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Costituente Terra. Lo spettro della vittoria
una Terra
un popolo
una Costituzione
una scuola
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Costituente Terra Newsletter n. 76 del 27 aprile 2022.
Chiesadituttichiesadeipoveri.it Newsletter n. 260 del 27 aprile 2022.
LO SPETTRO DELLA VITTORIA
Cari Amici,
se non si riesce a porre fine a questa guerra nefasta che ha già distrutto l’anima del mondo prima ancora che le istituzioni che ne assicurano la vita, è perché non è stato esorcizzato lo spettro della vittoria. È un luogo comune, ma del tutto falso, che la vittoria sia la conclusione migliore di una guerra. Si tratta di un mito antico: la vittoria è il premio della guerra; la vittoria alata si libra sul trionfo del condottiero, schiaccia l’elmo del vinto; non è concepibile se non la vittoria come uscita dalla guerra, padre e principio di tutte le cose, come è stata teorizzata da sempre, almeno a partire dal detto di Eraclito.
Perfino Gesù, che amava i nemici, ammetteva che la guerra si fa per vincerla: “quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano gli manda dei messaggeri per chiedergli pace”.
Ma in realtà non è affatto vero che, una volta precipitati nella guerra, la cosa migliore è vincerla. Se oggi celebriamo la vittoria del 25 aprile, è perché avevamo perso la guerra, ed era stata una fortuna, con i Tedeschi in casa! Chi oggi rimpiange di non aver vinto quella guerra? Nemmeno i fascisti. Altri orrori si sarebbero aggiunti agli orrori. E non avremmo avuto la Costituzione, la libertà, l’industria, il denaro, tutte le cose di cui oggi ci gloriamo.
Eppure siamo sempre là. Il segretario di Stato americano Antony Blinken e il capo del Pentagono Lloyd Austin nella loro fuggevole visita a Kiev di qualche giorno fa hanno promesso all’Ucraina di Zelensky di farle vincere la guerra, che poi vuol dire che a vincerla saranno gli Stati Uniti. La stessa cosa aveva promesso qualche giorno prima il presidente Biden in un “tweet” (che sono le nuove dichiarazioni di guerra che una volta si consegnavano agli ambasciatori) enumerando le armi e i soldi che gli Stati Uniti avrebbero fornito all’Ucraina, mentre Lloyd Austin ha aggiunto che bisogna fiaccare la Russia in modo che non possa fare più nessuna guerra. Più vittoria di questa!
Naturalmente anche Putin vuole vincere, tanto più ora quando gli hanno detto in tutti i modi che in gioco c’è non solo la sua sopravvivenza ma quella stessa della Russia; però non sa come fare, perché certo non basta, come ha chiesto al ministro della Difesa Shoigu, non far volare nemmeno una mosca sull’acciaieria Azovstal (che non sembra la metafora di una vittoria).
E vincere vuole soprattutto Zelensky, ben contento che ora le armi, come ha detto, gli arrivino “in tempo reale”, cioè subito e quante ne vuole.
Ma l’Ucraina ha già pagato un alto prezzo al mito della vittoria, questo spettro che viene dal regno dei morti, dagli Stati Uniti attraversa l’Atlantico, da Ramstein si aggira per l’Europa e minaccia il mondo dal mucchio di cadaveri su cui sale in Ucraina. Già una rovina era stata per l’Ucraina aver insistito con puntiglio a volere la NATO, nonostante ci fossero ben più di ventimila russi a premere sulla frontiera del Paese (e chissà per quale inconfessato disegno incoraggiati da Biden ad entrarvi, come sostengono Caracciolo e “Limes”). Ma la catastrofe è venuta per l’Ucraina quando ha cominciato a credere che la guerra poteva vincerla davvero con tutti gli incoraggiamenti e l’altruismo sospetto dell’Occidente, con gli aiuti di ogni genere, politici, militari, economici, sacrali, con il suo straziato popolo narrato come esercito, sia pure con lo stereotipo delle donne che accudiscono e portano in salvo i bambini mentre gli uomini restano o sono mandati indietro a combattere, e oltre cinque milioni di profughi, e le città bombardate e distrutte, e la fama di invitti su tutti i teleschermi e in molti Parlamenti del mondo, compreso il nostro.
In realtà, a questo punto della storia, dopo tutti gli errori che da una parte e dall’altra sono stati fatti, la vittoria, di chiunque essa sia, è la peggiore sciagura che possa capitare. Come dice il papa: che vittoria c’è sulle macerie? E Noam Chomski, nell’intervista a Truthout che gli chiede se siamo all’inizio di una nuova era di continuo confronto tra la Russia e l’Occidente risponde che è difficile sapere dove cadranno le ceneri, “e questa potrebbe non essere una metafora”. Infatti, secondo Chomski, “che piaccia o no, le opzioni ora si riducono o a un brutto risultato che premia piuttosto che punire Putin per l’atto di aggressione, o alla forte possibilità di una guerra terminale”. E questa, secondo Chomski, sarebbe “una condanna a morte per la specie, senza vincitori: siamo a un punto di svolta nella storia dell’umanità. Non lo si può negare. Non lo si può ignorare”.
“Senza vincitori”: perché che cosa sarebbe una vittoria per gli Stati Uniti e la NATO e l’Europa, se davvero essa dovesse consistere nell’accendere la miccia della terza guerra mondiale, mettendo fuori gioco la Russia, provocando la Cina e prospettando all’umanità intera un mondo fatto del solo Occidente?
E che cosa sarebbe una vittoria per la Russia, che andasse al di là della rivendicazione iniziale di un’interdizione della minaccia proveniente dall’Ovest, se ciò volesse dire diventare l’anatema delle nazioni, essere votata alla negazione genocida del suo esserci stesso, che si tratti del rublo, del popolo o del Lago dei cigni?
E che cosa sarebbe una vittoria per l’Ucraina se anche recuperasse la Crimea, e il Donbass, quando pur sempre rimarrebbe lì, a fare da antemurale dell’Occidente contro la Russia che, Putin o non Putin, certamente non sparirebbe e sarebbe pur sempre una grande Potenza ansiosa di rivincita, mentre l’Ucraina sarebbe ancora lì, gloria sì del mondo libero, ma sua prima vittima sul monte Moria? E l’Oscar all’attore protagonista!
In questa situazione è del tutto irresponsabile fare il tifo per la vittoria dell’uno o dell’altro, comunque questa vittoria la si voglia chiamare, difesa della Patria o dominio del mondo; ed è un’insensata complicità voler essere nel campo dei vincitori. Vera sapienza è la ricerca di un’alternativa alla vittoria per mettere fine alla guerra. Tale alternativa sta nel dialogo, nel negoziato, nel riconoscere ciascuno le ragioni dell’altro, nello “scambiarsi con l’altro”, nel sapere che la sicurezza dell’altro è la sicurezza anche propria, perché la sicurezza non consiste in uno “status”, ma in un rapporto, o è di tutti o non è di nessuno, come già aveva realizzato la saggezza dell’ONU.
Tra le macerie di questa guerra c’è l’illusione, o la speranza, che si potesse costruire un nuovo ordine mondiale, fondato non sulla potenza ma sul diritto, non sulla ragion di Stato, ma sulle ragioni dei popoli, non sulle guerre vinte, ma sulla guerra ripudiata. In ogni caso si può sempre ricominciare di nuovo. Come ha scritto in una sua poesia il politico Pietro Ingrao, “leva in alto la sconfitta”. Il vero germe della vocazione spirituale dell’Occidente, sia nella versione greca che in quella cristiana come ci ha suggerito Simone Weil, non è la gloria dei vincitori, ma è il sentimento della miseria umana, che è una condizione della giustizia e dell’amore: in Grecia, sostiene la Weil, per il trauma non rimosso del crimine della distruzione di Troia (l’Iliade!), nella tradizione cristiana perché al patimento della miseria umana neppure uno spirito divino può sottrarsi se unito alla carne (i Vangeli!), ciò che vuol dire non soggiacere al dominio della forza, il rifiuto di tutti i rapporti di dominio. Come ha ricordato papa Francesco celebrando la “resistenza e resa” della Pasqua, “con Dio si può sempre tornare a vivere”.
Pubblichiamo nel sito, oltre all’intervista a Noam Chomski, un articolo di Aldo Tortorella su Enrico Berlinguer e le origini della guerra in Ucraina.
Con i più cordiali saluti
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Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella all’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa
Strasburgo, 27/04/2022 (II mandato)
Signor Presidente dell’Assemblea Parlamentare,
Signora Segretaria Generale del Consiglio d’Europa,
Signore e Signori parlamentari,
Ambasciatrici e Ambasciatori,
Signore e Signori,
sono lieto di potermi indirizzare a questa Assemblea che esprime nel modo più largo il sentimento dei popoli d’Europa.
È per me motivo di grande soddisfazione effettuare a Strasburgo – sede di molteplici istituzioni europee – il primo viaggio all’estero da quando il Parlamento italiano e i rappresentanti delle Regioni hanno voluto conferirmi nuovamente l’incarico di Presidente della Repubblica Italiana.
Rendo omaggio al Consiglio d’Europa, alle sue Istituzioni, a voi che siete espressione dei Parlamenti di 46 Paesi membri, in rappresentanza di 700 milioni di cittadine e cittadini europei.
Permettetemi un ringraziamento particolare al Presidente Tiny Kox per questa opportunità che mi offre e mi consente, per le sue parole così gentili; e grazie a tutti voi per l’accoglienza.
Porgo un saluto caloroso alla Segretaria Generale Marija Pejčinović Burić, la cui guida in questa Organizzazione considero preziosa, come ho avuto modo di dirle nel nostro incontro dello scorso novembre, al Palazzo del Quirinale, e di ribadirle nell’incontro che abbiamo avuto questa mattina.
Il Consiglio d’Europa ha sempre avuto la vocazione a essere la “casa comune europea” e ha saputo svilupparla nei decenni che hanno fatto seguito alla sua istituzione, come testimonia anche la sua attuale ampia rappresentatività.
Una casa che, se è stata specchio fedele delle divisioni e delle difficoltà manifestatesi fra le diverse comunità nazionali, ha saputo essere anche, e soprattutto, espressione del coraggio di unità dell’Europa, spesso prefigurando quanto si è potuto successivamente costruire, sotto altri profili e in altri ambiti, come la Unione Europea.
Tanti i traguardi di civiltà conseguiti dal Consiglio d’Europa. Sul terreno della abolizione della pena di morte, della lotta al razzismo, della libertà di espressione, della tutela della diversità culturale, della protezione dei diritti dei bambini, dello sviluppo di politiche per la gioventù.
Inoltre, parafrasando il mugnaio di Potsdam, nel nostro Continente si può dire: “c’è un giudice a Strasburgo”, con l’attività sviluppata dalla Cedu, frutto della Convenzione europea dei Diritti dell’uomo, sottoscritta a Roma.
Il Consiglio d’Europa ha saputo, cioè, consolidare le prerogative dei cittadini, aggiungendo alla tutela dei singoli ordinamenti statali quella derivante dalla applicazione della convenzione, in casi di violazione di diritti da parte degli Stati. Perché non c’è ragion di Stato che tenga nel caso di violazioni dei diritti della persona.
Più liberi, più sicuri, più coesi. E penso alla Carta Sociale Europea contro le disuguaglianze e le povertà, lanciata in Italia, a Torino, nel 1961.
Questi sono risultati impareggiabili della costruzione tenace di una casa comune quale il Consiglio d’Europa. Progresso per centinaia di milioni di cittadine e di cittadini europei, fieri di ritrovarsi sempre più in un unico demos.
Il Consiglio d’Europa è figlio di quella spinta al multilateralismo che caratterizzò gli anni successivi al Secondo conflitto mondiale, insieme al sistema delle Nazioni Unite. Una spinta basata su una considerazione elementare: la collaborazione riduce la contrapposizione, contrasta la conflittualità, aumentando le possibilità di composizione positiva delle vertenze.
Non fu facile imboccare la strada della riconciliazione. Così come non è stato facile giungere alla condivisione di una comune eredità; avere il coraggio di passare, nel rapporto tra gli Stati, dal diritto della forza alla forza del diritto.
Costruire una pace duratura è stato un processo lento e graduale che ha saputo evitare il rischio di una terza guerra mondiale, sfiorato con la guerra di Corea e il blocco di Berlino, e ha saputo passare, in quegli anni lontani, attraverso la regolazione della condizione dell’Austria sotto clausola di neutralità e il superamento della crisi di Cuba.
Quanto la guerra ha la pretesa di essere lampo – e non le riesce – tanto la pace è frutto del paziente e inarrestabile fluire dello spirito e della pratica di collaborazione tra i popoli, della capacità di passare dallo scontro e dalla corsa agli armamenti, al dialogo, al controllo e alla riduzione bilanciata delle armi di aggressione.
E’ una costruzione laboriosa, fatta di comportamenti e di scelte coerenti e continuative, non di un atto isolato. Il frutto di una ostinata fiducia verso l’umanità e di senso di responsabilità nei suoi confronti.
Come ci ricordava Robert Schuman “la pace non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano”.
Se perseguiamo obiettivi comuni, per “vincere” non è più necessario che qualcun altro debba perdere. Vinciamo tutti insieme.
L’esempio è stato contagioso, tanto da far diventare Strasburgo la meta obbligata di quanti raggiungevano libertà e indipendenza, per rafforzarle e consolidarle. E’ stato così in diversi casi; ma, naturalmente, per stare insieme occorre rispettare le regole che ci si è dati.
Si giustifica per questa ragione la parentesi della Grecia dopo il colpo di stato militare.
Decenni dopo, i popoli centro-europei, baltici e del Caucaso poterono scegliere, a loro volta, di aderire al Consiglio d’Europa e, con questa decisione, di schierarsi per la salvaguardia dei diritti umani, la vigenza dello Stato di diritto, lo sviluppo della democrazia.
Come ha sottolineato il Presidente della Repubblica Italiana, Sandro Pertini – intervenendo dinanzi a questa Assemblea esattamente 39 anni fa, il 27 aprile del 1983 – occorre talvolta saper esercitare il “coraggio della rinuncia”, quando la separazione di un Paese membro del Consiglio d’Europa appare necessaria per non tradire l’ispirazione che ha dato vita a questa istituzione.
L’obiettivo hitleriano che condusse alla Seconda guerra mondiale era quello di fare della Germania la potenza prevalente con un ruolo dominante su altri popoli e altri Paesi.
Fu un disegno che coinvolse regimi di numerose altre nazioni – il Regno d’Italia fra queste – e che fu battuto dalla coscienza civile internazionale.
Ma il registro della storia ci ricorda come stabilità e pace non siano garantite una volta per sempre: ce lo testimoniano drammatiche e tristi vicende nei Balcani, nel Caucaso, nel Mar Nero.
La pace non si impone automaticamente, da sola, ma è frutto della volontà degli uomini.
Viviamo oggi, nuovamente, l’incubo – inatteso perché imprevedibile – della guerra nel nostro Continente.
Si pratica e si vorrebbe imporre l’arretramento della storia all’epoca delle politiche di potenza, della sopraffazione degli uni sugli altri, della contrapposizione di un popolo – mascherato, talvolta, sotto l’espressione “interesse nazionale” – contro un altro.
Imperialismo e neo-colonialismo non hanno più diritto di esistere nel terzo millennio, quali che siano le sembianze dietro le quali si camuffano.
Non è più il tempo di una visione tardo-ottocentesca, e poi stalinista, che immagina una gerarchia tra le nazioni a vantaggio di quella militarmente più forte. Non è più il tempo di Paesi che pretendano di dominarne altri.
L’opzione è stata effettuata da tempo con il passaggio delle relazioni internazionali dalla estraneità agli aspetti giuridici alla civiltà del diritto.
Di fronte a un’Europa sconvolta dalla guerra nessun equivoco, nessuna incertezza è possibile.
La Federazione Russa, con l’atroce invasione dell’Ucraina, ha scelto di collocarsi fuori dalle regole a cui aveva liberamente aderito, contribuendo ad applicarle.
La deliberazione di questa Assemblea parlamentare – del Consiglio d’Europa – di prendere atto della rottura intervenuta è coerente con i valori alla base dello Statuto dell’organizzazione, che indica la strada di una unione più stretta delle aspirazioni comuni dei popoli europei.
La responsabilità della inevitabile sanzione adottata ricade interamente sul Governo della Federazione Russa. Desidero aggiungere: non sul popolo russo, la cui cultura fa parte del patrimonio europeo e che si cerca colpevolmente di tenere all’oscuro di quanto realmente avviene in Ucraina.
Non si può arretrare dalla trincea della difesa dei diritti umani e dei popoli.
Si tratta di principi che hanno saputo incarnarsi nella storia della seconda metà del ‘900 e, a maggior ragione, devono sapersi consolidare oggi.
La ferma e attiva solidarietà nei confronti del popolo ucraino e l’appello al Governo della Federazione Russa perché sappia fermarsi, ritirare le proprie truppe, contribuire alla ricostruzione di una terra che ha devastato, è conseguenza di queste semplici considerazioni.
Alla comunità internazionale tocca un compito: ottenere il cessate il fuoco e ripartire con la costruzione di un quadro internazionale rispettoso e condiviso che conduca alla pace.
Un grande intellettuale, Paul Valery – passato attraverso le due guerre mondiali – richiamava i concittadini europei a prendere coscienza di vivere in un mondo “finito”. “Non c’è più terra libera” – scriveva – nessun lembo del globo è più da scoprire.
Se nessuno è più estraneo a nessuno, si interrogava il Presidente Pertini, non è giunto il tempo che gli uomini apprendano a essere in pace con se stessi?
Potremmo oggi aggiungere: in un mondo sempre più interconnesso, nel quale sono sostanzialmente venute meno le distanze, in cui ciascuna persona può comunicare, e sovente comunica, in tempo reale, con interlocutori in ogni parte del mondo, non c’è posto, è anacronistico parlare di sfere di influenza territoriali.
Il contesto internazionale presenta contraddizioni, a partire dalla stessa Federazione Russa, responsabile della violazione di tutte le principali carte definite nell’ambito degli organismi multilaterali, e che si trova paradossalmente a invocare l’intervento dell’Organizzazione Mondiale del Commercio contro le sanzioni imposte dalla comunità internazionale.
Mentre il conflitto ha ulteriormente indebolito il sistema internazionale di regole condivise – e il mondo, come conseguenza, è divenuto assai più insicuro – la via di uscita appare, senza tema di smentita, soltanto quella della cooperazione e del ricorso alle istituzioni multilaterali.
Sembrano giungere a questa conclusione anche quei Paesi che, pur avendo rifiutato sin qui di riconoscere la giurisdizione della Corte Penale Internazionale, ne invocano, invece, oggi, l’intervento, affinché vengano istruiti processi a carico dei responsabili di crimini, innegabili e orribili, contro l’umanità, quali quelli di cui si è resa colpevole la Federazione Russa in Ucraina, riconoscendo in tal modo il ruolo necessario di quella Corte.
Se la voce delle Nazioni Unite è apparsa chiara nella denuncia e nella condanna ma, purtroppo, inefficace sul terreno, questo significa che la loro azione va rafforzata, non indebolita.
Significa che iniziative, come quella promossa dal Liechtenstein e da altri 15 Paesi, per evitare la paralisi del Consiglio di Sicurezza dell’Onu vanno prese in seria considerazione.
La guerra è un mostro vorace, mai sazio. La tentazione di moltiplicare i conflitti è sullo sfondo dell’avventura bellicista intrapresa da Mosca.
La devastazione apportata alle regole della comunità internazionale potrebbe propagare i suoi effetti se non si riuscisse a fermare subito questa deriva. Dobbiamo saper scongiurare il pericolo dell’accrescersi di avventure belliche di cui, l’esperienza insegna, sarebbe poi difficile contenere i confini.
Dobbiamo saper opporre a tutto questo la decisa volontà della pace.
Diversamente ne saremo travolti.
Per un attimo, esercitiamoci – prendendole a prestito dal linguaggio della cosiddetta “guerra fredda” – a compitare insieme parole che credevamo cadute ormai in disuso, per vedere se possono aiutarci a riprendere un cammino, per faticoso che sia.
Distensione: per interrompere le ostilità.
Ripudio della guerra: per tornare allo statu quo ante.
Coesistenza pacifica, tra i popoli e tra gli Stati.
Democrazia – come ci insegna il prezioso lavoro della Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa – come condizione per il rispetto della dignità di ciascuno.
Infine, Helsinki e non Jalta: dialogo, non prove di forza tra grandi potenze che devono comprendere di essere sempre meno tali.
Prospettare una sede internazionale che rinnovi radici alla pace, che restituisca dignità a un quadro di sicurezza e di cooperazione, sull’esempio di quella Conferenza di Helsinki che portò, nel 1975, a un Atto finale foriero di sviluppi positivi. E di cui fu figlia la Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa.
Si tratta di affermare con forza il rifiuto di una politica basata su sfere di influenza, su diritti affievoliti per alcuni popoli e Paesi e, invece, proclamare, nello spirito di Helsinki, la parità di diritti, la uguaglianza per i popoli e per le persone.
Secondo una nuova architettura delle relazioni internazionali, in Europa e nel mondo, condivisa, coinvolgente, senza posizioni pregiudizialmente privilegiate.
La sicurezza, la pace – è la grande lezione emersa dal secondo dopoguerra – non può essere affidata a rapporti bilaterali – Mosca versus Kiiv -. Tanto più se questo avviene tra diseguali, tra Stati grandi e Stati più piccoli.
