Risultato della ricerca: ransatlantic Trade and Investment Partnership

Salute nel Mondo e in Italia

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Pandemia e scenario sanitario internazionale
17-09-2021 – di: Nicoletta Dentico su Volerelaluna*

A quasi due anni dall’inizio del contagio che piega il mondo, e delle inequivocabili pedagogie che assimilano l’emergenza umana all’emergenza sanitaria del pianeta, la salute domina la scena come scacchiera di una partita geopolitica aspra e confusa. L’annunciato nuovo coronavirus – che oramai tanto nuovo non è più – non avrebbe mai dovuto diventare una pandemia. Lo ha dichiarato senza fronzoli il rapporto del Panel Indipendente della Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms): la comunità internazionale aveva tutte le competenze tecniche e le regole operative vincolanti per serrare i confini del primo focolaio virale e farne una epidemia circoscritta geograficamente. Non lo ha fatto. La catastrofe sanitaria in cui ci troviamo ancora, con la fame acuita e la crisi socio-economica che fanno da corollario pandemico, è il frutto avvelenato della incapacità dei governi di aderire alle norme del diritto internazionale e di cooperare, come pur accadeva in passato durante la guerra fredda, sul terreno della salute.

Forse sulla scia di questa responsabilità storica non propriamente interiorizzata, la comunità internazionale continua a incontrarsi – non si sono mai visti tanti appuntamenti multilaterali sulla salute globale come nel 2021 – ma nella totale incapacità di andare oltre le formule di circostanza, che sono il metronomo della nostra vita pubblica. Il sostanziale rigetto di un impulso universalistico, sotto l’egida delle istituzioni internazionali deputate a governarlo, si è infilato come un virus nella Babele di iniziative individuali e di strutture che germinano come schegge di un multilateralismo in frantumi.

Qualche esempio? L’Europa ha avviato a gennaio una demarche a favore di un trattato pandemico in seno all’Oms; a maggio la Svizzera ha lanciato il suo BioHub e la Germania il suo l’Hub globale per la intelligence pandemica ed epidemica. A giugno il consigliere scientifico della Casa Bianca, Eric Lander, è partito con l’idea che un vaccino debba essere pronto in 100 giorni dallo scoppio della prossima pandemia e solo qualche giorno fa il presidente Joe Biden, assai poco propenso all’idea di negoziare un trattato, ha proposto un summit internazionale sul Covid-19 e sulle vaccinazioni in concomitanza con la Assemblea dell’ONU a New York. È notizia recente anche il piano di USA ed Europa di resuscitare l’esplosivo Transatlantic Trade and Investment Partnership (notorio come TTIP), dissotterrando il negoziato seppellito nel 2016 per ripescare l’alleanza atlantica in versione anti-Cina. La posta in palio della nuova rotta bilaterale, annunciata prima del G7, non punterà più solo a specifici settori dell’industria, ma all’intelligenza artificiale, alla governance dei dati, agli standard industriali tout court. Il primo incontro del Trade and Tech Council fra Bruxelles e Washington è previsto a Pittsburgh il 29 settembre .

La pandemia insomma ha ridisegnato i contorni dell’ordine internazionale, non solo sanitario, con impreviste forme di protagonismo e pigli di potere debitamente mascherati dalla retorica della interdipendenza, della cooperazione. La comunità internazionale si proietta in un futuro pandemico come fosse un destino a cui non può più sottrarsi. Vero: altre pandemie prosperano silenziose – ad esempio la antibiotico-resistenza, per cui l’Italia vanta il record di casi nel contesto europeo; incombe il pericolo di nuovi salti di specie dei virus, in linea di continuità con le incalzanti zoonosi che hanno marchiato l’inizio del millennio – visto che nessuno sembra intenzionato a mettere in discussione il conflitto irriducibile fra capitalismo e sostenibilità ecologica.

Ma la costruzione di uno scenario di “preparazione e risposta alle pandemie” (pandemic preparedness and response), al posto di una loro futura prevenzione, serve eccome a riconfigurare gli assetti della governance sanitaria mondiale. È una prospettiva munifica di benefici per quanti indirizzano la salute verso pratiche sempre più securitarie e personalizzate grazie a soluzioni tecnologiche non più obiettabili, perché considerate la strada più economica e affidabile per intercettare ogni avvisaglia futura. I cantori di questa strategia, tutt’altro che neutrale, apparecchiano danni ambientali non trascurabili ma soprattutto non trascurabili profitti per l’industria digitale che nessuno controlla, men che meno in tempo di pandemia.

Dal canto loro, è chiaro che le aziende che producono vaccini non hanno alcun interesse ad eradicare la pandemia, casomai puntano a endemizzarla, così da prolungare al massimo la grande abbuffata che Covid-19 ha servito su un piatto d’argento. Uno tsunami di investimenti pubblici e zero rischi d’impresa: in un anno la pandemia ha generato 8 nuovi miliardari farmaceutici, 5 dei quali afferiscono alla start up americana Moderna. L’idea di un Global Health Threats Board and Fund per gestire le emergenze sanitarie, avanzata dal Panel indipendente dell’Oms e dal G20 con la benedizione della amministrazione americana, va dritta in questa direzione: l’ennesimo dispositivo multi-stakeholder per una nuova immuno-politica farmaco-digitale. Con lauti finanziamenti pubblici, l’industria farmaceutica terrà ben stretto il coltello dalla parte del manico per sfornare le tecnologie bioinformatiche e le soluzioni biomediche per future pandemie.

Nell’aprile 2020, la creazione dell’Access to Covid-19 Tool Accelerator (ACT-A) per la ricerca e distribuzione globale dei rimedi contro il Covid – proposto dalla Fondazione Gates con l’estatica accoglienza della Commissione Europea e della presidenza francese, e l’imprimatur della Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) – ha decretato la scelta della comunità internazionale di affidare a partnership pubblico-private la gestione internazionale della prima crisi di salute planetaria. Sono entità di diritto privato e densamente popolate da Big Pharma come Global Alliance for Vaccine Immunization (GAVI) e Coalition for Epidemic Preparedness and Innovation (CEPI), che detengono la conduzione operativa della emergenza su scala globale, finanziata dai governi. Con inspiegabile euforia, l’analista brasiliano Carlos Federico Pereira da Silva Gama scrive che il pilastro vaccinale di ACT-A, COVAX, è il trampolino di lancio della nuova governance della salute globale dopo la pandemia. Peccato che COVAX sia «una sorta di banca d’affari che usa capitali pubblici per conformare l’industria della preparazione dei vaccini e il mercato dei consumatori nel Sud del mondo», con grave vulnus per la cooperazione multilaterale, secondo l’ex diplomatico Harris Gleckman.

Nella retrocessione e deformazione del ruolo dello Stato, i governi dei paesi più influenti non risultano quasi più distinguibili dal settore privato, ingabbiati come sono in politiche che generano iniquità, ma condite di parole positive che vengono di volta in volta profanate, sfigurate: People, Planet, Prosperity, Peace and Partnership. L’adesione governativa alle classiche istituzioni sanitarie multilaterali si è friabilizzata con la progressiva istituzionalizzazione degli interessi privati degli ultimi venti anni.

Oggi la surreale incapacità di un impegno governativo adeguato alla razionale pedagogia di Covid-19 non risparmia nessuno. Ne è un recente esempio la sessione ministeriale del G20 salute tenutasi a Roma il 5 e 6 settembre con il banner ufficiale “Together Today for a Healthier Tomorrow” (“Insieme oggi per un domani in miglior salute”). Questa si è conclusa con il cosiddetto “Patto di Roma”, un documento di undici pagine infarcite di aspirazioni altisonanti sistematicamente smentite dalla realtà di apartheid sanitario nella gestione della pandemia. Il ministro Roberto Speranza ha dichiarato che il Patto di Roma «manda un messaggio fortissimo al mondo: che il globo è unito». Ma le fonti raccolte alla vigilia dell’incontro, e il suo svolgimento seguito in diretta dai colleghi del G-20, raccontano di tensioni insanabili all’interno. Soprattutto, ma non solo, fra Stati Uniti e Cina. Tali per cui non si va oltre i luoghi comuni e la vaghezza operativa.

Così, nel secondo anno pandemico, la salute resta terreno di un confronto aspro. D’altronde, la disuguaglianza nella distribuzione e somministrazione globale dei vaccini restituisce una realtà molto netta: la solidarietà resta un miraggio, impigliata com’è nei fili spezzati di un multilateralismo di facciata. L’IMF-WHO COVID-19 Supply Tracker, il dispositivo che fornisce i dati aggiornati sulle linee di approvvigionamento certe o attese di vaccini in rapporto alla popolazione, spiega come Canada, Australia, Nuova Zelanda, Gran Bretagna e Stati Uniti si siano assicurati dosi per una copertura stimata tra 200 e 400% della loro popolazione. Ursula von der Leyen ha annunciato il 70% di copertura in Europa a fine agosto. Ma le 5,3 miliardi di dosi somministrate finora hanno raggiunto solo l’1,6% della popolazione del Sud del mondo, con la prima iniezione. E così 3,5 miliardi di persone attendono la prima vaccinazione, in uno scenario tecnicamente complicato da vaccini Covid inadatti ai paesi con scarse strutture sanitarie – si pensi alla improbabile catena del freddo, o alla necessità della doppia dose in assenza di registri vaccinali centralizzati.

Si contano 4,6 milioni di decessi a causa di Covid-19, ma il numero reale potrebbe essere almeno il doppio, visto che la pandemia è sempre più concentrata nei paesi del Sud globale. Così, mentre COVAX rivede al ribasso le proiezioni di fine anno per la distribuzione dei vaccini, lo iato tra accaparramento vaccinale dei paesi ricchi – oggi concentrati sulla terza dose – e la radicale penuria di vaccini nei paesi impoveriti si aggrava, soprattutto in Africa.

Si stima che la popolazione africana raggiungerà il 60% di copertura vaccinale solo nella metà del 2023 – con una perdita di PIL calcolata in ragione di 2,3 miliardi di miliardi di dollari tra il 2022 e il 2025. Nella sola Italia a presidenza G20 (60,36 milioni di abitanti) sono stati somministrati più vaccini di quanto non siano stati iniettati in tutto il continente africano (1,3 miliardi di persone). Come all’inizio, questa condizione spiana la strada alla cinetica del virus, più ostica in forza delle nuove varianti. E infatti i casi, le ospedalizzazioni, le morti stanno in risalita in molte parti del pianeta. Israele, la nazione apripista per le spregiudicate strategie vaccinali dell’inizio 2021, si ritrova in piena ripresa del contagio con la variante Delta dominante e la Mu che emerge sulla scena: 1.000 casi su 1 milione di abitanti, il numero più elevato al mondo.

