Risultato della ricerca: reddito di cittadinanza Gianfranco Sabattini
È morto Domenico De Masi
Oggi 9 settembre è morto a Roma Domenico De Masi. Aveva 85 anni. Sociologo di fama internazionale, era molto conosciuto e apprezzato, anche in Sardegna, dove aveva insegnato all’Universita’ di Sassari e dove spesso veniva per occasioni di convegni, soprattutto a Cagliari.
Di lui fa un “ricordo” Franco Meloni, che lo ha incontrato diverse volte a Roma e a Cagliari.
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Mi rattrista molto la morte di Domenico De Masi, sociologo di rilievo internazionale, lucido intellettuale, sempre aperto all’innovazione e capace di una formidabile produzione di pensiero, che lui metteva, come si diceva un tempo, “al servizio dei lavoratori e delle masse popolari”. Dotato di uno spiccato senso dell’ironia, molto napoletano, facile alla battuta fulminante, aveva poi il gusto della provocazione, solo apparentemente innocente e non sempre capita dall’interlocutore.
A proposito di Reddito di Cittadinanza.
Con riferimento alle esternazioni di Beppe Grillo sul Reddito di Cittadinanza come reddito universale.
A prescindere dalla strumentalità del momento politico, sulla questione del reddito universale incondizionato (o come altri lo chiamano dividendo sociale o altro), questa volta sono d’accordo con Grillo. E penso di essere con lui in buona compagnia. Per esempio con alcuni grandi economisti del passato, keynes tra tutti, e, più di recente, altri grandi, tra cui il premio Nobel James Meade. L’argomento è stato approfondito dal compianto economista cagliaritano Gianfranco Sabattini. Dei suoi studi ha spesso estratto articoli di carattere divulgativo ospitati anche da Aladinpensiero online. Anche Papa Francesco in una sua lettera al Movimento per la Terra ne aveva parlato come di una necessità, anche se nelle sue encicliche di esprime perché sia il Lavoro degno e per tutti l’obbiettivo prioritario. Ma senza dubbio la discussione è aperta e non dobbiamo certo inseguire in materia la destra, tra l’altro la peggiore, quella che comunque se la prende con i poveri. Perfino il Fondo monetario internazionale invita ad approfondire l’argomento in direzione innovativa (fm).
———-In argomento———
“Tra le cose più insopportabili di questi mesi c’è l’atteggiamento incredibilmente offensivo e aristocratico anche di chi si definisce progressista che imputa al reddito di cittadinanza la responsabilità di lasciare le persone a poltrire a casa”. A dirlo è Gianni Cuperlo alla presentazione del libro di Antonio Bassolino a Napoli. Cuperlo quindi specifica che le persone accusate di poltrire “non vanno più a lavorare sfruttati nelle attività stagionali”. E sottolinea: “Ci sono nuove forme di schiavitù che albergano non solo nelle campagne del sud”.
Concordiamo.
Oggi venerdì 6 agosto 2021
——————-Opinioni, Commenti e Riflessioni————————
Moralità del welfare e reddito di cittadinanza
6 Agosto 2021
25 Ottobre 2008
Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi.
Laura Pennacchi, già sottosegretario al Tesoro nel governo Ciampi, ha pubblicato di recente un volume (La moralità del welfare. Contro il neoliberismo populista, 2008) su un tema che costituisce da tempo oggetto della sua riflessione. Le sue prese di posizione contro chi vorrebbe screditare, da posizioni neoliberiste, il […]
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È morto Gianfranco Sabattini
Apprendiamo in questo momento la tristissima notizia della morte di Gianfranco Sabattini, illustre professore dell’Università di Cagliari e nostro stimato e pregevole collaboratore. Lo ricorderemo da subito e nel tempo che viene, come degnamente merita, in raccordo con le altre due testate online Democraziaoggi e il manifesto sardo, per le quali assiduamente scriveva. Ecco di seguito il comunicato che ci ha fatto pervenire il nostro comune amico Mariano Mariani.
[COMUNICATO STAMPA] Si è spento stanotte il prof. Gianfranco SABATTINI (Comacchio, 01/06/1935). Gianfranco Sabattini è stato per lungo tempo docente e titolare della cattedra di Politica economica presso la Facoltà di Economia dell’Università degli Studi di Cagliari. Autore di numerose pubblicazioni su temi di carattere generale e sui problemi della crescita e dello sviluppo del Mezzogiorno e della Sardegna. [segue]
Reddito di cittadinanza incondizionato e universale. Giusto! E le risorse? Ecco dove trovarle.
Il reddito di cittadinanza (o dividendo sociale) incondizionato e universale convince e conquista molti, dappertutto, ma più all’Estero che in Italia. E le risorse? Quelle che mancando lo rendono una irrealizzabile utopia? E, invece, ci sono eccome! Vero è che quanti dovrebbero metterle a disposizione (con minimi sacrifici) cioè soprattutto i ricchi del mondo, non sono disponibili. La novità del contributo-saggio del gesuita-economista Gaël Giraud sta nel fatto che indica chiaramente dove trovare i soldi: nei “frutti” dei “beni comuni” unito al prelievo fiscale sui grandi (enormi) profitti dei ricchi del mondo, con particolare intervento sui “paradisi fiscali”. È d’obbligo il richiamo alla necessità di Organismi internazionali di garanzia anche con riferimento al “demanio della Terra” e alla fiscalità internazionale, con la costituzione di appositi Fondi (seguendo le indicazioni di Thomas Piketty e di Anthony Atkinson), come esposti con efficace sintesi nella piattaforma programmatica del movimento “Costituente della Terra”. L’utilizzo dei “beni comuni” per ricavarne un fondo che possa sostenere “i poveri del mondo”, attraverso opportune ridistribuzioni (reddito minimo universale) è una tesi sostenuta dal nostro amico economista sardo Gianfranco Sabattini, il quale unisce a tale fonte di risorse quella che deriverebbe dalla ristrutturazione del welfare state [cfr. articolo di G. Sabattini su aladinpensiero del 3/11/2017]. Prendiamo atto di un approfondito dibattito che esce dall’ambito accademico per diventare (in certa parte) progetto/i politico/i. (Franco Meloni)
Le tre testate online Democraziaoggi, il Manifesto sardo e Aladinpensiero diffondono il saggio di Gaël Giraud (per stralci, rinviando al sito de La Civiltà cattolica per una lettura integrale), segnalandolo come materiale prezioso per il grande dibattito su “lavoro, reddito di esistenza e dintorni” nel quale sono impegnate con la pubblicazione di qualificati contributi e con l’organizzazione di apposita convegnistica [undicesimo articolo condiviso]. L’articolo con la premessa di Franco Meloni è pubblicato (per stralci) anche dalla rivista online Giornalia. *****Editoriale su Aladinpensiero online*****.
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Reddito di cittadinanza incondizionato e universale. Giusto! E le risorse? Ecco dove trovarle.
Il reddito di cittadinanza (o dividendo sociale) incondizionato e universale convince e conquista molti, dappertutto, ma più all’Estero che in Italia. E le risorse? Quelle che mancando lo rendono una irrealizzabile utopia? E, invece, ci sono eccome! Vero è che quanti dovrebbero metterle a disposizione (con minimi sacrifici) cioè soprattutto i ricchi del mondo, non sono disponibili. La novità del contributo-saggio del gesuita-economista Gaël Giraud sta nel fatto che indica chiaramente dove trovare i soldi: nei “frutti” dei “beni comuni” unito al prelievo fiscale sui grandi (enormi) profitti dei ricchi del mondo, con particolare intervento sui “paradisi fiscali”. È d’obbligo il richiamo alla necessità di Organismi internazionali di garanzia anche con riferimento al “demanio della Terra” e alla fiscalità internazionale, con la costituzione di appositi Fondi (seguendo le indicazioni di Thomas Piketty e di Anthony Atkinson), come esposti con efficace sintesi nella piattaforma programmatica del movimento “Costituente della Terra”. L’utilizzo dei “beni comuni” per ricavarne un fondo che possa sostenere “i poveri del mondo”, attraverso opportune ridistribuzioni (reddito minimo universale) è una tesi sostenuta dal nostro amico economista sardo Gianfranco Sabattini, il quale unisce a tale fonte di risorse quella che deriverebbe dalla ristrutturazione del welfare state [cfr. articolo di G. Sabattini su aladinpensiero del 3/11/2017]. Prendiamo atto di un approfondito dibattito che esce dall’ambito accademico per diventare (in certa parte) progetto/i politico/i. (Franco Meloni)
Le tre testate online Democraziaoggi, il Manifesto sardo e Aladinpensiero diffondono (per stralci) il saggio di Gaël Giraud, segnalandolo come materiale prezioso per il grande dibattito su “lavoro, reddito di esistenza e dintorni” nel quale sono impegnate con la pubblicazione di qualificati contributi e con l’organizzazione di apposita convegnistica [undicesimo articolo condiviso]. L’articolo con la premessa di Franco Meloni è pubblicato sempre per stralci anche dalla rivista online Giornalia, mentre l’articolo integrale è disponibile sul sito web de La Civiltà Cattolica.
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UNA «RETRIBUZIONE UNIVERSALE»
Un urgente discernimento collettivo
Gaël Giraud. Chi volesse leggere l’articolo integrale potrà consultare direttamente il sito web de La Civiltà Cattolica, Quaderno 4079 pag. 429 – 442 Anno 2020 Volume II – 6 Giugno 2020.
Nella sua Lettera ai movimenti popolari, pubblicata nel giorno di Pasqua, il 12 aprile 2020, papa Francesco ha chiesto l’istituzione di una «retribuzione universale» di base [omissis] [1].
La proposta non ha mancato di suscitare reazioni, sia entusiaste sia critiche. Queste sue affermazioni significano forse che il Santo Padre abbraccia la causa di un reddito universale, versato a tutti, senza condizioni? O egli intende difendere il principio del giusto salario per tutti i lavoratori? E poi, se davvero si sta parlando di un reddito universale senza condizioni, in che modo un’attenzione autenticamente evangelica ci può orientare per valutare bene le condizioni pratiche di una sua attuazione? Oppure si tratta semplicemente di un’utopia irrealizzabile?