Garantire la sicurezza e la pace è responsabilità dell’intera comunità internazionale. Questa, tutta intera, può e deve essere la garante di una nuova pace.
Avviandomi alla conclusione, vorrei sottolineare come la possibilità di rivolgermi a voi di persona – potendo così dare manifestazione del bisogno basilare di comunicazione diretta – è sicuramente un vantaggio.
Abbiamo vissuto una lunga fase di difficoltà a causa della pandemia, con momenti drammatici. Il virus non è ancora debellato, ma abbiamo imparato a combatterlo, ad attenuarne gli effetti.
Desidero, in questa sede, rendere omaggio a tutti coloro che, a costo di rischi personali, talvolta con il sacrificio della vita, hanno contribuito a conseguire i risultati di cui oggi possiamo giovarci.
Penso in primo luogo al personale medico e sanitario, cui va tutta la nostra riconoscenza, ai ricercatori e agli scienziati, ma anche ai molti operatori, volontari, professionisti che a vario titolo ci hanno aiutato a superare questa prova.
Una volta di più abbiamo avuto conferma di quanto valga la cooperazione internazionale. La comunità scientifica internazionale ha operato al di sopra dei confini, scambiando dati, conoscenze risultati di esperienze, avanzamenti di ricerca.
Non poteva esservi richiamo più convincente; e si sperava che questo esempio di collaborazione contro un nemico comune dell’umanità fosse recepito dai governi degli Stati, sospingendo verso la ricerca del dialogo, della condivisione, della cooperazione.
Tutto questo non fa dimenticare che, se oggi possiamo sperare che il peggio sia ormai alle nostre spalle, è grazie al civismo dei nostri concittadini, al senso di responsabilità che hanno manifestato, alla loro collaborazione nelle misure per attenuare la diffusione del virus e nel garantire il successo delle campagne vaccinali. Senza il loro contributo non sarebbe stato possibile sconfiggere, oltre al Covid-19, il virus pernicioso della disinformazione e della sfiducia nella scienza.
Le nostre istituzioni hanno dimostrato capacità di saper reagire rapidamente, le nostre società hanno evidenziato una resilienza rassicurante.
Vorrei manifestare apprezzamento per il contributo, fornito dal Consiglio d’Europa agli Stati membri, affinché la risposta alla pandemia si svolgesse entro ambiti rispettosi dei diritti e delle libertà fondamentali; ponendo sempre al centro la persona umana e la sua insopprimibile dignità.
È un aspetto da non dare mai per scontato, un successo europeo del quale possiamo andare giustamente fieri.
Signore e Signori,
la Repubblica Italiana ha convintamente contribuito alla nascita di questa Organizzazione, alla sua crescita e alla sua piena affermazione, quale punto di riferimento imprescindibile nel sistema multilaterale in difesa dei valori di libertà e di affermazione dei principi dello Stato di diritto.
E’ una funzione che continua a manifestarsi preziosa, alla quale tutti gli organi del Consiglio d’Europa, e gli Stati membri, sono chiamati a concorrere.
E’ quanto abbiamo puntato a ribadire responsabilmente in occasione di questa ottava presidenza italiana del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa.
La generazione dei fondatori ha saputo edificare, su cumuli di macerie materiali, morali e giuridiche, questa comunità multilaterale, guardando al futuro. Confidiamo di avere custodito fedelmente questo patrimonio; di averlo difeso come un bene prezioso.
Ma se il compito non è esaurito, tocca proprio a noi corrispondere alle sfide di oggi, sviluppandone e attuandone i principi.
Auguri di buon lavoro – quindi – a tutti noi e grazie dell’attenzione.
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Festa dell’Europa 2021
di Franco Meloni
“Ce lo chiede l’Europa”: è la frase che da alcuni anni a questa parte ci sentiamo dire per giustificare scelte politiche impopolari, quelle che si basavano sull’austerità. A pagarne le spese erano (e ancora sono) appunto i ceti popolari di tutti i paesi europei. Basta pensare alle sofferenze inflitte al popolo della Grecia. Così scelte all’insegna dell’efficientismo, come il “pareggio di bilancio”, in Italia introdotto con una riforma costituzionale, sono stati strumenti di aumento delle disuguaglianze sociali. Nel mentre nessun passo avanti sulla tutela dei diritti (anzi tolleranza dei sovranismi antidemocratici dei paesi dell’est europeo) e su una saggia politica di gestione dei flussi migratori. Sono solo alcuni esempi. Il discorso sarebbe lungo, ma è bene che si sviluppi in mille analisi, proposte e altri contributi di pensiero che molti meglio di noi sono capaci a fare e che volentieri per quanto possiamo ospitiamo anche nelle nostre pagine. Qui vogliamo rammentare che l’Europa per le generazioni post conflitto bellico ha rappresentato i valori virtuosi imprescindibili della democrazia e del vivere civile, in irriducibile contrapposizione con le impostazioni e la pratica del nazismo e del fascismo (mali assoluti), e di tutti i regimi totalitari. Per noi l’Europa era e continua ad essere, nonostante tutto (purtroppo siamo meno numerosi rispetto ai tempi dell’esordio e oltre, segnati dalle “visioni” dei grandi fondatori) un riferimento fondamentale, una meta da raggiungere. Purtroppo questa meta nel tempo anzichè avvicinarsi nel perseguimento dell’integrazione (Stati Uniti d’Europa) e dell’espansione dei diritti e per la Pace (nella logica della Costituente della Terra), si è allontanata pericolosamente. C’è voluta la terribile pandemia per un inversione di rotta, a cui diamo credito e su cui vogliamo investire. Semplificando: così come l’agenda di Draghi, anche quella di Ursula Von der Leyen, costituisce in un tutt’uno, per noi, “la nostra agenda”, ovviamente sapendo che Draghi-VdL sono espressioni di interessi prevalenti della borghesia, e che una inedita “lotta di classe” deve cercare di volgere il più possibile a favore degli interessi popolari. Mutatis mutandis, questo è ancora il modello da perseguire, che storicamente ci ha fatto crescere tutti. Il recupero del motto di don Lorenzo Milani, I care, fatto dalla presidente Ursula VdL è sicuramente un significativo faro, che illumina la nostra strada di europeisti convinti. Con questi intendimenti festeggiamo oggi l’Europa!
—-—Alle associazioni: fate come La Casa del quartiere Is Mirrionis e la CSS—————————-
Per l’Europa che vogliamo. Iniziative encomiabili
La “Casa del quartiere Is Mirrionis” di Cagliari, sulla base dello statuto costitutivo che ne fissa la missione di intervento nel sociale a favore dei cittadini e per la promozione della più ampia partecipazione popolare alla gestione della cosa pubblica, nel riaffermare lo spirito europeista che unitamente all’orgogliosa appartenenza sarda, la permea,
ADERISCE
alla Festa dell’Europa, istituita dall’Unione Europea, che si celebra il 9 maggio di ogni anno.
SI IMPEGNA
per il successo della Conferenza sul futuro dell’Europa, che prende avvio proprio da domenica 9 maggio 2021, favorendo la partecipazione della cittadinanza del quartiere, della città e dell’intera Sardegna, in tutte le forme e combinazioni (in proprio e in collaborazione con terzi) che verranno stabilite dagli organi di gestione dell’associazione, anche promuovendo la presenza e le iniziative degli associati singoli o organizzati nelle entità aderenti alla Casa sull’apposita piattaforma online dedicata
Il Presidente Terenzio Calledda
Ecco il link
https://futureu.europa.eu/?locale=it
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La CONFEDERAZIONE SINDACALE SARDA – CSS partecipa alla Festa dell’EUROPA di Domenica 9 maggio 2021, ricordando che i sardi vogliono una EUROPA DEI POPOLI, come l’avevano sognata i grandi sardisti Camillo Bellieni ed Antonio Simon Mossa, nella
quale la Sardegna viene riconosciuta ed opera come popolo e nazione.
La CSS è membro fondatore della Piattaforma dei Sindacati delle Nazioni senza Stato. In questo organismo internazionale sono rappresentati le delegazioni della Sardegna, della Valle d’Aosta, dei Paesi Baschi, della Galizia, della Catalogna, della Bretagna, della Corsica, della Martinica, del Guadalupe e Nuova Caledonia.
“Serbit e boleus un’Europa de is Pópulus in paxi,
de s’agiudu torrau, de sa solidariedadi umana,
no cussa de is leonis a iscórriu e gherra”.
“Serve e vogliamo un’Europa di Popoli in pace, dell’aiuto condiviso e della solidarietà umana,
Non quella dei leoni in lotta ed in guerra“-
IL SEGRETARIO NAZIONALE DELLA CSS Dr. Giacomo Meloni
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Giuliano Pisapia, “Cambiamo l’Europa dal basso” (Corriere della sera).
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«I care» faro per tutti (una scelta da onorare)
di Francesco Gesualdi
in “Avvenire” del 7 maggio 2021
Parto da una doverosa precisazione: don Lorenzo Milani, priore di Barbiana, il motto ‘I care’ (m’importa, ho a cuore) non lo aveva scritto su un muro, ma sulla porta che separava la scuola dalla sua camera. Un particolare non secondario perché essendo il punto di ingresso nell’unico spazio in cui a sera si ritirava in privato, voleva annunciare lo spirito che aleggiava in quello spazio e quindi nella sua persona. Uno spirito di assunzione di responsabilità verso le creature che la vita gli aveva messo davanti tale da fargli dimenticare totalmente se stesso. E uno spirito di coerenza verso la verità tale da fargli accettare le conseguenze che la difesa della verità spesso comporta. Don Lorenzo non lo ricordava per narcisismo, ma come invito a noi allievi a fare altrettanto, ricordandoci che se la società è ingiusta, violenta, predatrice, la responsabilità non è solo del ‘potere’ che impartisce ordini sbagliati e scrive leggi ingiuste, ma anche di tutti coloro che quegli ordini e quelle leggi eseguono. Ha fatto bene Ursula von der Leyen a ricordare il motto ‘I care’ proprio oggi che dall’altra parte dell’Atlantico, Joe Biden ha annunciato di voler appoggiare la richiesta avanzata da Sudafrica e India di sospendere le regole internazionali a difesa dei brevetti sui vaccini e ogni altro farmaco utile a sconfiggere la pandemia. Ha fatto bene perché ciò che in Europa ci è meno noto è che la decisione di Biden non giunge come un fulmine a ciel sereno, ma come conseguenza di una forte pressione popolare organizzata negli Stati Uniti da parte delle organizzazioni umanitarie che hanno fatto arrivare a Biden milioni di messaggi a favore della sospensione. Per questo la sua decisione è la vittoria di milioni di persone che in cuor loro hanno detto ‘I care’ e hanno preso l’iniziativa di agire per manifestare il proprio pensiero e insistere finché il Presidente di tanti di loro, l’uomo più potente del mondo, ha deciso di stare dalla parte delle persone piuttosto che delle multinazionali farmaceutiche. Un’iniziativa ancor più lodevole perché non attuata a favore di se stessi, ma di persone lontane, africani, asiatici, latino americani, che rischiano di non poter essere vaccinati a causa dei costi imposti dai brevetti. Ma il vero spirito dell’I Care è proprio questo: si agisce non perché se ne trae un vantaggio, ma perché non si tollera la sofferenza, l’ingiustizia, l’umiliazione, il sopruso, il latrocinio, a chiunque sia inflitto.
Ursula VdL, allora, deve ricordarsi che avendo preso l’impegno solenne, per giunta a Firenze, di volere assumere lo spirito di ‘I Care’ a livello personale e della politica dell’Unione Europea, si è assunta una grande responsabilità. La responsabilità di agire di conseguenza, applicando il suo e nostro ‘I Care’ prima di tutto verso i migranti. Verso tutte quelle donne, quegli uomini, quei bambini che dopo essere fuggiti da zone di guerra si trovano respinti, addirittura aggrediti dai cani alla frontiera est della Ue. Verso tutti coloro che cercando di fuggire dai lager libici si mettono in mare per raggiungere la sponda Sud della Ue, ma in caso di avaria vengono lasciati annegare o sono ripescati dalla cosiddetta Guardia costiera libica che li riporta nei lager dai quali hanno cercato di fuggire. Verso tutti i cittadini meno protetti della Ue che in tempo di austerità sono stati privati di un lavoro, di cure mediche, di scuola, sacrificati di nuovo sull’altare del debito.
Un tema, quello del debito pubblico, tutt’altro che superato, perché ora che la Ue ha deciso di indebitarsi per sostenere la transizione ecologica e la ripresa sociale, sarebbe beffardo se domani, dovesse ripristinare l’austerità per ripagare il debito fatto oggi in nome del suo ‘I Care’. Finché siamo in tempo sarebbe meglio proporre di rivedere i Trattati, in particolare quelli che regolano le funzioni e i meccanismi di funzionamento della Banca centrale europea affinché la moneta, al pari dei vaccini, sia gestita come un bene comune al servizio della piena occupazione, della promozione dei servizi pubblici e della tutela della natura.
Grazie dunque alla signora Ursula VdL, per averci ricordato il valore di ‘I Care’, ma per favore l’Europa un faro per i tanti cittadini che la guardano affinché di quello spirito sia dato l’esempio migliore.
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Domenica 9 maggio Festa dell’Europa.
PNRR. Le buone intenzioni dell’inferno di Draghi
di Mario Draghi, presidente del Consiglio dei Ministri.
La crisi in Italia e il problema giovani-lavoro
La crisi si è abbattuta su un paese già fragile dal punto di vista economico, sociale ed ambientale. Tra il 1999 e il 2019, il pil in Italia è cresciuto in totale del 7,9 per cento. Nello stesso periodo in Germania, Francia e Spagna, l’aumento è stato rispettivamente del 30,2, del 32,4 e 43,6 per cento. Tra il 2005 e il 2019, il numero di persone sotto la soglia di povertà è salita dal 3,3 per cento al 7,7 per cento della popolazione – prima di aumentare ulteriormente nel 2020 fino al 9,4 per cento. A essere particolarmente colpiti sono stati donne e giovani: l’Italia è il paese dell’Ue con il più alto tasso di giovani tra i 15 e i 29 anni non impegnati nello studio, nel lavoro o nella formazione (Neet), e il tasso di partecipazione delle donne al lavoro è solo il 53,1 per cento, molto al di sotto del 67,4 per cento della media europea. Questi problemi sono ancora più accentuati nel Mezzogiorno, dove il processo di convergenza con le aree più ricche del paese è ormai fermo.
Cambiamenti climatici ed erosione del territorio
L’Italia è particolarmente vulnerabile ai cambiamenti climatici e, in particolare, all’incremento delle ondate di calore e delle siccità. Le zone costiere, i delta e le pianure alluvionali risentono degli effetti legati all’incremento del livello del mare e delle precipitazioni intense. Secondo le stime dell’Istituto superiore per la Protezione e la Ricerca ambientale (Ispra), nel 2017 il 12,6 per cento della popolazione viveva in aree classificate ad elevata pericolosità di frana o soggette ad alluvioni, con un complessivo peggioramento rispetto al 2015. Dopo una forte discesa tra il 2008 e il 2014, le emissioni pro capite di gas clima-alteranti in Italia, espresse in tonnellate equivalenti, sono rimaste sostanzialmente inalterate nel 2019.
Germania e Francia corrono di più
Dietro l’incapacità dell’economia italiana di tenere il passo con gli altri paesi avanzati europei e di correggere i suoi squilibri sociali ed ambientali, c’è l’andamento della produttività, molto più lento in Italia che nel resto d’Europa. Negli ultimi vent’anni, dal 1999 al 2019, il pil per ora lavorata in Italia è cresciuto del 4,2 per cento, mentre in Francia e Germania è aumentato rispettivamente del 21,2 e del 21,3 per cento. La produttività totale dei fattori, un indicatore che misura il grado di efficienza complessivo di un’economia, è diminuita del 5,8 per cento tra il 2001 e il 2019, a fronte di un generale aumento a livello europeo.
P.a. e digitalizzazione, un problema da affrontare
Tra le cause del deludente andamento della produttività c’è l’incapacità di cogliere le molte opportunità legate alla rivoluzione digitale. Questo ritardo è dovuto sia alla mancanza di infrastrutture adeguate, sia alla struttura del tessuto produttivo italiano, caratterizzato da una prevalenza di piccole e medie imprese, che sono state spesso lente nel muoversi verso produzioni di più alto valore aggiunto. La scarsa familiarità con le nuove tecnologie digitali caratterizza d’altronde anche il settore pubblico. Prima dello scoppio della pandemia, il 98,8 per cento dei dipendenti dell’amministrazione pubblica in Italia non aveva mai utilizzato il lavoro agile. Anche durante la pandemia, a fronte di un potenziale di tale modalità di lavoro nei servizi pubblici pari a circa il 36 per cento, l’utilizzo effettivo è stato del 33 per cento, con livelli più bassi, di circa 10 punti percentuali, nel Mezzogiorno.
Il ritardo degli investimenti
Questi ritardi sono in parte legati al calo degli investimenti pubblici e privati, che ha rallentato i necessari processi di modernizzazione della pubblica amministrazione, delle infrastrutture e delle filiere produttive. Nel ventennio 1999-2019 gli investimenti totali in Italia sono cresciuti del 66 per cento a fronte del 118 per cento nella zona euro. In particolare, mentre la quota di investimenti privati è aumentata, quella degli investimenti pubblici è diminuita, passando dal 14,5 per cento degli investimenti totali nel 1999 al 12,7 per cento fino al 2019.
Le riforme fanno crescere il Pil
Le riforme strutturali sono essenziali per migliorare la qualità della spesa da parte delle amministrazioni pubbliche e incoraggiare i capitali privati verso investimenti e innovazione. Secondo un recente studio della Banca d’Italia, le riforme introdotte nell’ultimo decennio in materia di giustizia civile, liberalizzazione dei servizi e incentivi all’innovazione hanno contribuito ad accrescere il pil nel 2019 di una percentuale tra il 3 per cento e il 6 per cento, con ulteriori effetti previsti nel decennio successivo. E’ un impatto significativo, che può essere ulteriormente rafforzato con una nuova agenda di semplificazioni.
Un nuovo miracolo italiano
Questi problemi rischiano di condannare l’Italia a un futuro di bassa crescita da cui sarà sempre più difficile uscire. La storia economica recente dimostra, tuttavia, che l’Italia non è necessariamente destinata al declino. Nel secondo Dopoguerra, durante il miracolo economico, il nostro paese ha registrato tassi di crescita del pil e della produttività tra i più alti d’Europa. Tra il 1950 e il 1973, il pil per abitante è cresciuto in media del 5,3 per cento l’anno, la produzione industriale dell’8,2 per cento e la produttività del lavoro del 6,2 per cento. In poco meno di un quarto di secolo l’Italia ha portato avanti uno straordinario processo di convergenza verso i paesi più avanzati e il reddito medio degli italiani è passato dal 38 al 64 per cento di quello degli Stati Uniti e dal 50 all’88 per cento di quello del Regno Unito.
Tassi di crescita così eccezionali sono legati ad aspetti peculiari di quel periodo, in primo luogo la ricostruzione postbellica e l’industrializzazione di un paese ancora in larga parte agricolo, ma mostrano anche il ruolo trasformativo che investimenti, innovazione e apertura internazionale possono avere sull’economia di un paese.
Ngeu è un’opportunità imperdibile
Il Programma Next Generation Eu
L’Unione europea ha risposto alla crisi pandemica con il Next Generation Eu (Ngeu). E’un programma di portata e ambizione inedite, che prevede investimenti e riforme per accelerare la transizione ecologica e digitale; migliorare la formazione delle lavoratrici e dei lavoratori; e conseguire una maggiore equità di genere, territoriale e generazionale. Per l’Italia il Ngeu rappresenta un’opportunità imperdibile di sviluppo, investimenti e riforme. L’Italia deve modernizzare la sua pubblica amministrazione, rafforzare il suo sistema produttivo e intensificare gli sforzi nel contrasto alla povertà, all’esclusione sociale e alle disuguaglianze. Il Ngeu può essere l’occasione per riprendere un percorso di crescita economica sostenibile e duraturo rimuovendo gli ostacoli che hanno bloccato la crescita italiana negli ultimi decenni.
L’Italia è la prima beneficiaria, in valore assoluto, dei due principali strumenti del Ngeu, il Dispositivo per la Ripresa e Resilienza (Rrf) e il Pacchetto di Assistenza alla Ripresa per la Coesione e i Territori di Europa (React-Eu). Il solo Rrf garantisce risorse per 191,5 miliardi di euro, da impiegare nel periodo 2021-2026, delle quali 68,9 miliardi sono sovvenzioni a fondo perduto. L’Italia intende inoltre utilizzare appieno la propria capacità di finanziamento tramite i prestiti della Rrf, che per il nostro paese è stimata in 122,6 miliardi.
Sei missioni da compiere
Il dispositivo Rrf richiede agli stati membri di presentare un pacchetto di investimenti e riforme – il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr). Questo piano, che si articola in 6 Missioni e 16 Componenti, beneficia della stretta interlocuzione avvenuta in questi mesi con il Parlamento e con la Commissione europea, sulla base del Regolamento Rrf. Le sei Missioni del Piano sono: digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura; rivoluzione verde e transizione ecologica; infrastrutture per una mobilità sostenibile; istruzione e ricerca; inclusione e coesione; salute. Il Piano è in piena coerenza con i sei pilastri del Ngeu e soddisfa i parametri fissati dai regolamenti europei, con una quota di progetti ‘verdi’ pari al 38 per cento del totale e di progetti digitali del 25 per cento.