Ma il G20 salute non demorde. Neppure il rutilante Patto di Roma, in cui i paesi del G20 si impegnano a fare di tutto, si azzarda a osare un minimo accenno alla concreta misura politica, prevista dal diritto internazionale, che riguarda la sospensione temporanea dei diritti di proprietà intellettuale (TRIPS Waiver). Fra i suoi Stati membri, il G20 annovera India e Sudafrica promotori della proposta: in febbrile discussione mentre scriviamo al Consiglio dei TRIPS, al WTO. Non basta l’insistenza di diversi governi del G20 in favore del waiver per trovarne un riferimento nel documento della ministeriale: la stucchevole retorica sul vaccino bene comune si incaglia per la seconda volta, dopo il summit sulla salute globale del G20 del 21 maggio, nel silenzio tombale su questa ipotesi di lavoro sostenuta da oltre cento paesi dell’Organizzazione Mondiale del Commercio e da molte istituzioni internazionali.

La sospensione dei diritti di proprietà intellettuale forzerebbe una transizione verso la logica di cooperazione tra Stati, spesso del tutto inconsapevoli dei meccanismi che regolano l’industria farmaceutica. Indicherebbe una possibilità di nuove rotte per immunizzare la comunità internazionale dal feudalismo della economia della conoscenza. Ma no: questo waiver non s’ha da fare, secondo il G20. Né ora né mai.

Anzi, la politica è in piena fase regressiva su questa materia. Covid ha dato alla UE il pretesto per rivedere il Piano di Azione sulla proprietà intellettuale a sostegno della strategia di Ripresa e Resilienza, per indirizzarlo al sconcertante rafforzamento della proprietà intellettuale e alla promozione sperticata delle licenze volontarie come «la via maestra per la condivisione della conoscenza». La stessa cosa sta facendo in Italia il MISE con il piano di riforma della proprietà industriale. Non deve dunque sorprendere la sindrome da rimozione del G20 e del Patto di Roma. Il documento cita sì la necessità di diversificare e rafforzare le produzioni medicali nel Sud del mondo, abbattendo però solo gli ostacoli commerciali e doganali. Il G20 prevede un complesso meccanismo di spinta pubblica alle aziende farmaceutiche perché trasferiscano le loro tecnologie con licenze volontarie che lasciano intatti i monopoli della scienza medica. Uno scenario che si sta dinamizzando da qualche mese, ma anche con vicende paradossali. Alla vigilia del G20 Salute, Ursula von der Leyen ha accettato alla fine di rimandare in Africa milioni di dosi di vaccini anti-Covid prodotti dalla joint venture di Johnson & Johnson e la sudafricana Aspen Pharmacare: erano stati esportati in Europa!

Intanto le decisioni del G20 che contano sulla salute saranno forse prese nella sessione congiunta salute-finanze di fine ottobre. Il sito del ministero della Salute lo annuncia: sarà la sede «per affrontare in particolare la questione fondamentale di come migliorare l’architettura globale della sanità». Spetta dunque alle logiche finanziarie sancire le priorità sanitarie da sostenere, in uno schema di gioco che rischia di ripetere quanto già visto dagli anni ’90 in poi con Banca Mondiale e FMI. Non c’è di che stare tranquilli: uno studio della Initiative for Policy Dialogue della Columbia University segnala uno tsunami di politiche di austerity in arrivo. Le analisi delle proiezioni fiscali del Fondo Monetario Internazionale (FMI) indicano che nuove misure di austerity sono attese in 154 paesi nel 2021 e in 159 paesi entro il 2022 – una pandemia finanziaria che si abbatte su 6,6 miliardi di persone, l’85% della popolazione mondiale, e con una tendenza patologica destinata a durare fino al 2025.

David Quammen ha scritto che non eravamo preparati alla pandemia per mancanza di immaginazione. Forse è questo il vero virus che uccide molto più di Covid.

*L’articolo, tratto dal sito di Sbilanciamoci!, è ripubblicato da Volerelaluna, con cui è in atto un accordo di collaborazione.
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Il Servizio sanitario nazionale è arrivato impreparato all’appuntamento con il COVID-19, penalizzato da anni di de-finanziamento, di tagli dei posti letto e del personale e da politiche che hanno inciso negativamente sulla tenuta dei servizi territoriali e di prevenzione. Ha mostrato le sue debolezze e fragilità. Rapidamente si è sviluppato un generale consenso politico sulla necessità di rafforzare il servizio sanitario nazionale. Ma passata la fase acuta della pandemia, la sanità è ben presto tornata a occupare la parte bassa della classifica delle priorità̀ del paese.
La conferma che non fosse in vista alcun rafforzamento del SSN è arrivata già lo scorso aprile quando il Governo ha reso note le previsioni di andamento della spesa sanitaria pubblica. Se dal 2017 al 2020 questa percentuale era rimasta ferma al 6,6% del PIL (tra le più̀ basse in Europa), impennandosi al 7,3% nel 2021 a causa delle spese COVID, la tendenza programmata negli anni successivi mira decisamente al ribasso: 6,7% nel 2022; 6,6% nel 2023 e addirittura 6,3% nel 2024.
Un pessimo segnale che indica il ritorno allo scenario che, a partire dal 2011, ha penalizzato il SSN, riducendo risorse umane e strutturali, tagliando l’offerta pubblica di servizi, provocando lo scandaloso allungamento delle liste d’attesa e favorendo l’espansione dell’offerta privata, trainata anche dalla diffusione di varie forme di assicurazioni integrative aziendali. La lezione della pandemia non è servita.
Diversi indizi stanno anzi a indicare che è sempre più attuale il disegno di privatizzare la sanità italiana, iniettandovi generose dosi di mercato.
Primo indizio: il personale del SSN al palo
Mentre si registra un grande attivismo per garantire ai soggetti privati l’accesso ai finanziamenti europei nessuna buona notizia arriva dal fronte del personale del SSN che nell’ultimo decennio ha subito una drastica riduzione. E non c’è alcun segnale di inversione di tendenza dati i limiti previsti nella spesa corrente e la mancata rimozione dei vincoli che limitano le assunzioni stabili. Infatti le assunzioni di medici e infermieri, effettuate in emergenza Covid, sono state tutte a tempo determinato. Ed è anche necessario un maggior impegno affinché le Università adeguino la loro offerta formativa alle esigenze della popolazione.
Nel frattempo continua la fuga all’estero del nostro personale sanitario. Nell’ultimo decennio sono 10mila i medici italiani migrati all’estero, che arrivano a rappresentare il 50% dei medici stranieri presenti in Europa. Questa è la priorità assoluta: formare ed assumere alcune migliaia di medici e infermieri nei servizi pubblici.
Secondo indizio: la lentezza nella ripresa dell’attività ordinaria
Durante la pandemia gran parte dei servizi sono stati ridotti o addirittura sospesi, con ricadute negative sulla salute delle persone. La ripresa delle attività ordinarie fatica ora a vedersi, e i pazienti si stanno abituando a evitare le strutture pubbliche, per lo più in ristrutturazione e riorganizzazione. Si ricorre quindi al privato che al contrario, avendo partecipato solo marginalmente alle attività emergenziali, non ha bisogno di grandi ricostruzioni. Il rischio è che i 500 milioni messi a disposizione per smaltire le liste di attesa siano destinati tutti al privato, anziché a rinforzare la ripresa delle attività nel SSN, indebolendo ulteriormente l’offerta pubblica e aumentando il potere di mercato di molti soggetti privati. Così come, i fondi del PNRR per l’assistenza domiciliare integrata rischiano di essere destinati a erogatori privati anziché a rafforzare la presa in carico globale e integrata da parte dei servizi pubblici.

Terzo indizio: concorrenza sleale
Nel marzo del 2021, l’Autorità̀ Garante della Concorrenza e del Mercato rivolgendosi al Presidente del Consiglio dei Ministri con la sua annuale Segnalazione di Proposte di riforma concorrenziale ha sollecitato: “… una maggiore apertura all’accesso delle strutture private all’esercizio di attività sanitarie non convenzionate grazie a … una più intensa integrazione fra pubblico e privato volta ad incentivare la libera scelta di medici, assistiti e terzo pagante”. Vi è anche l’invito a eliminare “… il vincolo della verifica del fabbisogno regionale di servizi sanitari, prevedendo che l’accesso dei privati all’esercizio di attività̀ sanitarie non convenzionate con il SSN sia svincolato dalla verifica del fabbisogno regionale di servizi sanitari”.
Ci auguriamo che il Governo respinga – come accaduto nel passato – una raccomandazione pericolosa che assimila gli ospedali alle imprese. Certamente si tratterebbe di concorrenza sleale il comportamento di un Governo che da una parte apre i rubinetti della concorrenza tra pubblico e privato e dall’altra lega le gambe al competitore pubblico.
Quarto indizio: il modello lombardo è OK
La lezione della pandemia avrebbe dovuto produrre profonde correzioni a un modello di sistema sanitario (dimostratosi fallimentare nella lotta al Covid) che aveva cancellato la rete dei servizi territoriali pubblici, affidando l’erogazione delle prestazioni domiciliari ad agenzie private, e instaurato in campo ospedaliero una concorrenza tra settore pubblico e settore privato, fortemente squilibrata a favore del secondo. Tale modello era il frutto di riforme avviate fin dal 1995 dalla presidenza Formigoni e proseguite con la riforma Maroni del 2015. Tale riforma aveva carattere sperimentale e soggetta, dopo 5 anni, alla valutazione da parte del Ministero della salute, che ha deciso di delegare tale funzione all’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali. Con una stringata lettera del 30 luglio scorso Agenas da il suo OK preventivo alla riforma, dopo che ne sono state annunciate minime, cosmetiche correzioni.
Alla vigilia della predisposizione della legge di bilancio 2022 e della annunciata legge sulla concorrenza, è indispensabile correggere questi indizi e la nostra Associazione presenterà un documento più dettagliato di analisi e proposte per intraprendere la strada giusta che permetta di rafforzare il sistema sanitario pubblico.
14 settembre 2021.
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Il documento presentato in conferenza stampa dall’associazione Salute Diritto fondamentale. Per maggiori informazioni potete utilizzare il sito: https://salutedirittofondamentale.it/.
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In homepage l’immagine “E guarirai da tutte le malattie… ed io, avrò cura di te” (Dio smaterializza la struttura molecolare del Coronavirus COVID-19 sull’Italia e sul mondo per porre fine alla pandemia del 2019-2020), china su graphia, opera dell’artista Giovanni Guida, 2020, tratta da Wikimedia Commons