[omissis]
Salario minimo o reddito universale?
È dentro l’orizzonte di questa domanda spirituale e politica che s’inserisce la proposta di una «retribuzione universale». Si tratta di un salario minimo riservato a coloro che hanno un lavoro, o di un reddito universale destinato a tutti, senza condizioni?
Per gli economisti esperti in queste distinzioni, la formulazione del Papa è ambigua. Ad esempio, agli occhi di un sindacalista francese come Joseph Thouvenel, segretario della Confederazione francese dei lavoratori cristiani, le osservazioni di Francesco non possono essere interpretate come un alibi per coloro che «oziano»[8], ma possono essere solo un’allusione alla teoria del «giusto salario», formalizzata da Tommaso d’Aquino e poi ripresa da Leone XIII nell’enciclica Rerum novarum (1891). [omissis]
Diversi economisti, tra cui Thomas Palley[9], propongono di imporre un salario minimo, pari al 50% del salario mediano di tutti i Paesi del Pianeta. In Italia, ciò equivarrebbe a fissare uno stipendio mensile minimo di circa 1.860 euro (anziché i 500 attuali): un quarto della forza lavoro italiana attualmente riceve uno stipendio inferiore a tale importo, e questa quota rischia di aumentare nei prossimi anni. Contrariamente a quanto di solito si afferma, questo non causerebbe un’esplosione della disoccupazione[10], porterebbe ad aumenti abbastanza piccoli dei costi di produzione[11] e, d’altra parte, cambierebbe la vita a molti «lavoratori poveri», anche in Germania.
Tuttavia l’elenco dei beneficiari della «retribuzione universale» alla quale allude papa Francesco va oltre la categoria dei salariati stricto sensu: «venditori ambulanti, raccoglitori, giostrai, piccoli contadini, muratori, sarti, quanti svolgono diversi compiti assistenziali […], lavoratori precari, indipendenti, del settore informale o dell’economia popolare, non avete uno stipendio stabile per resistere a questo momento»[12]. Le varie traduzioni della Lettera pontificia fanno pensare che il termine «salario» non possa essere interpretato rigorosamente: salaire, salarios, salário e wage, ma anche Grundeinkommen e retribuzione. Coloro che devono uscire dall’invisibilità sono anche i «malati e [gli] anziani. Non compaiono mai nei mass media, al pari dei contadini e dei piccoli agricoltori che continuano a coltivare la terra per produrre cibo senza distruggere la natura, senza accaparrarsene i frutti o speculare sui bisogni vitali della gente»[13].
A chi si rivolge, dunque, la proposta del Papa? A tutti i «lavoratori». Una casalinga, per esempio, i cui servizi, dal momento che non sono sul mercato, non vengono mai presi in considerazione nel calcolo del Pil, fornisce una prestazione «lavorativa»? Chi sono questi «lavoratori», se non vengono riconosciuti da uno status che li qualifichi come tali? È proprio in questa loro invisibilità che sta il problema che Francesco vuole risolvere. Crediamo che la risposta si trovi negli stessi «invisibili». [omissis]
Dopotutto, i dibattiti che ruotano attorno alla definizione di un salario minimo o di un reddito universale sono prevalentemente condotti da coloro che appartengono al centro della società. È senza dubbio il momento di dare voce ai senza voce, in modo che essi stessi possano aiutare a decidere quale significato dovrebbe essere dato a una «retribuzione universale», piuttosto che subire ancora la violenza delle definizioni e degli standard imposti dal centro.
È questa inversione di prospettiva – dal centro alla periferia – che guida, per esempio, il movimento ATD-Quarto mondo e il pensiero di padre Joseph Wresinski[16]. Questo cambiamento di prospettiva non è estraneo all’approccio di alcuni economisti. Esso sta alla base, per esempio, della costruzione di indicatori statistici su base partecipativa, come il Barometro delle disuguaglianze e povertà (BIP 40), realizzato in Francia nel 2002 da e con comuni cittadini[17].
Utopia o riforma profetica?
È quindi giustificato che il Movimento francese per un reddito di base concluda cautamente che il Papa «si sta avvicinando alla causa del reddito universale»[18]. A patto di comprendere che, se «si avvicina» a esso e basta, non è per timidezza, ma è perché sta prima di tutto alle stesse persone senza voce decidere ciò che vogliono per loro. Il rispetto della dignità delle persone deve spingersi fino a tal punto.
Tuttavia, l’interpretazione che proponiamo qui implica che sia possibile che la «retribuzione universale» a cui allude Francesco sia intesa come «reddito universale» nel senso comune, qualora gli invisibili delle nostre periferie decidessero così.
Sono cinque i criteri usati normalmente per definire il reddito universale. Esso è:
- un versamento periodico [omissis] [19];
- un trasferimento monetario, cioè non in natura, che offre a tutti la libertà di fare ciò che vogliono con i propri soldi [omissis];
- universale: non viene sottoposto ad alcun particolare requisito;
- incondizionato: il pagamento non è coperto da alcun obbligo per il beneficiario, in particolare quello di dover cercare lavoro.
Ricordiamo alcuni ordini di grandezza. La Banca mondiale ha identificato la soglia della povertà estrema al livello di 1,9 dollari di retribuzione giornaliera, a parità di potere di acquisto. Ma è opinione largamente condivisa tra i ricercatori economici che questa convenzione sottostimi ampiamente i bisogni reali di un essere umano sano, capace di condurre una vita dignitosa. Un reddito minimo di 7,4 dollari al giorno sembra molto più ragionevole[20].
Nel 2018, oltre 4,2 miliardi di persone (il 60% della popolazione mondiale) vivevano ancora al di sotto di tale soglia, e questo numero aumenterà notevolmente nei prossimi mesi a causa delle conseguenze catastrofiche del lockdown. Quale flusso di reddito annuale sarebbe necessario per consentire a questa gente di vivere al di sopra di tale soglia? Senza entrare nei dettagli dei calcoli sulla parità del potere d’acquisto, possiamo rispondere che costerebbe meno di 13 mila miliardi di dollari. Questa può sembrare ad alcuni una cifra considerevole: è vicina al Pil nominale della Cina nel 2018. Tuttavia, uno studio della Ong Oxfam[21] mostra che, nello stesso anno, l’1% degli individui più ricchi del Pianeta ha percepito un reddito annuo di 56.000 miliardi di dollari (pari all’80% del Pil mondiale). Se solo «prelevassimo» un quarto di tale reddito, esso sarebbe sufficiente per finanziare un reddito base di 7,4 dollari al giorno (e anche di più) per quella parte dell’umanità che ne è privata. Dopo il «prelievo», al più alto percentile di questi super-ricchi resterebbero ancora in media 47.500 dollari di reddito mensile a persona: questo dovrebbe essere sufficiente per consentire loro di continuare a condurre una vita «dignitosa».
Non pretendiamo di sostenere che un tale «prelievo» sia politicamente facile da mettere in pratica. Tuttavia queste semplici cifre ci ricordano che, contrariamente a una comune convinzione, il problema del finanziamento di un reddito di base non consiste nella «mancanza di risorse». [omissis]
L’immaginario neo-liberale della scarsità, che ci conduce facilmente a pensare che una proposta generosa sia impossibile, è fuorviante: viviamo su un Pianeta sovrabbondante – sebbene minacciato da una crisi ecologica – e in un’economia mondiale molto ricca, sebbene rischi di diventare considerevolmente più povera a causa del lockdown e del confinamento.
Le due forme di reddito universale
Per andare oltre nell’esaminare la loro concreta fattibilità, dobbiamo distinguere almeno due forme di «reddito universale»: la prima, diremmo, «di destra», ispirata a criteri di efficienza economica; l’altra, «di sinistra», orientata dal desiderio di giustizia sociale. Questa distinzione elementare ci costringe però immediatamente a uscire da facili dicotomie: il reddito universale non è né di destra né di sinistra, ma è trasversale alle nostre categorie politiche tradizionali.
Il primo tipo di reddito di base ha le sue origini nel lavoro dell’economista di Chicago Milton Friedman[22] ed è pensato per sostituire tutti gli altri tipi di trasferimenti sociali, rendendo così superflua l’introduzione di un salario minimo. I suoi promotori nutrono la speranza di un’ulteriore flessibilizzazione del «mercato del lavoro» e di una riduzione della spesa pubblica per la solidarietà, o persino di un completo abbandono, da parte dello Stato, del suo ruolo decisionale sui redditi da lavoro dei cittadini. La carità, «più adattabile e flessibile» rispetto allo stato sociale, afferma Friedman, riacquisterebbe così un posto di rilievo nella lotta contro la povertà.
Chi contesta tale proposta sostiene che essa equivarrebbe a garantire un reddito minimo di sussistenza che rende schiavo l’«esercito di riserva» dei cittadini, costretti a farsi assumere a qualsiasi condizione pur di migliorare le proprie condizioni di vita ordinaria. È senza dubbio questo tipo di preoccupazione che alimenta il rifiuto, da parte di una certa parte del mondo sindacale, del reddito universale.
Indipendentemente dalla strumentalizzazione politica che può essere fatta sul reddito di base, è innegabile tuttavia che la sua forza risiede nella semplicità: l’assenza di qualsiasi condizione consente di cortocircuitare l’eventuale inefficacia delle procedure amministrative necessarie per identificare i beneficiari dei trasferimenti sociali tradizionali, i quali, come sappiamo, troppo spesso per questo rinunciano a godere di ciò a cui avrebbero diritto. Di conseguenza, più la pubblica amministrazione di un certo Paese è debole o il sistema di trasferimento sociale farraginoso, o addirittura inesistente, più diviene rilevante l’opzione di un reddito universale. Questo è il motivo per cui, qualunque sia la loro sensibilità politica, diversi economisti raccomandano la messa in atto di un reddito del genere nella maggior parte dei Paesi del Sud globalizzato[23].