Al Mezzogiorno quasi metà degli investimenti
Il 40 per cento circa delle risorse del Piano sono destinate al Mezzogiorno, a testimonianza dell’attenzione al tema del riequilibrio territoriale. Il Piano è fortemente orientato all’inclusione di genere e al sostegno all’istruzione, alla formazione e all’occupazione dei giovani e contribuisce a ciascuno dei sette progetti di punta (European flagships) della Strategia annuale sulla crescita sostenibile dell’Ue. Gli impatti ambientali indiretti sono stati valutati e la loro entità minimizzata in linea col principio del “non arrecare danni significativi” all’ambiente (“do no significant harm” – Dnsh) che ispira il Ngeu.
Le quattro riforme epocali sul tavolo
Il Piano comprende un ambizioso progetto di riforme. Il governo intende attuare quattro importanti riforme di contesto – Pubblica amministrazione, giustizia, semplificazione della legislazione e promozione della concorrenza. Inoltre, sono previste iniziative di modernizzazione del mercato del lavoro e di rafforzamento della concorrenza nel mercato dei prodotti e dei servizi. E’ prevista infine una riforma fiscale, che affronti anche il tema delle imposte e dei sussidi ambientali.
Pubblica amministrazione
La riforma della Pubblica amministrazione migliora la capacità amministrativa sia a livello centrale che locale; rafforza i processi di selezione, formazione e promozione dei dipendenti pubblici; e incentiva la semplificazione e la digitalizzazione delle procedure amministrative. Si basa su una forte espansione dei servizi digitali, negli ambiti dell’identità, dell’autenticazione, della sanità e della giustizia. L’obiettivo è una marcata sburocratizzazione per ridurre i costi e i tempi che attualmente gravano su imprese e cittadini.
Riforma della Giustizia
La riforma della giustizia ha l’obiettivo di affrontare i nodi strutturali del processo civile e penale e rivedere l’organizzazione degli uffici giudiziari. Nel campo della giustizia civile si semplifica il rito processuale, in primo grado e in appello, e si implementa definitivamente il processo telematico. Il Piano predispone inoltre interventi volti a riformare i meccanismi di riscossione e a ridurre il contenzioso tributario e i tempi della sua definizione. In materia penale, il governo intende riformare la fase delle indagini e dell’udienza preliminare; ampliare il ricorso a riti alternativi; rendere più selettivo l’esercizio dell’azione penale e l’accesso al dibattimento; definire termini di durata dei processi.
Semplificazione e sburocratizzazione
La riforma finalizzata alla razionalizzazione e semplificazione della legislazione abroga o modifica leggi e regolamenti che ostacolano eccessivamente la vita quotidiana dei cittadini, le imprese e la Pubblica amministrazione. La riforma interviene sulle leggi in materia di pubbliche amministrazioni e di contratti pubblici, sulle norme che sono di ostacolo alla concorrenza, sulle regole che hanno facilitato frodi o episodi corruttivi. E’ potenziato il Dipartimento affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio e presso la Presidenza viene costituito un apposito Ufficio per la razionalizzazione e semplificazione delle leggi e dei regolamenti, per permettere una continuità di proposte e di interventi nel processo di semplificazione normativa.
Tutela della concorrenza
Un fattore essenziale per la crescita economica e l’equità è la promozione e la tutela della concorrenza. La concorrenza non risponde solo alla logica del mercato, ma può anche contribuire ad una maggiore giustizia sociale. La Commissione europea e l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, nella loro indipendenza istituzionale, svolgono un ruolo efficace nell’accertare e nel sanzionare cartelli tra imprese, abusi di posizione dominante e fusioni o acquisizioni di controllo che ostacolano sensibilmente il gioco competitivo. Il governo s’impegna a presentare in Parlamento il disegno di legge annuale per il mercato e la concorrenza, o comunque a approvare norme che possano agevolare l’attività d’impresa in settori strategici, come le reti digitali, l’energia e i porti. Alcune di queste norme sono già individuate nel Piano, ad esempio il completamento degli obblighi di gara per i regimi concessori oppure la semplificazione delle autorizzazioni per la realizzazione degli impianti di gestione dei rifiuti. Il governo si impegna inoltre a mitigare gli effetti negativi prodotti da queste misure e a rafforzare i meccanismi di regolamentazione.
Al Ministero dell’Economia il controllo dei fondi
Quanto più si incoraggia la concorrenza, tanto più occorre rafforzare la protezione sociale. Il governo ha predisposto uno schema di governance del Piano che prevede una struttura di coordinamento centrale presso il ministero dell’Economia. Questa struttura supervisiona l’attuazione del piano ed è responsabile dell’invio delle richieste di pagamento alla Commissione europea, invio che è subordinato al raggiungimento degli obiettivi previsti. Accanto a questa struttura di coordinamento, agiscono una struttura di valutazione e una struttura di controllo. Le amministrazioni sono invece responsabili dei singoli investimenti e delle singole riforme e inviano i loro rendiconti alla struttura di coordinamento centrale.
Le task force regionali del governo
Il governo costituirà anche delle task force locali che possano aiutare le amministrazioni territoriali a migliorare la loro capacità di investimento e a semplificare le procedure. La supervisione politica del piano è affidata a un comitato istituito presso la Presidenza del Consiglio a cui partecipano i ministri competenti.
Il governo stima che gli investimenti previsti nel piano avranno un impatto significativo sulle principali variabili macroeconomiche e sugli indicatori di inclusione, equità e sviluppo sostenible (Sdgs). Nel 2026, l’anno di conclusione del Piano, il prodotto interno lordo sarà del 3,6 per cento più alto rispetto all’andamento tendenziale e l’occupazione di quasi 3 punti percentuali. Gli investimenti previsti nel Piano porteranno inoltre a miglioramenti marcati negli indicatori che misurano la povertà, le diseguaglianze di reddito e l’inclusione di genere, e un marcato calo del tasso di disoccupazione giovanile. Il programma di riforme potrà ulteriormente accrescere questi impatti.
L’Italia del futuro
Il Pnrr è parte di una più ampia e ambiziosa strategia per l’ammodernamento del paese. Il governo intende aggiornare e perfezionare le strategie nazionali in tema di sviluppo e mobilità sostenibile; ambiente e clima; idrogeno; automotive; filiera della salute. L’Italia deve combinare immaginazione e creatività a capacità progettuale e concretezza. Il governo vuole vincere questa sfida e consegnare alle prossime generazioni un paese più moderno, all’interno di un’Europa più forte e solidale.
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DOCUMENTAZIONE su Aladinpensiero
- IL PIANO.
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QUADRO ECONOMICO COMPLESSIVO
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EDITORIALI PRECEDENTI [segue]
Difendere l’Europa o difendersi dall’Europa? Le drammatiche scelte a cui potrebbe essere costretta l’Italia e alle quali davvero non vorremmo si arrivasse. Ma l’Italia deve tutelarsi, nell’interesse suo e della sopravvivenza dell’Europa solidale.
La nostra News non ha appartenenze partitiche e pertanto non esprime una precisa linea politica riconducibile a qualsivoglia formazione presente nello scenario politico. Si muove certo nell’ambito della sinistra e dell’ampia area progressista (che la comprende), ma con assoluta libertà, cercando di favorire il dibattito tra i cittadini senza alcuna preclusione, fatta salva la discriminante antifascista. Il nostro riferimento assoluto è la Costituzione repubblicana, che difendiamo e di cui rivendichiamo la piena attuazione. Siamo europeisti convinti e la nostra critica alle politiche egemoni che hanno negli ultimi anni conformato l’Unione Europea s’iscrive comunque entro la stessa entità. Ove riconduciamo perfino l’anelito e la rivendicazione indipendentista del popolo sardo. Non abbiamo in conseguenza mai condiviso le proposte, finora peraltro minoritarie, di uscita dell’Italia dall’Unione Europea e neppure quelle di uscita dall’eurozona, teoricamente compatibili con la permanenza nell’UE, ma che contraddicono quel disegno di costruzione degli Stati Uniti d’Europa perseguito dai padri fondatori come traguardo naturale di un processo che agli esordi degli accordi del 1957 (Trattati di Roma) pareva inarrestabile.
Oggi, attraversati dalla crisi devastante scatenata dalla pandemia, la debole e drammaticamente inadeguata risposta dell’Unione Europea fa oscillare le nostre sicurezze. Gli interessi del nostro Paese sembrano contrastare con gli interessi prevalenti dei partner più forti della stessa Unione, di cui la Germania è quello decisivo.
Domani giovedì 23 aprile il Consiglio Europeo, formato dai capi di governo dei singoli Stati associati all’UE discuterà sul come sostenere adeguatamente le economie degli Stati colpiti dalla pandemia a partire dall’Italia che ne è stata la maggiore vittima. Si discuterà sul come utilizzare i fondi a disposizione del Mes (Meccanismo europeo di stabilità) per supportare i Paesi membri a fronteggiare l’emergenza Covid-19, consentendone l’uso senza alcuna condizionalità per investimenti sanitari relativi al Covid-19 e di ulteriori misure come la creazione degli eurobond (o coronabond), che propone soprattutto l’Italia, e non solo. L’argomento è troppo complesso per essere qui riassunto in poche parole. Ed è per questa ragione che la nostra News riporta gli elementi del dibattito, affidandolo a persone esperte, in una sezione appositamente creata. Ma qui vogliamo evidenziare come l’importanza di misure efficaci per gli interessi del nostro Paese e di altri nel caso non venissero accolte le richieste, nella sostanza, non escluda per l’Italia decisioni estreme fino all’uscita dall’eurozona e finanche dall’Unione Europea. Ne ha parlato esplicitamente l’on. Stefano Fassina (Leu), nell’intervista che qui segnaliamo. Per lui è un’eventualità. Tale deriva non sarebbe solo possibile, ma obbligata per Sandro Demurtas, imprenditore ed esperto di economia e finanza, nell’articolo che di seguito ospitiamo, pur non condividendolo specie nelle conclusioni. Seguiamo gli eventi con trepidazione.
PERCHE’ DOBBIAMO USCIRE SUBITO DALL’EURO.
di Sandro Demurtas
[segue]
Europa, Europa. Carlo Magno e Francesco
Conferimento del Premio Internazionale Carlo Magno 2016 a Sua Santità Papa Francesco, 6 maggio 2016
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Alle ore 12 del 6 maggio 2016, nella Sala Regia del Palazzo Apostolico Vaticano è stato conferito a Sua Santità Papa Francesco il Premio Internazionale Carlo Magno 2016.
Alla presenza di numerose autorità, la cerimonia è stata introdotta dal discorso del Sindaco di Aachen, Sig. Marcel Philipp.
Quindi il Presidente del Comitato direttivo dell’Associazione per l’assegnazione del Premio Internazionale Carlo Magno di Aquisgrana – Per l’Unità dell’Europa, Sig. Jürgen Linden ha dato lettura dell’attestato del Premio che recita: “Il 6 maggio 2016, in Vaticano (Roma), a Sua Santità Papa Francesco è stato conferito il Premio Internazionale Carlo Magno di Aquisgrana in tributo al Suo straordinario impegno a favore della pace, della comprensione e della misericordia in una società europea di valori” e insieme al Sindaco di Aachen ha consegnato il Premio al Papa.
La cerimonia è proseguita con gli interventi del Presidente del Parlamento europeo, On.le Martin Schulz, del Presidente della Commissione europea, On.le Jean-Claude Junker e del Presidente del Consiglio europeo, On.le Donald Tusk.
Infine Papa Francesco ha pronunciato il discorso che riportiamo di seguito:
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Discorso del Santo Padre
Illustri Ospiti,
vi porgo il mio cordiale benvenuto e vi ringrazio per la vostra presenza. Sono grato in particolare ai Signori Marcel Philipp, Jürgen Linden, Martin Schulz, Jean-Claude Juncker e Donald Tusk per le loro cortesi parole. Desidero ribadire la mia intenzione di offrire il prestigioso Premio, di cui vengo onorato, per l’Europa: non compiamo infatti un gesto celebrativo; cogliamo piuttosto l’occasione per auspicare insieme uno slancio nuovo e coraggioso per questo amato Continente.
La creatività, l’ingegno, la capacità di rialzarsi e di uscire dai propri limiti appartengono all’anima dell’Europa. Nel secolo scorso, essa ha testimoniato all’umanità che un nuovo inizio era possibile: dopo anni di tragici scontri, culminati nella guerra più terribile che si ricordi, è sorta, con la grazia di Dio, una novità senza precedenti nella storia. Le ceneri delle macerie non poterono estinguere la speranza e la ricerca dell’altro, che arsero nel cuore dei Padri fondatori del progetto europeo. Essi gettarono le fondamenta di un baluardo di pace, di un edificio costruito da Stati che non si sono uniti per imposizione, ma per la libera scelta del bene comune, rinunciando per sempre a fronteggiarsi. L’Europa, dopo tante divisioni, ritrovò finalmente sé stessa e iniziò a edificare la sua casa.
Questa «famiglia di popoli» (1), lodevolmente diventata nel frattempo più ampia, in tempi recenti sembra sentire meno proprie le mura della casa comune, talvolta innalzate scostandosi dall’illuminato progetto architettato dai Padri. Quell’atmosfera di novità, quell’ardente desiderio di costruire l’unità paiono sempre più spenti; noi figli di quel sogno siamo tentati di cedere ai nostri egoismi, guardando al proprio utile e pensando di costruire recinti particolari. Tuttavia, sono convinto che la rassegnazione e la stanchezza non appartengono all’anima dell’Europa e che anche «le difficoltà possono diventare promotrici potenti di unità» (2).
Nel Parlamento europeo mi sono permesso di parlare di Europa nonna. Dicevo agli Eurodeputati che da diverse parti cresceva l’impressione generale di un’Europa stanca e invecchiata, non fertile e vitale, dove i grandi ideali che hanno ispirato l’Europa sembrano aver perso forza attrattiva; un’Europa decaduta che sembra abbia perso la sua capacità generatrice e creatrice. Un’Europa tentata di voler assicurare e dominare spazi più che generare processi di inclusione e trasformazione; un’Europa che si va “trincerando” invece di privilegiare azioni che promuovano nuovi dinamismi nella società; dinamismi capaci di coinvolgere e mettere in movimento tutti gli attori sociali (gruppi e persone) nella ricerca di nuove soluzioni ai problemi attuali, che portino frutto in importanti avvenimenti storici; un’Europa che lungi dal proteggere spazi si renda madre generatrice di processi (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 223).
Che cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà? Che cosa ti è successo, Europa terra di poeti, filosofi, artisti, musicisti, letterati? Che cosa ti è successo, Europa madre di popoli e nazioni, madre di grandi uomini e donne che hanno saputo difendere e dare la vita per la dignità dei loro fratelli?
Lo scrittore Elie Wiesel, sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, diceva che oggi è capitale realizzare una “trasfusione di memoria”. E’ necessario “fare memoria”, prendere un po’ di distanza dal presente per ascoltare la voce dei nostri antenati. La memoria non solo ci permetterà di non commettere gli stessi errori del passato (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 108), ma ci darà accesso a quelle acquisizioni che hanno aiutato i nostri popoli ad attraversare positivamente gli incroci storici che andavano incontrando. La trasfusione della memoria ci libera da quella tendenza attuale spesso più attraente di fabbricare in fretta sulle sabbie mobili dei risultati immediati che potrebbero produrre «una rendita politica facile, rapida ed effimera, ma che non costruiscono la pienezza umana» (ibid., 224).
A tal fine ci farà bene evocare i Padri fondatori dell’Europa. Essi seppero cercare strade alternative, innovative in un contesto segnato dalle ferite della guerra. Essi ebbero l’audacia non solo di sognare l’idea di Europa, ma osarono trasformare radicalmente i modelli che provocavano soltanto violenza e distruzione. Osarono cercare soluzioni multilaterali ai problemi che poco a poco diventavano comuni.
Robert Schuman, in quello che molti riconoscono come l’atto di nascita della prima comunità europea, disse: «L’Europa non si farà in un colpo solo, né attraverso una costruzione d’insieme; essa si farà attraverso realizzazioni concrete, creanti anzitutto una solidarietà di fatto» (3). Proprio ora, in questo nostro mondo dilaniato e ferito, occorre ritornare a quella solidarietà di fatto, alla stessa generosità concreta che seguì il secondo conflitto mondiale, perché – proseguiva Schuman – «la pace mondiale non potrà essere salvaguardata senza sforzi creatori che siano all’altezza dei pericoli che la minacciano» (4). I progetti dei Padri fondatori, araldi della pace e profeti dell’avvenire, non sono superati: ispirano, oggi più che mai, a costruire ponti e abbattere muri. Sembrano esprimere un accorato invito a non accontentarsi di ritocchi cosmetici o di compromessi tortuosi per correggere qualche trattato, ma a porre coraggiosamente basi nuove, fortemente radicate; come affermava Alcide De Gasperi, «tutti egualmente animati dalla preoccupazione del bene comune delle nostre patrie europee, della nostra Patria Europa», ricominciare, senza paura un «lavoro costruttivo che esige tutti i nostri sforzi di paziente e lunga cooperazione» (5).
Questa trasfusione della memoria ci permette di ispirarci al passato per affrontare con coraggio il complesso quadro multipolare dei nostri giorni, accettando con determinazione la sfida di “aggiornare” l’idea di Europa. Un’Europa capace di dare alla luce un nuovo umanesimo basato su tre capacità: la capacità di integrare, la capacità di dialogare e la capacità di generare.
Capacità di integrare
Erich Przywara, nella sua magnifica opera L’idea di Europa, ci sfida a pensare la città come un luogo di convivenza tra varie istanze e livelli. Egli conosceva quella tendenza riduzionistica che abita in ogni tentativo di pensare e sognare il tessuto sociale. La bellezza radicata in molte delle nostre città si deve al fatto che sono riuscite a conservare nel tempo le differenze di epoche, di nazioni, di stili, di visioni. Basta guardare l’inestimabile patrimonio culturale di Roma per confermare ancora una volta che la ricchezza e il valore di un popolo si radica proprio nel saper articolare tutti questi livelli in una sana convivenza. I riduzionismi e tutti gli intenti uniformanti, lungi dal generare valore, condannano i nostri popoli a una crudele povertà: quella dell’esclusione. E lungi dall’apportare grandezza, ricchezza e bellezza, l’esclusione provoca viltà, ristrettezza e brutalità. Lungi dal dare nobiltà allo spirito, gli apporta meschinità.
Le radici dei nostri popoli, le radici dell’Europa si andarono consolidando nel corso della sua storia imparando a integrare in sintesi sempre nuove le culture più diverse e senza apparente legame tra loro. L’identità europea è, ed è sempre stata, un’identità dinamica e multiculturale.
L’attività politica sa di avere tra le mani questo lavoro fondamentale e non rinviabile. Sappiamo che «il tutto è più delle parti, e anche della loro semplice somma», per cui si dovrà sempre lavorare per «allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 235). Siamo invitati a promuovere un’integrazione che trova nella solidarietà il modo in cui fare le cose, il modo in cui costruire la storia. Una solidarietà che non può mai essere confusa con l’elemosina, ma come generazione di opportunità perché tutti gli abitanti delle nostre città – e di tante altre città – possano sviluppare la loro vita con dignità. Il tempo ci sta insegnando che non basta il solo inserimento geografico delle persone, ma la sfida è una forte integrazione culturale.
In questo modo la comunità dei popoli europei potrà vincere la tentazione di ripiegarsi su paradigmi unilaterali e di avventurarsi in “colonizzazioni ideologiche”; riscoprirà piuttosto l’ampiezza dell’anima europea, nata dall’incontro di civiltà e popoli, più vasta degli attuali confini dell’Unione e chiamata a diventare modello di nuove sintesi e di dialogo. Il volto dell’Europa non si distingue infatti nel contrapporsi ad altri, ma nel portare impressi i tratti di varie culture e la bellezza di vincere le chiusure. Senza questa capacità di integrazione le parole pronunciate da Konrad Adenauer nel passato risuoneranno oggi come profezia di futuro: «Il futuro dell’Occidente non è tanto minacciato dalla tensione politica, quanto dal pericolo della massificazione, della uniformità del pensiero e del sentimento; in breve, da tutto il sistema di vita, dalla fuga dalla responsabilità, con l’unica preoccupazione per il proprio io» (6).
Capacità di dialogo
Se c’è una parola che dobbiamo ripetere fino a stancarci è questa: dialogo. Siamo invitati a promuovere una cultura del dialogo cercando con ogni mezzo di aprire istanze affinché questo sia possibile e ci permetta di ricostruire il tessuto sociale. La cultura del dialogo implica un autentico apprendistato, un’ascesi che ci aiuti a riconoscere l’altro come un interlocutore valido; che ci permetta di guardare lo straniero, il migrante, l’appartenente a un’altra cultura come un soggetto da ascoltare, considerato e apprezzato. E’ urgente per noi oggi coinvolgere tutti gli attori sociali nel promuovere «una cultura che privilegi il dialogo come forma di incontro», portando avanti «la ricerca di consenso e di accordi, senza però separarla dalla preoccupazione per una società giusta, capace di memoria e senza esclusioni» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 239). La pace sarà duratura nella misura in cui armiamo i nostri figli con le armi del dialogo, insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro e della negoziazione. In tal modo potremo lasciare loro in eredità una cultura che sappia delineare strategie non di morte ma di vita, non di esclusione ma di integrazione.
