica è poco evidente e molto influenzata dalla diffusione di opinioni molto critiche soprattutto quando si parla di produzione di energia, opinioni che risentono evidentemente di lacune comunicative. Alcuni esempi sui quali approfondiremo l’analisi con successivi interventi.
Si contrappongono strumenti di intervento molto efficaci quali la costituzione delle Comunità Energetiche con i processi di produzione di energia elettrica da utilizzare e diffondere nei mercati. Pare un’ipotesi strategica poco razionale. L’autosufficienza energetica dei nostri comuni (con Comunità Energetica) non è in contrasto con il fatto che la Sardegna possa produrre e distribuire energia elettrica al di fuori del perimetro isolano diventando un hub internazionale. Altro discorso è quello che riguarda la doverosa vigilanza e il contrasto contro le speculazioni malavitose condotte da organizzazioni affaristiche senza scrupoli nell’ambito della valorizzazione delle risorse energetiche alternative.
Analogamente appare contraddittoria la giusta critica all’eccessiva diffusione delle pale eoliche nel territorio alla quale si accompagna il rifiuto aprioristico dell’installazione di impianti eolici nel mare, sostenendo il luogo comune che imbruttirebbero le spiagge. E’ notorio che normalmente tali impianti sono installati a una distanza dalle coste che va dai venti ai quaranta chilometri, una distanza tale da renderli invisibili dalla terraferma. Taccio volutamente su alcune interpretazioni fantapolitiche degli investimenti in atto in ambito energetico fatte proprie da pseudo inchieste televisive che leggono quanto accade in termini di ulteriore “colonizzazione” del territorio da parte di “poteri finanziari occulti” che sarebbero portatori di fantasiosi disegni politici segreti per rubarci il vento e il sole di Sardegna.
(Vanni Tola)
Oggi sabato 20 febbraio 2021
——————-Opinioni, Commenti e Riflessioni—————————————
M5S: espulsi (e non) per Grillo non contano niente
20 Febbraio 2021
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
Ventun deputati del M5S sono stati espulsi dal gruppo alla Camera ieri, quinndici senatori il giorno prima. Si tratta dei deputati e senatori che a Palazzo Madama e a Montecitorio hanno votato contro o non hanno votato fiducia al governo Draghi, eccetto quelli che risultavano in missione. Un tempo queste si chiamavano purghe e di […]
———————————Un commento——
Franco Meloni
20 Febbraio 2021 – 09:55 [segue]
Francesco Casula e Vanni Tola sulla scuola in Sardegna: intervengono con differenti approcci e focalizzazioni. La crisi della scuola (poco sarda) in Sardegna. Ita faghere? Scuola e trasporti, non soltanto un problema di infrastrutture
I record della scuola sarda: prima nella dispersione scolastica.
di Francesco Casula
Nel campo dell’istruzione la Sardegna continua a detenere record poco invidiabili: è ancora al primo posto – come del resto negli anni scorsi – in Italia per dispersione scolastica, seguita dalla Sicilia e dalla Campania. La percentuale nell’isola è del 18% e Nuoro tocca il record con il 42,7% dei “dispersi”.
Gli studenti sardi sono più tonti di quelli italiani? O poco inclini allo studio e all’impegno? E i docenti sono più scarsi o più severi? Io non credo. Come non penso che svolgano più un ruolo determinante o comunque esclusivi, la mancanza o l’insufficienza delle strutture scolastiche (laboratori, trasporti, mense ecc.), anche se certamente influenzano negativamente i risultati scolastici.
E allora?
E allora i motivi veri sono altri: attengono alle demotivazioni, al senso di lontananza e di estraneità di questa scuola. Che non risulta né interessante, né gratificante, né attraente. La scuola italiana in Sardegna infatti è rivolta a un alunno che non c’è: tutt’al più a uno studente metropolitano, nordista e maschio. Dunque non a un sardo. E tanto meno a una sarda.
E’ una scuola che con i contesti sociali, ambientali, culturali e linguistici degli studenti non ha niente a che fare. Nella scuola la Sardegna non c’è: è assente nei programmi, nelle discipline, nei libri di testo, nell’organizzazione.