Il secondo tipo di reddito universale è stato difeso, almeno dal 1986, da Guy Standing, uno dei fondatori della Basic Income Earth Network (Bien)[24]. A differenza del primo tipo, questo sarebbe un reddito integrativo, e quindi non alternativo ai trasferimenti sociali già attivi, laddove ce ne siano. Sarebbe quindi un ottimo mezzo per risolvere i crescenti problemi di insicurezza finanziaria della classe media e dei ceti popolari e, soprattutto, renderebbe possibile un altro genere di rapporto di lavoro. La disumanità delle condizioni di lavoro in alcune situazioni – di cui la tragedia del Rana Plaza, in Bangladesh nel 2013, è diventato il simbolo – è ovviamente dovuta alla necessità, per coloro che non hanno alternative, di farsi assumere a qualsiasi condizione pur di sopravvivere. Ma anche nei Paesi ricchi un reddito universale di questo tipo implicherebbe sicuramente la fine dei cosiddetti bullshit jobs[25] («lavori-spazzatura»), come sono quelli di una quota crescente di impiegati delle nostre amministrazioni pubbliche e delle imprese private: se posso permettermi di vivere senza lavorare, perché dovrei accettare un lavoro che è socialmente inutile e mi fa star male?
Un simile strumento invertirebbe quindi radicalmente i termini della negoziazione impliciti in qualsiasi rapporto di lavoro, sia esso formalizzato da un contratto o meno. Naturalmente, rafforzando il potere contrattuale dei lavoratori, ciò porterebbe sicuramente a una riduzione della quota di reddito da capitale nel valore aggiunto di un’economia e a un aumento della quota di reddito da lavoro. Però questo correggerebbe la tendenza inversa che si registra da quarant’anni a discapito della stragrande maggioranza di noi: dalla fine del boom economico del secondo dopoguerra, e nella maggior parte dei Paesi precedentemente industrializzati, la quota del reddito da lavoro è scesa dal 70-80% del Pil al 60%.
Le virtù attribuite dai suoi difensori «progressisti» al reddito universale vengono spesso messe in discussione dai loro oppositori: un reddito siffatto non fornirebbe un alibi per non lavorare più? Lungi dal rafforzare i legami sociali, non causerebbe forse la dissoluzione delle relazioni umane? Dietro queste domande si intravedono due filosofie politiche radicalmente opposte: da un lato, quella di Thomas Hobbes o di John Locke, per i quali l’uomo è un atomo, persino un lupo, un essere solitario che si coinvolge in relazioni con altri solo per interesse; dall’altro, quella di un’antropologia relazionale che appartiene alla grande tradizione cristiana[26]. In questa seconda prospettiva, è solo sullo sfondo delle relazioni sociali costitutive dell’umanità in quanto tale che può aver luogo il riduzionismo che consiste nella ricerca del mio interesse particolare.
È possibile risolvere questo dibattito con l’aiuto di ciò che osserviamo empiricamente? È dal 2010 che in vari Paesi hanno avuto inizio esperimenti con il reddito di base. Essi ci testimoniano il crescente interesse per tale misura già prima della pandemia[27], ma hanno rivelato, a volte, una certa mancanza di ambizione da parte dei governi e la durezza del dibattito politico che accompagna tali esperienze: sebbene si sia trattato di strumenti dalla portata limitata, molti sono stati interrotti prima del tempo.
In Canada, l’Ontario Basic Income Pilot Project, avviato nel 2018 per testare l’impatto di un reddito di base su 4.000 canadesi, è stato annullato dopo pochi mesi dal partito conservatore appena eletto. L’obiettivo era sperimentare l’effetto del reddito di base su sicurezza alimentare, stress e ansia, salute – inclusa quella mentale –, casa, istruzione e partecipazione al mondo del lavoro[28]. Ci si può domandare: se è così ovvio che un reddito universale risulterebbe dannoso per tutti, perché non lasciare che l’esperimento lo provi? In realtà, sperimentazioni di un salario minimo (o del suo aumento) hanno dimostrato molto spesso il contrario di quanto previsto dai suoi oppositori, ossia un aumento generalizzato dei salari e del numero di ore lavorate, nonché una riduzione della disoccupazione[29]. Forse c’è qualcuno che teme che si possa dimostrare che un reddito di base andrebbe a beneficio della maggioranza?
Nel 2014, un esperimento in India si è posto l’obiettivo di testare il reddito universale come mezzo per introdurre liquidità in ambienti in cui lo scambio monetario è limitato. Le conclusioni di tale esperimento, che avrebbe potuto essere condotto fino alla fine, sono sfumate, ma estremamente positive. Esse suggeriscono che, a causa delle sue ricadute sociali, il «valore» economico del reddito universale supera di molto l’importo nominale assegnato a ciascun destinatario[30]. Infine, numerosi esperimenti di trasferimento di denaro si sono rivelati fruttuosi in Namibia, in India e in una dozzina di Paesi del Sud del mondo, al punto che, dopo decenni di sarcasmo, diversi analisti ora lo vedono come «la chiave dello sviluppo»[31].
Beni comuni contro privatizzazione del mondo
L’esperimento condotto in Alaska dal 1982 merita una menzione speciale. Ogni anno, infatti, una frazione dei dividendi petroliferi viene distribuita ai residenti, incondizionatamente e su base individuale. Gli importi – tra i 1.000 e i 2.000 dollari l’anno, a seconda del periodo[32] – sono nell’ordine di grandezza della soglia di povertà di 7,4 dollari al giorno ricordati sopra. Si tratta di importi piccoli, ovviamente, considerando il tenore di vita medio in questo Stato americano. Ma la cosa più interessante è il principio usato dallo Stato dell’Alaska per giustificarli: si tratta di una compensazione per il diritto di sfruttamento di un bene comune, il petrolio, che in realtà appartiene a ciascuno dei residenti.
Per comprendere il significato di questo modo originale di finanziare un reddito universale occorre fare un passo indietro. Nel 1217, la Carta foresta aveva dato ai contadini britannici il diritto di godere dei commons («beni comuni») – foreste, pascoli, alpeggi, fiumi – per poter fare scorta di legna, acqua e dare da mangiare alle loro mandrie ecc. L’Inghilterra ha formalizzato un diritto che veniva percepito dalla maggior parte della popolazione come naturale e che era stato già riconosciuto dalla legge romana con la categoria della res communis, collocata dal Codice di Giustiniano al vertice della gerarchia dei beni, mentre la proprietà privata occupava l’ultimo posto.
Già nel XV secolo, come sappiamo, la nobiltà britannica promosse il movimento degli enclosures («recinzioni»), per delimitare i commons e decretare così che da quel momento in poi essi erano proprietà esclusiva del signore locale. Privando i poveri contadini di ogni forma di sussistenza, questo movimento ha contribuito a spingerli verso le città, alla disperata ricerca dei mezzi per sopravvivere. Senza questo esodo rurale la rivoluzione industriale non avrebbe mai visto la luce. Quindi, da principio, fu la privatizzazione dei beni comuni a produrre e incentivare quelle forme disumane di lavoro salariato che conosciamo da tre secoli[33].
Un reddito di base, anche solo parzialmente universale, spezzerebbe questa logica perversa. È possibile che uno strumento del genere si articoli in qualche modo con l’onnipotenza della privatizzazione, che oggi si traduce in un secondo movimento di enclosures, che colpisce i nuovi commons, come i beni e i servizi dell’ecosistema, il genoma umano, la proprietà intellettuale, le produzioni artistiche e potenzialmente tutte le attività umane?
L’esempio dell’Alaska fornisce l’abbozzo di una risposta positiva. Perché non immaginare che una frazione del reddito derivante dallo sfruttamento dei nostri beni comuni globali sia ridistribuita per finanziare un reddito di base? Non sarebbe questo un modo concreto ed efficace per onorare la destinazione universale dei beni, cara ai Padri della Chiesa e alla dottrina sociale della Chiesa? Ad esempio, l’atmosfera è certamente un bene comune a tutto il mondo: un’imposta globale sul carbonio – come quella fortemente sostenuta dalla Commissione Stern-Stiglitz[34] – di 120 euro per tonnellata di CO2 prodotta[35], applicata alle 100 multinazionali responsabili del 70% delle emissioni, genererebbe un gettito 3,1 mila miliardi di euro all’anno. Estesa a tutti gli altri tipi di emissione, questa tassazione fornirebbe 4.430 miliardi di euro. Gestite da un Fondo internazionale[36], queste entrate potrebbero essere distribuite alle popolazioni che vivono al di sotto della soglia di povertà[37]. Si potrebbe obiettare che non sono abbastanza per far uscire l’umanità dalla povertà estrema. Non importa: un’imposta del 27% sui 32 mila miliardi di dollari attualmente nascosti nei paradisi fiscali sarebbe sufficiente a integrare ciò che manca, affinché tutti possano vivere con più di 7,4 dollari al giorno. Anche le rendite derivanti dalla proprietà di terreni, foreste o persino dei rifiuti – un «male comune» – potrebbero essere soggette a imposizione globale.
Qualunque opzione venga scelta, lo si deve fare dopo aver consultato tutte le parti interessate. Molte altre domande, infatti, emergono sui destinatari di un reddito di base, qualora dovesse essere solo parzialmente universale: dovremmo, ad esempio, riservarlo agli under 25, visto che si può pensare che la maggior parte di loro avrà notevoli difficoltà a trovare lavoro in Europa nei prossimi anni?
[omissis]
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Note
[segue]
Oggi mercoledì 27 maggio 2020
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—————————Opinioni, Commenti e “Riflessioni, Appuntamenti—————————————————-
La sorte dei popoli? E’ condizionata dal debito ambientale
27 Maggio 2020
Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi.