Questa cultura del dialogo, che dovrebbe essere inserita in tutti i curriculi scolastici come asse trasversale delle discipline, aiuterà ad inculcare nelle giovani generazioni un modo di risolvere i conflitti diverso da quello a cui li stiamo abituando. Oggi ci urge poter realizzare “coalizioni” non più solamente militari o economiche ma culturali, educative, filosofiche, religiose. Coalizioni che mettano in evidenza che, dietro molti conflitti, è spesso in gioco il potere di gruppi economici. Coalizioni capaci di difendere il popolo dall’essere utilizzato per fini impropri. Armiamo la nostra gente con la cultura del dialogo e dell’incontro.
Capacità di generare
Il dialogo e tutto ciò che esso comporta ci ricorda che nessuno può limitarsi ad essere spettatore né mero osservatore. Tutti, dal più piccolo al più grande, sono parte attiva nella costruzione di una società integrata e riconciliata. Questa cultura è possibile se tutti partecipiamo alla sua elaborazione e costruzione. La situazione attuale non ammette meri osservatori di lotte altrui. Al contrario, è un forte appello alla responsabilità personale e sociale.
In questo senso i nostri giovani hanno un ruolo preponderante. Essi non sono il futuro dei nostri popoli, sono il presente; sono quelli che già oggi con i loro sogni, con la loro vita stanno forgiando lo spirito europeo. Non possiamo pensare il domani senza offrire loro una reale partecipazione come agenti di cambiamento e di trasformazione. Non possiamo immaginare l’Europa senza renderli partecipi e protagonisti di questo sogno.
Ultimamente ho riflettuto su questo aspetto e mi sono chiesto: come possiamo fare partecipi i nostri giovani di questa costruzione quando li priviamo di lavoro; di lavori degni che permettano loro di svilupparsi per mezzo delle loro mani, della loro intelligenza e delle loro energie? Come pretendiamo di riconoscere ad essi il valore di protagonisti, quando gli indici di disoccupazione e sottoccupazione di milioni di giovani europei sono in aumento? Come evitare di perdere i nostri giovani, che finiscono per andarsene altrove in cerca di ideali e senso di appartenenza perché qui, nella loro terra, non sappiamo offrire loro opportunità e valori?
«La giusta distribuzione dei frutti della terra e del lavoro umano non è mera filantropia. E’ un dovere morale».(7) Se vogliamo pensare le nostre società in un modo diverso, abbiamo bisogno di creare posti di lavoro dignitoso e ben remunerato, specialmente per i nostri giovani.
Ciò richiede la ricerca di nuovi modelli economici più inclusivi ed equi, non orientati al servizio di pochi, ma al beneficio della gente e della società. E questo ci chiede il passaggio da un’economia liquida a un’economia sociale. Penso ad esempio all’economia sociale di mercato, incoraggiata anche dai miei Predecessori (cfr Giovanni Paolo II, Discorso all’Ambasciatore della R.F. di Germania, 8 novembre 1990). Passare da un’economia che punta al reddito e al profitto in base alla speculazione e al prestito a interesse ad un’economia sociale che investa sulle persone creando posti di lavoro e qualificazione.
Dobbiamo passare da un’economia liquida, che tende a favorire la corruzione come mezzo per ottenere profitti, a un’economia sociale che garantisce l’accesso alla terra, al tetto per mezzo del lavoro come ambito in cui le persone e le comunità possano mettere in gioco «molte dimensioni della vita: la creatività, la proiezione nel futuro, lo sviluppo delle capacità, l’esercizio dei valori, la comunicazione con gli altri, un atteggiamento di adorazione. Perciò la realtà sociale del mondo di oggi, al di là degli interessi limitati delle imprese e di una discutibile razionalità economica, esige che “si continui a perseguire quale priorità l’obiettivo dell’accesso al lavoro […] per tutti” (8)» (Enc. Laudato si’, 127).
Se vogliamo mirare a un futuro che sia dignitoso, se vogliamo un futuro di pace per le nostre società, potremo raggiungerlo solamente puntando sulla vera inclusione: «quella che dà il lavoro dignitoso, libero, creativo, partecipativo e solidale». (9) Questo passaggio (da un’economia liquida a un’economia sociale) non solo darà nuove prospettive e opportunità concrete di integrazione e inclusione, ma ci aprirà nuovamente la capacità di sognare quell’umanesimo, di cui l’Europa è stata culla e sorgente.
Alla rinascita di un’Europa affaticata, ma ancora ricca di energie e di potenzialità, può e deve contribuire la Chiesa. Il suo compito coincide con la sua missione: l’annuncio del Vangelo, che oggi più che mai si traduce soprattutto nell’andare incontro alle ferite dell’uomo, portando la presenza forte e semplice di Gesù, la sua misericordia consolante e incoraggiante. Dio desidera abitare tra gli uomini, ma può farlo solo attraverso uomini e donne che, come i grandi evangelizzatori del continente, siano toccati da Lui e vivano il Vangelo, senza cercare altro. Solo una Chiesa ricca di testimoni potrà ridare l’acqua pura del Vangelo alle radici dell’Europa. In questo, il cammino dei cristiani verso la piena unità è un grande segno dei tempi, ma anche l’esigenza urgente di rispondere all’appello del Signore «perché tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21).
Con la mente e con il cuore, con speranza e senza vane nostalgie, come un figlio che ritrova nella madre Europa le sue radici di vita e di fede, sogno un nuovo umanesimo europeo, «un costante cammino di umanizzazione», cui servono «memoria, coraggio, sana e umana utopia» (10). Sogno un’Europa giovane, capace di essere ancora madre: una madre che abbia vita, perché rispetta la vita e offre speranze di vita. Sogno un’Europa che si prende cura del bambino, che soccorre come un fratello il povero e chi arriva in cerca di accoglienza perché non ha più nulla e chiede riparo. Sogno un’Europa che ascolta e valorizza le persone malate e anziane, perché non siano ridotte a improduttivi oggetti di scarto. Sogno un’Europa, in cui essere migrante non è delitto, bensì un invito ad un maggior impegno con la dignità di tutto l’essere umano. Sogno un’Europa dove i giovani respirano l’aria pulita dell’onestà, amano la bellezza della cultura e di una vita semplice, non inquinata dagli infiniti bisogni del consumismo; dove sposarsi e avere figli sono una responsabilità e una gioia grande, non un problema dato dalla mancanza di un lavoro sufficientemente stabile. Sogno un’Europa delle famiglie, con politiche veramente effettive, incentrate sui volti più che sui numeri, sulle nascite dei figli più che sull’aumento dei beni. Sogno un’Europa che promuove e tutela i diritti di ciascuno, senza dimenticare i doveri verso tutti. Sogno un’Europa di cui non si possa dire che il suo impegno per i diritti umani è stato la sua ultima utopia. Grazie.
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(1) Discorso al Parlamento europeo, Strasburgo, 25 novembre 2014.
(2) Ibid.
(3) Dichiarazione del 9 Maggio 1950, Salon de l’Horloge, Quai d’Orsay, Parigi.
(4) Ibid.
(5) Discorso alla Conferenza Parlamentare Europea, Parigi, 21 aprile 1954.
(6) Discorso all’Assemblea degli artigiani tedeschi, Düsseldorf, 27 aprile 1952.
(7) Discurso a los movimientos populares en Bolivia, Santa Cruz de la Sierra, 9 luglio 2015.
(8) Benedetto XVI, Lett. Enc. Caritas in veritate (29 giugno 2009), 32: AAS 101 (2009), 666.
(9) Discurso a los movimientos populares en Bolivia, Santa Cruz de la Sierra, 9 luglio 2015.
(10) Discorso al Consiglio d’Europa, Strasburgo, 25 novembre 2014.
Per salvare la nostra Casa, la Terra! Un’alleanza per il clima, la Terra e la giustizia sociale
Pubblichiamo il documento Laudato Si’, risultato di un lavoro a molte voci, su iniziativa della Casa della carità di Milano. Un lavoro aperto perché è possibile tuttora avanzare suggerimenti, proposte e perché le varie posizioni non sono giustapposte, ma convivono l’una a fianco dell’altra e come ricorda Maria Agostina Cabiddu non c’è un prendere o lasciare di tutto il documento.
- Il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, che ce lo ha inviato, sottolinea di essere interessato a questo lavoro, in cui tanti si sono impegnati come singoli e come associazioni.
- Questo documento è presentato da brevi scritti di Raniero La Valle e di Maria Agostina Cabiddu, entrambi componenti del direttivo nazionale del Cdc, che hanno partecipato al lavoro di costruzione del documento.
- La Valle in particolare pone un problema politico fondamentale: trovare le modalità per attuare politiche che non sono realizzabili senza un salto di qualità di strumenti e di iniziative.
- Può sembrare un’utopia. In realtà le utopie sono necessarie per individuare percorsi nuovi, per avere una nuova stella polare istituzionale e politica. Basta ricordare che per regolare I rapporti tra i mercati nazionali è stata costruita una struttura sovranazionale come il WTO, come del resto ne sono state costruite altre.
- Oppure sono stati ipotizzati trattati tra grandi aree del mondo per regolare i commerci, come quello tra Europa e Canada.
- Perché mai i mercati debbono potere proporre e attuare discutibili proposte di regolazione, che arrivano a mettere sullo stesso piano gli Stati e le multinazionali, mentre se si tratta di cambiare in profondità il sistema economico, le sue relazioni, i suoi obiettivi tutto questo viene liquidato come una utopia ?
- In fondo il milione di giovani e ragazze che ha manifestato per il clima e l’ambiente in tutto il mondo, proseguendo l’impegno e il protagonismo proposto da Greta Thumberg pone esattamente il problema della svolta politica ed istituzionale di cui c’è bisogno.
- La Valle con la consueta lucidità pone il problema, ipotizza delle soluzioni. La soluzione concreta dipenderà da tutti noi e quindi è bene che se ne discuta.
Per La Presidenza di CdC
Alfiero Grandi
28/5/2019
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DOCUMENTI UTILI
- La Valle – presentazione.pdf
- Un’alleanza per il clima, la Terra e la giustizia sociale 13 maggio 2019.pdf
Europa e le contestate radici cristiane
I cristiani, l’Europa, la democrazia: segnali di crisi, nuove responsabilità
4 dicembre 2018 by Forcesi| C3dem
Il crinale storico e politico sul quale ci troviamo a camminare viene sempre più interpretato e definito in termini di crisi della “democrazia”. Il successo elettorale che, in molti paesi europei, negli Stati Uniti e più in generale nei paesi retti da democrazie rappresentative, si è determinato a vantaggio di formule politiche che rivendicano in modo assoluto l’esigenza di un’identità e di una sovranità nazionali da difendere e preservare, rappresenta la cifra forse più evidente ed appariscente del quadro che si viene componendo sul piano internazionale. Le scelte compiute su questioni cruciali come l’immigrazione o le relazioni economiche e politiche internazionali, dentro e fuori i confini dell’Unione Europea, rappresentano i frutti di un’applicazione di questo assunto fondamentale che viene esemplificato attraverso una linguistica politica che si è arricchita dei termini “populismo” e “sovranismo”.
Le letture possibili della crisi
Numerose sono le interpretazioni che sono state offerte di questo evolversi del panorama storico e politico del nostro tempo. Si osserva allora che quello a cui assistiamo costituisce il riverbero, sul piano politico, di un combinato che unisce la crisi economica alla crisi dell’ordine internazionale, di cui il fenomeno migratorio rappresenta la più diretta e vistosa manifestazione, che ha messo in luce la fragilità politica di molti partiti e la efficacia di molteplici istituzioni.
Diversamente, si è messo l’accento sul carattere “originario” della crisi del sistema partitico che ha sin qui caratterizzato le democrazie rappresentative attraverso una distinzione fra partiti di matrice conservatrice e liberale e partiti di orientamento progressista e socialista. Seguendo questa lettura, il punto cruciale da cui origina il rivolgimento che attraversiamo è da collocarsi nella crisi delle forze politiche di sinistra, socialiste o progressiste, che si somma a quella della cultura politica “liberal” negli Stati Uniti e oramai si estende ai partiti conservatori di matrice liberale (dalla CDU-CSU tedesca, ai popolari spagnoli, ai conservatori inglesi e ai repubblicani americani che conoscono il riemergere di una tentazione “di destra” a cui già si sono adeguati, ad esempio, i popolari austriaci).
Una terza lettura possibile è quella che qualifica questo secondo decennio del Ventunesimo secolo come il tempo della crisi della democrazia stessa, almeno nella sua forma rappresentativa e liberale. Rispetto al principio della rappresentatività, alla divisione e distinzione dei poteri e all’idea cardine del limite imposto all’esercizio dell’autorità dello Stato rappresentato dai diritti individuali e sociali, sembrano avere successo modelli giudicati più efficienti (come la Russia o la Turchia). Nell’opinione pubblica dei paesi con istituzioni “democratiche” si fa allora strada una preferenza per soluzioni istituzionali che accentrano nel governo i poteri e la funzione decisionale, arrivando a ridurre la divisione dei poteri non solo e non tanto ad un “orpello” rispetto alla necessità di decisioni rapide, ma ad una sorta di menomazione di un potere “del popolo” che non dovrebbe conoscere divisioni ma dovrebbe essere riversato interamente nelle mani di chi riceve un mandato politico attraverso il suffragio elettorale.
Tutte queste prospettive interpretative fanno luce su aspetti diversi del nostro presente ma vi è una ulteriore lettura possibile che può aiutare a individuare una sorta di filo conduttore che attraversa la crisi dei partiti e la lega a quella delle strutture politiche, sociali ed economiche. Vi è infatti una sorta di saldatura delle fratture che emergono sul piano politico e istituzionale così come su quello economico e sociale, con faglie culturali antiche, che affondano le radici nel Novecento e che hanno un forte connotato religioso, cristiano e cattolico in particolare.
Le faglie del cattolicesimo europeo
Quello che si ha di fronte è un mutamento culturale di portata globale, che nasce da un quadro storico generale dove sono messi radicalmente in questione i fondamenti della democrazia. Si tratta di una sfida che investe il piano essenziale e dimenticato della cultura politica e che fino ad ora nessuno ha saputo o voluto affrontare. Tuttavia, dentro questo deterioramento progressivo delle forme della politica, vi sono luoghi nei quali più evidente è l’esistenza di un nesso strettissimo fra l’emergere di una politica che esplicitamente rifiuta i fondamenti della democrazia liberale e il manifestarsi di un cattolicesimo identitario, declinato secondo forme molteplici di nazionalismo o di affermazione della diversità culturale esclusiva ed escludente di un popolo.
Se ci limitiamo ai confini dell’Unione Europea, la esplicita volontà di difendere la sovranità nazionale attraverso l’affermazione identitaria di un insieme di valori che hanno un fondamento religioso di matrice cattolica rappresenta un tratto qualificante della politica di alcuni governi europei: Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Austria, Italia. A questo elenco è possibile aggiungere, considerando il dato politico che emerge dalle recenti consultazioni elettorali regionali, alcune ampie zone della Germania, soprattutto la Baviera, storicamente “cattolica”.
Si tratta di una geografia che investe certamente paesi di più “recente” democrazia, nei quali, come un attento osservatore qual è Massimo Cacciari ha notato, sembra manifestarsi ora una saldatura fra identità statuale e identità nazionale che i paesi dell’Europa occidentale avevano conosciuto due secoli fa. Tuttavia, la diffusione di un consenso per una politica autoritaria e “forte” si dispiega dentro un’area che ha un connotato storico-geografico specifico: quello che cento anni fa è emerso dalle ceneri dell’impero asburgico e che è fatto di linee di faglie e di linee tensione che hanno un fortissimo connotato cattolico.
Occorre capire le ragioni di tutto questo, soprattutto le ragioni di un cattolicesimo che nel corso del Novecento ha assunto un ruolo identitario sul piano nazionale in ragione di un susseguirsi di contingenze storiche spesso tragiche. Quell’area geografica multiculturale che dal Mar Baltico arriva all’Adriatico, ha conosciuto infatti il deflagrare dei nazionalismi e il loro assumere l’aspetto di totalitarismi di matrice fascista, per poi essere proiettata dentro il perimetro di un socialismo reale che, nella sfera di influenza dell’Unione Sovietica, aveva cercato di livellare le differenze nazionali e culturali. È qui, che il cattolicesimo supplisce alla costruzione di una dimensione identitaria nazionale e assume così un ruolo di carattere politico che oggi mostra tutta la sua problematicità. Soprattutto perché si tratta di un cattolicesimo che, se è stato un palese avversario del socialismo reale, lo è stato anche dei sistemi liberali, giudicati non solo come “non cristiani” ma come anticristiani. Il magistero di un pontificato come quello di Giovanni Paolo II, che pure ha assunto una portata planetaria e internazionale come mai prima era accaduto ad un successore di Pietro, è attraversato da alcune di queste tensioni. Dentro i diversi contesti nazionali, soprattutto dell’Europa dell’Est, il cattolicesimo ha così conosciuto riformulazioni secondo una chiave di lettura che recuperava un carattere antico dell’apologetica cattolica: l’idea che la modernità, liberale o socialista, sia costitutivamente anticristiana e che come tale abbia dato origine a strutture politiche che, nei loro fondamenti, sono viziate da un relativismo. Così, in questo che è un giudizio storico-religioso ed etico sugli ultimi secoli, la democrazia diviene la traduzione politica di un atteggiamento, per così dire, filosofico, che ponendo ogni verità sullo stesso piano, finisce per negare la possibilità di affermarne una che abbia valore universale.
Il ritorno della critica della “modernità”
Si tratta di giudizi che non più di un decennio fa ancora venivano espressi, anche in sede di magistero, nei confronti di un’Unione Europea che non aveva esplicitato le proprie “radici giudaico-cristiane” nel suo progetto di Costituzione. Una posizione, questa della critica alla “modernità” filosofica e con essa alla modernità politica, che oggi si fa particolarmente efficace, sul piano culturale, in quei paesi nei quali il cattolicesimo fatica a trovare un confronto critico ed efficace con il nodo chiave della democrazia, intesa non solo come formulaistituzionale ma come metodo e prassi di governo delle relazioni politiche e sociali.
Una dinamica diversa si compie in paesi “occidentali” come l’Austria e l’Italia e in regioni come la Baviera, ma anche in Francia con il successo del Front National di Marine Le Pen. Qui, la decennale battaglia culturale del magistero contro il relativismo si è saldata con la battaglia di movimenti di destra contro la democrazia plurale e rappresentativa e dunque, anch’essa, “relativista”, incapace di proteggere i cittadini perché frammentata e preda di interessi “altri”, “privati” e non “nazionali”.
L’esito di tutto questo è un’Europa nella quale la questione della democrazia e della sua crisi si traduce in una crisi strutturale che certamente è anche determinata da una problematica originaria: quella del rapporto fra cattolicesimo e politica. Essa nasce dalle critiche che, da ambienti ecclesiastici o di cultura cattolica, sono state mosse alla democrazia e dall’aver stabilito o teorizzato l’esistenza di una saldatura fra il sistema istituzionale democratico e l’indifferentismo etico dello Stato liberale. Vi è in questo l’effetto lungo dei decenni a volte tormentati che sono seguiti al Concilio Vaticano II. A questo si aggiunge un dato di carattere storico-politico. A partire dalla fine degli anni Ottanta del Novecento la crisi dei partiti politici di ispirazione cristiana, soprattutto nell’Europa occidentale, inizia a rivelarsi come qualcosa di ben più profondo della semplice fine di un sistema politico, determinata dal venir meno della contrapposizione fra Est e Ovest.
La fine della Democrazia Cristiana in Italia, che è il frutto di molteplici fattori, fra i quali vi è anche una crisi irreversibile di un metodo di gestione del potere, ha tuttavia manifestato un vuoto progressivo nella traduzione politica di una cultura politica specifica. Quella cultura politica che, ispirandosi all’insegnamento sociale della Chiesa, aveva saputo mettere a disposizione di una spiccata sensibilità sociale le istituzioni della democrazia liberale e rappresentativa, dando ad esse una finalità politica. È la stessa cultura che, ancora negli anni Ottanta del Novecento, era propria degli omologhi partiti tedesco e spagnolo e di una parte del panorama politico francese (Mitterrand era stato, nella prima fase della sua carriera politica, un uomo di governo del partito “cattolico” francese).
Se in Italia quella cesura storica ha determinato la fine della Democrazia cristiana, negli altri paesi essa ha assunto i tratti di una mutazione “genetica” di quei partiti di tradizione democratico-cristiana: questi sono diventati partiti liberal-conservatori, modificando i loro riferimenti culturali e accettando un orientamento che veniva dall’America di Ronald Regan o dall’Inghilterra di Margareth Thatcher e che gli storici della politica e dell’economia chiamano “Washington consensus”.