DIBATTITO sul Ceta: 2) Chi non si oppone e richiede scelte ponderate

lampada aladin micromicroSu Aladinpensiero online: https://www.aladinpensiero.it/?s=Ceta+Vanni+Tola
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In argomento ripubblichiamo l’articolo di Vanni Tola, su Aladinpensiero del 19 luglio 2018.
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di Vanni Tola.
Trattati internazionali per regolamentare gli scambi commerciali. Il governo “naviga a vista” rischiando di andare a sbattere. Il caso del trattato con il Canada (CETA) che ha finora favorito l’export italiano e che il governo non intende ratificare.
Negli ultimi decenni si sono attivate nel mondo complesse manovre di riposizionamento delle grandi potenze capitalistiche intercontinentali che hanno al centro la questione di una nuova regolamentazione dei commerci transnazionali, l’allargamento dei mercati, la ridefinizione di quelle che un tempo si chiamavano “aree d’influenza” delle grandi nazioni. Tale processo ha dato origine alla programmazione e stipulazione di diversi trattati commerciali intercontinentali i più noti dei quali sono certamente il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) e il più recente CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement) del quale sentiremo parlare in Italia in questi giorni. [segue]

CETA. Il governo “naviga a vista” rischiando di andare a sbattere

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di Vanni Tola.
Trattati internazionali per regolamentare gli scambi commerciali. Il governo “naviga a vista” rischiando di andare a sbattere. Il caso del trattato con il Canada (CETA) che ha finora favorito l’export italiano e che il governo non intende ratificare.
Negli ultimi decenni si sono attivate nel mondo complesse manovre di riposizionamento delle grandi potenze capitalistiche intercontinentali che hanno al centro la questione di una nuova regolamentazione dei commerci transnazionali, l’allargamento dei mercati, la ridefinizione di quelle che un tempo si chiamavano “aree d’influenza” delle grandi nazioni. Tale processo ha dato origine alla programmazione e stipulazione di diversi trattati commerciali intercontinentali i più noti dei quali sono certamente il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) e il più recente CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement) del quale sentiremo parlare in Italia in questi giorni. [segue]

DIBATTITO. Questa Europa è in crisi e la Sinistra non riesce a trovare proposte convincenti per un’altra Europa

bandiera-SardegnaEuropa1eddyburgSOCIETÀ E POLITICA
Europa, la minaccia della disintegrazione
«Dalla Brexit alla divisione tra Nord e Sud alle politica in materia di migrazioni. La crisi del processo di integrazione europeo nel rapporto Euromemorandum 2017 che verrà presentato a Roma il 16 marzo».
Sbilanciamoci info, 2 marzo 2017 (c.m.c.)

La crisi del processo di integrazione europeo ha molte sfaccettature e si è aggravata negli ultimi anni. Il sintomo più visibile è stato il referendum britannico sull’uscita dalla Ue, ma questo non è certo l’unico indicatore del diffondersi delle tendenze disgregatrici e delle crescenti contestazioni alle politiche europee.

Brexit

La disintegrazione dell’Unione è stata introdotta esplicitamente nell’agenda politica dal referendum britannico. Si può inquadrare il risultato del referendum nel contesto globale delle rivolte contro le élite politiche. La crescita delle diseguaglianze, l’insicurezza economica, la stagnazione o diminuzione del reddito subita da larghi strati di popolazione, insieme alla riduzione dei servizi pubblici, sono i fattori alla base di questo malcontento, le cui espressioni politiche variano enormemente.

In Gran Bretagna, come in molte altre nazioni, gli immigrati sono diventati i capri espiatori, accusati di aver causato problemi economici, quando in realtà la mobilità dei capitali, non del lavoro, è stata una delle principali cause della riduzione degli standard di vita medi e dell’erosione dei diritti dei lavoratori e della protezione sociale. In Gran Bretagna un altro capro espiatorio è stato trovato nei più bisognosi e sia i conservatori che i laburisti, prima del cambio nella leadership del partito, hanno invocato un’ulteriore riduzione dei già inadeguati livelli di protezione sociale.

Durante la coalizione tra conservatori e liberal-democratici, nel 2010-2015, i demagoghi dell’Independence Party britannico (Ukip), sono riusciti a indirizzare il malcontento popolare contro la Ue e a fomentare un nazionalismo xenofobo, che individua i nemici nei lavoratori provenienti dagli altri Paesi dell’Unione. La crescente forza dell’Ukip ha allarmato i partiti tradizionali. Ciò che ne è seguito è stato, almeno in parte, guidato dal caso.

Per cercare di fermare l’avanzata politica dell’Ukip, il primo ministro britannico David Cameron ha promesso un referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione, in un momento nel quale la coalizione al governo sembrava destinata a continuare a governare il Paese; poiché i liberal-democratici non avrebbero mai potuto condividere la decisione di tenere il referendum, i conservatori erano sicuri che tale promessa non avrebbe potuto realizzarsi nella pratica. Tuttavia, l’inaspettata vittoria di una maggioranza conservatrice alle elezioni ha costretto Cameron a rispettare l’impegno preso.

Il trionfo della campagna del leave (uscire dalla Ue) ha coinvolto due grandi correnti politiche: da una parte il nazionalismo xenofobo promosso dall’Ukip; dall’altra la corrente ultra-liberale interna ai conservatori. Michael Gove e John Redwood, due conservatori membri del parlamento britannico, hanno visto l’Europa come un ostacolo al capitalismo globale deregolamentato di cui sono promotori. Nigel Lawson, ministro dell’economia britannico negli anni ottanta, sostenitore di questa corrente scrisse “la Brexit completerà la rivoluzione economica iniziata da Margaret Thatcher”.

Queste due correnti sono potenzialmente in conflitto, poiché la radicale deregolamentazione proposta dai conservatori porterebbe, con molta probabilità, ad accrescere la precarietà economica della maggior parte della popolazione. Sino a oggi tale conflitto è, tuttavia, rimasto sopito. D’altra parte, però, è già scoppiato un aperto conflitto all’interno del governo post-Brexit di Theresa May. Alcuni ministri, influenzati da potenti gruppi di interesse – quelli finanziari innanzitutto – sono preoccupati per le possibili conseguenze dell’uscita del Regno Unito dal Mercato Unico e dai rischi di instabilità economica, che hanno portato a un forte deprezzamento della sterlina. Essi stanno adoperandosi per una ligth-Brexit, una interpretazione minimalista dell’uscita dall’Unione, che preservi il più possibile lo status quo. Altri, invece, sono determinati nel dare seguito alle richieste populiste di controlli sull’immigrazione, anche a costo di distruggere i rapporti con la Ue. Non è ancora chiaro quale delle due strade verrà seguita.

Le posizioni e le argomentazioni del movimento laburista sono state quasi ininfluenti nel dibattito referendario. La posizione accettata quasi unanimemente dal partito è stata che l’Europa, per come è adesso, non fa gli interessi dei lavoratori, ma un’uscita dall’Unione associata a un programma politico xenofobo e a un’agenda che punta alla deregolamentazione non può certo migliorare la situazione. Nonostante questa posizione fosse più che ragionevole, la debolezza del partito laburista, unita alla posizione pro-Brexit della stampa di destra, ha fatto sì che essa risultasse marginale nel dibattito.

La Brexit ha reso concreta la minaccia che forze centrifughe possano erodere, o forse addirittura distruggere, il progetto europeo. In particolare, il trionfo, con la Brexit, di due portati della destra radicale – liberismo economico estremo e nazionalismo xenofobo – rafforzano le tendenze disgregatrici in tutta Europa. Il fallimento dei leader europei nel rispondere al malessere sociale, che trova invece una distorta espressione in queste forze distruttrici, aumenta certamente le minacce per l’Unione. La passività con cui essa sta affrontando l’avanzata delle forze nazionaliste in tutta Europa è in evidentemente contrasto con la durezza e determinazione con le quali è stata schiacciata la proposta, razionale e pro-europea, di superamento dell’austerità in Grecia.

La divisione Nord e Sud nell’area euro

Non è stato solo il primo ministro britannico Cameron a spargere il seme della discordia in Europa. A suo modo, il ministro delle finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, ha fatto lo stesso quando, a luglio dello scorso anno, confrontandosi con il governo greco, non ha dato alternative se non accettare l’austerità e le riforme strutturali richieste o lasciare l’area euro. Schäuble, che già nel 1994 aveva proposto un’Europa caratterizzata da un nucleo centrale, ha chiarito che l’appartenenza all’Unione dei Paesi (quelli periferici!) è reversibile, se questi non si adeguano ai cambiamenti strutturali e all’austerità fiscale e salariale.

Il governo guidato da Syriza non era pronto ad affrontare l’uscita dall’euro e, sotto fortissima pressione, ha accettato le condizioni imposte dagli altri Stati membri dell’area euro, guidati dalla Germania. A causa della continua contrazione della domanda interna, nel 2015 il Pil greco è diminuito ancora dello 0.2%, mentre il tasso di disoccupazione è rimasto attorno al 25%. Se le politiche restrittive hanno abbassato il deficit della bilancia commerciale, senza peraltro affrontarne le cause, hanno però peggiorato i problemi legati al debito greco. Negli ultimi mesi, il conflitto tra Europa e Fondo Monetario Internazionale sulla sostenibilità del debito pubblico greco e la necessità di un suo taglio si è intensificato. I Paesi dell’Europa centrale, tra cui la Germania, sono particolarmente riluttanti all’idea di tagliare il debito greco, nonostante i loro governi siano pienamente coscienti del fatto che ciò sarà inevitabile.

I programmi di adeguamento strutturale sostenuti dalla Commissione Europea e dai governi del nucleo centrale europeo, non hanno affrontato la profonda divisione che corre tra Nord e Sud, né il problema della debolezza delle strutture produttive e della deindustrializzazione nella periferia Ue. Il deprezzamento dell’euro, unito al trasferimento del turismo di massa da Egitto, Turchia e Tunisia ai Paesi dell’ovest del Mediterraneo, ha alleviato la situazione di Spagna e Portogallo.