La Terra non soffre solo del problema climatico, ma anche di altre crisi che stanno esponendo l’umanità a diverse gravi tipologie di rischio. In un recente rapporto della Fondazione Lancet-Rockefeller sullo “stato di salute” del pianeta (inclusivo, oltre a quello dell’ambiente, anche di quello degli uomini e degli animali) denunciava che le sue alterazioni […]
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La scelta assurda della “guardia civica”
Giulio Marcon
Sbilanciamoci, 26 Maggio 2020 | Sezione: Editoriale, Politica
Il coronavirus rilancia il Reddito di Cittadinanza… Non ancora quello incondizionato e universale. Tuttavia il dibattito è finalmente senza pregiudizi
Coronavirus. Tutto dovrà cambiare? Ma i costi non saranno equamente distribuiti. Cosa fare per contrastare l’aumento della povertà. Papa Francesco propone una retribuzione universale di base. Qualcosa già si fa, ma non basta. Cosa fare di più e meglio prima che la casa bruci.
di Franco Meloni*
Viviamo tutti uno stato di angoscia per questo terribile nemico invisibile, il Covid-19. In Italia e in tutto il mondo, ha infettato una quantità spaventosa di individui, provocando innumerevoli vittime, soprattutto tra le persone più fragili: quelle anziane e già interessate da altre patologie fino ad ora curabili o comunque controllabili. Dei contagiati non diamo i numeri, anche perché ci sono inflitti in continuazione dai media. Ai morti pensiamo con infinita tristezza affidandoci al ricordo, quando consolatorio, e alla speranza della fede. Guardiamo ora con prudente ottimismo al trend di contagiati e di decessi, dappertutto in netta diminuzione e alla crescita dei guariti, in tutto il mondo, in misura differenziata da paese a paese. Gioiamo che il virus oggi venga combattuto e vinto da farmaci e terapie efficaci. E poi la bella notizia: si avvicina il tempo della scoperta di un vaccino che possa prevenire l’infezione, considerato che diversi team scientifici internazionali (anche con collaborazioni delle Università italiane e sarde) sono già arrivati a risultati affidabili, con l’avvio delle fasi di sperimentazione. Speriamo che ciò accada presto, prima che il virus aggredisca zone del pianeta con sistemi sanitari gracili e inadeguati, con esiti catastrofici. Non sappiamo quando la pandemia sarà debellata. Sappiamo che per lungo tempo dovremo conviverci e che dopo, ma a cominciare da adesso, niente sarà come prima. Ciò non vuol dire che tutto sarà meglio di prima, anzi! A pagare il prezzo di questa situazione sono e saranno centinaia di milioni di persone, molte delle quali già segnate da disuguaglianze e povertà. Sappiamo con sicurezza che cresceranno vertiginosamente i poveri. La loro grande numerosità prima della crisi del coronavirus verrà paurosamente incrementata dal passaggio di interi ceti sociali da condizioni di benessere alla povertà relativa e finanche assoluta. Fasce consistenti di popolazione si trovano già oggi senza le risorse minime per vivere. Ad esse ha rivolto il suo pensiero Papa Francesco, nel messaggio pasquale ai movimenti e alle organizzazioni popolari (1), facendo un elenco delle diverse categorie interessate: “venditori ambulanti, raccoglitori, giostrai, piccoli contadini, muratori, sarti, quanti svolgono diversi compiti assistenziali, lavoratori precari, indipendenti, del settore informale o dell’economia popolare…”. Tutti coloro insomma che non godono di un reddito stabile per resistere a questo momento e affrontare il futuro. Il Papa avanza una proposta inedita: “Forse è giunto il momento di pensare a una forma di retribuzione universale di base che riconosca e dia dignità… un salario che sia in grado di garantire e realizzare quello slogan così umano e cristiano: nessun lavoratore senza diritti”.Non sembri senza conseguenze questa posizione del Papa, stante il fatto che per affrontare l’emergenza e oltre, i governi di molti stati, di tutti i colori politici, hanno introdotto nei rispettivi ordinamenti forme di “reddito di cittadinanza”. Tuttavia nessuna delle soluzioni adottate si avvicina a quella pensata dai grandi economisti sensibili al sociale, da John Mainard Keynes e James Meade in poi (2), cioè di un “reddito di cittadinanza incondizionato e universale” da distribuirsi a tutti i cittadini a far data dalla maggiore età di ciascuno, senza condizionamento alcuno. La ragione fondamentale è che rimane irrisolta la questione del suo finanziamento: con la fiscalità generale da una parte e con la ristrutturazione dell’welfare state dall’altra? Il dibattito è aperto da tempo e oggi viene rilanciato dal coronavirus. In Italia, una forma di reddito (e pensione) di cittadinanza è stata istituita nel 2019 (fino a 780 euro a persona), inglobando dal 2020 il preesistente reddito di inclusione sociale. Inoltre di recente, come misura temporanea è stato introdotto il “reddito di emergenza”, consistente in due mensilità (da 400 fino a 840 euro ciascuna), destinato a soccorrere le persone rimaste senza sostentamento nella fase di chiusura (lockdown) per contrastare l’epidemia. Sono interventi risolutivi? Sicuramente no. E si prestano a consistenti critiche: basti pensare alla pretesa, sbagliata, di concepire queste misure come politiche attive del lavoro, che sono altra cosa. Non è casuale che il reddito di cittadinanza esistente mentre va incontro e spesso risolve le situazioni di indigenza, a poco è servito per creare nuova occupazione o difendere quella esistente. Obbiettivi che, invece, oggi si possono e si devono realizzare con interventi massicci dello Stato nell’economia, soprattutto attraverso investimenti nella sanità pubblica (prima condizione rispetto a tutto il resto) nelle infrastrutture, nell’innovazione, nell’istruzione e così via. Riguardo all’argomento centrale di questo articolo, il reddito di cittadinanza, la conclusione è che va difeso e rafforzato, ampliando la platea dei beneficiari e semplificando le procedure burocratiche di accesso, che allo stato ne limitano il funzionamento (3). Proiettandoci verso un futuro possibile, certo è che della necessaria riforma dello Stato sociale, l’introduzione del reddito di cittadinanza incondizionato e universale deve essere un pilastro fondamentale. Per ora possiamo e dobbiamo solo studiare, approfondire e sperimentare, senza preclusione alcuna.
*Franco Meloni, articolo pubblicato anche su Nuovo Cammino, periodico della Diocesi di Ales Terralba, nonché sulla News online Giornalia.
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(1) Città del Vaticano, 12 aprile 2020, Domenica di Pasqua (rif.: https://www.aladinpensiero.it/?p=106628).
(2) Evidentemente non tutto è semplice, anzi. Di questa questione scrive il prof. Gianfranco Sabattini, economista cagliaritano, che l’ha approfondita nei suoi studi accademici, in un articolo, che ha il merito di porgere in sintesi concetti elaborati da illustri studiosi – tra i quali il grande economista John Mainard Keynes e il premio Nobel all’Economia 1977 James Meade – tratti da una copiosa letteratura economica che si misura con l’attualità politica. L’articolo è apparso su tre riviste online (Aladinpensiero, il Manifesto sardo e Democraziaoggi) ed è riportato anche in appendice di questo articolo. Ecco comunque il link su aladinpensiero online: https://www.aladinpensiero.it/?p=107059 .
(3) Dello stesso avviso l’Unione Europea. Vedasi l’articolo di Antonio Cosenza su Money.it
Reddito di cittadinanza a più persone: la richiesta dell’UE all’Italia
Antonio Cosenza, 21 Maggio 2020 – 12:00
Reddito di cittadinanza: secondo l’Unione Europea non va abolito, semmai va riformato per raggiungere più categorie di persone vulnerabili.
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ALTRI ARTICOLI DI RIFERIMENTO
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Lo chiamano “reddito di cittadinanza” ma è un “reddito di inclusione sociale”, auspicabilmente migliorativo di quello esistente, del quale abbiamo urgente bisogno!
di Franco Meloni**
Il “reddito di cittadinanza” che ha fatto la fortuna elettorale del Movimento 5 stelle, non è di certo quel “reddito universale e incondizionato” che molti economisti a partire dal XVIII secolo ritenevano ineludibile addirittura nel breve periodo. Tra questi ricordiamo uno dei più grandi, John Maynard Keynes, che nel 1928 tenne su queste questioni agli studenti di Cambridge una memorabile lezione dal titolo “Possibilità economiche per i nostri nipoti“. Secondo Keynes ed altri, l’aumento progressivo della produttività delle attività economiche con l’inesorabile sostituzione del lavoro umano con le macchine, avrebbe comportato insieme alla diminuzione dell’orario di lavoro la necessità di garantire un reddito per i disoccupati involontari, vecchi e nuovi. Nessun problema per il relativo finanziamento che sarebbe stato assicurato dallo sviluppo stesso dell’economia. Keynes azzardò perfino che tutto si sarebbe verificato nel giro di 100 anni! E ci stiamo appunto arrivando, senza però che la previsione si sia finora avverata, se non parzialmente, richiedendosi pertanto un’ulteriore proiezione nei tempi a venire sulla base dello sviluppo sempre più impetuoso delle tecnologie. Il problema n. uno rimane quello del “finanziamento del reddito di cittadinanza”, per il quale si dovrebbe attingere in grande misura dalla fiscalità generale e in altra parte dalle risorse liberate dalla riforma del welfare. Insomma l’incertezza permane e i tempi non sembrano ancora maturi!
Più modestamente il “reddito di cittadinanza” inserito dai 5 Stelle nel “contratto di governo”, è ascrivibile alla categoria del “reddito di inclusione sociale”, che ha la finalità precipua di contrastare la povertà estrema, nella quale in Italia versano otre 5 milioni di persone, a cui si aggiungono gli oltre 9 milioni di cittadini in condizione di povertà relativa, pari al 12,3% della popolazione italiana (il 17,3% con riferimento alla popolazione sarda). L’Unione Europea ha da molto tempo invitato i paesi aderenti ad adottare forme di sostegno al reddito dei meno abbienti, nell’ottobre scorso anche attraverso una apposita risoluzione del Parlamento Europeo. In verità l’Italia si era già adeguata con un provvedimento del settembre 2017 (Governo Gentiloni), in concreta operatività dal 1° gennaio 2018. Si tratta del ReI, beneficiarie fino ad oggi 110.000 famiglie e 317.000 persone, che risultano in condizione di povertà assoluta, con un importo medio del sussidio mensile pari a poco meno di 300 euro per la generalità della platea, e a 430 euro per le famiglie con minori.