Questa mutazione ha coinvolto anche i partiti progressisti e socialisti, che hanno accettato un ordine di rapporti politici ed economici che era imperniato sulla drastica contrazione dell’autorità delle istituzioni pubbliche, sia nazionali che internazionali. Del resto, è questo l’orientamento che, negli anni Novanta e nei primi anni duemila, hanno seguito paesi come la Germania e l’Inghilterra, la Francia e la Spagna, l’Italia stessa, quando sono stati governati da coalizioni di matrice progressista. Pur di fronte al riemergere di istanze sociali e pur con la consapevolezza di dover rispondere ai contraccolpi di un quadro che diventava globale, non si è adeguatamente compreso quanto l’ordine delle cose che prendeva forma avrebbe fatto emergere nuove questioni identitarie, nuove paure e nodi sociali che sono governabili solo attraverso le istituzioni pubbliche e non possono essere risolti dalle forze “naturali” del mercato.
La sfida delle culture politiche
La vera sfida che allora sembra emergere dal nostro tempo e dalle sue radici storiche è quella della cultura politica. Si tratta di una questione che oggi riguarda, in modo particolarmente evidente, le forze politiche di sinistra e progressiste, che sembrano soffrire una crisi di identità senza soluzione e senza fine. Essa però riguarda anche, e forse in modo ancor più decisivo, il cattolicesimo e la sua capacità di animare culture politiche rinnovate o nuove nel quadro europeo di oggi.
Non si tratta di ricostruire partiti “cattolici” o partiti dei cattolici. Farlo significherebbe non capire che quello che oramai è venuto meno è un modo di intendere la politica che è proprio del Novecento: fatto di partiti con un forte connotato ideologico e di una coincidenza fra una struttura partitica e una determinata cultura politica, che oggi è difficilmente riproponibile. In questo, i cosiddetti “populismi” o “sovranismi”, che invece rivendicano proprio un carattere espressamente “di parte”, mostrano il loro essere l’ultimo resto del Novecento politico.
La questione è allora cosa viene dopo, o più direttamente: cosa costruire dopo? Un primo passo è quello di ritessere la trama di una, meglio, di più culture politiche: certamente di una cultura politica che, lasciandosi provocare dall’insegnamento della Chiesa, dal Vangelo e dalla teologia, rilegga i tratti così confusi del nostro tempo per decifrarne gli intrecci e leggerne i contenuti. Economia e politica, democrazia e solidarietà, istituzioni politiche e relazioni economiche, strutture sociali e orientamenti intellettuali, sono gli elementi costitutivi della realtà storica in cui questo nostro tempo si esprime e da cui soltanto può emergere una cultura politica rinnovata.
La costruzione di una cultura politica non è rinviabile e soprattutto non si deve commettere l’errore, che troppo spesso si fa, di giudicarla qualcosa di decorativo ma di non importante perché lontano dalla “concretezza”. Cultura politica non significa esercizio di un giudizio filosofico sulla politica o sulla storia: significa invece avere gli strumenti per guardare e capire il cambio d’epoca che attraversiamo, significa apprendere l’alfabeto con cui è scritta la realtà che viviamo e dunque tutt’altro che chiudersi in un mondo di sole idee. Significa fare quell’esercizio di comprensione dell’ordine delle cose che disegna linee di sviluppo storico il cui punto di fuga è nel domani. Più ancora, la cultura politica ha un ruolo essenziale proprio per la politica: perché è l’unico efficace antidoto ad ogni tentazione di declinarla o come pura competizione per l’esercizio del potere o come semplice onesta amministrazione. In entrambi i casi, per usare una locuzione teologica, l’esito è una politica disincarnata, che perde la sua umanità perché non è più nella storia e quindi diventa la cosa forse più distante dalla “concretezza”.
Rispondere a questa urgenza non rappresenta certamente una soluzione rapida alle tensioni che il quadro attuale ci mette davanti. Ma questo non ne riduce la necessità: se possibile l’accentua. Occorre dunque la pazienza di raccogliere questa sfida, che è quella di “pensare politicamente” e di farlo alla luce di un’ispirazione cristiana. È solo così che si edifica un rapporto fra cattolicesimo e democrazia che, consegnando alla storia una lettura diffidente della vicenda degli ultimi secoli, sappia riconoscere la presenza e il perdurare di un’influenza religiosa anche in quella modernità che pure sembra essere inesorabilmente etichettata come “laica”.
Rileggere la storia della democrazia, per come noi la conosciamo, da questo punto di vista permette di far luce su un dato essenziale che diventa anche una prospettiva percorribile per il futuro. Se il secolo che segue il 1789 è segnato, sul piano della cultura politica, dalle istanze di libertà che si traducono nelle istituzioni rappresentative e parlamentari e nelle prime costituzioni, quello che lo ha seguito, il “secolo breve” delle guerre mondiali, dei nazionalismi e dei totalitarismi, è stato anche attraversato da una sensibilità crescente per istanze di giustizia non solo individuale ma sociali e collettive. Forse, allora, una cultura politica per il secolo che ci sta davanti è quella che completa la libertà e l’uguaglianza con il terzo, più dimenticato e forse più cristiano, degli ideali della Rivoluzione francese: la fraternità.
Riccardo Saccenti
Relazione tenuta a Parma, con questo titolo, il 15 novembre 2018.
L’autore, ex fucino, è ricercatore di Storia della filosofia medievale, assegnista di ricerca presso l’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea (CNR) e membro della Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII (Bologna).
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Conferimento del Premio Internazionale Carlo Magno 2016 a Sua Santità Papa Francesco, 06.05.2016
[B0319]
Discorso del Santo Padre
Alle ore 12 di oggi, nella Sala Regia del Palazzo Apostolico Vaticano è stato conferito a Sua Santità Papa Francesco il Premio Internazionale Carlo Magno 2016.
Alla presenza di numerose autorità, la cerimonia è stata introdotta dal discorso del Sindaco di Aachen, Sig. Marcel Philipp.
Quindi il Presidente del Comitato direttivo dell’Associazione per l’assegnazione del Premio Internazionale Carlo Magno di Aquisgrana – Per l’Unità dell’Europa, Sig. Jürgen Linden ha dato lettura dell’attestato del Premio che recita: “Il 6 maggio 2016, in Vaticano (Roma), a Sua Santità Papa Francesco è stato conferito il Premio Internazionale Carlo Magno di Aquisgrana in tributo al Suo straordinario impegno a favore della pace, della comprensione e della misericordia in una società europea di valori” e insieme al Sindaco di Aachen ha consegnato il Premio al Papa.
La cerimonia è proseguita con gli interventi del Presidente del Parlamento europeo, On.le Martin Schulz, del Presidente della Commissione europea, On.le Jean-Claude Junker e del Presidente del Consiglio europeo, On.le Donald Tusk.
Infine Papa Francesco ha pronunciato il discorso che riportiamo di seguito:
Discorso del Santo Padre
Illustri Ospiti,
vi porgo il mio cordiale benvenuto e vi ringrazio per la vostra presenza. Sono grato in particolare ai Signori Marcel Philipp, Jürgen Linden, Martin Schulz, Jean-Claude Juncker e Donald Tusk per le loro cortesi parole. Desidero ribadire la mia intenzione di offrire il prestigioso Premio, di cui vengo onorato, per l’Europa: non compiamo infatti un gesto celebrativo; cogliamo piuttosto l’occasione per auspicare insieme uno slancio nuovo e coraggioso per questo amato Continente.
La creatività, l’ingegno, la capacità di rialzarsi e di uscire dai propri limiti appartengono all’anima dell’Europa. Nel secolo scorso, essa ha testimoniato all’umanità che un nuovo inizio era possibile: dopo anni di tragici scontri, culminati nella guerra più terribile che si ricordi, è sorta, con la grazia di Dio, una novità senza precedenti nella storia. Le ceneri delle macerie non poterono estinguere la speranza e la ricerca dell’altro, che arsero nel cuore dei Padri fondatori del progetto europeo. Essi gettarono le fondamenta di un baluardo di pace, di un edificio costruito da Stati che non si sono uniti per imposizione, ma per la libera scelta del bene comune, rinunciando per sempre a fronteggiarsi. L’Europa, dopo tante divisioni, ritrovò finalmente sé stessa e iniziò a edificare la sua casa.
Questa «famiglia di popoli»1, lodevolmente diventata nel frattempo più ampia, in tempi recenti sembra sentire meno proprie le mura della casa comune, talvolta innalzate scostandosi dall’illuminato progetto architettato dai Padri. Quell’atmosfera di novità, quell’ardente desiderio di costruire l’unità paiono sempre più spenti; noi figli di quel sogno siamo tentati di cedere ai nostri egoismi, guardando al proprio utile e pensando di costruire recinti particolari. Tuttavia, sono convinto che la rassegnazione e la stanchezza non appartengono all’anima dell’Europa e che anche «le difficoltà possono diventare promotrici potenti di unità»2.
Nel Parlamento europeo mi sono permesso di parlare di Europa nonna. Dicevo agli Eurodeputati che da diverse parti cresceva l’impressione generale di un’Europa stanca e invecchiata, non fertile e vitale, dove i grandi ideali che hanno ispirato l’Europa sembrano aver perso forza attrattiva; un’Europa decaduta che sembra abbia perso la sua capacità generatrice e creatrice. Un’Europa tentata di voler assicurare e dominare spazi più che generare processi di inclusione e trasformazione; un’Europa che si va “trincerando” invece di privilegiare azioni che promuovano nuovi dinamismi nella società; dinamismi capaci di coinvolgere e mettere in movimento tutti gli attori sociali (gruppi e persone) nella ricerca di nuove soluzioni ai problemi attuali, che portino frutto in importanti avvenimenti storici; un’Europa che lungi dal proteggere spazi si renda madre generatrice di processi (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 223).
Che cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà? Che cosa ti è successo, Europa terra di poeti, filosofi, artisti, musicisti, letterati? Che cosa ti è successo, Europa madre di popoli e nazioni, madre di grandi uomini e donne che hanno saputo difendere e dare la vita per la dignità dei loro fratelli?
Lo scrittore Elie Wiesel, sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, diceva che oggi è capitale realizzare una “trasfusione di memoria”. E’ necessario “fare memoria”, prendere un po’ di distanza dal presente per ascoltare la voce dei nostri antenati. La memoria non solo ci permetterà di non commettere gli stessi errori del passato (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 108), ma ci darà accesso a quelle acquisizioni che hanno aiutato i nostri popoli ad attraversare positivamente gli incroci storici che andavano incontrando. La trasfusione della memoria ci libera da quella tendenza attuale spesso più attraente di fabbricare in fretta sulle sabbie mobili dei risultati immediati che potrebbero produrre «una rendita politica facile, rapida ed effimera, ma che non costruiscono la pienezza umana» (ibid., 224).
A tal fine ci farà bene evocare i Padri fondatori dell’Europa. Essi seppero cercare strade alternative, innovative in un contesto segnato dalle ferite della guerra. Essi ebbero l’audacia non solo di sognare l’idea di Europa, ma osarono trasformare radicalmente i modelli che provocavano soltanto violenza e distruzione. Osarono cercare soluzioni multilaterali ai problemi che poco a poco diventavano comuni.
Robert Schuman, in quello che molti riconoscono come l’atto di nascita della prima comunità europea, disse: «L’Europa non si farà in un colpo solo, né attraverso una costruzione d’insieme; essa si farà attraverso realizzazioni concrete, creanti anzitutto una solidarietà di fatto»3. Proprio ora, in questo nostro mondo dilaniato e ferito, occorre ritornare a quella solidarietà di fatto, alla stessa generosità concreta che seguì il secondo conflitto mondiale, perché – proseguiva Schuman – «la pace mondiale non potrà essere salvaguardata senza sforzi creatori che siano all’altezza dei pericoli che la minacciano»4. I progetti dei Padri fondatori, araldi della pace e profeti dell’avvenire, non sono superati: ispirano, oggi più che mai, a costruire ponti e abbattere muri. Sembrano esprimere un accorato invito a non accontentarsi di ritocchi cosmetici o di compromessi tortuosi per correggere qualche trattato, ma a porre coraggiosamente basi nuove, fortemente radicate; come affermava Alcide De Gasperi, «tutti egualmente animati dalla preoccupazione del bene comune delle nostre patrie europee, della nostra Patria Europa», ricominciare, senza paura un «lavoro costruttivo che esige tutti i nostri sforzi di paziente e lunga cooperazione»5.
Questa trasfusione della memoria ci permette di ispirarci al passato per affrontare con coraggio il complesso quadro multipolare dei nostri giorni, accettando con determinazione la sfida di “aggiornare” l’idea di Europa. Un’Europa capace di dare alla luce un nuovo umanesimo basato su tre capacità: la capacità di integrare, la capacità di dialogare e la capacità di generare.
Capacità di integrare
Erich Przywara, nella sua magnifica opera L’idea di Europa, ci sfida a pensare la città come un luogo di convivenza tra varie istanze e livelli. Egli conosceva quella tendenza riduzionistica che abita in ogni tentativo di pensare e sognare il tessuto sociale. La bellezza radicata in molte delle nostre città si deve al fatto che sono riuscite a conservare nel tempo le differenze di epoche, di nazioni, di stili, di visioni. Basta guardare l’inestimabile patrimonio culturale di Roma per confermare ancora una volta che la ricchezza e il valore di un popolo si radica proprio nel saper articolare tutti questi livelli in una sana convivenza. I riduzionismi e tutti gli intenti uniformanti, lungi dal generare valore, condannano i nostri popoli a una crudele povertà: quella dell’esclusione. E lungi dall’apportare grandezza, ricchezza e bellezza, l’esclusione provoca viltà, ristrettezza e brutalità. Lungi dal dare nobiltà allo spirito, gli apporta meschinità.
Le radici dei nostri popoli, le radici dell’Europa si andarono consolidando nel corso della sua storia imparando a integrare in sintesi sempre nuove le culture più diverse e senza apparente legame tra loro. L’identità europea è, ed è sempre stata, un’identità dinamica e multiculturale.
L’attività politica sa di avere tra le mani questo lavoro fondamentale e non rinviabile. Sappiamo che «il tutto è più delle parti, e anche della loro semplice somma», per cui si dovrà sempre lavorare per «allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 235). Siamo invitati a promuovere un’integrazione che trova nella solidarietà il modo in cui fare le cose, il modo in cui costruire la storia. Una solidarietà che non può mai essere confusa con l’elemosina, ma come generazione di opportunità perché tutti gli abitanti delle nostre città – e di tante altre città – possano sviluppare la loro vita con dignità. Il tempo ci sta insegnando che non basta il solo inserimento geografico delle persone, ma la sfida è una forte integrazione culturale.
In questo modo la comunità dei popoli europei potrà vincere la tentazione di ripiegarsi su paradigmi unilaterali e di avventurarsi in “colonizzazioni ideologiche”; riscoprirà piuttosto l’ampiezza dell’anima europea, nata dall’incontro di civiltà e popoli, più vasta degli attuali confini dell’Unione e chiamata a diventare modello di nuove sintesi e di dialogo. Il volto dell’Europa non si distingue infatti nel contrapporsi ad altri, ma nel portare impressi i tratti di varie culture e la bellezza di vincere le chiusure. Senza questa capacità di integrazione le parole pronunciate da Konrad Adenauer nel passato risuoneranno oggi come profezia di futuro: «Il futuro dell’Occidente non è tanto minacciato dalla tensione politica, quanto dal pericolo della massificazione, della uniformità del pensiero e del sentimento; in breve, da tutto il sistema di vita, dalla fuga dalla responsabilità, con l’unica preoccupazione per il proprio io»6.
Capacità di dialogo
Se c’è una parola che dobbiamo ripetere fino a stancarci è questa: dialogo. Siamo invitati a promuovere una cultura del dialogo cercando con ogni mezzo di aprire istanze affinché questo sia possibile e ci permetta di ricostruire il tessuto sociale. La cultura del dialogo implica un autentico apprendistato, un’ascesi che ci aiuti a riconoscere l’altro come un interlocutore valido; che ci permetta di guardare lo straniero, il migrante, l’appartenente a un’altra cultura come un soggetto da ascoltare, considerato e apprezzato. E’ urgente per noi oggi coinvolgere tutti gli attori sociali nel promuovere «una cultura che privilegi il dialogo come forma di incontro», portando avanti «la ricerca di consenso e di accordi, senza però separarla dalla preoccupazione per una società giusta, capace di memoria e senza esclusioni» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 239). La pace sarà duratura nella misura in cui armiamo i nostri figli con le armi del dialogo, insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro e della negoziazione. In tal modo potremo lasciare loro in eredità una cultura che sappia delineare strategie non di morte ma di vita, non di esclusione ma di integrazione.
Questa cultura del dialogo, che dovrebbe essere inserita in tutti i curriculi scolastici come asse trasversale delle discipline, aiuterà ad inculcare nelle giovani generazioni un modo di risolvere i conflitti diverso da quello a cui li stiamo abituando. Oggi ci urge poter realizzare “coalizioni” non più solamente militari o economiche ma culturali, educative, filosofiche, religiose. Coalizioni che mettano in evidenza che, dietro molti conflitti, è spesso in gioco il potere di gruppi economici. Coalizioni capaci di difendere il popolo dall’essere utilizzato per fini impropri. Armiamo la nostra gente con la cultura del dialogo e dell’incontro.
Capacità di generare
Il dialogo e tutto ciò che esso comporta ci ricorda che nessuno può limitarsi ad essere spettatore né mero osservatore. Tutti, dal più piccolo al più grande, sono parte attiva nella costruzione di una società integrata e riconciliata. Questa cultura è possibile se tutti partecipiamo alla sua elaborazione e costruzione. La situazione attuale non ammette meri osservatori di lotte altrui. Al contrario, è un forte appello alla responsabilità personale e sociale.
In questo senso i nostri giovani hanno un ruolo preponderante. Essi non sono il futuro dei nostri popoli, sono il presente; sono quelli che già oggi con i loro sogni, con la loro vita stanno forgiando lo spirito europeo. Non possiamo pensare il domani senza offrire loro una reale partecipazione come agenti di cambiamento e di trasformazione. Non possiamo immaginare l’Europa senza renderli partecipi e protagonisti di questo sogno.
Ultimamente ho riflettuto su questo aspetto e mi sono chiesto: come possiamo fare partecipi i nostri giovani di questa costruzione quando li priviamo di lavoro; di lavori degni che permettano loro di svilupparsi per mezzo delle loro mani, della loro intelligenza e delle loro energie? Come pretendiamo di riconoscere ad essi il valore di protagonisti, quando gli indici di disoccupazione e sottoccupazione di milioni di giovani europei sono in aumento? Come evitare di perdere i nostri giovani, che finiscono per andarsene altrove in cerca di ideali e senso di appartenenza perché qui, nella loro terra, non sappiamo offrire loro opportunità e valori?
«La giusta distribuzione dei frutti della terra e del lavoro umano non è mera filantropia. E’ un dovere morale».7 Se vogliamo pensare le nostre società in un modo diverso, abbiamo bisogno di creare posti di lavoro dignitoso e ben remunerato, specialmente per i nostri giovani.
Ciò richiede la ricerca di nuovi modelli economici più inclusivi ed equi, non orientati al servizio di pochi, ma al beneficio della gente e della società. E questo ci chiede il passaggio da un’economia liquida a un’economia sociale. Penso ad esempio all’economia sociale di mercato, incoraggiata anche dai miei Predecessori (cfr Giovanni Paolo II, Discorso all’Ambasciatore della R.F. di Germania, 8 novembre 1990). Passare da un’economia che punta al reddito e al profitto in base alla speculazione e al prestito a interesse ad un’economia sociale che investa sulle persone creando posti di lavoro e qualificazione.
Dobbiamo passare da un’economia liquida, che tende a favorire la corruzione come mezzo per ottenere profitti, a un’economia sociale che garantisce l’accesso alla terra, al tetto per mezzo del lavoro come ambito in cui le persone e le comunità possano mettere in gioco «molte dimensioni della vita: la creatività, la proiezione nel futuro, lo sviluppo delle capacità, l’esercizio dei valori, la comunicazione con gli altri, un atteggiamento di adorazione. Perciò la realtà sociale del mondo di oggi, al di là degli interessi limitati delle imprese e di una discutibile razionalità economica, esige che “si continui a perseguire quale priorità l’obiettivo dell’accesso al lavoro […] per tutti”8» (Enc. Laudato si’, 127).
Se vogliamo mirare a un futuro che sia dignitoso, se vogliamo un futuro di pace per le nostre società, potremo raggiungerlo solamente puntando sulla vera inclusione: «quella che dà il lavoro dignitoso, libero, creativo, partecipativo e solidale».9 Questo passaggio (da un’economia liquida a un’economia sociale) non solo darà nuove prospettive e opportunità concrete di integrazione e inclusione, ma ci aprirà nuovamente la capacità di sognare quell’umanesimo, di cui l’Europa è stata culla e sorgente.
Alla rinascita di un’Europa affaticata, ma ancora ricca di energie e di potenzialità, può e deve contribuire la Chiesa. Il suo compito coincide con la sua missione: l’annuncio del Vangelo, che oggi più che mai si traduce soprattutto nell’andare incontro alle ferite dell’uomo, portando la presenza forte e semplice di Gesù, la sua misericordia consolante e incoraggiante. Dio desidera abitare tra gli uomini, ma può farlo solo attraverso uomini e donne che, come i grandi evangelizzatori del continente, siano toccati da Lui e vivano il Vangelo, senza cercare altro. Solo una Chiesa ricca di testimoni potrà ridare l’acqua pura del Vangelo alle radici dell’Europa. In questo, il cammino dei cristiani verso la piena unità è un grande segno dei tempi, ma anche l’esigenza urgente di rispondere all’appello del Signore «perché tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21).