Analogamente, la riduzione del grado di restrittività delle politiche macro deciso sia dal governo provvisorio della destra in Spagna, sia dal neo eletto governo progressista portoghese, con la sua aperta politica anti austerità, hanno contribuito a una qualche, lieve ripresa economica. Nonostante i due governi non abbiano rispettato le regole di bilancio imposte dalla Commissione Europea, in autunno 2016 non sono stati sanzionati. Anche il governo tedesco ha sostenuto questa decisione, il che ha lasciato margine di manovra al partito popolare spagnolo, importante alleato del tedesco Cdu/Csu, in uno scenario politico particolarmente incerto. Tuttavia la flessibilità concessa non deve essere interpretata come un cambio di direzione generale.

Sebbene i Paesi del nord Europa godano di un tasso di disoccupazione più basso rispetto a quelli del sud, sono anche loro esposti ai pericoli causati dagli squilibri presenti nell’economia europea. Ad esempio, essi sono, data la loro apertura economica e commerciale, particolarmente vulnerabili all’eventualità di una recessione indotta dalla Brexit in Gran Bretagna e nei maggiori Paesi europei. La crescita delle esportazioni (misurate in valore per includere il petrolio norvegese), dopo una lieve ripresa successiva alla crisi, è stata bassa in tutti i Paesi del nord (con l’eccezione dell’Islanda).

La situazione in Svezia e Norvegia è stata in qualche modo alleggerita grazie alla variabilità del tasso di cambio delle rispettive monete, mentre la Finlandia, facendo parte anche dell’Unione Monetaria, non ha potuto far fronte con il deprezzamento della moneta agli specifici shock che l’hanno colpita – i problemi della Nokia e le sanzioni alla Russia in particolare –, la qual cosa sarebbe stata particolarmente necessaria per sostenere l’industria del legno e dell’acciaio.

Analogamente, in Danimarca l’ancoraggio della moneta all’euro ha contribuito alla stagnazione delle esportazioni, sin dal 2010. Sebbene il flusso dei migranti abbia causato una crescita della spesa pubblica in Svezia, tale politica attiva discrezionale non è stata usata per aumentare l’occupazione; in Finlandia, invece, la crisi è stata ulteriormente aggravata dalle politiche di correzione fiscale mirate a soddisfare le richieste europee. In generale, l’ortodossia economica non ha permesso politiche di bilancio attive e solo la politica monetaria fortemente espansiva della Bce e delle banche centrali svedesi e norvegesi, con il loro pericoloso impatto sui prezzi delle case, ha permesso alla spesa interna di compensare, almeno parzialmente, la bassa domanda di esportazioni.

I rifugiati e la rottura dell’area Shengen

L’arrivo di un gran numero di rifugiati dal Medio Oriente e dai Paesi africani nel 2015 e a inizio 2016 ha evidenziato le spaccature interne alla Ue. Mentre le procedure non formalizzate utilizzate per gestire la crisi hanno portato a scaricare il peso sui Paesi periferici, la regolamentazione Ue sui rifugiati – derivante dalla Convenzione di Dublino – indica esplicitamente che a farsi carico dei migranti devono essere i Paesi di primo ingresso nell’Unione, tipicamente i più poveri. Nel 2015 questa scelta ha messo particolarmente in difficoltà la Grecia. Nell’estate del 2015 è apparso evidente che il governo greco – già affamato dalle politiche di austerità – era ormai sopraffatto dall’emergenza.

La decisione del governo tedesco di accogliere i rifugiati di guerra, particolarmente siriani, ha aiutato la Grecia, ma ha comportato problemi con altri governi, dall’Ungheria alla Svezia. Essa, assunta senza previa consultazione degli altri Paesi, ha riconosciuto implicitamente il fallimento degli accordi di Dublino. Da settembre 2015 a marzo 2016 sono state adottate soluzioni temporanee, non previste dalla normativa in vigore, come quella dei corridoi umanitari tra Germania e Croazia, attraverso i quali ai rifugiati è stato consentito di raggiungere l’Europa centrale.

Queste misure sono state, però, fortemente avversate da forze nazionaliste conservatrici come il governo di Fidesz in Ungheria. Esse si sono fortemente mobilitate per chiudere le frontiere agli immigrati e costruire muri. Queste istanze hanno trovato risonanza nei partiti cristiano-democratici e, addirittura, in alcuni partiti social-democratici. Rappresentanti di alto rango di governi come quello ungherese e austriaco sono andati in visita in Macedonia – Paese candidato a entrare nell’Unione – elogiando come questa stesse difendendo i confini “europei”. Implicitamente, hanno così mostrato come ci sia un Paese considerato “ridondante” nell’area Shengen – ancora una volta la Grecia.

I Paesi Ue si sono dimostrati incapaci di trovare una nuova formula per distribuire gli oneri associati alla crisi dei migranti. Invece di un più che giustificato approccio umanitario associato a circostanze eccezionali, hanno optato per esternalizzare la gestione del problema. A tal fine, il 10 marzo 2016 è stato siglato un accordo con la Turchia, che prevede che essa accetti i rifugiati in cambio di soldi, mentre la Ue si impegna a ricevere un numero limitato di rifugiati siriani provenienti dalla Turchia; inoltre, è prevista l’accelerazione dei negoziati di accesso della Turchia all’Unione e l’abolizione del visto per l’ingresso nella Ue dei cittadini turchi. In pratica, il governo turco ha bloccato i rifugiati in Turchia, impedendogli di raggiungere la Ue, in cambio dell’acquiescenza europea rispetto al carattere sempre più repressivo del regime che governa quel Paese.

L’imposizione del Comprehensive Trade and Economic Agreement col Canada (Ceta)

Alla fine di ottobre 2016 la Commissione e, più in generale, tutte le forze liberiste hanno utilizzato tutti gli strumenti a loro disposizione per far sottoscrivere a tutti gli Stati membri il trattato Ceta con il Canada. Il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, ha elogiato questo accordo di libero scambio come “il più progressivo” mai siglato dall’Unione. Forti correnti interne ai partiti di sinistra, ai sindacati e ai movimenti sociali hanno, però, visto in questo accordo molti elementi regressivi dal punto di vista della democrazia e dello stato di diritto.

Una delle clausole più controverse riguarda la creazione di un tribunale che permetterebbe agli “investitori” (le grandi multinazionali) di citare in giudizio i governi per ottenere compensazioni economiche nei casi in cui ritengano che la regolamentazione nazionale leda i loro diritti, così precostituendo un privilegio legale per le imprese multinazionali. Altri elementi di preoccupazione riguardano, fra gli altri, i servizi pubblici e gli standard sanitari. Accordi commerciali come il Ceta scolpiscono nella roccia le regole liberiste, riducendo grandemente lo spazio per una ri-regolamentazione democratica. Le negoziazioni per il Ceta sono rimaste riservate a lungo, nascoste all’ombra delle trattative per la Transatlantic Trade and Investment Partnership (il Ttip), basata sulla stessa filosofia.

Quando le negoziazioni per il Ttip sono saltate, viste le forti resistenze, le forze del libero mercato hanno messo l’approvazione del Ceta fra le loro priorità. Di fatto, molte società americane hanno sedi in Canada e possono, perciò, comunque avvalersi del Ceta. In un certo senso, il Ceta è un sotterfugio per imporre comunque le regole del Ttip. Sebbene in Germania le proteste contro il Ttip e il Ceta siano state particolarmente accese, i social-democratici hanno ceduto alle pressioni dei conservatori loro alleati, del mondo degli affari e di Bruxelles.

Il partito social-democratico austriaco ha negoziato una dichiarazione interpretativa di alcuni punti critici, che verrà allegata al trattato. L’ultimo ostacolo alla firma è venuto dalle regioni belghe della Vallonia e di Bruxelles. La Vallonia, in particolare, aveva evidenziato già un anno prima le sue obiezioni alla Commissione ma, ciononostante, quest’ultima ha scelto di fissare comunque la data della cerimonia per la firma. Ciò si è rivelato in parte un errore di calcolo, in quanto il governo regionale ha fatto slittare la data prevista, cedendo, infine, solo dopo aver negoziato una dichiarazione speciale.

Il commissario europeo Günther Oettinger ha reagito alle controversie sul Ceta chiedendo che i governi nazionali non interferiscano con le politiche commerciali europee. L’intento di questa dichiarazione è, evidentemente, quello di contrastare l’opposizione al trattato tramite la centralizzazione. Il percorso di ratifica del Ceta da parte dei parlamenti nazionali si preannuncia, tuttavia, accidentato. Di fatto, il modo in cui l’Europa ha insistito per l’approvazione del Ceta aggrava la crisi di legittimità europea e fomenta le tendenze disgregatrici.

Le relazioni Ue-Usa dopo l’elezione di Trump

L’ascesa dei partiti nazionalisti di estrema destra non è rimasta confinata all’Europa. Negli Usa, l’oligarca Donald Trump ha vinto con un margine ristrettissimo le elezioni presidenziali, grazie al supporto di varie forze di destra. Gli elementi chiave della sua campagna sono stati un’aggressiva retorica anti-immigrati, la promessa di abbassare le tasse e la fine di trattati commerciali come il Ttip. Se realizzate, le promesse di interrompere le negoziazioni per il Ttip e di ridurre le spese americane a sostegno della Nato cambieranno significativamente le relazioni tra Usa e Ue.

Dopo l’elezione di Trump, si è riacceso il dibattito sulla formazione di una “difesa comune”. In un contesto di “cooperazione strutturale permanente”, la cooperazione militare tra gli Stati membri non può che aumentare. In effetti, sia i deputati europei cristiano-democratici che quelli social-democratici hanno chiesto un aumento della spesa militare da parte dei singoli Paesi: in un contesto dove molteplici sono gli elementi di crisi, emerge dunque un ampio consenso, che va dai social-democratici alle destre nazionaliste, per una maggiore militarizzazione dell’Unione e una politica estera più aggressiva. Questa spinta militarista deve essere contrastata con decisione dalle forze di sinistra e dai movimenti per la pace.

Idee e strategie per leggere le tendenze disgregative

L’ampio consenso tra i cristiano-democratici, i social-democratici e i nazionalisti di destra non va oltre la militarizzazione della politica estera. Le élite europee hanno intrapreso percorsi differenziati per fronteggiare le molteplici crisi e le tendenze disgregative. Queste strategie sono strettamente legate ai differenti scenari futuri considerati e ai diversi modi di guardare all’Europa. Come nel caso della Brexit in Gran Bretagna, anche in Europa sono le forze di destra che dominano il dibattito sul futuro dell’Unione.