A questo punto non si capisce quale scandalo possano destare in sede nazionale ed europea gli annunciati provvedimenti del Governo, peraltro allo stato ancora sulla carta, che avrebbero come novità rispetto al ReI esistente oltre che l’adeguamento del quantum (780 euro), l’estensione della platea dei beneficiari (tutta la fascia della povertà assoluta) e uno stretto collegamento alle politiche attive sul lavoro. Per ora il Documento economico-finanziario governativo ha stabilito che le risorse dedicate ammontano a 9 miliardi + 1 per la riforma dei centri d’impiego, rinviando a una successiva legge i dettagli operativi: il reddito sarà erogato attraverso un bancomat? Saranno consentite solo alcune categorie di spese? Il reddito sarà differenziato per ogni regione o su base nazionale? E, ancora: chi ne avrà precisamente diritto? Il reddito effettivamente posseduto dovrà essere certificato dall’ISEE e un’eventuale proprietà della casa di abitazione sarà motivo di esclusione dai benefici? Varrà la precedenza per anzianità di disoccupazione? E a quanti lavori si potrà rinunciare prima di perderlo? Lavori vicini o quanto lontani da casa? Realisticamente detta legge collegata potrebbe essere approvata nei primi mesi del 2019 ma, considerata la complessità dei provvedimenti da assumere, non sarà facile trovare un accordo in sede politica. In ogni caso, per ovvie ragioni, si dovrà decidere prima delle prossime elezioni europee. Teniamoci aggiornati, ad horas!
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**Franco Meloni. Articolo pubblicato su Nuovo Cammino, dicembre 2018, periodico della Diocesi di Ales-Terralba.
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Il reddito di cittadinanza non è un provvedimento-tampone contro la povertà o contro gli esiti distruttivi di eventi eccezionali
di Gianfranco Sabattini
Lo scoppio della pandemia da Covid-19 sta rilanciando l’idea dell’introduzione nel sistema di sicurezza nazionale del reddito di cittadinanza, con le finalità che hanno inteso assegnargli coloro che per primi l’hanno proposto, non già in contrapposizione, ma ad integrazione (per il maggior rispetto della dignità umana e la maggiore efficacia sul piano della valorizzazione dell’attività lavorativa), del sistema di welfare State, introdotto dopo la fine del secondo conflitto mondiale nella seconda metà del secolo scorso.
La cosiddetta “prova dei mezzi” e le molte “condizionalità” alle quali devono sottostare i fruitori della “difesa sociale” garantita dal sistema welfarista sono la conseguenza dei molti pregiudizi che caratterizzano una malintesa tutela della “dignità del lavoro”, che hanno giustificato, sino ai nostri giorni, le critiche portate da un arco di forze sociali (tra loro molto distanti sul piano ideologico) contro la possibile introduzione del reddito di cittadinanza, riproposte di continuo da quando sono iniziate ad emergere gli irreversibili motivi di crisi del sistema del welfare State sinora realizzato. Tali forze sociali hanno sempre considerato “offensive” della dignità personale l’erogazione di un reddito cui non corrispondesse una “prestazione lavorativa” da parte del fruitore.
Ciò che ha accomunato l’intero arco di tali forze ideologicamente eterogenee è stato il convincimento che la tutela del lavoro come valore in sé fosse irrinunciabile, perché il lavoro è “vita”, “partecipazione”, “autonomia” ed altro ancora. Sulla base di questo radicato assunto, sia le forze politiche e sindacali di sinistra, sia quelle che si rifanno ai principi della dottrina sociale della Chiesa cattolica, hanno sempre sostenuto che la tutela del lavoro dovesse essere garantita attraverso la creazione di posti di lavoro, malgrado tale obiettivo divenisse sempre più difficile da perseguire nei moderni sistemi economici.
In tal modo, le “buone intenzioni” dell’ampio arco di forze sociali critiche del reddito di cittadinanza ha finito col subire gli esiti di un’eterogenesi dei fini, che ha condotto le loro intenzioni ad essere sostituite dalle “conseguenze inintenzionali” di un convincimento volto a tutelare il lavoro; in tal modo, la loro posizione è servita, non già a difendere la dignità del lavoro, bensì a tutelare gli interessi delle forze conservatrici, motivate a conservare gli esiti spontanei connessi al libero svolgersi delle forze di mercato.
Tra le voci contrarie al reddito di cittadinanza, una delle più autorevoli è stata quella espressa tempo addietro da Papa Francesco in un discorso tenuto a Genova davanti ad un’assemblea dei lavoratori dell’Ilva; ora, però, a fronte dello scoppio della pandemia da Covid-19, anche il Papa sembra essersi convinto dell’urgenza, come di recente ha dichiarato, di una “retribuzione universale di base”, cioè di una forma di reddito in grado di garantire e realizzare un tipo di società che rispetti i suoi stessi membri. L’apertura del Papa all’introduzione di un reddito di cittadinanza incondizionato ha suscitato un coro di consensi anche tra quelle forze politiche di sinistra e sindacali (forse anch’esse indotte a cambiare parere di fronte agli effetti distruttivi della pandemia da Covid-19) tradizionalmente contrarie all’introduzione di ogni forma di reddito universale e incondizionato.
La rapida conversione ad accettare di istituzionalizzare una proposta sempre avversata sotto l’incalzare dello stato dell’urgenza e della necessità non può che essere apprezzata da quanti, da tempo, nell’ambito del dibattito politico-culturale in corso in Sardegna, sottolineano la positività dell’introduzione del reddito di cittadinanza nel sistema di sicurezza sociale, a motivo della crisi irreversibile del welfare State; ne è prova l’attività del Comitato Regionale d’Iniziativa Costituzionale e Statutaria, i cui promotori ed organizzatori hanno ospitato nei loro “Blog” (Democraziaoggi, Aladinpensiero e Il Manifesto sardo), scritti e riflessioni sull’opportunità di introdurre il sempre criticato reddito di cittadinanza incondizionato nel sistemi sociali democratici ad economia di mercato; del dibattito, protrattosi negli anni non senza contrasti, fa fede la celebrazione, ad iniziativa del succennato “Comitato” e dell’“Europe Direct Regione Sardegna”, di un Convegno sul lavoro (svoltosi a Cagliari il 4-5 ottobre 2017, i cui atti sono stati raccolti nel volume “Lavorare meno, lavorare meglio, lavorare tutti”), nel corso del quale sono stati esposti gli aspetti positivi del reddito di cittadinanza, rispetto alla tutela di chi involontariamente è privato della disponibilità di un reddito di base necessario alla sua sopravvivenza. [segue]
Lavorare tutti lavorare meno
Una prospettiva auspicabile, ma problematica: meno lavoro per tutti
di Gianfranco Sabattini
Domenico De Masi, noto docente di Sociologia del lavoro, in “Meno lavoro per tutti” (MicroMega, 3/2020), ritiene che l’evoluzione delle modalità di lavoro nel tempo renda fondata la previsione che il progresso tecnologico possa portare l’umanità alla fine del lavoro coatto. Nella sua narrazione, De Masi prende le mosse dalle forme che il lavoro ha assunto nelle società antiche, sino a pervenire, passando per il Medioevo, alla cosiddetta società industriale sorta a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo e giunta, dopo quasi duecento anni, ad assumere la struttura della società post-industriale, la cui dinamica interna lascia spazio per immaginare quali modalità potranno caratterizzare l’organizzazione dell’attività lavorativa nella società del futuro.
La società industriale e il sistema produttivo corrispondente sono nati, ricorda De Masi, alla fine del Settecento, quando “sotto la spinta di tre rivoluzioni politiche – quella inglese, quella francese e quella americana – [ha avuto] inizio una vera e propria rivoluzione produttiva”, che ha cambiato il mondo, come conseguenza degli effetti di due fattori, uno di natura economica e l’altro di natura culturale: il primo determinato dalla comprensione, da parte del Paese (l’Inghilterra), che guidava il processo di cambiamento, dei larghi vantaggi che potevano essere tratti dalla valorizzazione delle risorse a basso costo provenienti dalle colonie; il secondo era la conseguenza della diffusione delle idee illuministe, che ponevano la ragione al centro dell’attività umana e, con essa, la convenienza a “razionalizzare i processi produttivi, programmandoli, organizzandoli e controllandone i prodotti in modo scientifico”.
Con i loro effetti sulle modalità d’impiego del fattore lavoro, i due fattori, quello economico e quello culturale, hanno anche comportato un profondo cambiamento nell’organizzazione della società e nelle propensioni comportamentali dei suoi componenti, riconducibili alla distanza tra casa e fabbrica, ai ritmi sostenuti dell’attività produttiva e al rapido aumento dei livelli di consumo. In tal modo, la fabbrica si è tradotta in un sistema produttivo che, avvalendosi di un triplice input (lavoro umano, moneta e macchine) ha potuto realizzare la produzione delle varie parti di ciascun prodotto; con l’”assiematura”, man mano che il manufatto passava da un reparto all’altro, il processo produttivo terminava con l’uscita dalla fabbrica di “un triplice output: il prodotto finito, il salario dei lavoratori e il profitto degli imprenditori”.
La fabbrica, elemento costitutivo del settore industriale, ha subito nel tempo continui processi innovativi che hanno riguardato la sua razionalizzazione, sino a “subire una paradigmatica impostazione organizzativa negli Stati Uniti, non da parte di umanisti, ma di ingegneri come Taylor e Ford”, le cui idee sono valse a trasformare progressivamente “l’operaio in macchina”, nonché a creare le premesse perché “l’uomo-macchina” potesse essere sostituito con “una macchina vera e propria”, aprendo l’evoluzione della società industriale verso quella post-industriale.