Con la mente e con il cuore, con speranza e senza vane nostalgie, come un figlio che ritrova nella madre Europa le sue radici di vita e di fede, sogno un nuovo umanesimo europeo, «un costante cammino di umanizzazione», cui servono «memoria, coraggio, sana e umana utopia»10. Sogno un’Europa giovane, capace di essere ancora madre: una madre che abbia vita, perché rispetta la vita e offre speranze di vita. Sogno un’Europa che si prende cura del bambino, che soccorre come un fratello il povero e chi arriva in cerca di accoglienza perché non ha più nulla e chiede riparo. Sogno un’Europa che ascolta e valorizza le persone malate e anziane, perché non siano ridotte a improduttivi oggetti di scarto. Sogno un’Europa, in cui essere migrante non è delitto, bensì un invito ad un maggior impegno con la dignità di tutto l’essere umano. Sogno un’Europa dove i giovani respirano l’aria pulita dell’onestà, amano la bellezza della cultura e di una vita semplice, non inquinata dagli infiniti bisogni del consumismo; dove sposarsi e avere figli sono una responsabilità e una gioia grande, non un problema dato dalla mancanza di un lavoro sufficientemente stabile. Sogno un’Europa delle famiglie, con politiche veramente effettive, incentrate sui volti più che sui numeri, sulle nascite dei figli più che sull’aumento dei beni. Sogno un’Europa che promuove e tutela i diritti di ciascuno, senza dimenticare i doveri verso tutti. Sogno un’Europa di cui non si possa dire che il suo impegno per i diritti umani è stato la sua ultima utopia. Grazie.
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1 Discorso al Parlamento europeo, Strasburgo, 25 novembre 2014.
2 Ibid.
3 Dichiarazione del 9 Maggio 1950, Salon de l’Horloge, Quai d’Orsay, Parigi.
4 Ibid.
5 Discorso alla Conferenza Parlamentare Europea, Parigi, 21 aprile 1954.
6 Discorso all’Assemblea degli artigiani tedeschi, Düsseldorf, 27 aprile 1952.
7 Discurso a los movimientos populares en Bolivia, Santa Cruz de la Sierra, 9 luglio 2015.
8 Benedetto XVI, Lett. Enc. Caritas in veritate (29 giugno 2009), 32: AAS 101 (2009), 666.
9 Discurso a los movimientos populares en Bolivia, Santa Cruz de la Sierra, 9 luglio 2015.
10 Discorso al Consiglio d’Europa, Strasburgo, 25 novembre 2014.
[00735-IT.02] [Testo originale: Italiano]
Europa Europa
8 tesi sull’Europa per cui varrebbe la pena battersi. Un contromanifesto
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Alle elezioni del 2019 è in gioco l’Europa come grande spazio di civiltà. Ma il terreno dello scontro è occupato da due squadre imbarazzanti: “sovranisti” ed “europeisti”. Esiste però una terza via oltre lo sbaraccamento nazionalista o la mummificazione tecnoliberista: un’Europa della Sinistra Illuminista, democratica e progressista. Come costruirla? Alcuni spunti per la discussione, a partire da ciò che oggi è vivo e ciò che non lo è più nel progetto europeo. E da tre dilemmi politico -operativi inaggirabili.
di Pierfranco Pellizzetti su Micromega*
Che epoca terribile quella in cui
degli idioti governano dei ciechi
William Shakespeare – Re Lear
1. La tragedia e la farsa
Come le rondini di primavera al tempo lontano della mia fanciullezza, oggi l’avvento di un radicale cambio di stagione continentale è annunciato dal volo sempre più insistente di manifesti che ci garriscono propositi sulla congiuntura europea. Non messaggeri di prossimi tepori, bensì dell’incombere di un grande freddo; minaccioso come mai in passato: le elezioni 2019 per il Parlamento dell’Unione, in cui sarà messa in gioco la stessa sopravvivenza dell’idea di civile convivenza che da quasi settant’anni tiene a freno le pulsioni autodistruttive del Vecchio Continente.
Se tale è lo scenario, stride assai di più che nel passato lo scarto tra la drammaticità della posta in palio e la risibilità degli assunti con cui si vorrebbe contrastare questa nuova distruzione della ragione. E l’inadeguatezza di chi se ne fa portavoce.
Sicché taluno ripropone stantie retoriche buoniste che parlano di improbabili “sogni”, suscitando il convinto assenso in reperti da establishment, altri ipotizzano più che improbabili aggregazioni elettorali difensive (come – ad esempio – il rassemblement che dovrebbe andare dal fils à papà di Massoneria e Banche parigine Emmanuel Macron all’ormai screditato collaborazionista greco Alexis Tsipras). E poi reiterati appelli a venerande tradizioni, largamente anacronistiche (dunque mute in quanto a indirizzi progettuali), che ormai sono soltanto l’abito della festa per vuote retoriche domenicali di notabili e carrieristi. La trimurti liberale-socialista-popolare.
Intanto la quasi settantennale costruzione europea è sull’orlo dal baratro in cui intendono spingerla definitivamente i mestatori demagogici; inopinatamente balzati sulla scena pubblica cavalcando strumentalmente gli effetti dell’impotenza in cui staziona da un decennio l’istituzione europea. Da quel 2008/2009, quando ha cominciato a crescere drammaticamente il numero degli europei che dubitano della bontà del progetto di integrazione solidale, che oggi appare la causa di ogni male. Mentre «che siano stati in primo luogo i singoli stati nazionali, e non l’Unione europea, i principali responsabili della crisi non viene riconosciuto pubblicamente»[1].
Ossia crisi a geometria variabile: oltre che a Bruxelles/Strasburgo, nel cuore dei vari territori partner. Magari per prima nella Germania: ancora una volta gigante economico e nano politico. Insomma nessuna salvezza, nessuna rigenerazione etico-politica, si può realisticamente attendere dagli screditati e imbolsiti attori attualmente sulla scena.
2. La crisi o le crisi?
Come spesso accade in epoche di crisi, le visioni a campo lungo tendono a svanire, soppiantate dalla chiacchiera congiunturalista; che riduce a tattiche e marchingegni comunicativi la sfida in atto attorno alla sopravvivenza dell’idea stessa d’Europa, trasmessaci dai Padri Fondatori. Se così non fosse le argomentazioni a slogan di “Europa Sì”, in campo contro gli sfasciacarrozze ululanti “Europa No”, verrebbero immediatamente sostituite dalla consapevolezza che «la crisi dell’Europa è multidimensionale: economica, finanziaria, sociale ed eminentemente politica. Al tempo stesso culturale, intellettuale, morale e colpisce il nucleo degli stessi valori che la definiscono»[2]. Un insieme di processi involutivi interdipendenti seppure differenti, che si alimentano reciprocamente. Con un di più: il vizio d’origine del progetto Ue gestito da élites – il cosiddetto “concerto di Bruxelles” e la sua “diplomazia dei summit”- che mai si sono poste il problema di coinvolgervi i propri corpi sociali (le cittadinanze); creando così il macroscopico vuoto di consenso e relativa “carenza di legittimazione democratica”.
Situazione i cui effetti sono stati amplificati dalle sfide senza risposta (o con risposte insufficienti/inaccettabili) dell’ultimo decennio. Destinate alla deflagrazione continuando a ignorarle. Che impongono repliche ben differenti dal contro-terrorismo labiale all’insegna del “après l’Europe, le deluge!”. E l’accantonamento delle voci bianche che continuano a intonarle a disco rotto. Prendendo atto – lo si ribadisce – che un’Europa mondata dalle sue contraddizioni non potrebbe confidare nell’attuale classe dirigente insediata a Bruxelles e Strasburgo, in quelle aule popolate da mestieranti; negli opachi trade-off tra tecnostruttura funzionariale e ceto politico, esclusivamente mirati al controllo e al mantenimento delle rispettive posizioni di privilegio. L’aggregato umano che potremmo denominare ancora una volta con il termine di “Casta” (corporazione del potere autoreferenziale); già omologata negli anni Ottanta nel superamento delle distinzioni culturali/antropologiche tra Destra e Sinistra dall’interiorizzazione del mito blairiano-clintoniano di Terza Via (la ricollocazione dell’intero ceto politico nel campo dei presunti vincitori del tempo); poi dall’acritica adozione delle ricette di austerity anti-popolari e di precarizzazione del lavoro, nello smarrimento davanti ai nuovi “giovedì neri” “in arrivo da Wall Street”; il crollo del cui muro non fece meno fragore di quello a Berlino nel ventennio precedente.
Dunque, la constatazione definitiva di un’inadeguatezza devastante (attivata dall’incapacità dei vari sistemi nazionali di offrire al progetto-Europa attori politici all’altezza di un compito di tale respiro), che rende irrecuperabile l’intero personale protagonista e responsabile dello scontento che si diffonde in un’Europa avviata al declino. In assenza di inversioni radicali di marcia.
3. Un groviglio di nodi interconnessi
Contro la banalizzazione delle questioni in campo e – di converso – analizzando le derive che ci hanno condotto alla situazione attuale, occorre prendere atto che le radici di tali processi risalgono almeno agli anni Settanta del secolo scorso. A cui possiamo far riferimento osservando già l’embrionale ritorno di pulsioni paleo-nazionalistiche come il razzismo e l’antisemitismo, in palese contraddizione con i principi umanistici ispiratori dell’Europa post-bellica; alimentate dall’incapacità di percepirle e affrontarle da parte delle forze politiche ufficiali prima che dilagassero; come sta accadendo. Così come la radicalizzazione delle terze generazioni degli immigrati di cultura islamica e i conseguenti richiami del terrorismo hanno trovato inquietante terreno di coltura in assenza di politiche dell’integrazione, che riducessero i rischi dell’emarginazione economica e sociale nei ghetti periferici; del disagio e del risentimento. Poi – negli anni Ottanta e Novanta – il tatticismo (rivelatosi sui tempi medi autolesionistico) della creazione di una moneta unica «non per calcolata mossa strategica sulla via di un prestabilito obiettivo europeo»[3]; semmai come astuzia di cinici professional politici (capofila François Mitterand) che – così – presumevano di tenere a bada una Germania riunificata. Terribile imprevidenza; fondativa dell’attuale egemonia economica tedesca, che a fronte delle scelte di de-industrializzazione dei partner sud-europei, usciva dalla condizione di “grande malato dell’Unione” grazie alla svalutazione competitiva insita – di fatto – nel passaggio dal Marco all’Euro, che ne incrementava la capacità competitiva manifatturiera. Quella potenza esportativa (in larga misura rivolta al mercato interno europeo) che ha sbilanciato le ragioni di scambio con i propri partner. Uno sbilanciamento che – come ha scritto l’ex vice-cancelliere Joschka Fischer – costringe a mettere seriamente in conto il naufragio del progetto europeo per dinamiche squisitamente endogene. «Processo iniziato in modo strisciante nel 2009 quando il governo Merkel di allora ha deciso di imboccare la strada di una soluzione nazionale alla crisi contro un approccio comune europeo»[4].
Al tempo stesso, problemi virati rapidamente a crisi per l’inettitudine delegittimante dell’istituzione continentale a essi preposta.
Complessificati ulteriormente a livello mondiale da rotture epocali avvenute nei secolari paradigmi di governo delle cosiddette “società avanzate”.
In particolare l’usura delle regole tradizionali di democrazia rappresentativa e il discredito della forma-partito, nella transizione apparentemente ineluttabile alla Postdemocrazia o – se si vuole – alla politica star-system (in procinto di degenerare in “Democratura”), nella colonizzazione mediatica della sfera pubblica
4. Comunità di progetto Vs. blindate
L’Europa degli egoismi miopi che in tempi recenti ha manifestato ancora tutta quella sua inettitudine, lasciandosi travolgere da due effetti devastanti della globalizzazione finanziaria come assetto dominante del sistema-Mondo nel giro di millennio: prima l’esplosione della bolla finanziaria proveniente da oltre Atlantico, affrontata concentrandosi sulla stabilità del sistema bancario e nell’indifferenza totale alle conseguenze sociali di tale scelta, poi il crollo della coesione indotta dai flussi migratori attivati dalle avventure belliche occidentali nel vicino e medio oriente; nonché dalle strumentalizzazioni di un’ipotetica “invasione etnica” da parte dei mestatori sovranisti. I propugnatori reazionari delle “piccole patrie”.
In questo attacco concentrico all’istituzione europea in stallo – le delegittimanti insorgenze sociali ed economiche interne, l’eclisse di democrazia come paradigma di riferimento dell’ordine mondiale – si appalesa con sempre maggiore evidenza ciò che è vivo e ciò che tale non è (più) nel progetto europeo. Per un verso rimane assolutamente attuale l’intuizione federalista dei “visionari” che nel bel mezzo del secondo conflitto mondiale propugnavano l’idea di un grande esperimento costruttivistico che integrasse l’intero Vecchio Mondo fratricida: nell’attuale scenario che vede il protagonismo di grandi Stati-continente le dinamiche prevalenti, materiali e virtuali, possono trovare forme plausibili di governance solo entro format spaziali in grado di contenerne e gestirne gli effetti.
La straordinaria intuizione che ipotizzava l’Europa come un vasto laboratorio di sperimentazione innovativa in materia di convivenza, che la Comunità-Unione è riuscita (seppure parzialmente) a essere per alcuni decenni; con i suoi Erasmus che integravano attraverso la mobilità generazionale, i progetti di cooperazione regionali e transfrontalieri, le politiche di sussidiarietà e così via: un mood intellettuale diffuso che oggi è sempre più urgente ricreare come rifondazione dei sentimenti democratici di appartenenza.
Di converso, risulta del tutto accantonabile l’idea saint-simoniana di Europa messa all’opera già dai suoi primi costruttori: «un progetto di modernizzazione realizzato dall’alto: una strategia per la produttività, l’efficienza e la crescita economica gestita da esperti e funzionari, con ben poca attenzione per i desideri dei beneficiari»[5]. Quel modello tecnocratico che sotto l’effetto di crescenti tensioni ha visto le proprie oligarchie “esperte” blindarsi a esclusiva difesa del loro status.
5. In difesa dell’Europa, grande spazio di civiltà
In previsione dello show-down 2019 onestà imporrebbe di ammettere che il terreno dello scontro elettorale è occupato da due squadre a dir poco imbarazzanti.
L’annunciato match tra “sovranisti” ed “europeisti” è destinato a rivelarsi un breve diversivo che non allontana di un centimetro il baratro incombente. Visto che nulla di una democrazia europea può essere salvato sia da terroristi verbali che da presidiatori di rendite unioniste. A maggior ragione nel campo italiano, dove l’europeismo dovrebbe essere promosso da avventurieri della politica alla Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, politici-tappezzeria come Paolo Gentiloni o Antonio Tajani. A fronte del clerico-fascista Matteo Salvini, poligamo incrollabile difensore della “famiglia naturale” (poligamica?), e il chiliasta dolciniano a cinque stelle Luigi Di Maio.
Cosa succederebbe qualora prevalessero i cosiddetti sovranisti è facile prevederlo: l’Unione finirà in tanti pezzi. Ma nel caso opposto, la vittoria di QUESTI europeisti comporterebbe uno scenario altrettanto liquidatorio: molte nuove Brexit di Stati-nazione che abbandonano Bruxelles alla spicciolata, la secessione dell’Europa del Nord protestante (per cui il debito è sinonimo di peccato) dai detestati papisti fancazzisti PIIGS, magari l’arrocco di un Centro ricco separato dalle Periferie impoverite. Intanto è già avvenuta la saldatura proto-secessionista del patto anti-immigrati di Visegrad. E Paul Krugman ne ha composto il raggelante epitaffio: «ora che l’Europa dell’Est si è liberata dell’ideologia straniera del comunismo può tornare nel suo vero alveo storico: il fascismo»[6].
D’altro canto – ad oggi – ben pochi sono i possibili soggetti in campo che si riconoscano nel modello federalista, progressista e di sinistra (linea Ventotene: Ernesto Rossi-Altiero Spinelli-Eugenio Colorni), forse individuabili soltanto nella penisola iberica (i socialisti portoghesi di Antonio Costa e Podemos), mentre l’establishment europeisticamente benpensante si ritrova tutto attorno alla filiera verticista (e opportunista), da Jean Monnet a Jean-Claude Juncker.
Di conseguenza, per trovare in campo un soggetto propugnatore di quella che ci piacerebbe chiamare “l’Europa della Sinistra Illuminista” (democratica e progressista), bisognerà che vengano rapidamente sciolti almeno tre dilemmi politico-operativi inaggirabili.
6. Primo dilemma: la questione del consenso sociale
Nella Modernità post-industriale non è più possibile individuare un soggetto in grado di assumersi il ruolo di “classe generale”, levatrice della trasformazione; come nell’età precedente veniva attribuito alla classe operaia (con qualche fuga nell’astrazione; nel wishful thinking, la profezia che intende auto-avverarsi).
Il motivo per cui il pensiero post-gramsciano dei cosiddetti “populisti” (a prescindere dalla loro ridefinizione in senso denigratorio nell’odierna neo-lingua del Potere, coloro che contestano le politiche antipopolari delle plutocrazie in questa stagione di crescenti disuguaglianze) – da Ernesto Laclau a Chantal Mouffe – pone al centro della riflessione il problema della costruzione dell’aggregato sociale che possa sostenere una politica di trasformazioni in senso progressista.
Dunque, una sintesi teorica come guida per una comunicazione politica e organizzativa capace di assiemare l’estremo pluralismo di appartenenze identitarie emergenti nel passaggio ad assetti sociali in cui il lavoro non è più l’unico determinante sociale. Sicché «non sono solo le istanze operaie a essere importanti per un progetto di emancipazione. C’è il femminismo, c’è l’ecologia, ci sono le istanze antirazziste e per i diritti dei gay. Per questo parlo della necessità di stabilire una catena di equivalenze tra tutte queste istanze. Ed è proprio questa catena di equivalenza che chiamo costruire un popolo»[7]. Volendo significare con “popolo” l’aggregazione di quanto un tempo si sarebbe definito “blocco storico”.
Il punto critico è quello di individuare il minimo comun denominatore che possa tenere assieme istanze e sensibilità diverse. Il cui bandolo potrebbe essere il contrasto insanabile tra dignità e autonomia delle persone – da un lato – e i processi di omologazione massificante/conformistizzante promossi tanto dai sovranisti che dai tecno-europeisti; gli uni con il loro ritorno a un comunitarismo pre-moderno, gli altri come tardivi promotori di un progetto «legato alla svolta economica, sociale e ideologica degli anni ’70, quando si è assistito a un fondamentale cambiamento ideologico»[8]; inducendo la disillusione che ha colpito il complesso di speranze di investimento nel futuro mediante la moltiplicazione inarrestabile delle diseguaglianze. Nel passaggio caratteristico di quegli anni dallo sfruttamento all’emarginazione; che ormai contraddistingue la svendita di democrazia nelle società finanziarizzate; al cui modello il mainstream europeo è venuto accodandosi. A partire dalle direttive Bolkenstein o De Palacio.
7. Secondo dilemma: la questione comunicativa
L’idea del tutto controcorrente di rifondare l’Unione europea recuperandone le radici ideali democratiche è a forte rischio di finire stritolata nella morsa di due pensieri convergenti, seppure antagonisticamente, nell’escludere un rilancio del progetto originario; e prima ancora del suo spirito. Morsa che consiste in una potenza di fuoco delle organizzazioni sovraniste e tecno-europeiste incommensurabilmente superiore a quelle dei non allineati sul fronte di un’alternativa meramente distruttiva.
Ciò nonostante, in un’età ad altissimo tasso di mediatizzazione quale l’attuale, in cui il Potere si mantiene e consolida inducendo la propria identificazione con la Verità (e la Naturalità), il contropotere modifica le relazioni di dominio riprogrammando le reti intorno a interessi e valori alternativi, atti a minare attraverso l’esercizio della critica l’attendibilità degli assunti con cui il pensiero dominante si legittima.
Ma come farlo? Se vale il principio che il problema filosofico novecentesco di cambiare il mondo oggi va ritarato come reinterpretazione del mondo, ci si chiede in che modo si possa raggiungere direttamente le proprie audience potenziali. D’altro lato ogni operazione di costruttivismo sociale si è realizzata storicamente incontrando un medium ad hoc: 1519, la rivoluzione luterana si diffonde grazie alla stampa a caratteri mobili di Gutemberg, 1848, il contagio liberale si espande in tutta Europa grazie al telegrafo, 1932, la radio diffonde il messaggio del New Deal, 1968, la televisione funge da catalizzatore della protesta studentesca, 1993, Internet infrastruttura la globalizzazione finanziaria, 2011, i social come accampamenti virtuali degli indignados. E adesso, quale canale può veicolare il messaggio della rifondazione di Ue?
Un punto su cui andare a poggiare la leva dell’innovazione illuminista che richiede fantasia e creatività; ricordando che in Spagna, dopo l’attentato alla stazione madrilena di Atocha del 2004 furono stormi di messaggini telefonici (SMS) a bloccare il tentativo di insabbiamento della verità da parte del governo Aznar.
Dunque, la necessità di affrontare la questione prima di tutto enunciandola, poi aprendo un cantiere di riflessione tenendo conto della recente lezione di Occupy Wall Street, il movimento degli indignati newyorchesi che si acquartierarono nella primavera del 2013 nel Zuccotti Park, con lo slogan “siamo il 99%”: «le tattiche devono rimanere flessibili: se non riescono a reinventarsi costantemente, i movimenti finiscono per ripiegarsi su se stessi e morire in breve tempo»[9].