Provate a chiedere a uno studente sardo che esca da un liceo artistico, cosa conosce di una civiltà e di un’architettura grandiosa come quella nuragica, sicuramente fra la più significative dell’intero Mediterraneo; provate a chiedere a uno studente del liceo classico cosa sa della parentela fra la lingua sarda e il latino; provate a chiedere a uno studente di un Istituto tecnico per ragionieri e persino a un laureato in Giurisprudenza cosa conosce di quel monumentale codice giuridico che è la Carta de Logu di Eleonora d’Arborea. Vi rendereste conto che la storia, la lingua e la civiltà complessiva dei Sardi dalla scuola ufficiale è stata non solo negata ma cancellata. Permane una scuola monoculturale e monolinguistica, negatrice delle specificità, tutta tesa allo sradicamento degli antichi codici culturali e basata sulla sovrapposizione al “periferico” di astratti paradigmi e categorie che le grandi civiltà avrebbero voluto irradiare verso le civiltà considerate inferiori. Questa scuola ha prodotto in Sardegna, soprattutto negli ultimi decenni, giovani che ormai appartengono a una sorta di area grigia, a una terra di nessuno. Apprendono l’italiano a scuola ma soprattutto grazie ai media: ma si tratta di una lingua stereotipata, gergale, banale, una lingua di plastica, inodore, insapore e incolore. Ma una scuola monoculturale e monolinguistica produce effetti ancor più gravi e devastanti a livello psicologico e culturale. Da decenni infatti la pedagogia moderna più attenta e avveduta ritiene che la lingua materna e i valori alti di cui si alimenta siano i succhi vitali, la linfa, che nutrono e fanno crescere i bambini senza correre il gravissimo pericolo di essere collocati fuori dal tempo e dallo spazio contestuale alla loro vita. Solo essa consente di saldare le valenze e i prodotti propri della sua cultura ai valori di altre culture. Negando la lingua materna, non assecondandola e coltivandola si esercita grave e ingiustificata violenza sui bambini, nuocendo al loro sviluppo e al loro equilibrio psichico. Li si strappa al nucleo familiare di origine e si trasforma in un campo di rovine, la loro prima conoscenza del mondo. I bambini infatti – ma il discorso vale anche per i giovani studenti delle medie e delle superiori – se soggetti in ambito scolastico a un processo di sradicamento dalla lingua materna e dalla cultura del proprio ambiente e territorio, diventano e risultano insicuri, impacciati, “poveri” sia culturalmente che linguisticamente.
Di qui la mortalità e la dispersione scolastica.
Ite faghere? Cambiare radicalmente la didattica, i curricula, la stessa mentalità di docenti e dirigenti scolastici.
Per quanto attiene alla lingua sarda occorrerà finalmente partire dal dato – appurato scientificamente da tutti gli studiosi – che la presenza della lingua materna e della cultura locale nel curriculum scolastico non si configurano come un fatto increscioso da correggere e controllare ma come elementi indispensabili di arricchimento, di addizione e non di sottrazione, che non “disturbano” anzi favoriscono apprendimento e le capacità comunicative degli studenti, perché agiscono positivamente nelle psicodinamiche dello sviluppo.
Per decenni l’impegno politico-sindacale, nel migliore dei casi, è stato finalizzato esclusivamente alla risoluzione dei problemi strutturali (aule, laboratori, palestre) o a quello dei trasporti. O a quello del personale e degli organici. Si è invece trascurato del tutto una questione cruciale: la catastrofica situazione della didattica. E dunque dei contenuti e dei metodi di una scuola che risulta semplice e piatta succursale e dependence della scuola italiana.
Negli indirizzi operativi per gli interventi a favore delle scuole pubbliche di ogni ordine e grado della Sardegna per contrastare la dispersione scolastica e innalzare la qualità dell’istruzione e le competenze degli studenti, la lingua sarda non viene neppure citata. Come se non esistesse alcun rapporto fra il fallimento scolastico, la scarsa preparazione e la questione del Sardo. Rapporto invece dimostrato inequivocabilmente da studiosi e pedagogisti come Maria Teresa Catte e la compianta Elisa Spanu Nivola. O come se la didattica fosse ininfluente per l’apprendimento e la formazione. Scrive a questo proposito il compianto Nicola Tanda, già professore emerito di Letteratura e Filologia sarda nell’Università di Sassari: “Nelle classifiche della scuola superiore il Friuli occupa la prima posizione e la Sardegna quasi l’ultima. Mi domando: c’è qualche connessione tra questi risultati e l’uso proficuo che essi fanno della specialità del loro Statuto?”.