In estrema sintesi – afferma De Masi –, dopo la millenaria fase rurale pre-industriale e la bisecolare fase industriale, tra la “metà del Settecento e la metà del Novecento si sono sviluppati vari fattori che si sono potenziati a vicenda; progresso scientifico e tecnologico, sviluppo organizzativo, globalizzazione, mass media e alfabetizzazione hanno dato vita a una miscela esplosiva che, resa deflagrante da quel terribile detonatore che [è stata] la seconda guerra mondiale, ha generato una società completamente diversa da quella industriale”; quella appunto post-industriale, centrata sulla produzione di beni immateriali, quali soprattutto informazioni e servizi di ogni tipo.
Così come la razionalizzazione della società industriale aveva consentito al mondo della produzione di allestire una crescente quantità di beni, sostituendo progressivamente nei processi produttivi il lavoro con le macchine, allo stesso modo la società post-industriale, con l’introduzione delle nuove tecnologie informatiche, ha continuato ad aumentare i livelli produttivi, sempre con un progressivo impiego di una minor quantità di lavoro.
In termini di mercato del lavoro, l’evoluzione dalla società rurale pre-industriale a quella industriale e post-industrale, ha comportato un travaso di forza lavoro dall’agricoltura a un’industria produttrice di beni materiali, prima, e di beni immateriali, poi. In termini di utilizzazione dei fattori produttivi, la stessa evoluzione ha comportato un continuo “risparmio” di forza lavoro, tanto da rendere possibile nella società post-industriale, che le mansioni di molte unità di forza lavoro siano volte da robot, dai computer e dall’intelligenza artificiale. In termini di organizzazione dell’attività produttiva, infine, con l’avvento della società post-industriale si è avuta la crisi del modello onnicomprensivo della fabbrica, con la perdita dell’originaria funzione di allestire un prodotto compiuto; le componenti opportunamente standardizzate dei vari prodotti possono essere allestite in diverse parti del mondo, per essere poi assemblate nel bene finale, grazie agli scambi globali, in un luogo ancora diverso.
Poiché anche nella società post-industriale il progresso tecnologico ha continuato a crescere e, per effetto della globalizzazione, è stato possibile acquistare prodotti ovunque risultasse più conveniente, al lavoro si sono aperte – a parere di De Masi – “prospettive straordinarie”, che hanno resa superata la questione se le nuove tecnologie creassero più o meno lavoro di quanto ne distruggessero; per cui, il jobless growth (cioè lo sviluppo senza lavoro) è divenuto, per De Masi, “cosa inevitabile e magnifica, i cui effetti vanno ben al di là della fine della fatica”. Inoltre, la crescita senza fatica destituirà di ogni rilevanza la legge di distribuzione del prodotto sociale in base al contributo che ogni unità di forza lavoro ha prestato per produrlo; semmai, verificandosi che il lavoro umano impiegato per costruire un dato prodotto equivale ad una piccola percentuale del valore di mercato di quest’ultimo, resterà da stabilire a chi debba essere attribuita la differenza. In altri termini, resterà da risolvere il problema della distribuzione di “una ricchezza crescente prodotta da un numero decrescente di lavoratori”.
Ora, anche gli economisti tradizionalmente scettici, di fronte alla prospettiva di una crescita senza lavoro – osserva De Masi – cominciano a chiedersi cosa accadrà all’interno di quelle società che si credono ancora fondate sul lavoro, benché questo decresca di continuo; essi non potranno che “accogliere positivamente il fatto evidente che l’attività umana, sempre meno necessaria nella produzione diretta della ricchezza, potrà concentrarsi nell’ideazione di nuovi beni e servizi che poi le macchine produrranno e nell’’invenzione’ di quel tempo libero che l’organizzazione industriale del lavoro [ha] compresso e mortificato”.
A sostegno della sua tesi, De Masi ricorda che l’idea che il progresso tecnologico e l’aumento della produttività potessero portare alla “fine del lavoro” è stata anticipata da una previsione gi John Maynard Keynes, formulata alla fine degli anni Venti del secolo scorso, in un pamphlet dal titolo accattivante: “Le possibilità economiche dei nostri nipoti”. Il grande economista di Cambridge, tenendo conto dell’aumento del progresso tecnologico e della produttività, prevedeva che, dopo un secolo (quindi, circa alla fine del 2030), le popolazioni non sarebbero più state nella condizione di dover lavorare, per cui il problema economico del lavoro in tutte le società avrebbe cessato d’essere fonte di preoccupazioni. Ciò, però, avrebbe creato un nuovo problema: quello di insegnare alla gente a vivere senza lavorare.
La previsione di Keynes era direttamente collegata all’ipotesi che l’aumento della ricchezza, conseguente alla crescita del progresso tecnico e della produttività, fosse accompagnata da una continua diminuzione delle disuguaglianze distributive; un’ipotesi, quindi, sulla fine del lavoro formulata in termini del tutto diversi dal come sembra intenderla De Masi. Com’è possibile, viene spontaneo chiedersi, che la transizione verso la fine del lavoro non sia associata a una politica destinata a contrastare la disoccupazione crescente e la disuguaglianza distributiva?
Secondo De Masi, quella che stiamo vivendo non è che una prima fase delle società post-industriali, in cui è possibile adottare politiche economiche atte a ridistribuire la forza lavoro disoccupata; da un lato, riducendo progressivamente l’orario di lavoro (man mano che si introducono ulteriori innovazioni tecnologiche nelle combinazioni produttive) e, dall’altro lato, creando “nuovi lavori”, per garantire a tutti i disoccupati un “reddito di inclusione durante le fasi di disoccupazione frizionale”, riciclando i disoccupati “con la formazione durante i periodi vuoti che intercorrono tra un lavoro e l’altro” e formando “i lavoratori a fruire del tempo libero, che cresce durante gli anni di lavoro e si prolunga durante gli anni di pensionamento”.
De Masi ritiene fondato pensare che, nella fase ultima dell’evoluzione della società post-industriale, a lavorare saranno solo le poche unità di forza lavoro occupate nello svolgimento delle funzioni creative ed organizzative, mentre tutto il resto della popolazione “consumerà senza produrre, ottenendo direttamente la parte di produzione corrispondente ai suoi bisogni”. A questo punto – conclude De Masi – diventerà inutile qualsiasi forma di reddito di cittadinanza universale e incondizionato, perché la libertà dal bisogno di tutti i cittadini sarà garantita da una nuova Costituzione, attenta “ad evitare che il gruppo creativo non diventi un casta onnipotente e prevaricatrice”, ma sia orientata ad assicurare “un’equa distribuzione del potere, del sapere, delle opportunità, delle tutele e delle modalità più adatte a secondare il godimento del tempo totalmente libero da incombenze lavorative coatte”.
Ciò che De Masi nella sua conclusione trascura di considerare è che, con la fine del lavoro, la distribuzione di quanto resta del prodotto sociale (al netto, deve supporsi, della reintegrazione dei fattori produttivi impiegati e del salario corrisposto all’élite creativa ed organizzativa) tra tutti i cittadini, in funzione dei loro bisogni, non assicura l’eliminazione delle disuguaglianze distributive, mancando ogni possibilità di conformare la distribuzione in funzione dei bisogni individuali, i quali non sono oggettivamente stimabili; per cui, se anche fosse convenuto un qualche criterio in base al quale effettuare la distribuzione del surplus produttivo in funzione degli stati di bisogno individuali, difficilmente potrebbe essere eliminata la disuguaglianza distributiva, della quale la fine del lavoro dovrebbe invece segnare la definitiva rimozione.
In conclusione, nella prospettiva di analisi di De Masi è difficile immaginare la realizzazione di una distribuzione del surplus produttivo senza l’istituzionalizzazione di un reddito di cittadinanza universale ed incondizionato; solo con un “dividendo sociale” di pari importo corrisposto a tutti i cittadini, può essere realizzata, dopo la fine del lavoro, un’uguaglianza distributiva conforme ad una capacità di acquisto idonea a consentire uno stabile funzionamento del sistema economico e una maggior capacità di tenuta della coesione del sistema sociale. Solo allora l’attività politica, sottratta alla defatigante ricerca, di momento in momento, di un compromesso instabile per la soluzione del problema distributivo, potrà rivolgersi a regolare il godimento del tempo libero, indirizzandolo verso la cura dell’ambiente e all’approfondimento della conoscenza, perché tutti possano viverlo “bene, piacevolmente e con saggezza”, secondo la profezia keynesiana.
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Oggi martedì 5 maggio 2020
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Philippe Van Parijs: Un reddito universale è ciò di cui abbiamo bisogno | Su Il Blog di Beppe Grillo.
Presto sarà introdotto in Italia un “reddito di emergenza”, per beneficiare chi non ha attualmente altri redditi da lavoro/pensione o ammortizzatori sociali. È una buona cosa, tuttavia temporanea, ma perché non introdurre un reddito incondizionato e universale? Finalmente se ne può almeno discutere. Approfondiamo.
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Il reddito di cittadinanza non è un provvedimento-tampone contro la povertà o contro gli esiti distruttivi di eventi eccezionali
Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi.
Torniamo su un tema alla ribalta in questi giorni di pandemia e che G.F. Sabattini ha lanciato nel dibattito publico sardo in un convegno organizzato dal CoStat qualche tempo fa, i cui atti sono pubblicati nel volume curato da Fernando Codonesu “Lavorare meno, lavorare meglio, lavorare tutti ” – Atti del convegno di Cagliari del 4-5 ottobre 2017.