Ciò detto, il problema rimane e va elaborato.
8. Terzo dilemma: la questione organizzativa
Allo stesso modo (e maggior ragione, incombendo decisive scadenze elettorali) il nodo della strutturazione locale/nazionale/continentale della rinnovata visione democratica europea non può essere eluso. Del resto le recenti evoluzioni dei movimenti politici, in Italia e non solo, hanno sgombrato il campo da tanto facile illusionismo sulle forme di partecipazione totalmente dirette, della voce sovrana del singolo se versata nel calderone informatico. E con la questione organizzativa si pone il problema del reclutamento di personale militante che assicuri continuità all’azione politica finalizzata a creare una terza via per l’Ue, oltre lo sbaraccamento o la mummificazione. Di certo tale nucleo non può derivare dalla cooptazione di riciclati, evitando di ripetere l’errore funesto per cui ogni tentativo dell’ultimo decennio di far nascere una sinistra-sinistra è naufragato sullo scoglio della credibilità; avendo saputo varare soltanto scialuppe di salvataggio per reduci da mille naufragi.
Probabilmente il criterio con cui operare le selezioni sarà quello del radicamento, territoriale e/o nelle realtà sociali (lavoro, ambiente, genere, competenze, ecc.) aggregate nel costituendo popolo per l’Europa democratica e di sinistra.
D’altro canto non era intenzione di questo scritto proporre un piano articolato per la rinascita dell’Unione, bensì sottoporre temi a quanti interessa un’interpretazione non di maniera per quanto riguarda l’attuale stato dell’arte e un’inventariazione di massima degli spunti per una discussione allargata il più possibile.
Con l’ottimismo della volontà criticamente controllata, rinforzata dal paradosso ipotizzato da Jürgen Habermas: «siamo capaci di apprendimento soltanto se colpiti da catastrofi?»[10].
NOTE
[1] Joschka Fischer, “Se l’Europa fallisce?”, Ledizioni, Milano 2015 pag. 139
[2] Manuel Castells (a cura di), “Europe’s Crisis”, Polity Press, Ltd, Cambridge 2017 pag.429
[3] Tony Judt, Postwar, Laterza, Bari/Roma 2017 pag. 654
[4] J. Fischer, “Se l’Europa”, cit. pag. 159
[5] T. Judt, Postwar, cit. pag. 899
[6] Paul Krugman, “Se l’America perdesse la libertà”, La Repubblica 29 agosto 2018
[7] Chantal Mouffe, “Non c’è democrazia senza populismo”, MicroMega 5/2017
[8] Marcel Gauchet, “Un mondo disincantato?”, Dedalo, Bari 2008 pag. 109
[9] David Graeber, “Progetto democrazia”, il Saggiatore, Milano 2014 pag. 173
[10] Jürgen Habermas, “La costellazione postnazionale”, Feltrinelli, Milano pag. 18
(2 settembre 2019)
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* Pierfranco Pellizzetti, su MicroMega 5/2018: Camilleri sono.
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Nel riquadro: Félix Vallotton – Losanna – 1865-1925, il ratto d’Europa.ù
Bandire la guerra dalla faccia della Terra: ecco il vero grande programma che ci impegna tutti!
A.N.P .I.
ASSOCIAZIONE NAZIONALE PARTIGIANI D’ITALIA COMITATO NAZIONALE
Ordine del giorno del Comitato Nazionale ANPI sulla grave situazione internazionale
Il Comitato nazionale dell’ANPI esprime profonda preoccupazione per la situazione internazionale, che diviene sempre più complessa e pericolosa e sembra allontanare, ogni giorno di più, quello che è il nostro obiettivo primario: la pace.
[segue]
Per chi voti?
di Vanni Tola
Dichiarazione di voto, quando e perché. Penso sia importante riflettere prima di cadere nella trappola di chi ti chiede una pubblica dichiarazione di voto, per diversi motivi. Parliamone un attimo. Se sei un militante o convinto sostenitore di una forza politica e decidi di esprimere il tuo orientamento per convincere altri a votare come voti tu, la dichiarazione di voto ha un senso e forse anche una utilità per la parte che rappresenti. Naturalmente stai dando per scontato di essere un riferimento mediatico per qualcuno, per lo meno prima di rispondere dovresti domandarti se lo sei davvero. Tutti gli altri che non rientrano in questa condizione vengono invece sollecitati da amici e conoscenti per esprimere l’orientamento di voto facendo leva su sentimenti quali coraggio e codardia. Se ti esprimi sei coraggioso altrimenti sei codardo. Ci si casca subito, nessuno è codardo né vuole apparire tale quindi tende a dichiarare il proprio voto. Ma a che serve? Che uso fanno di tale dichiarazione coloro che quasi la pretendono?
(Segue)
AladinewsInternational AladinEuropaNews
La marginalità dell’Europa nel mondo “multipolare”.
di Gianfranco Sabattini*
Pietro Rossi, noto filosofo, in un suo recente articolo apparso su “Il Mulino” n. 5/2017 (“L’Europa in un mondo plurale”) illustra i motivi per cui, allo stato attuale, l’Europa, dopo aver affermato la propria egemonia sul mondo intero, in particolare per il ruolo svolto dai Paesi che si affacciano sull’Atlantico, nel corso del XX secolo ha perso il suo primato, con conseguente spostamento del centro di gravità del pianeta dall’Atlantico al Pacifico; ciò a seguito delle due guerre mondiali e della Guerra fredda che, nella seconda metà del secolo, ha visto contrapposti gli Stati Uniti e la Russia sovietica. Pertanto, “la partita per la leadership internazionale” si gioca ora – afferma Rossi – “in larga misura non più tra le regioni industriali europee e quelle della costa orientale degli Stati Uniti, quanto tra la California e l’Estremo Oriente”.
(Segue)
Vittorio Emanuele III, l’improbabile Imperatore degno di oblio
Vittorio Emanuele III e le sciagurate scelte
di Francesco Casula
Alcune motivazioni perché Vittorio Emanuele III di Savoia non è degno di essere intestatario di una Via, una Piazza o altri simili ed equivalenti “onori” e riconoscimenti nei paesi e nelle città della Sardegna.
Durante il suo regno (1900-1946) Vittorio Emanuele III fu connivente e spesso attivo sostenitore di scelte sciagurate e funeste per l’intera Italia e per la Sardegna in particolare, per le conseguenze devastanti che quelle scelte comportarono. Per cui il giudizio della storia sulla sua figura è spietato e senza appello. Egli infatti è, in quanto re e dunque capo dello stato, responsabile o comunque corresponsabile della partecipazione dell’Italia alle due grandi guerre e del Fascismo.
Anche durante il suo regno, fin dall’inizio del Novecento, continua la repressione violenta nei confronti della protesta popolare e dei movimenti di opposizione che aveva caratterizzato la fine dell’Ottocento, culminata con l’omicidio di Umberto I per mano dell’anarchico Gaetano Bresci, rientrato appositamente dagli Stati Uniti per “vendicare” la strage di Milano del 1898.
1. Repressione poliziesca agli inizi del Novecento in Sardegna
L’eccidio di Buggerru. La sommossa di Cagliari, Villasalto e Iglesias
Ricollegandosi al clima di repressione di fine secolo in Italia con la strage di Milano, nel romanzo Paese d’ombre Giuseppe Dessì scrive a proposito dell’eccidio di Buggerru: Bava Beccaris era nell’aria e con esso il suo demente insegnamento.
Anche a Buggerru, allora importante centro minerario, l’esercito, come a Milano nel 1898, sparò sulla folla inerme. Il 4 settembre del 1904 nel paese di Buggerru giunsero da Cagliari due compagnie del 42° reggimento di fanteria. La folla che gremiva la strada principale del paese li accolse in un silenzio ostile. Poco dopo i soldati con le baionette già cariche si schierarono in assetto da guerra all’esterno dell’Albergo dove alloggiavano. Le minacce e i tentativi di disperdere con la forza i manifestanti da parte dei soldati non sortirono alcun effetto. Fu allora che i soldati imbracciarono i moschetti e spararono sulla folla inerme. La tragedia si consumò in pochi minuti: sulla terra battuta della piazza giacevano una decina di minatori. Due, Felice Littera di 31 anni, di Masullas, e Giovanni Montixi di 49 anni, di Sardara, erano morti. Un terzo, Giustino Pittau, di Serramanna, colpito alla testa, morì in ospedale. Un mese dopo anche il ferito Giovanni Pilloni perì.
A Cagliari due anni dopo nel 1906, in seguito a una sommossa popolare contro il caro vita ci furono 10 morti.
“Alla notizia dei morti di Cagliari – scrive Natale Sanna – insorsero subito i centri minerari dell’Iglesiente con richieste varie, scioperi, saccheggi, scontri con i soldati, morti (due a Gonnesa e duie a Nebida) e feriti (17 a Gonnesa e quindici a Nebida) fra i dimostranti” (Natale Sanna, Il cammino dei Sardi, volume terzo, Editrice Sardegna, Cagliari, 1986, pagina 472).
Duramente repressi furono anche gli scioperi e le manifestazioni che si innescarono sempre dopo i fatti di Cagliari a Villasimius, San Vito, Muravera, Abbasanta, Escalaplano, Villasalto (con 6 morti e 12 feriti). Mentre a Iglesias nel 1920 i carabinieri sparano su una manifestazione di minatori causando 7 morti.
2. Vittorio Emanuele III e la Prima Guerra mondiale
La decisione di entrare in guerra fu presa esclusivamente dal sovrano, in collaborazione con il primo ministro Salandra, desideroso com’era di completare la cosiddetta “unità nazionale” con la conquista di Trento e Trieste, ancora in mano austriaca. il conflitto fu, come noto, tremendo per le forze armate italiane, che andarono incontro ad una spaventosa carneficina, tra il fango, la neve delle trincee e tra indicibili stragi e sofferenze.
Fu lo stesso Papa Benedetto XV a definire quella guerra una inutile strage. Ma in una enciclica del 1914 Ad Beatissimi Apostolorum Principis lo stesso papa era stato ancora più duro definendola una gigantesca carneficina.
Sarà il sardo Emilio Lussu, in una suggestiva testimonianza storica e letteraria come Un anno sull’altopiano a descrivere gli orrori di quella guerra. Egli infatti al fronte però sperimenterà sulla propria pelle l’assurdità e l’insensatezza della guerra: con la protervia e la stupidità dei generali che mandano al macello sicuro i soldati; con i miliardi di pidocchi, la polvere e il fumo, i tascapani sventrati, i fucili spezzati, i reticolati rotti, i sacrifici inutili.
Una guerra che comportò oltre a immani risorse (e sprechi) economici e finanziari immani lutti, con decine di migliaia di morti, feriti, mutilati e dispersi. A pagare i costi e il fio maggiore fu la Sardegna: “Pro difender sa patria italiana/distrutta s’este sa sardigna intrea, cantavano i mulattieri salendo i difficili sentieri verso le trincee, ha scritto Camillo Bellieni, ufficiale della Brigata” (Brigaglia, Mastino, Ortu, Storia della Sardegna, Editori Laterza, 2002, pagina 9).
Infatti alla fine del conflitto la Sardegna avrebbe contato bel 13.602 morti (più i dispersi nelle giornate di Caporetto, mai tornati nelle loro case). Una media di 138,6 caduti ogni mille chiamati alle armi, contro una media “nazionale” di 104,9.
E a “crepare” saranno migliaia di pastori, contadini, braccianti chiamati alle armi: i figli dei borghesi, proprio quelli che la guerra la propagandavano come “gesto esemplare” alla D’Annunzio o, cinicamente, come “igiene del mondo” alla futurista, alla guerra non ci sono andati.
La retorica patriottarda e nazionalista sulla guerra come avventura e atto eroico, va a pezzi. Abbasso la guerra, “Basta con le menzogne” gridavano, ammutinandosi con Lussu, migliaia di soldati della Brigata Sassari il 17 Gennaio 1916 nelle retrovie carsiche, tanto da far scrivere allo stesso Lussu – in Un anno sull’altopiano – Il piacere che io sentii in quel momento, lo ricordo come uno dei grandi piaceri della mia vita.
In cambio delle migliaia di morti – per non parlare delle migliaia di mutilati e feriti – ci sarà il retoricume delle medaglie, dei ciondoli, delle patacche. Ma la gloria delle trincee – sosterrà lo storico sardo Carta-Raspi – non sfamava la Sardegna.
Sempre Carta Raspi scrive: ”Neppure in seguito fu capito il dramma che in quegli anni aveva vissuto la Sardegna, che aveva dato all’Italia le sue balde generazioni, mentre le popolazioni languivano fra gli stenti e le privazioni. La gloria delle trincee non sfamava la Sardegna, anzi la impoveriva sempre di più, senza valide braccia, senza aiuti, con risorse sempre più ridotte. L’entusiasmo dei suoi fanti non trovava perciò che scarsa eco nell’isola, fiera dei suoi figli ma troppo afflitta per esaltarsi, sempre più conscia per antica esperienza dello sfruttamento e dell’ingratitudine dei governi, quasi presaga dell’inutile sacrificio. Al ritorno della guerra i Sardi non avevano da seminare che le decorazioni:le medaglie d’oro. d’argento e di bronzo e le migliaia di croci di guerra; ma esse non germogliavano, non davano frutto”. (Raimondo Carta Raspi, Storia della Sardegna, Ed. Mursia, Milano, 1971, pagina 904)
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La Gran Bretagna abbandona l’Unione Europea. Non è la fine del mondo, potrebbe perfino rappresentare l’inizio di una nuova Unione che vada al di la della sola unione monetaria dei paesi europei
Buongiorno, la notizia principale della giornata è che la Gran Bretagna non farà più parte dell’Unione Europea. Oggi si scateneranno i commentatori per aiutarci a comprendere quali saranno le conseguenze di tale avvenimento e noi, naturalmente, ascolteremo e leggeremo con interesse perché i destini dell’Unione europea ci riguardano direttamente. Una modesta riflessione. Non è la fine del mondo, non è scattata l’ora X dello smantellamento dell’Unione Europea, non è detto che l’uscita della Gran Bretagna, oltre ad alimentare i sogni dei nazionalisti, non si traduca in un serio dibattito che ci conduca alla revisione dei trattati e alla costruzione, anche politica e non soltanto monetaria, degli Stati Uniti d’Europa.
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- Brexit su Aladinews.
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Ditemi, ma veramente sono convinti di riprendersi l’India? Cameron verrà ricordato come il politico che ha distrutto il Regno Unito e privato la regina dall’essere la maggior beneficiaria dei fondi europei in agricoltura. Buone notizie.
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Hanno vinto i vecchi gli impauriti, quelli poco scolarizzati e i poveri. O cambia l’Europa o il futuro ci riserva cosa pessime. Cominciate ad imparare il latino intanto, tornerà utile nella nuova età buia.
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Brexit – è successo l’impensabile
di Nicola Ortu
By sardegnasoprattutto/ 24 giugno 2016/ Società & Politica/
Sono le cinque del mattino, la televisione ancora accesa in sottofondo, sintonizzata su BBC Parliament, che trasmette la “maratona” per la conta dei voti referendari. E no, non sembra essere un buongiorno per me, europeista convinto.
Mi sono svegliato con un piede fuori dall’Unione Europea. I mercati sono in fibrillazione, la Sterlina ha toccato i minimi storici dal 1985, e l’incertezza regna sovrana. Mi sembra quasi incredibile che tutto ciò stia accadendo. Un voto di protesta era altamente preventivabile, e l’Unione Europea era già stata, non solo in contesto britannico, utilizzata come capro espiatorio per problemi riconducibili più a quel di Westminster che a Bruxelles. Ma sicuramente nessuno si aspettava una prevalenza del “leave” a circa il 52%, ai dati aggiornati alle cinque di questa mattina, ora di Londra.
La palla passerà ora al Premier David Cameron, che, se non rassegnerà le dimissioni subito, sarà comunque costretto a fare non poche concessioni alle figure principali della campagna Leave, fra cui l’ex sindaco di Londra, Boris Johnson, e l’euroscettico Nigel Farage. Sembra comunque preventivabile un cambio di guida al numero 10 di Downing Street.
Questioni ancor più serie arrivano invece dalla solita Scozia, che ha votato, con una maggioranza incredibile per rimanere all’interno dell’Unione Europea, al contrario dell’Inghilterra e del Galles. Il leader del Partito Indipendentista Scozzese, Nicola Sturgeon, ha già annunciato che ci sarebbero state conseguenze in caso in cui il Paese avesse votato in controtendenza alla maggioranza del Regno Unito: un ulteriore referendum indipendentista sembra essere all’orizzonte, e l’Unione britannica nazionale sempre più destinata a sgretolarsi.
Se per la Scozia si vocifera già di un 194esimo posto da membro all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, poche miglia marine ad ovest, l’Irlanda del Nord vedrà forse problemi ancor più gravi. La stabilità degli accordi del Venerdì Santo, basati in larga misura sulla rispettiva appartenenza dei due paesi-Repubblica d’Irlanda e Regno Unito-all’Unione Europea, è messa oggi a forte rischio. I controlli frontalieri sono solo una delle tante problematiche che renderebbero la situazione in Irlanda tumultuosa come forse non lo è stata per decenni.
Per quanto riguarda le future relazioni economico-commerciali fra Regno Unito e Unione Europea, queste saranno ridefinite in un periodo di negoziazione della durata di minimo due anni, secondo le regolamentazioni dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona. Se quindi da un lato per i concittadini residenti in Regno Unito non dovrebbero esserci stravolgimenti immediati, sicuramente in campo comunitario Bruxelles non sarà molto propensa ad adottare un approccio particolarmente conciliatorio con Londra.
Lo stesso Presidente della Commissione Europea, Juncker, aveva già affermato che, in caso di Brexit, non si sarebbero fatte ulteriori concessioni al Regno Unito aldilà della “special membership” accordata in un summit di tre giorni in febbraio al premier David Cameron. L’accesso al mercato comune europeo, a differenza di quanto affermato da numerosi esponenti della campagna per il “leave”, dovrà necessariamente essere correlato ad una libera circolazione delle persone, di conseguenza andando a minare uno dei punti su cui tanto hanno insistito gli egli euroscettici: l’immigrazione.
E se comunque la possibilità di vedere Londra al difuori del mercato comune sia relativamente bassa, si è comunque parlato di un piano B: un ricorso più attivo al Commonwealth delle Nazioni sembra essere la scelta principe, la cui praticabilità però, appare ben lontana da una reale realizzazione (la stessa India, forse il membro più importante ad oggi del Commonwealth, aveva fatto sapere che avrebbe visto di buon occhio il Regno Unito all’interno dell’Unione Europea), in quanto Londra, da questo referendum, non può che uscire ridimensionata dal punto di vista sia politico che economico.
Crogiolandosi in uno splendido isolazionismo che solo il futuro sa dirci dove potrà portarla, la Gran Bretagna avvierà a breve i negoziati per l’uscita dall’Unione Europea.
Sono convinto che oggi più che mai i restanti ventisette paesi membri debbano ancorarsi saldamente alle radici dell’Unione Europea. Cerchiamo di non perdere quel minimo di buonsenso che ci rimane e non precipitare in degli scenari fin troppo simili a quelli che la generazione precedente ha dovuto provare sulla propria pelle durante il secolo scorso. Per quanto riguarda l’oggi i mercati sono già instabili, l’ambiente politico a dir poco bollente, ma il Brexit è solo appena cominciato.
* Studente Department of War Studies – King’s College London
I nostri problemi, le nostre paure, le nostre responsabilità…
L’editoriale domenicale di Eugenio Scalfari. Non c’è bisogno di condividerlo tutto. Ma in grande misura esprime il nostro stato d’animo e la speranza di uscire dall’attuale situazione con prospettive di vita per le generazioni presenti e future.
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La Francia, l’Italia, l’Europa e la grazia di Francesco
E’ l’Europa l’obiettivo prescelto dal Califfato. E con essa la civiltà occidentale, le sue religioni, la sua economia, i comportamenti delle persone comuni e delle loro classi dirigenti. La Francia ha assunto il ruolo di guida del continente. E il governo italiano in tutto questo? Che cosa gli sarà proposto da Hollande? E Renzi a sua volta che cosa gli proporrà?
di Eugenio Scalfari, su La Repubblica on line di domenica 22 novembre 2015.
In questi giorni terremotati tutti ci poniamo molte domande: perché accadono fatti così orribili, eccidi di innocenti, decapitazioni trasmesse in televisione, paura della gente, servizi segreti mobilitati, bombardamenti a tappeto, sorveglianze inutilmente rafforzate, in Europa, in Belgio, in Iraq, in Siria, in Turchia, in Egitto, in Libano, nel Mali, in Bangladesh, in mezzo mondo, con previsioni di altrettanti orrori nell’Italia del Giubileo?
Anche io sono profondamente colpito e preoccupato, ma non sorpreso e la ragione è questa: so da tempo che la storia dell’umanità da quando esiste è dominata dal potere e dalla guerra. L’amore e la pace sono due sentimenti alternativi che di tanto in tanto interrompono i primi due, ma sono interruzioni brevi, pause di riposo presto travolte. Dentro molti di noi l’amore e la pace sono sentimenti permanenti, ma il potere e la guerra hanno sempre la meglio dovunque, in qualsiasi epoca, in qualunque paese e in qualsiasi tempo. E il motivo è semplice: noi, a differenza di altri essere viventi, abbiamo un Io.