Cercare di sopravvivere in qualche modo: questo è il modo prevalente di gestione delle molte crisi che affliggono l’Europa. È l’approccio privilegiato dalla maggior parte dei cristiano-democratici, come dei social-democratici e dei liberali. Si tratta di una strategia che punta a proseguire nell’attuazione del modello neoliberista di integrazione e a preservare l’attuale configurazione geografica dell’Unione Monetaria e dell’area Shengen. È un approccio che ottiene il supporto delle maggiori multinazionali, ma che non fa in alcun modo i conti né con le divisioni tra centro e periferia dell’Unione, né con la sua perdita di legittimazione agli occhi delle classi popolari. Nonostante questa strategia abbia la pretesa di preservare il processo di integrazione europeo e i suoi confini geografici, la mancanza di elementi di promozione della coesione non potrà che accelerare il processo di disgregazione europeo.

Vanno anche evidenziate due sotto-varianti di questa strategia.

Cercare di sopravvivere con un po’ più di flessibilità fiscale e maggiori investimenti pubblici. È la strategia perseguita principalmente dai social-democratici e, in parte, dalle forze di sinistra in Francia e nei Paesi mediterranei. Essa punta a integrare l’approccio sopra descritto con una combinazione di flessibilità fiscale e investimenti pubblici. Si cerca di ampliare lo spazio per gli interventi di politica economica alleggerendo le regole fiscali. Questa strategia è caratterizzata da una qualche maggiore attenzione ai problemi di coesione dell’Unione rispetto alla variante principale.

Cercare di sopravvivere restringendo e rendendo più rigida l’area Schengen. Questa variante invoca il ritorno temporaneo dei controlli alle frontiere nell’area Schengen e vuole escludere dall’area i Paesi che non sono disposti a tenere rifugiati e migranti “indesiderati” fuori dai confini nazionali. Quest’approccio è perseguito soprattutto dalle correnti nazionaliste interne ai partiti cristiano-democratici dei Paesi del nucleo centrale europeo e dei Paesi più orientali dell’Europa centrale, ma esso gode del sostegno anche di alcuni partiti social-democratici. De facto questa strategia sta già prendendo piede, come dimostrato, ad esempio, dalla reintroduzione di controlli temporanei alle frontiere e dalla costruzione di barriere fisiche di confine all’interno della stessa area Schengen.

Core Europe: la costruzione di un nucleo centrale europeo. L’Europa è già caratterizzata da differenti gradi di integrazione. Tradizionalmente, il concetto di Europa core è stato finalizzato a intensificare l’integrazione neoliberista tra i Paesi che ne dovrebbero farne parte. Per questo come area di riferimento si guarda a un insieme di Paesi più ristretto e omogeneo all’interno dell’area euro. Questa visione è stata ampiamente dibattuta all’interno dei circoli cristiano-democratici dei Paesi interessati. I partiti della destra nazionalista che propongono questa visione, come Freiheitliche Partei Osterreichs (Fpö) o Alternative fur Deutschland (AfD), puntano soprattutto a rendere l’Unione più piccola e omogenea, vogliono liberarsi dei Paesi periferici che ritengono un peso. Le proposte delle forze di destra dei Paesi periferici, come in Italia la Lega Nord o, in modo più lieve, il Movimento 5 Stelle, puntano ad abbandonare l’eurozona e sono dunque complementari a quelle che mirano alla costruzione del nucleo centrale.

L’Europa delle nazioni. Alcuni partiti della destra nazionalista sostengono che il processo di integrazione europeo debba focalizzarsi sul Mercato Unico e la relativa regolazione economica. I partiti della destra nazionalista nell’Europa dell’est, come Fidesz in Ungheria o Prawo i Sprawiedliwość (PiS), in Polonia ritengono, invece, fondamentali anche gli apporti dei fondi europei per lo sviluppo regionale. Tuttavia, essi invocano negli altri campi più libertà per gli Stati nazionali, in parte per realizzare strategie competitive, in parte per promuovere un’agenda politica nazionalista e conservatrice (ad esempio, in ambiti quali l’identità sessuale o le politiche sociali). Alcune forze della destra nazionalista, come il Front National in Francia, hanno formulato vaghe idee di “un’altra Europa”, tanto poco definite da non apparire sostanzialmente distinte da quelle che mirano alla completa dissoluzione dell’Unione.

Idee e strategie per la sinistra

Un’altra Europa: un federalismo europeo di sinistra: il concetto di un’altra Europa è stato usato anche da alcune forze di sinistra, ma con un significato completamente diverso. Il fine è quello di rifondare democraticamente la Ue, gettando le basi per un federalismo democratico europeo e per un’integrazione più equilibrata. Il punto è che i presupposti politici per l’attuazione di questa agenda sono particolarmente difficili da realizzare, sarebbe necessario un largo consenso generale e tra gli Stati membri, un contesto, insomma, opposto a quello che sembra prevalere attualmente.

A fronte del manifestarsi di forti disequilibri di potere fra i Paesi Ue e dopo l’esperienza greca, un crescente numero di forze di sinistra chiede ora l’attuazione di esplicite politiche di promozione sociale, che contemplino il non rispetto delle regole europee e, laddove necessario per intraprendere politiche progressiste, anche l’abbandono della moneta unica.

I due differenti approcci della sinistra differiscono principalmente nel giudizio su cosa sia politicamente realizzabile all’interno dell’Unione e su cosa potrebbe essere realizzato attraverso le singole politiche economiche nazionali.

Entrambe le prospettive appaiono di difficile realizzazione senza una maggiore unità politica e un maggiore incidenza elettorale della sinistra rispetto all’attuale. Malgrado contestazioni radicate negli specifici contesti nazionali costituiscano la più immediata forma di sfida alle politiche attuali, EuroMemo continua a ritenere indispensabile una prospettiva internazionale e a sostenere la necessità di un approccio coordinato a livello europeo per promuovere la ripresa economica e la giustizia sociale.

Brexit?

vicoGaribaldi
Regno Unito: meglio fuori?