Questo contributo, per l’importanza che riveste nella riflessione collettiva in questo momento, viene pubblicato insieme ad Aladinpensiero e a il Manifesto sardo. […]
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TPI NEWS Vespignani a TPI: “I virologi italiani non hanno capito nulla, per sconfiggere il virus servono le 3T”
Molte cose che dice Vespignani sono perfino di semplice buon senso, che ovviamente nel nostro caso hanno solidi fondamenti scientifici. È facile trarre da quanto dice con esemplare chiarezza un programma di governo della situazione. Mi sembra che il nostro Governo stia operando bene, ma non vedo tradursi le giuste impostazioni con adeguata concreta operatività. Non che si stia facendo poco, anzi, ma ciò che si fa è drammaticamente insufficiente. Per esempio per quanto riguarda la sistemazione dei guariti ancora infettanti e degli asintomatici infettanti. Occorre predisporre alberghi o caserme, dice lo scienziato. E i tracciatori? Occorre assumere un esercito di giovani che con breve e intenso addestramento facciano questo lavoro “pre sanitario”. Come risponde la classe politica. I presidenti regionali del centro destra, per fortuna con eccezioni, sono stati inadeguati, incapaci, preoccupati di distinguersi per interessi di partito piuttosto che mossi dal bene comune. Non possiamo lasciar fare. Occorre una mobilitazione popolare per il nostro presente e futuro, di tutte le generazioni. Ci facciamo e ci faremo sentire. Organizzati!. [Annotazione. L'intervista è pregevole, il titolo decisamente fuorviante].
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Coronavirus. Arriva l’estate! Ma siamo davvero nell’era dei lumi?
5 Maggio 2020
Amsicora su Democraziaoggi.
Amici e amiche, devo confessare che non so più in quale mondo vivo. Voi lo sapete? Presuntuosamente ho creduto di aprire gli occhi agli altri… alle masse nientemeno. Ed ora brancolo nelle nebbie, non so neanche dove mi trovo. Mi muovo come una mosca cieca, quando, bendato, tentavo di beccare qualcuno dei miei compagni di […]
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E’ online il manifesto sardo trecentocinque
Il numero 305
Il sommario
Primo maggio e 25 aprile: una proposta di riflessione (Ottavio Olita), Il coronavirus e l’Unione Europea (Marco Ligas), Prospettive pericolose (Roberto Mirasola), L’Europa che vogliamo: un piccolo passo in avanti? (Franco Ventroni), Un New Deal contro il coronavirus (Stefano Deliperi), Vite inutili (Amedeo Spagnuolo), I “fatti di Sassari”. Una lezione lunga venti anni e un giorno (Dario Stefano Dell’Aquila), Turchia e dintorni. Morte di Stato (Emanuela Locci), Una riforma delle istituzioni comunitarie per un’Europa al servizio dei cittadini (Gianfranco Sabattini), La conversione ecologica? Si deve fare (Guido Viale), Vivere con l’incertezza (Giulia Simula), Sa Die tutti i giorni (Roberto Loddo), Il reddito di cittadinanza non è un provvedimento-tampone contro la povertà o contro gli esiti distruttivi di eventi eccezionali (Gianfranco Sabattini). Primo maggio. Un confronto per una Sardegna popolare, verde e sarda (red).
Coronavirus. Pensare, analizzare, agire.
Proponiamo alle nostre lettrici e ai nostri lettori il sesto contributo, un intervento di Gianfranco Sabattini, economista, condiviso dalle redazioni de il manifesto sardo, Democraziaoggi e aladinpensiero, nell’ambito dell’impegno comune che qui si richiama.
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Il reddito di cittadinanza non è un provvedimento-tampone contro la povertà o contro gli esiti distruttivi di eventi eccezionali
di Gianfranco Sabattini
Lo scoppio della pandemia da Covid-19 sta rilanciando l’idea dell’introduzione nel sistema di sicurezza nazionale del reddito di cittadinanza, con le finalità che hanno inteso assegnargli coloro che per primi l’hanno proposto, non già in contrapposizione, ma ad integrazione (per il maggior rispetto della dignità umana e la maggiore efficacia sul piano della valorizzazione dell’attività lavorativa), del sistema di welfare State, introdotto dopo la fine del secondo conflitto mondiale nella seconda metà del secolo scorso.
La cosiddetta “prova dei mezzi” e le molte “condizionalità” alle quali devono sottostare i fruitori della “difesa sociale” garantita dal sistema welfarista sono la conseguenza dei molti pregiudizi che caratterizzano una malintesa tutela della “dignità del lavoro”, che hanno giustificato, sino ai nostri giorni, le critiche portate da un arco di forze sociali (tra loro molto distanti sul piano ideologico) contro la possibile introduzione del reddito di cittadinanza, riproposte di continuo da quando sono iniziate ad emergere gli irreversibili motivi di crisi del sistema del welfare State sinora realizzato. Tali forze sociali hanno sempre considerato “offensive” della dignità personale l’erogazione di un reddito cui non corrispondesse una “prestazione lavorativa” da parte del fruitore.
Ciò che ha accomunato l’intero arco di tali forze ideologicamente eterogenee è stato il convincimento che la tutela del lavoro come valore in sé fosse irrinunciabile, perché il lavoro è “vita”, “partecipazione”, “autonomia” ed altro ancora. Sulla base di questo radicato assunto, sia le forze politiche e sindacali di sinistra, sia quelle che si rifanno ai principi della dottrina sociale della Chiesa cattolica, hanno sempre sostenuto che la tutela del lavoro dovesse essere garantita attraverso la creazione di posti di lavoro, malgrado tale obiettivo divenisse sempre più difficile da perseguire nei moderni sistemi economici.
In tal modo, le “buone intenzioni” dell’ampio arco di forze sociali critiche del reddito di cittadinanza ha finito col subire gli esiti di un’eterogenesi dei fini, che ha condotto le loro intenzioni ad essere sostituite dalle “conseguenze inintenzionali” di un convincimento volto a tutelare il lavoro; in tal modo, la loro posizione è servita, non già a difendere la dignità del lavoro, bensì a tutelare gli interessi delle forze conservatrici, motivate a conservare gli esiti spontanei connessi al libero svolgersi delle forze di mercato.
Tra le voci contrarie al reddito di cittadinanza, una delle più autorevoli è stata quella espressa tempo addietro da Papa Francesco in un discorso tenuto a Genova davanti ad un’assemblea dei lavoratori dell’Ilva; ora, però, a fronte dello scoppio della pandemia da Covid-19, anche il Papa sembra essersi convinto dell’urgenza, come di recente ha dichiarato, di una “retribuzione universale di base”, cioè di una forma di reddito in grado di garantire e realizzare un tipo di società che rispetti i suoi stessi membri. L’apertura del Papa all’introduzione di un reddito di cittadinanza incondizionato ha suscitato un coro di consensi anche tra quelle forze politiche di sinistra e sindacali (forse anch’esse indotte a cambiare parere di fronte agli effetti distruttivi della pandemia da Covid-19) tradizionalmente contrarie all’introduzione di ogni forma di reddito universale e incondizionato.
La rapida conversione ad accettare di istituzionalizzare una proposta sempre avversata sotto l’incalzare dello stato dell’urgenza e della necessità non può che essere apprezzata da quanti, da tempo, nell’ambito del dibattito politico-culturale in corso in Sardegna, sottolineano la positività dell’introduzione del reddito di cittadinanza nel sistema di sicurezza sociale, a motivo della crisi irreversibile del welfare State; ne è prova l’attività del Comitato Regionale d’Iniziativa Costituzionale e Statutaria, i cui promotori ed organizzatori hanno ospitato nei loro “Blog” (Democraziaoggi, Aladinpensiero e Il Manifesto sardo), scritti e riflessioni sull’opportunità di introdurre il sempre criticato reddito di cittadinanza incondizionato nel sistemi sociali democratici ad economia di mercato; del dibattito, protrattosi negli anni non senza contrasti, fa fede la
celebrazione, ad iniziativa del suaccennato “Comitato” e dell’“Europe Direct Regione Sardegna”, di un Convegno sul lavoro (svoltosi a Cagliari il 4-5 ottobre 2017, i cui atti sono stati raccolti nel volume “Lavorare meno, lavorare meglio, lavorare tutti”), nel corso del quale sono stati esposti gli aspetti positivi del reddito di cittadinanza, rispetto alla tutela di chi involontariamente è privato della disponibilità di un reddito di base necessario alla sua sopravvivenza. Qui di seguito vengono riassunte le motivazioni che hanno caratterizzato la proposta dell’introduzione di tale reddito di base, intorno al quale sembra essersi finalmente realizzato un generale consenso.
Il welfare State, il sistema di protezione sociale oggi esistente, è stato formulato sul piano teorico tra le due guerre mondiali del secolo scorso, per tradursi in strutture pubbliche operative nei Paesi ad economia di mercato e retti da regimi democratici, a partire soprattutto dalla fine del secondo conflitto mondiale, legittimando sul piano sociale che l’intervento dello Stato nell’economia costituisse la base portante del benessere dei cittadini, da conseguirsi attraverso la conservazione dello stabile funzionamento del sistema economico; ciò ha prodotto la trasformazione dello Stato di diritto liberale in Stato sociale di diritto, legittimando in tal modo un intervento pubblico costante di natura strutturale nel governo dell’economia. Le riforme istituzionali introdotte hanno dato luogo alla costruzione del sistema di sicurezza sociale, la cui funzione è stata quella di rendere operante la stipula di un patto politico tra capitale e lavoro, fondato sull’apporto teorico di John Maynard Keynes al pensiero economico dominante.
Il welfare State è divenuto così, sul piano dell’azione politica dei Paesi che l’hanno adottato, il presidio della realizzazione delle condizioni volte a garantire lo stabile funzionamento del sistema economico, con una crescente creazione e conservazione di opportunità lavorative. In particolare, il sistema welfarista ha assunto anche la funzione di assicurare alla forza lavoro, nel caso fosse risultata temporaneamente e involontariamente disoccupata, la garanzia di un reddito da corrispondere sotto forma di sussidio, a fronte di contribuzioni previdenziali a carico di imprese e lavoratori.
Negli anni successivi alla sua introduzione, il welfare State ha perso gran parte della sua funzionalità, a causa del formarsi di una diffusa disoccupazione sempre più difficile da “governare”; fatto, quest’ultimo, che ha messo progressivamente in crisi il sistema di sicurezza sociale realizzato, a causa delle profonde trasformazioni delle modalità di produzione del prodotto sociale e della crescente partecipazione dei cittadini alle procedure decisionali dell’attività politica.