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Scuola e trasporti, non è soltanto un problema di infrastrutture.
di Vanni Tola.
L’emergenza sanitaria di questo ultimo anno, l’esigenza di rincorrere ed arginare la pandemia per difendere la salute di tutti, ha limitato la nostra capacità di analizzare la realtà e di progettare un futuro migliore. Analizziamo la situazione scolastica in Sardegna. Il 24% dei giovani trai 18 e i 24 anni non ha un diploma. Il 28 % delle persone tra i 15 e i 29 anni non studia più, non lavora e non fa formazione professionale. Il 57,4 % dei residenti in Sardegna non va oltre la scuola dell’obbligo (50,1 la media nazionale). L’Unione Europea considera fisiologico il dato che un 10% della popolazione non abbia un diploma, questa percentuale, tra i residenti nel sud Sardegna raggiunge il 63,9%, il dato peggiore d’Italia. Nelle grandi città invece i valori relativi all’istruzione sono sostanzialmente più vicini alla media nazionale. Vogliamo cominciare a domandarci il perché? Vogliamo provare a individuare le cause e a pensare alle soluzioni del problema? Cominciamo dal problema del trasporto degli studenti verso gli istituti scolastici superiori. Non è soltanto un problema di scarsa disponibilità mezzi pubblici. Terminata la scuola media, la maggior parte dei giovani dei nostri paesi é “condannata” a vivere la poco invidiabile condizione del pendolarismo verso i centri più grandi, sedi degli istituti superiori. Significa, per un periodo di almeno cinque anni, doversi alzare molto presto, viaggiare su mezzi pubblici spesso indecenti e in condizioni non certo comode, frequentare le lezioni e tornare poi a casa quasi a metà pomeriggio con l’impegno, naturalmente, dei compiti e dello studio a casa. Pensate che per un giovane possa essere “attraente” questa offerta scolastica considerate anche le basse prospettive occupazionali che un diploma promette? Considerata la scarsa spendibilità nel mondo del lavoro di titoli di studio quasi mai direttamente collegati alle esigenze e alle richieste del mondo del lavoro? La tentazione alla rinuncia dello studio oltre la terza media é fortemente incentivata da questo stato di cose.
Proviamo invece a pensare al fatto che in tanti piccoli paesi, a causa dello spopolamento e di servizi sociali al limite della sopravvivenza, esistono centinaia di edifici di scuole della fascia dell’obbligo ormai abbandonate o sottoutilizzate che potrebbero ragionevolmente essere recuperate per realizzare sedi decentrate degli istituti superiori che attualmente esistono esclusivamente nelle grandi città. Ci vogliamo pensare seriamente alla possibilità di creare dei poli scolastici polivalenti nei paesi di medie dimensioni nei quali ospitare sezioni staccate dei diversi istituti cittadini? Non pensate che limitando il pendolarismo e garantendo migliori condizioni di vita per gli studenti oggi costretti al pendolarismo il loro interesse per lo studio potrebbe essere incrementato? Le potenzialità dei moderni mezzi di comunicazione e un intelligente insegnamento a distanza potrebbero aiutare in tal senso. Studi sociologici e demografici da tempo evidenziano e denunciano i limiti ormai noti dell’inurbamento quasi forzato verso le grandi città e le città costiere. Indagini e ricerche che suggeriscono scelte politiche orientate al decentramento dei servizi nei territori anche nella prospettiva di favorire la riantropizzazione di aree geografiche in via di spopolamento e la rinascita di paesi altrimenti destinati a scomparire dalle carte geografiche nel giro di pochi decenni. Un problema immenso, difficile, complesso ma non per questo irrealizzabile che richiederebbe lo sforzo congiunto di università e centri di ricerca, un ceto politico capace e ambizioso, una mobilitazione generale e una rivalutazione delle esperienze positive in atto in tal senso. Perché non pensarci? D’altronde sembra essere questa l’indicazione di massima dell’Unione Europea contenuta nei nuovi programma di spesa per lo sviluppo.
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