democraziaoggiGianfranco Sabattini su Democraziaoggi

Il 23 giugno i cittadini del Regno Unito dovranno esprimersi attraverso un referendum se continuare a fare parte dell’UE, oppure uscire. L’eventualità che il voto sia favorevole all’exit sembra preoccupare alcuni potenti della terra, per i danni che potrebbero derivare ai cittadini britannici, mentre scarsa o nulla è la valutazione del possibile exit dal punto di vista dell’interesse dell’Unione Europea.
A parere di Marco D’Eramo (”Una Brexit per il bene dell’Europa”, Micromega, 4/2016) e di alcuni economisti, l’exit è un bene, e l’”augurio di una separazione consensuale è tanto più sentito quanto più lo stato attuale dell’Unione è catatonico, in rotta accelerata verso l’implosione”; ciò perché, senza un’unanime determinazione di tutti Paesi membri dell’UE, il progetto dell’unione politica dell’Europa è destinato a sicuro fallimento. A parere di D’Eramo, è inevitabile che ciò accada, se non fra alcuni mesi, di certo fra alcuni anni, perché nessuno dei problemi considerati come le cause prime della crisi dell’Unione da tempo manca di essere in cima alle preoccupazioni delle classi politiche dei Pesi membri, in funzione di una possibile soluzione.
Non sono stati risolti i problemi posti dal governo dell’euro, nonostante siano tendenzialmente considerati l’ostacolo principale che impedisce agli Stati membri di procedere sulla via della completa unificazione politica dell’Unione; inoltre, non è stata risolta la questione delle frontiere e quella dei migranti, che stanno mettendo a dura prova soprattutto i Paesi mediterranei; non sono stati neppure affrontati i problemi nascenti dalla disparità delle politiche economiche, dei regimi fiscali, delle politiche monetarie e degli squilibri delle bilance commerciali e, per di più, neanche il problema dell’”assenza di legittimità democratica degli organi realmente decisionali dell’Europa”: Commissione, Consiglio e Banca Centrale Europea.
A parere di D’Eramo, perciò, la domanda che ci si dovrebbe porre, riguardo alla desiderabilità o meno della Brexit, dal punto di vista dell’interesse, posto che esista, dei rimanenti Paesi dell’Unione, è se la vittoria del “no” al referendum di giugno possa servire a risolvere i problemi dell’Europa appena elencati e se si desidera realmente superare lo status attuale dell’Unione, che la vede ridotta solo al ruolo di mercato comune.
Se si considera che, da sempre, la propensione britannica è stata quella di conservare lo status di mero mercato comune dell’Unione, esistono valide ragioni per star certi che la vittoria del “si” al referendum corrisponde, da parte dei popoli europei che ancora credono nella validità del progetto di un’Europa politicamente unita, all’augurio che il “si” possa realmente prevalere; ciò, perché la permanenza del Regno Unito all’interno dell’UE non servirà a risolvere nessuno dei problemi prima indicati, di vitale importanza per il futuro dell’Unione.
A far prevalere l’attenzione dei popoli europei nei confronti del Regno Unito è stato il fatto che, sin dall’inizio, la sua adesione, prima alla Comunità Europea, divenuta Unione col Trattato di Maastricht, è stata suggerita da motivazioni che hanno riguardato esclusivamente l’interesse britannico, costringendo, il resto dei Paesi membri ad accettare un’umiliante relazione asimmetrica, che è valsa a mettere su di un piedistallo più alto il Regno Unito rispetto agli altri Paesi. Al riguardo, non può essere dimenticato che la “Perfida Albione” ha sempre esercitato l’opzione di rinunciare, quando per sé conveniente, all’adozione delle regole votate dall’Unione per tutti i Pesi membri, negoziando, di volta i volta, a seconda degli interessi in gioco, numerosi “opt-out” dalla legislazione e dei Trattati europei.
Questa propensione trova conferma, per chi pensasse ancora conveniente la conservazione dell’adesione del Regno Unito all’UE, nelle parole pronunciate recentemente alla Camera dei Comuni da David Cameron: “Il nostro messaggio a tutti è che noi vogliamo un Regno Unito che abbia il meglio dei due mondi: tutti i vantaggi dei posti di lavoro e investimenti che derivano dall’essere nell’Unione Europea, senza gli svantaggi di essere nell’euro e delle frontiere aperte”. Nel 1979, il Regno Unito aveva rifiutato di entrare a fare parte del Sistema Monetario Europeo e, nello stesso anno, Margaret Thatcher ha preteso lo “sconto inglese” (British rebate), che ha consentito al suo Paese di pagare un contributo netto all’UE di gran lunga inferiore a quello degli altri Paesi (come, ad esempio, quello italiano, pari a 6,1 miliardi di euro, rispetto a quello inglese, di soli 3,8 miliardi).
Ogni volta, il motivo per cui il Regno Unito ha invocato l’”opt-out” per qualche deroga, è stata la convenienza a salvaguardare il suo ”eccezionalismo finanziario”, com’è accaduto con la decisione, nel 2012, di non aderire al patto di stabilità economica (fiscal compact). Il comportamento britannico di non aderire sinceramente al progetto europeo non ha avuto conseguenze negative solo sul piano economico-finanziario; esso è risultato deleterio anche con riferimento a materie non strettamente economiche, come nel caso in cui, tanto per citare il più grave, ha mancato di aderire all’accordo di Schengen e di concorrere alla soluzione del problema dei migranti.
Per tutte le ragioni sin qui esposte, un’uscita del Regno Unito sarebbe per l’Europa un vantaggio; essa varrebbe, infatti, ad impedire un ulteriore screditamento, agli occhi di buona parte dell’opinione pubblica europea, del progetto dell’unificazione politica del Vecchio Continente e ad evitare precedenti ai quali si ispirano nelle loro richieste di “opt-outing” molti altri Paesi, col rischio di trasformare l’Unione in una configurazione a “geometria variabile”, a seconda degli interessi di questo o di quel Paese giudicati meritevoli di una tutela unilaterale. Ma, a parere di D’Eramo, ci sarebbe un motivo più profondo a giustificazione della convenienza per l’Europa che il Regno Unito “se ne vada”.
A parte il problema del deficit di democrazia, che spinge i popoli europei ad essere governati da élite tecnocratiche, prive di ogni legittimazione politica, esponendo l’Europa al pericolo di una deriva autoritaria, sarebbe maturato il tempo in cui i popoli europei dovrebbero prendere coscienza – afferma D’Eramo – che “è proprio contro una sovranità popolare europea che ha sempre remato il Regno Unito”. L’ostilità più forte si sarebbe manifestata, non “contro la sopranazionalità dell’Europa, ma contro la democratizzazione”. Perché tutto questo? La risposta di D’Eramo, per quanto possa lasciare allibiti, per le sue implicazioni politiche, non è peregrina; ma, se per caso avesse un fondamento, e ciò che accade a livello globale sembra darne conferma, a tutti coloro che sono i più convinti europeisti non resterebbe che recitare un “de profundis” per la perdita di ogni possibilità che l’Europa possa fare un qualche passo avanti sulla via dell’integrazione politica, anche in un futuro remoto.
A parere di D’Eramo, se il Regno Unito è contro una maggiore integrazione europea, non è solo per via della necessità di salvaguardare l’eccezionalismo economico-finanziario della City londinese, ma anche per via del fatto che esso fa parte di un sistema di alleanze che configgono con le istanze europeiste. Intanto, come molti Stati dell’UE, il Regno Unito fa parte della NATO, l’alleanza atlantica il cui “dominus” è situato al di là dell’Atlantico; in secondo luogo, a differenza dei principali Stati europei aderenti alla NATO, come Francia, Germania o Italia e Spagna, il Regno Unito fa parte di un altro sistema di relazioni internazionali, indicato col nome di “Anglosfera”, che include, oltre al Regno Unito, gli USA, il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda e il “Nucleo Bianco dell’ex Commonwelth”; tutti questi Paesi agirebbero a tutela dei propri interessi come un’”unica potenza militare integrata”.
La contemporanea adesione alla Nato e all’Anglosfera, in presenza di una “relazione speciale” che lega Regno Unito e USA, definisce i limiti dell’adesione del Regno Unito all’Unione Europea, dettati dalla “ricerca del massimo equilibrio possibile tra tutti vincoli posti dalle diverse alleanze”. Se così stanno le cose, perché allora viene esercitata, paradossalmente anche da parte degli USA, una forte pressione perché il Regno Unito continui a rimanere nell’UE?
L’interpretazione della risposta è lasciata alla sensibilità politica di ogni soggetto autenticamente europeista: “Proprio per la sua appartenenza all’Unione, Londra – afferma D’Eramo – consente ai capitali, alle banche, alle istituzioni statunitensi [oltre che alle proprie] libero investimento e movimento in tutta Europa”; vantaggio che Regno Unito e USA perderebbero nel caso in cui al referendum prevalesse il “si” alla Brexit. Gli USA, infatti, hanno bisogno di un “cavallo di Troia” britannico dentro l’Europa, anche perché la docile sudditanza di questa agli interessi statunitensi è cambiata con la fine dell’URSS; se dopo il secondo conflitto mondiale erano gli USA ad avere interesse a che gli Stati europei si unissero in funzione antisovietica, dopo la fine della guerra fredda, essi hanno intravisto il pericolo che un’Europa unita possa divenire una loro concorrente ed che l’euro possa diventare una reale alternativa valutaria alla primazia del dollaro. Così, gli USA, al di là dell’apparente interesse a che l’Europa approfondisca il processo di integrazione politica, in realtà hanno il loro principale interesse nel tenere l’Europa in una posizione di stallo e di costante debolezza, perché tramite la testa di ponte del Regno Unito sul Vecchio Continente, essi possano continuare a massimizzare la soddisfazione dei propri interessi materiali; tale è, ad esempio, al momento, quello di fare accettare il Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti (TTIP: Transatlantic Trade and Investment Partnership), un accordo commerciale di libero scambio molto contestato, in corso di negoziato dal 2013 tra l’Unione europea e gli Stati Uniti d’America, con l’obiettivo dichiarato di integrare i mercati al di là e al di qua dell’Atlantico, riducendo i dazi doganali e rimuovendo, per una vasta gamma di settori, le barriere non tariffarie.
Ma di strabiliante non ci sarebbe solo l’apparente interesse degli USA a che il Regno Unito non abbandoni l’Europa; ironia della sorte, esisterebbe anche quello analogo della Germania e della Francia: la Germania, per l’interesse vitale a dotarsi di una dimensione finanziaria internazionale al servizio della propria crescita economica, come starebbe a dimostrare il perseguimento della fusione della Deutsche Börse di Francoforte con il London Stock Exchange; la Francia, per l’interesse a che il Regno Unito resti in Europa a bilanciare lo strapotere tedesco, che dilagherebbe senza limiti nell’ipotesi si verificasse la Brexit.
Giustamente, D’Eramo conclude che la ragioni che spingono tutti i Paesi apparentemente interessati a salvare il progetto politico, oltre che economico, di un’Europa unita non sono sostanzialmente credibili, in quanto si muovono a livello globale, secondo la “logica di potenza” di stampo ottocentesco, con strategie finalizzate a trovare, di momento in momento, l’equilibrio più conveniente per il loro sistema delle relazioni internazionali a geometria variabile, cambiando la valutazione dei loro esclusivi interessi in funzione dell’evoluzione della situazione contingente. Se l’intera analisi di D’Eramo corrisponde al vero, riguardo alla ripresa del processo di integrazione dell’Europa, e molti accadimenti di questi ultimi anni valgono a confermarla, c’è davvero di che essere preoccupati del fatto che della Brexit se ne parli solo in termini molto riduttivi.
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Sul medesimo tema
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Yes Minister
Perché direi “si” al Brexit? Un’opinione provocatoria a pochi giorni dal voto
di Nicola Ortu

By sardegnasoprattutto/ 15 giugno 2016/ Società & Politica/

Premetto da subito di essere un europeista convinto: ho preso parte a numerose iniziative europee, non ultima un periodo di volontariato per la campagna anti Brexit, a Londra. Durante questi mesi ho ascoltato entrambi gli schieramenti, ed ho sviluppato un’opinione che, per quanto radicale, potrebbe portare benefici ad entrambe le parti.

In una serie britannica di satira politica risalente agli anni ottanta, “Yes, Minister”, un particolare episodio fa ancora scalpore per la sua attualità. In una conversazione fra un ministro del governo di Sua Maestà ed un alto funzionario britannico, si dice che il Regno Unito ha avuto gli stessi obiettivi di politica estera per almeno gli ultimi cinquecento anni: creare una “Europa disunita”. Fra ironia e realtà, i pilastri della politica comunitaria britannica sono stati ben delineati da Richard G. Whitman nell’ultimo numero della rivista International Affairs:

1) mantenere ed ampliare il mercato unico

2) aumentare il numero di stati membri presenti all’interno dell’Unione

3) fermare o quantomeno rallentare il più possibile la formazione di un’unione politica

4) fare in modo che Londra mantenga un ruolo decisionale nelle decisioni comunitarie a discapito dell’asse Parigi – Berlino.

Recentemente ho avuto modo di presenziare a numerosi eventi di ricerca e propaganda politica che si rifanno all’altra sponda ideologica del Brexit, ossia, le motivazioni degli euroscettici, sempre più numerosi in Inghilterra. Proprio nei giorni scorsi, mi ha scosso un evento organizzato dal Bruges Group – si definiscono un Think Tank neoliberista che si batte contro il federalismo europeo e la partecipazione britannica in un singolo stato europeo. Oratori della serata, due membri del parlamento britannico e Lord David Owen, ex segretario di stato e socialdemocratico peculiarmente a favore dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea.

In un’atmosfera da ideologia risalente più ai tempi della guerra fredda che al ventunesimo secolo, vengo accolto in una sala dopo aver pagato dieci sterline per entrare. Mi accomodo nelle prime file, pronto ad ascoltare. Mi guardo intorno: sono circondato da una gremita platea di anziani euroscettici e pochi giovanotti perbene in giacca e cravatta che hanno l’aria di non saper bene dove e perché si trovino lì, accompagnati dalle loro madri, e tutti facenti orgogliosamente vanto di grandi spille di latta che recitano la scritta “vote leave” (vota per uscire).

Di fronte a me, sul podio, quasi come una divinità da venerare, una fotografia in bianco e nero autografata di Margaret Thatcher, la lady di ferro, da cui il Think Thank trae ispirazione. In questa atmosfera surreale, sento parlare per un’ora di disegni europeisti volti a rubare la sovranità britannica, di burocrati che in quel di Bruxelles non farebbero altro che inculcare una narrativa deviata nelle menti dei funzionari britannici (il Community Method) e di un’Europa come nemico della gloriosa storia britannica. Lascio la sala per le otto, e mi infilo in un pub, gioca la Nazionale italiana agli europei di Francia.