E quell’Io non appena ci nasce dentro ha bisogno assoluto di avere un suo territorio, conquistarselo, difenderlo, ampliarlo. Ha bisogno di emergere a tutti i livelli sociali e cerca di farlo come può, che sia povero o ricco, di pelle nera o bianca o mulatta, uomo o donna.
Anche gli animali per soddisfare i loro bisogni primari devono combattere per conquistare la preda, preda anch’essi di altri animali. Potere e guerra sono anche per loro istinti dominanti, ma non ne sono consapevoli. Noi sì, noi siamo Io in ogni istante della nostra esistenza ed è quello il motore che ci anima e determina il nostro destino. Il Fato. Ricordate? Gli dei olimpici della cultura greca avevano la meglio non soltanto sugli uomini ma perfino su altri dei. Zeus sapeva di dover rispettare il Fato che era molto più di un dio: era la legge che domina il Cosmo e quindi potere e guerra, la legge di natura è quella. L’antidoto non è l’amore e la pace che come ho già detto sono intervalli brevi, pause di riposo; ma è la libertà, la libertà consapevole. E la bellezza, non come ideale romantico ma lirico e profondamente evocativo: la musica, la danza, la conoscenza.
Libertà e bellezza, questi sono i valori, dove l’Io non viene affatto spento ma anzi potenziato e allontanato dalla ricerca del potere, riscattato dalla turpitudine della guerra e guidato verso quell’oltreuomo che nello Zarathustra di Nietzsche è l’ultimo e più eccelso livello che la nostra specie può raggiungere e che dovrebbe mettere insieme tutti gli uomini di buona volontà.
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L’Europa è oggi l’obiettivo del terrorismo guidato dall’Is che d’ora in poi chiameremo Califfato. Noi siamo soltanto il suo bersaglio, attaccano dovunque possono, ma è l’Europa il terreno prescelto e con essa gli Stati Uniti d’America. Insomma l’Occidente, la civiltà occidentale in tutte le modalità che quella civiltà esprime, nelle sue religioni, nella sua economia, nei comportamenti delle persone comuni e delle loro classi dirigenti.
Il Califfato è a sua volta una classe dirigente composta da poche persone, non più di un centinaio, in gran parte provenienti dall’esercito iracheno di Saddam Hussein, dai muezzin afghani, dai talebani indottrinati da Bin Laden e da Al Qaeda; arabi soprattutto ma anche pachistani e sauditi.
Bin Laden, a quanto si sa, era profondamente religioso ma i dirigenti che compongono il Califfato non lo sono affatto anche se fanno finta di esserlo. Le cellule che il Califfato dirige hanno forse una vernice di religiosità fondamentalista. Il loro grido di guerra è ” Allah Akbar” e molti di loro arrivano fino al punto di farsi esplodere sognando un Aldilà dove le vergini li aspettano come premio. Ma la gran parte di quei terroristi disseminati in Europa non hanno alcuna vocazione religiosa. Sono i giovani delle periferie, la seconda o terza generazione delle banlieue che non hanno potuto o non hanno voluto integrarsi con la società con cui vivono. Alcuni hanno studiato, altri no, ma tutti si sentono defraudati, molti ricorrono alla droga e/o all’avventura, alla rabbia, alle armi e più sono questi i loro modi di sopravvivenza, più l’esclusione aumenta, più la polizia diventa il loro nemico, più è facile reclutarli per i messaggeri del Califfato.
Le banlieue sono il terreno di coltura dei terroristi e l’Io gioca qui la sua più segreta e perversa partita. L’Io degli esclusi reclama una sua soddisfazione, un suo territorio psicologico, la speranza di non aver paura ma di incuterla negli altri. Che gli altri siano cristiani o atei o islamici, ma integrati e non esclusi: questi sono i loro bersagli. Bersagli anonimi, non li conoscono ma sono comunque altri e diversi da loro e quindi da uccidere. Per diffondere la paura e soddisfare così il loro orribile Io.
Questa è la guerra in corso: terrore e paura sono gli obiettivi delle cellule che obbediscono al Califfato la cui classe dirigente è posizionata nel triangolo che include le zone confinarie tra Siria, Turchia e Iraq, con un distaccamento libico-tunisino che fronteggia direttamente l’Europa mediterranea.
Il Califfato ha i suoi soldati, sono qualche migliaio e bene armati. Il Califfato è ricco, ha petrolio, ha l’appoggio di uomini di affari degli Emirati e finanziamenti mascherati ma evidenti che garantiscono la tranquillità saudita e degli Emirati.
A guardar bene anche l’Io del Califfo e dei suoi compagni è assai sviluppato, vuole potere, ricchezza, piaceri. Deriva da Al Qaeda ma è tutt’altra cosa rispetto a Bin Laden. Crudele quanto lui e più di lui, ma estremamente più sofisticato. Non è escluso che divenga un vero e proprio Stato arabo sunnita. In fondo Ibn Saud cominciò così la sua carriera e trasformò una tribù in un Regno tra i più potenti del Medio Oriente. La sua famiglia conta ormai circa trecento persone, possiede molte banche, imprese, alleanze d’affari in tutto l’Occidente, in Francia, in Inghilterra, in Italia, in America, in Germania, ovunque. Detesta gli sciiti ma si distingue anche dai sunniti. Tra i capi del Califfato è un esempio da imitare e magari da conquistare. Senza sangue, possibilmente. Il sangue scorre altrove.
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Poiché la Francia è il principale terreno di battaglia del Califfato e delle sue migliaia di cellule europee, quella Nazione, oltre a contare il maggior numero di vittime innocenti, ha assunto la guida dell’Europa. Il presidente Hollande ha capito subito che, purtroppo per i francesi, il ruolo di leader dell’Europa era l’aspetto politicamente ed anche economicamente positivo e lui ha dimostrato di saperlo perfettamente assolvere, a partire dai simboli fino alla concreta azione politica.
Strage di Parigi, Hollande e Valls cantano la Marsigliese alla Sorbona
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Tra i simboli ce n’è uno che personalmente mi commuove non da ora ma da sempre, ogni volta che mi accade di ascoltarla: la Marsigliese, inno nazionale finora, ma europeo ai tempi delle guerre contro le monarchie assolute d’Europa, quando la grande Rivoluzione guidata dai girondini e da D’Anton arrestò l’invasione dei monarchi europei e l’esercito repubblicano guidato da Kellerman vinse la battaglia di Valmy.
Ogni volta che in Francia c’è un attentato il popolo si raduna nelle piazze e intona la Marsigliese mentre contemporaneamente la canta l’Assemblea nazionale. Così avvenne dopo l’attentato a Charlie Hebdo ma ora è cantata dai giocatori di calcio prima dell’inizio delle partite in molti paesi europei, è stata intonata a Londra alla Camera dei Comuni nel salone di Westminster, in Italia in una sorta di plenum delle Camere, insomma si è trasformato in un inno europeo in luogo dell’Inno alla Gioia della sinfonia beethoveniana.
Ma accanto al simbolo – del quale tuttavia sarebbe sbagliato trascurare l’importanza – c’è la politica vera e propria. Hollande aveva già deciso di affiancarsi agli Usa bombardando per un paio di volte Raqqa, scelta dal Califfato come propria capitale. Ma dopo gli attentati recenti a Parigi dei terroristi provenienti dal Belgio, i bombardamenti con Raqqa si sono moltiplicati e ancor più lo saranno quando la portaerei francese che è già partita da Tolone incrocerà nel Mediterraneo orientale i bombardamenti diverranno perciò continui.
Questo per quanto riguarda la guerra guerreggiata, ma poi c’è la politica vera e propria. Il primo intervento di Hollande è stato di appellarsi al Trattato di Lisbona che prevede la collaborazione di tutti gli Stati membri dell’Unione europea. I ventotto paesi hanno approvato all’unanimità ciò che il Trattato dispone: una collaborazione tra tutti i firmatari di quel trattato senza però indicarne né la procedura esecutiva né i vari ruoli di ogni Paese. Hollande avrebbe potuto appellarsi all’articolo 5 della Nato che prevede la collaborazione immediata con quel Paese che abbia subito una grave aggressione, ma non l’ha fatto perché la Nato ha un suo proprio comitato di cui la Francia ovviamente fa parte ma non ne è il capo.
Hollande ha anche previsto che, sulla base del Trattato di Lisbona, consulterà gli Stati membri dell’Ue bilateralmente, per stabilire con ciascuno di essi il tipo di collaborazione che la Francia gli chiede. Tale consultazione avrà inizio ai primi del prossimo dicembre.
Nel frattempo la Francia avrà incontri con Obama e soprattutto con Putin per considerare i comuni interventi contro il Califfato.
Nel frattempo c’è stato l’attentato compiuto in un grande albergo nella capitale del Mali, un paese ex colonia dell’impero francese dove Parigi ha dislocato da tempo 37 mila soldati che sono intervenuti con alcuni corpi specializzati insieme ad analoghe forze del Mali e a un reparto di militari americani. Il blitz è stato condotto a termine dopo ventiquattr’ore di aspra battaglia, gli attentatori hanno ucciso e sono stati a loro volta uccisi.
E il governo italiano in tutto questo? Che cosa gli sarà proposto da Hollande? E Renzi a sua volta che cosa gli proporrà? Che cosa ha in mente il nostro presidente del Consiglio, leader del più importante partito italiano e capo della maggioranza parlamentare, che ormai governa e comanda da solo, come del resto avviene da tempo in tutti i Paesi d’Europa e di Occidente?
La risposta a questa domanda è abbastanza facile perché è già stata anticipata dal nostro ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, dal ministro della Difesa e dallo stesso Renzi: appoggeranno la Francia in tutto ciò che è possibile, ma non hanno alcuna intenzione di compiere interventi militari né con aerei né con truppe di terra.
È giusta questa posizione? Personalmente credo di sì, ma quello che non si vede è in che cosa può consistere la collaborazione con la Francia. Forse con risorse economiche? Non ci verranno chieste e comunque non ne abbiamo. Di fatto avremo una posizione neutrale. Con quali contraccolpi? Un Paese neutrale non avrà alcun peso sulla politica e sull’economia europea.
Se è lecito dare un suggerimento, Renzi dovrebbe riservarsi un ruolo in Libia. Non per partecipare alla guerra contro il distaccamento dei seguaci del Califfato né alla guerra tra il governo e le tribù di Bengasi e Tobruk contro il governo di Tripoli, ma per allestire campi di accoglienza dei migranti che provengono dai Paesi subsahariani, in fuga verso le coste mediterranee e in particolare verso l’Italia.
Campi d’accoglienza che li trattengano in Libia in modo decente e confortevole, ne controllino l’identità e la provenienza, esaminino le loro eventuali richieste di asilo politico e li aiutino a partire verso l’Europa su navi italiane e di altri Paesi europei o ne favoriscano il rientro opportunamente negoziato con i loro Paesi di origine.
È un ruolo molto importante che richiede non solo risorse economiche e competenze diplomatiche ma anche di truppe, navi da guerra e aerei di ispezione affinché quei campi d’accoglienza siano opportunamente difesi da tribù e/o da terroristi presenti in quelle zone. L’Egitto dovrebbe appoggiare questo ” sistema” e sarebbe anche suo interesse farlo. Ancor più evidente sarebbe l’interesse francese. Hollande guida ormai l’Ue nel tandem con la Germania, regredita ormai in un ruolo minore rispetto al tradizionale tandem franco-tedesco. Col tempo forse la situazione cambierà, ma oggi è questa ed è la Marsigliese che predomina in Europa.
Ho già scritto più volte che l’esplosione di terrorismo dovrebbe affrettare l’avvio verso gli Stati Uniti d’Europa, ma si tratta comunque di un percorso che richiede a dir poco un decennio purché cominci subito. E il modo per farlo cominciare subito è la cessione immediata di sovranità dei Paesi europei, almeno quelli dell’Eurozona, della politica estera e di quella militare alle Istituzioni europee. Hollande sarebbe contrario, ma la Merkel? Non sarebbe proprio questo il modo per riconquistare la posizione prioritaria nell’Ue o almeno nell’Eurozona?
Ma Renzi, il nostro Renzi, sarebbe d’accordo e si batterebbe affinché questa cessione di sovranità avvenisse? Acquisterebbe un ruolo essenziale in Europa, ma lo capirà? Temo proprio di no, ma spero d’essere smentito. Se è politicamente intelligente dovrebbe accollarsi questi due ruoli, in Libia e in Europa. Spero di non essere il solo a suggerire questa posizione.
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C’è infine un altro personaggio che è fondamentale per superare questa tragica situazione: papa Francesco. Non c’è mai stato un Papa come lui. Dico di più: un Pastore, un Profeta, un rivoluzionario: in nome della sua fede e in circa due miliardi di cristiani che abitano il pianeta, dislocati in quasi tutti i continenti.
Francesco si appella al Dio unico. Tutte le religioni monoteistiche si debbono affratellare in nome dell’unico Dio che non è e non può essere un Dio vendicativo ma è un Dio misericordioso e come tale va adorato dai credenti di quelle religioni a cominciare ovviamente dai cristiani, dai musulmani, dagli ebrei.
Il Corano parla di ” morte degli infedeli” e offre ai fondamentalisti un pretesto per coprire le loro azioni delittuose con alcuni passi coranici. Ma dimenticano che il loro profeta Maometto, costruttore della religione islamica, mise come primo punto di riferimento Abramo. Al vertice dell’islam c’è dunque Abramo che ascoltò dalla voce del Signore l’ordine di sacrificare suo figlio Isacco. Quell’ordine sconvolse il cuore di Abramo nel profondo, ma la sua fede lo costrinse all’obbedienza: portò il figlio con sé su una collina e lì, guardando il cielo sopra di lui, estrasse dalle sue vesti un coltello per uccidere il figlio come gli era stato ordinato da Dio. Ma a quel punto la voce di Dio lo fermò: “Volevo vedere la forza della tua fede, ma io voglio che Isacco viva felice, come me e con te. Accarezzalo, educalo, e tutti e due sarete da me amati e illuminati”.
Questo è il Dio di Abramo e di Isacco ed è un Dio misericordioso. Perciò sono blasfemi e condannevoli i terroristi del Califfato che invocano Allah e nel suo nome uccidono centinaia di Isacco, figlio di Abramo e amato da Allah Akbar. L’unico Dio, che gli ebrei chiamano Jahvé o Elohim e i cristiani chiamano Padre. Questo predica Francesco e questo è il tema del Giubileo della misericordia. La sua parola, in un momento come questo, è diretta soprattutto agli islamici affinché riconoscano il loro Dio misericordioso che è il medesimo che tutte le religioni monoteistiche dovrebbero venerare.
Spero che Francesco riesca ad affratellarle in un unico slancio di misericordia alla quale anche i non credenti si associano.
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Pubblichiamo l’intervento di Salvatore Usala al Convegno “La domotica per professionisti in sanità che incontrano i cittadini” tenutosi oggi (20 novembre) a Cagliari. Il Convegno oltre che fornire una panoramica aggiornata dei dispositivi tecnologici riassumibili nella disciplina della domotica, utile per migliorare la qualità della vita di tutti e, stante il focus del Convegno, la qualità della vita delle persone con gravi disabilità, ha costituito un’occasione per ribadire la bontà del “modello Sardegna” che assicura l’assistenza socio-sanitaria, a elevati standard qualitativi attraverso oltre 38 mila piani di sostegno personalizzati, con una ricaduta di 15mila posti di lavoro in tutto il territorio isolano. “Salvate il modello Sardegna!” è stato pertanto il grido di dolore levatosi dal Convegno, che nell’intervento di Salvatore Usala ha trovato una chiara quanto radicale rappresentazione. Il leader dei movimenti per i diritti delle persone con gravi disabilità “16 novembre” e “Viva la Vita Sardegna” ha annunciato a partire dal 24 novembre prossimo un presidio permanente in viale Trento 69, davanti alla Presidenza della Giunta regionale, considerata la prima controparte della rivendicazione della salvaguardia dei diritti dei malati. Torneremo presto sulle questioni oggetto dell’importante Convegno.
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Diritti dei malati con gravi disabilità.
Salvate il modello Sardegna!
IL MODELLO SARDEGNA
di Salvatore Usala
Farò un intervento brevissimo, perché ho problemi agli occhi, ma tottu succiu!
Il Modello Sardegna è l’unico in Italia che è in linea con la convenzione ONU, ovvero consente la libera scelta dell’assistenza. Siamo di fronte ad un sistema virtuoso, invidiato da tutte le regioni, purtroppo questa Giunta vuole demolirlo, dicendo che vuole ristrutturarlo. La verità è che vogliono tagliare, sono solo ragionieri, non pensano al benessere delle persone. Non considerano che l’incremento dei numeri è un investimento che porta risparmi più che doppi per la sanità. Una sanità che sperpera tanto denaro pubblico con: balzelli, appalti, full service, bustarelle, corruzioni, tanti baroni e così via, ho tante prove documentali. Da anni propongo un progetto concreto che produrrebbe una miglior qualità dell’assistenza delle persone in area critica, e produrrebbe 4 milioni di risparmi per 170 utenti. Il progetto prevede tutto: costi, profili, mansioni, benefici, obbiettivi e finalità. Il tutto scritto in modo semplice e comprensibile da tutti. L’assessore Arru ha condiviso il progetto, infatti a gennaio ha fatto una delibera per un corso formativo di 90 ore, peccato che l’assessorato al lavoro ci abbia messo 10 mesi per fare un bando incompleto di programma, bando per le agenzie certificate e criteri di selezione. Se ne riparlerà fra 7-8 mesi. Dopo dure lotte Luigi Arru ha proposto una sperimentazione protetta da effettuare nell’ASL 8, che partisse a metà novembre, con la garanzia del presidente Pigliaru. Speravo fosse la volta buona, sbagliavo. Tre giorni fa hanno approvato una delibera che non dice nulla. Non prevede costi, compiti, responsabilità, in buona sostanza una delega in bianco per il progetto ASL 8 allegato. Cosa dice il progetto ASL 8? Tutto e niente! Volutamente scritto in burocratese e politichese, chiede disponibilità di caregiver e assistenti ma non definisce i costi. Non definisce data di inizio e fine dei tre mesi della fantomatica sperimentazione. Non elenca le mansioni peculiari degli infermieri della rianimazione. Il compito degli infermieri in appalto è segreto. In parole povere tre mesi indefiniti per poi dire: Signori, la sicurezza sanitaria non è garantita, non si fa nulla. Ma la ASL 8 sa che caregiver, assistenti e famiglia fanno tutto in autonomia per almeno 20 ore su 24? Chi fa aspirazioni, medicazioni degli stoma, sostituzione ventilatore polmonare, ma sopratutto eventuali tappi viscosi in trachea con ventilazione ambu? Perchè la ASL 8 non chiede alle rianimazioni quante chiamate in emergenza si fanno da parte delle persone in aerea critica? Ma tutti questi tifosi della sicurezza sanitaria dove erano nel 2006 quando Nerina Dirindin istituiva il “Ritornare a Casa”, portando da strutture protetta al domicilio con 4-5 ore di infermieri? La verità è che nelle ASL c’è chi specula, chi prende bustarelle, chi ha potere gestendo l’area critica. Sopratutto temono che l’assistenza indiretta prenda corpo togliendo il giocattolo dalle mani scellerate di certi burocrati. La realtà è che l’ex Assessore Nerina Dirindin ha rischiato tanto ed ha avuto ragione, Arru deve avere il coraggio politico di decidere. Per me la sperimentazione è chiusa prima di iniziare, deve essere una decisione politica che riguarda tutta la Sardegna. Arru deve fare una delibera condivisa che segua fedelmente il mio progetto, le ASL devono solo applicare, senza discutere. L’alternativa è applicare il DGR 10/43 del 2009 che prevede 24 ore su 24 la presenza di un infermiere, con un costo di 300.000 euro l’anno per malato, totale 50 milioni per 170 persone, invece che risparmiare 4 milioni. Per tutti questi motivi il 24/11/2015 saremo in presidio permanente in viale Trento 69, davanti alla Presidenza.
SCUSATE IL DISTURBO! A SI BIRI
Rischiamo di diventare una democrazia che interessa un 30-40 per cento del paese
Riflessioni In Italia abbiamo un piacione e ci vuole innamorare
di EUGENIO SCALFARI, su La Repubblica on line di domenica 4 ottobre 2015
Per me è molto noioso dovermi occupare ancora di Renzi ma chi esercita la professione di giornalista ha l’obbligo di capire e raccontare quel che fanno i protagonisti delle vicende politiche. Renzi è tra questi e se c’è un uomo politico che desidera comparire ogni giorno sui media d’ogni colore, questo è lui e non certo Romano Prodi da lui accusato di commettere abitualmente questo peccato. Nel merito Renzi attribuisce a Prodi una posizione che giudica totalmente sbagliata a proposito della guerra in Siria. Il tema è tra i principali e più drammatici di questo agitato periodo: guerre tribali, delitti orribili del Califfato, stragi effettuate da Assad e prima di lui da suo padre, incertezze dell’America e dell’Europa, spregiudicatezza estrema della Russia di Putin e dell’Iran e un intrico in tutto il Medio Oriente, descritto da Bernardo Valli ieri su questo giornale.
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