E’ però opportuno ricordare che il welfare State fondato sulle idee di William Beveridge, si contrapponeva una proposta alternativa, avanzata da James Edward Meade (premio Nobel per l’economia 1977 e già docente alla London School of Economics e alla Cambridge University). Meade proponeva che la sicurezza sociale fosse garantita in termini radicalmente diversi da quelli previsti dal sistema suggerito da Beveridge; la sicurezza sociale, a suo parere, poteva essere meglio assicurata, invece che con la corresponsione ai soli disoccupati di sussidi condizionati (vincolando, ad esempio, il disoccupato a reinserirsi nel mondo del lavoro e a sottoporsi a un insieme di controlli non sempre rispettosi della dignità della persona), attraverso l’erogazione di un reddito di cittadinanza universale e incondizionato, da corrispondere a tutti i cittadini senza alcun vincolo. Meade chiamava tale forme di reddito “dividendo sociale”, da finanziarsi senza alcun inasprimento del sistema fiscale ad integrazione del welfare State. Il dividendo sociale, doveva essere corrisposto a ciascun cittadino sotto forma di trasferimento pubblico, indipendentemente da ogni considerazione riguardo ad età, sesso, salute, stato lavorativo, stato coniugale, prova dei mezzi e funzionamento stabile del sistema economico.
Il fine ultimo della proposta di Meade era quello di realizzare un sistema di sicurezza sociale che riconoscesse ad ogni singolo soggetto, in quanto cittadino, il diritto ad un reddito di base, erogato in termini assolutamente ugualitari. Tuttavia, tale proposta non è stata accolta, non solo per il maggior accreditamento sociale delle idee keynesiane sulle quali era stato formulato il sistema di welfare, ma anche perché i “Gloriosi Trent’Anni” (1945-1975), nell’arco dei quali i sistemi sociali democratici ad economia di mercato hanno vissuto un periodo di crescita sostenuta, sono valsi a giustificare il consenso in pro dei welfare State nazionali, aperti ad allargare sempre di più le loro funzioni.
Se il processo di allargamento delle finalità dei sistemi di welfare, ha avuto l’effetto di promuovere l’espansione e la sicurezza economica dei cittadini, esso ha anche portato ad una continua crescita della spesa pubblica, la cui copertura, per via dell’aumentata frequenza dei periodi di instabilità dei sistemi economici, è stata la causa del rallentamento del processo di crescita e sviluppo delle economie, con la formazione di crescenti livelli di disoccupazione strutturale irreversibile. Tali fenomeni, oltre ad incrinare l’antico patto tra capitale e lavoro, hanno anche determinato una crisi più generale del welfare State, progressivamente trasformatosi in struttura caritatevole nei confronti di una crescente massa di disoccupati, contribuendo ad allargare l’area della povertà, a causa delle sempre più limitate prestazioni sociali nei confronti di chi perdeva la stabilità del posto di lavoro.
Alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, il rallentamento della crescita e dello sviluppo, nonché la conseguente crisi del welfare, hanno comportato il “ricupero” di antiche ideologie economiche e politiche conservatrici, dando vita al neoliberismo; imputando la causa della stagnazione del sistema economico al crescente livello della spesa pubblica, questa nuova ideologia ha individuato la soluzione del problema del rilancio della crescita e dello sviluppo nella riduzione delle prestazioni sociali (considerate un disincentivo al lavoro) e del carico fiscale (col quale veniva finanziato il sistema di sicurezza sociale).
Quali siano stati gli esiti di questo nuovo orientamento politico è ormai nell’esperienza di tutti. Ma se il connotato principale degli attuali sistemi produttivi ad economia di mercato è stato quello di causare crescenti livelli di disoccupazione strutturale (complici, da un lato, l’internazionalizzazione senza regole delle economie nazionali e, da un altro lato, l’elevata velocità dei processi di miglioramento delle tecnologie produttive), quale prospettiva può essere offerta ai disoccupati irreversibili (e, in generale, a tutti coloro che risultano privi di reddito) di partecipare alla distribuzione del prodotto sociale, perché sia loro reso possibile di perseguire dignitosamente il proprio progetto di vita?
La risposta a questo interrogativo può essere data solo prendendo in considerazione una riforma delle modalità di distribuzione del prodotto sociale, erogando a tutti i cittadini un dividendo sociale (come originariamente lo ha denominato Meade), indipendentemente dalla loro età e dal fatto di essere occupati, disoccupati o poveri; una soluzione però ignorata dai Paesi sempre più frequentemente colpiti da crisi economiche, le cui forze politiche hanno preferito, al contrario, continuare a “rabberciare” il vecchio sistema welfarista.
Da tempo, a livello internazionale, si propone di ricuperare l’originaria proposta di Meade, per istituzionalizzare un reddito di inclusione, una forma di trasferimento pubblico (a favore di chi è privo di reddito) diversa da quella prevista dal sistema welfarista; tale è, ad esempio, il trasferimento che, con la denominazione impropria di reddito di cittadinanza, viene corrisposto sulla base dei provvedimenti adottati di recente in Italia. In realtà, questa forma di erogazione fondata su un’impropria identificazione tra povero e disoccupato ed un approccio caritatevole, che vede nel percettore del reddito un potenziale approfittatore da tenere sotto sorveglianza ed al quale prescrivere persino i consumi, è tutto fuorché un dividendo sociale (o reddito di cittadinanza) universale e incondizionato.
Una riforma delle regole di distribuzione del prodotto sociale fondata sull’introduzione di un reddito di cittadinanza à la Meade renderebbe inutile, quasi totalmente, l’intero apparato del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, qualora essa fosse associata ad una riqualificazione dell’attuale sistema di welfare, indirizzandolo a curare prevalentemente, se non esclusivamente, la formazione professionale e lo stato di salute dei cittadini. Tale riforma renderebbe plausibile il rilancio di uno stabile processo di crescita e sviluppo, evitando ogni possibile spreco della risorsa più preziosa (cioè la capacita lavorativa e creativa dei cittadini) della quale ogni sistema dispone anche nelle fasi di crisi.
Con l’introduzione di un reddito di cittadinanza (universale e incondizionato) e la riqualificazione del sistema di welfare diventerebbe realistico pensare che il settore pubblico, liberato dall’incombenza di risolvere i problemi distributivi di momento in momento insorgenti, possa essere orientato prevalentemente ad allargare e diversificare l’offerta di beni collettivi, utili a massimizzare la valorizzazione delle capacità lavorative di tutti i cittadini; i quali, attraverso la loro creatività, potranno concorrere a plasmare, non solo l’economia, ma anche la società alla quale appartengono.
Che senso può avere la costituzione di un’organizzazione della società fondata su un’attività d’investimento pubblico volto a rendere massima la valorizzazione delle capacità lavorative individuali? Se si riflette sulle difficoltà delle moderne economie industriali a creare nuovi posti di lavoro, l’introduzione di un reddito di cittadinanza universale e incondizionato risponderebbe all’urgenza che le politiche pubbliche tradizionali divengano conformi alla soluzione dei problemi del nostro tempo, quali – tra i molti – la povertà, la disoccupazione, la salute pubblica e la bassa produttività dell’attività politica, ora perennemente “schiacciata” sul presente e poco orientata a progettare il futuro.
Questi problemi possono essere adeguatamente affrontati da una riorganizzazione del sistema sociale che, eliminando le disuguaglianze, la disoccupazione, la povertà e le minacce allo stato di salute della collettività, crei sempre più spazio ad attività d’investimento pubblico volte a massimizzare il prodotto sociale, attraverso la promozione di attività produttive autodirette, come fonte di reddito alternativo al lavoro eterodiretto (o dipendente), del quale il processo di accumulazione capitalistica contemporanea tende ad avere sempre meno bisogno.
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Rammentiamo che è in corso una Campagna per l’istituzione del Reddito di cittadinanza incondizionato e universale in Italia e in tutti gli altri paesi dell’Unione Europea, promossa da Unconditional Basic Income Europe e da BIN Italia. Aladinpensiero, il manifesto sardo, Democraziaoggi e Giornalia appoggiano detta Campagna e invitano a firmare l’apposito appello.
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Materiali per il Dibattito su Lavoro e Reddito di Cittadinanza
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Oggi martedì 31 marzo 2020
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—————————Opinioni, Commenti e Riflessioni, Appuntamenti———-
Coronavirus. Carte, telefonini: quid juris per il controllo a distanza?
Andrea Pubusa su Democraziaoggi
Per combattere il coronavirus tracciamento delle persone tramite telefonini carte di credito e simili? Ci sono molti sedicenti esperti che ammettono senz’altro queste limitazioni sulla base di ragionamenti di buon senso e di pura opportunità (prima la salute poi la riservatezza). Credo sia un modo errato di porre il problema.[...]
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I “diritti dell’uomo”. La “scoperta” dell’Illuminismo caduta nell’oblio
di Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi.
Vincenzo Ferrone, autorevole studioso dell’Illuminismo e dell’Ancien régime, in “Storia dei diritti dell’uomo” solleva una questione di peculiare interesse per i politici, i giuristi e i sociologi impegnati a definire i diritti dell’uomo in tutte le sedi internazionali. Essi, però, a parere dell’autore, dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989, si sono […]
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La scelta del governo tra un reddito di emergenza e uno incondizionato anche per «dopo»
Reazioni a catena. Pd e Cinque Stelle convergono sull’idea di estendere il reddito di cittadinanza chiesta dalla campagna per il Reddito di quarantena e dalla petizione del Basic Income Network Italia. Per i promotori la misura non può essere però intesa come “transitoria”. Dev’essere strutturale: “L’emergenza c’era già prima del Coronavirus e durerà dopo in condizioni peggiori. E’ necessaria una misura strutturale e individuale”. Ma nel governo l’orientamento prevalente sembra quello di una misura “transitoria” o “di sopravvivenza”. Anche se c’è anche qualcuno che vuole una modifica dei vincoli attuali. Renzi e Salvini rifiutano tutte le opzioni e chiedono di finanziare le imprese. La nuova misura potrebbe partire già da aprile. Su il manifesto del 29 marzo 2020.