Trasudano paura, i nazionalisti britannici, ma forse non sanno nemmeno loro per quale motivo. Non contano che, cercando di distruggere l’Unione Europea, potrebbero distruggere l’unione nazionale, con gli indipendentisti scozzesi già pronti a scendere per le strade in caso si esca dall’UE, e richiedere un nuovo referendum.

Attacchi ideologici di un gran disegno federalista aspettano chiunque abbia solo per un attimo intenzione di votare “remain” il 23 giugno, conditi da inneggi alla paura di un collasso economico dell’Eurozona, fra cui, quasi profeticamente, dicono che l’Italia potrebbe collassare sotto il peso del suo debito nel giro dei prossimi tre anni.

La platea è molto influenzabile, la classica espressione di un corpo sociale non informato: da un lato cupa, pensierosa, dall’altro euforica, quando si inneggia alla libertà dagli oppressori europei. Sembra di essere tornati a settanta anni fa, quando in Europa si combatteva tutti contro tutti, in cui si, era lecito definire i nostri vicini i nostri nemici, e la paura aveva ragione di penetrare le menti di giovani e vecchi.

Vorrei tanto che le paure di questi signori, attaccati alla grande storia e alla sovranità della loro patria come fanciulli alle loro madri durante un forte temporale, fossero almeno in parte fondate. Nessun disegno federalista è dietro l’angolo, almeno per ora. Hanno però ragione a dire che l’UE va cambiata, e lo dico anch’io, da convinto europeista.

L’Europa si nutre di integrazione, e non possiamo più aspettare i tempi di Londra. Comunque vada il 23 giugno, bisognerà rispettare il volere dei cittadini britannici come scelta democratica sovrana. Potessi, voterei leave, non tanto perché al Bruges Group siano riusciti a discostarmi dalle mie posizioni europeiste, ma proprio perché ho ancora a cuore il futuro dell’Europa.

Un’ulteriore integrazione su modello federalista, tanto ostacolata dal Regno Unito, allenterebbe non di poco alcuni dei grandi problemi di oggi, dai problemi di bilancio degli stati membri al fenomeno della duplicazione delle istituzioni comunitarie rispetto a quelle nazionali. Uniti nella diversità, recita il motto dell’Unione, con o senza Londra.

* Studente del Department of War Studies – King’s College London
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Brexit: l’uscita di Londra sarebbe un vantaggio per Berlino
18/06/2016 Luca De Biase sul suo blog

Gli stati contano sempre meno nella definizione delle scelte fondamentali? Le organizzazioni sovranazionali sono necessariamente incomprensibili e tecnocratiche, sicché finiscono per essere poco amate? Di certo le città si capiscono meglio. E dal punto di vista dell’emergente dimensione delle città, che cosa significa la Brexit?

Per esempio, significa che Berlino punterebbe ad attrarre gli investimenti in aziende tecnologiche che per adesso vanno a Londra. Queste contribuiscono con 180 miliardi di sterline all’economia britannica (BCG), oggi, ma Berlino è attraente: una startup ogni venti minuti, dice Gründen. La concorrenza tra le due città si giocherebbe anche sul piano del posizionamento rispetto al grande mercato europeo: dopo una Brexit, Berlino sarebbe migliore di Londra da questo punto di vista (Politico).

Le città sono una dimensione già abbastanza complessa ma relativamente comprensibile nel contesto della grande trasformazione economica, sociale, ecologica, culturale e politica. Possono diventare il vero centro propulsivo dell’adattamento innovativo della società umana. Ma non hanno ancora tutta la consapevolezza e il potere. Londra si trova a rischiare di subire la volontà della Britannia poco connessa e piuttosto retrograda che si trova fuori città. È più vicina ai mercati globali che a quelli locali della provincia inglese. Affronta le sue contraddizioni etniche prima di subirne la paralizzante paura come avviene in provincia. Ed evidentemente restituisce troppo poco localmente: chi vota per uscire non vede un vantaggio per sé nei vantaggi che Londra otterrebbe restando nella Ue.

Trans Pacific partnership (Tpp): il peggio che avanza pericolosamente

TTIP-aladin-300x171———————————– È stato raggiunto l’accordo sul trattato di libero scambio nel Pacifico (Tpp). Gli Stati Uniti, il Giappone e altri dieci paesi che si affacciano sull’oceano hanno trovato un’intesa sulla Trans Pacific partnership per abbassare le barriere tariffarie su beni e servizi, rendendo omogenee regole che riguarderanno una quantità di scambi pari al 40 per cento dell’economia mondiale. Un’informazione attendibile su INTERNAZIONALE. – segueCorrelazioni e approfondimenti: TTIP e l’Europa su Aladinews.

Verso un golpe economico mondiale?

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di Raffaele Deidda

A leggere il giornale spagnolo Público si è colpiti da inquietudine. Riferisce di essere a conoscenza, tramite Wikileaks, di un negoziato segreto fra 50 paesi per realizzare un accordo commerciale mondiale, al di sopra di regolamenti e normative dei singoli Stati, ad esclusivo beneficio delle società multinazionali.

Se perplessità e opposizioni desta il Partenariato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti (Transatlantic Trade and Investment Partnership, TTIP), viste le richieste di aumentarne la trasparenza, di coinvolgere tutti i portatori di interesse, di inserire clausole vincolanti sul rispetto dei diritti umani, oltre a clausole di salvaguardia per la loro tutela, il realizzando TiSA (Trade in Services Agreement) costituirebbe un accordo ancora più antidemocratico di interscambi di servizi tra 50 paesi, che condiziona il 68,2% del commercio mondiale dei servizi. Anzi, sostiene Público, il TTIP è una sorta di cortina di fumo per celare la vera alleanza neoliberista planetaria costituita dal TiSA.

Riguarda le telecomunicazioni, il commercio elettronico, i servizi finanziari, assicurativi, di trasporto, postali, movimenti di persone fisiche, regolamenti nazionali interni, etc. I suoi contenuti sono ancora più segreti di quelli dell’accordo Trans-Pacific Partnership (TPPA) tra Washington e i suoi partner asiatici. Si andrebbe verso la creazione di una rete complessa di norme e di regole pensate per eludere i regolamenti dei singoli stati e aggirare i controlli parlamentari sul mercato globale.

I governi coinvolti nel negoziato segreto del TiSA sarebbero: Australia, Canada, Cile, Colombia, Corea del Sud, Costa Rica, Stati Uniti, Hong Kong, Islanda, Israele, Giappone, Liechtenstein, Messico, Nuova Zelanda, Norvegia, Pakistan, Panama, Paraguay, Perú, Svizzera, Taiwan, Turchia e la Commissione Europea, in rappresentanza dei 28 paesi membri della UE, pur essendo un organismo non eletto a suffragio universale. Tre di questi paesi (Svizzera, Taiwan e Panama) sono, fra l’altro, “paradisi fiscali”.

Inquieta l’intenzione di mantenere il trattato segreto per anni, così da impedire ai governi che lo applicano di rendere conto ai loro parlamenti e ai cittadini, in violazione della Convenzione di Vienna sulla Legge dei Trattati, che richiede lavori preparatori e confronti propedeutici fra esperti e accademici, Agenzie non governative, partiti politici e altri attori. E’ fondato il sospetto che si vogliano rimuovere gli ostacoli alla liberalizzazione mondiale dei servizi finanziari e le restrizioni sui prodotti come i derivati o CDS (credit default swap). Gli stessi che hanno generato la bolla del mercato azionario globale nel 2007-2008, che ha distrutto le basi economiche delle potenze occidentali. Col conseguente salvataggio delle banche coinvolte attraverso l’immissione di centinaia di miliardi di fondi pubblici.

Vi è un aspetto preoccupante, sostiene Público. Chi partecipa al negoziato non solo lo fa in segreto, ma pretende che gli accordi raggiunti lo restino, negando agli organi della sovranità popolare persino la conoscenza delle regole che applicano i governi nelle loro relazioni internazionali. Ciò al fine di soddisfare le esigenze dell’industria finanziaria di Wall Street e della City londinense, oltre quelle delle corporazioni multinazionali.

Il settimanale italiano L’Espresso, insieme a Publico, a The Age (Australia), Süddeutsche Zeitung(Germania), Kathimerini (Grecia), Kjarninn (Islanda), La Jornada (Messico), Punto24 (Turchia), OWINFS (Stati Uniti) e Brecha (Uruguay), in associazione con Wikileaks stanno sul “pezzo” del negoziato TiSA. Sarà per la loro capacità di informazione se il TiSA non avrà la forza di obbligare i governi firmatari a sostenere e ad ampliare la deregolamentazione finanziaria, ad accettare la circolazione di derivati tossici in virtù di accordi segreti. Sarà grazie alla mobilitazione dei cittadini se i loro rappresentanti istituzionali impediranno ciò che si preannuncia come un golpe economico mondiale.
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By sardegnasoprattutto / giugno 2015/ Società & Politica/
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sedia di Vannitola- Per correlazione TTIP su Aladinews

“Transatlantic Trade and Investment Partnership”. Cos’è il “TTIP” e perché dobbiamo occuparcene

TTIP aladinCos’è il “Transatlantic Trade and Investment Partnership” e perché dobbiamo occuparcene (seconda parte).
sedia di Vannitoladi Vanni Tola
Completiamo la presentazione della trattativa in corso per la realizzazione dell’accordo commerciale internazionale tra gli Stati Uniti e i Paesi Europei meglio noto come TTIP. Nei giorni scorsi in alcune delle principali città europee e negli Stati Uniti si sono svolte diverse manifestazioni per chiedere il blocco o la soppressione “tout court” del trattato TTIP. Al momento ci interessa principalmente completare il quadro d’insieme relativo alla trattativa in corso introdotto col precedente articolo pubblicato su Aladinpensiero (https://www.aladinpensiero.it/?p=40855). Robuste argomentazioni sostengono l’importanza e le potenzialità del Trattato. Una di quelle maggiormente diffuse preannuncia un prevedibile incremento del volume degli scambi e in particolare delle esportazioni europee verso gli Stati Uniti, stimato intorno al 28%, circa 187 miliardi di euro. Altro argomento a favore del Trattato è rappresentato dalla riduzione e, in prospettiva, dalla eliminazione dei dazi nei commerci tra Stati Uniti ed Europa che, benché notevolmente più bassi di quelli applicati nei commerci con altre aree del mondo, rappresentano comunque un notevole “freno” all’ulteriore sviluppo degli scambi commerciali. L’applicazione del Trattato TTIP dovrebbe far registrare un aumento del PIL mondiale tra lo 0,5 e l’1%, qualcosa come 120 miliardi di euro e, naturalmente, aumenterebbe anche quello degli stati contraenti il patto, stimato in 550 euro/anno per ciascuna famiglia europea. Altri vantaggi descritti dai sostenitori del TTIP deriverebbero poi dal fatto che si attiverebbe nell’area oggetto del Trattato una maggiore concorrenza e generali benefici sull’innovazione e il miglioramento tecnologico delle diverse produzioni. Un ultimo e importante elemento positivo dell’applicazione del Trattato sarebbe poi rappresentato dalla semplificazione burocratica e dalle nuove regolamentazioni riguardanti gli scambi commerciali. All’accordo prospettato con la trattativa per la realizzazione del TTIP, si oppongono numerose organizzazioni internazionali e una nutrita rete di associazioni (compresa Slow Food) con le loro delegazioni presenti in diversi paesi e una consistente schiera di esperti ed economisti. Una delle maggiori critiche alle trattative il corso è rivolta al fatto che le stesse si svolgano in forma segreta e i contenuti oggetto degli incontri restino confinati nei ristretti gruppi di negoziatori rappresentanti le parti contraenti. La poca trasparenza relativa al confronto è, di per sé, fonte di preoccupazione e sospetto. Altra fonte di preoccupazione è rappresentata dal fatto che uno dei più importanti studi a favore del TTIP sia stato realizzato da un Centro Studi di Londra finanziato da grandi banche internazionali (Center for Economic Policy Research). Gli aspetti positivi del Trattato descritti in tale studio non rappresenterebbero, a parere degli oppositori, una stima dei risultati affidabile perché riferiti a tempi abbastanza lunghi e anche per il fatto che una infinità di variabili potrebbero, in tempi cosi dilatati, vanificare, o quantomeno modificare, le stime di previsione. Altre possibili conseguenze negative riguarderebbero la circolazione di farmaci meno affidabile, l’aumento della dipendenza dal petrolio, la perdita di posti di lavoro per la scomparsa delle norme sulla preferenza nazionale in materia di forniture pubbliche, l’assoggettamento degli stati a un diritto fatto su misura per le multinazionali. - segue -

“Transatlantic Trade and Investment Partnership”

TTIP aladinCos’è il “Transatlantic Trade and Investment Partnership” e perché dobbiamo occuparcene.
sedia di Vannitoladi Vanni Tola

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A parere di Greenpeace, il TTIP rappresenta una grave minaccia per la nostra democrazia e l’ambiente ed è necessario mobilitarsi per fermarne l’approvazione sulla base della convinzione che i diritti, la natura e i beni comuni non sono delle merci e non sono in vendita. Il Parlamento Eu si sta occupando in questi mesi della stipula di un accordo internazionale di primaria importanza e dovrà assumere delle decisioni nel merito. Greenpace lancia una campagna a sostegno di una petizione da inviare ai Parlamentari europei per invitarli a chiedere di bloccare il negoziato relativo al TTIP (questo il link per sottoscrivere la petizione http://www.greenpeace.org/italy/it/Cosa-puoi-fare-tu/partecipa/stop-ttip/?utm_source=GPita&utm_medium=TTIP&utm_campaign=share_FB). Per comprendere meglio l’importanza e la portata del negoziato in corso realizzeremo alcuni articoli di approfondimento ricostruendo, nel miglior modo possibile l’intera vicenda. Stati Uniti e Unione Europea stanno negoziando un gigantesco accordo commerciale indicato con l’acronimo TTIP, trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti. In pratica un nuovo accordo commerciale di libero scambio in corso di negoziazione tra Stati Uniti ed Europa che andrà a sostituire accordi simili stabiliti in passato (es. TAFTA, NAFTA ecc). Il confronto in atto sull’argomento vede sostanzialmente contrapposte due differenti valutazioni sul progetto di accordo internazionale. Per alcuni il trattato prevederebbe che le legislazioni di Stati Uniti ed Europa si pieghino alle regole del libero scambio stabilite da e per le grandi aziende europee e statunitensi. Per altri invece, l’intera operazione sarebbe destinata a facilitare i rapporti commerciali tra Europa e Stati Uniti portando opportunità economiche, sviluppo, un aumento delle esportazioni e anche dell’occupazione. Tra gli elementi che richiamano l’attenzione sul negoziato in corso, il principale è rappresentato dalla vastità dell’area che la realizzazione del trattato coinvolgerebbe. Si parla di 50 stati degli Stati Uniti e 28 nazioni dell’Unione Europea, un’area sulla quale gravitano 820 milioni di abitanti che concorrono a produrre il 45 % del PIL mondiale. Come si sta procedendo? Nel 2013 Obama e l’allora presidente della Commissione europea Barroso hanno avviato ufficialmente i negoziati che dovrebbero concludersi entro il 2015. Una particolarità di non poco conto è rappresentata dal fatto che le diverse fasi della negoziazione sono segrete, soltanto i tecnici delle parti a confronto hanno conoscenza diretta dei contenuti oggetto della negoziazione. Questo della segretezza delle trattative è uno di punti che maggiormente preoccupa i gruppi di opinione e le organizzazioni che, in America e in Europa, si oppongono alla realizzazione dell’accordo. Naturalmente si tratta di segretezza relativa, alcuni dei temi in discussione sono noti e sono stati pubblicati, per grandi linee, dalla stampa internazionale. Si riferiscono a settori commerciali di grande importanza quali il settore dei servizi e dell’e-commerce, l’energia e il settore chimico. Proviamo dunque a ricostruire, sulla base delle pubblicazioni disponibili, i temi fondamentali della trattativa intercontinentale per comprendere meglio la portata del TTIP. Il proponimento principale del TTIP sarebbe quello di realizzare un accordo commerciale e per gli investimenti per aumentare gli scambi e gli investimenti tra l’UE e gli Stati Uniti esaltando le potenzialità di un mercato molto vasto e generando nuove opportunità economiche per creare posti di lavoro e migliori opportunità di crescita come conseguenza di un migliore accesso al mercato e di una omogeneizzazione delle normative dei diversi paesi. In pratica si tratterebbe di aprire una zona di libero scambio tra Europa e Stati Uniti, di uniformare e semplificare le normative tra i due continenti abbattendo le differenze relative ai dazi, migliorare le normative vigenti. Per quanto concerne l’accesso al mercato, le trattative in corso si concentrano sostanzialmente su quattro settori: merci, servizi, investimenti e appalti pubblici. Si pensa all’eliminazione dei dazi sugli scambi bilaterali di merci per raggiungere una sostanziale eliminazione degli stessi al momento dell’entrata in vigore del trattato. Si prevede una azione antidumping per evitare la vendita di un prodotto sul mercato estero a un prezzo inferiore rispetto a quello di vendita dello stesso prodotto sul mercato d’origine e alcune misure di salvaguardia che consentirebbero a un paese di rimuovere, totalmente o in parte, quelle importazioni di prodotti il cui arrivo comporti una minaccia o un danno alla propria economia nazionale. Liberalizzazione che riguarda anche i servizi assicurando un trattamento e agevolazioni paritarie tra le imprese locali e quelle provenienti dagli altri paesi dell’area oggetto dell’accordo. Per quanto concerne gli appalti pubblici invece l’obiettivo sarebbe quello di rafforzare l’accesso reciproco ai mercati degli appalti pubblici a ogni livello amministrativo (nazionale, regionale e locale) e quello dei servizi pubblici, in modo da applicarsi alle attività pertinenti delle imprese operanti in tale campo e garantire un trattamento non meno favorevole di quello riconosciuto ai fornitori stabiliti in loco. In pratica significa che aziende europee potranno partecipare a gare d’appalto statunitensi e viceversa. Un’ultima, ma non meno importante, questione riguarda il capitolo degli investimenti e la loro tutela. Il negoziato analizza la possibilità che sia assicurato lo strumento dell’arbitrato internazionale Stato-imprese (il cosiddetto ISDS, Investor-to-State Dispute Settlement) che prevederebbe, in caso di controversie, la possibilità per gli investitori di citare in giudizio i governi presso corti arbitrali internazionali. Si insiste molto nelle trattative in corso sulla necessità di «rimuovere gli inutili ostacoli agli scambi e agli investimenti compresi gli ostacoli non tariffari esistenti, mediante meccanismi efficaci ed efficienti, raggiungendo un livello ambizioso di compatibilità normativa in materia di beni e servizi, anche mediante il riconoscimento reciproco, l’armonizzazione e il miglioramento della cooperazione tra autorità di regolamentazione». Non sembrano essere in discussione, al momento i dazi che ciascun paese applica nei confronti delle merci provenienti da latri paesi quanto di eliminare limiti di altro tipo: limiti quantitativi, per esempio, come i contingentamenti (che consistono nel fissare quantitativi massimi di determinati beni che possono essere importati) o barriere tecniche e di standard (cioè di regolamento). Un esempio tra quelli più citati dai critici: negli Stati Uniti è permesso somministrare ai bovini sostanze ormonali, nell’UE è vietato e, infatti, la carne agli ormoni non ha accesso a causa di una barriera non tariffaria al mercato europeo. Terminerei questa prima parte, volutamente limitata alla presentazione degli argomenti principali oggetto della trattativa riguardante il TTIP, con il riferimento alle questioni normative. A tale proposito l’obiettivo dichiarato fra le parti a confronto è quello di migliorare la compatibilità normativa tra i singoli stati per creare le basi per nuove regole globali. Non si sa molto di più su questo capitolo della trattativa se non il fatto che il confronto comprenderebbe anche i diritti di proprietà intellettuale, l’esigenza di favorire gli scambi «di merci rispettose dell’ambiente e a basse emissioni di carbonio» con «controlli efficaci, misure antifrode», «disposizioni su antitrust, fusioni e aiuti di Stato». L’accordo dovrebbe occuparsi anche della questione «dei monopoli di stato, delle imprese di proprietà dello stato e delle imprese cui sono stati concessi diritti speciali o esclusivi», e le questioni «dell’energia e delle materie prime connesse al commercio». Si prevede pure l’inclusione di «disposizioni sugli aspetti connessi al commercio che interessano le piccole e medie imprese» e la presentazione di disposizioni sulla liberalizzazione totale dei pagamenti correnti e dei movimenti di capitali.
Fin qui gli aspetti caratterizzanti la trattativa in corso per la realizzazione del TTIP. Esamineremo in un successivo articolo le posizioni favorevoli e quelle contrarie alla realizzazione del trattato. (segue)