Risultato della ricerca: programmazione 2014-2020

Trasporti di Sardegna: una storia infinita di bugie e promesse mancate.

Parole al vento. L’assessore Massimo Deiana (Giunta Pigliaru) nel novembre 2016: “… Tra gli obiettivi da raggiungere nel 2020, quello di percorrere Cagliari-Sassari senza fermate intermedie in meno di due ore”. Ma è sotto gli occhi di tutti: nulla o poco è stato fatto. E nella programmazione dei nuovi fondi europei la Sardegna resta a secco. E i nuovi gestori della Regione, che dicono? Che dite Christian Solinas, presidente e Giorgio Todde, assessore ai Trasporti? Che dicono gli altri politici, di maggioranza e di opposizione? [segue]

Agenda Onu 2030 e Sardegna. Vorremmo saperne di più…

lampadadialadmicromicroNota inviata ieri alla RAS. Vi saremo grati se vorrete farci conoscere le iniziative in corso e in programmazione per l’applicazione in Sardegna dell’Agenda Onu 2030, eventualmente segnalandoci documentazione e link di riferimento. Dell’argomento ci occupiamo da tempo nella News Aladinpensiero online: https://www.aladinpensiero.it. Grazie e cordiali saluti.
775a3118-9d1c-4408-a6b3-5821b3fd4e7e[dal sito web della Ras dicembre 2019] È aperta la partecipazione al progetto “UN 2030 Agenda SDGs Assessment”
E’ aperta a soggetti pubblici o privati senza fini di lucro la partecipazione al progetto “UN 2030 Agenda SDGs Assessment”, per realizzare obiettivi comuni di sviluppo sostenibile collegati all’Agenda ONU 2030.

E’ la “partecipazione” la chiave per combattere gli squilibri territoriali, soprattutto per superare o almeno attenuare le disuguaglianze sociali

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Gli aspetti negativi degli squilibri tra i territori subregionali

di Gianfranco Sabattini

Aurelio Bruzzo, docente di Politica economica presso l’Università degli studi di Ferrara, ha pubblicato di recente, a cura del Dipartimento di Economia e management della stessa Università, il “Quaderno DEM, n. 6/2019”, dal titolo “Situazione socio-economica e politica di coesione in Emilia-Romagna a fine 2018”. L’autore, utilizzando documenti ufficiali sugli esiti delle misure adottate dall’Amministrazione regionale dell’Emilia-Romagna, nell’ambito della politica di coesione sociale dell’Unione Europea, analizza i valori assunti dalle principali variabili socio-economiche nel contesto dell’area (in anticipo di due anni rispetto alla fine del periodo di programmazione 2014-2020 della succitata politica di coesione).
A parte i risultati, di per sé importanti (sui quali vale la pena di riflettere), che Bruzzo ha ottenuto con la sua analisi, il lavoro è rilevante anche perché può essere assunto a “metro e misura” dei ritardi che non permettono alla Sardegna, da settant’anni impegnata a promuovere un processo omogeneo di crescita e di sviluppo di tutta l’area regionale, di fare altrettanto; ovvero, di non condurre un’analisi socio-economica come quella compiuta da Bruzzo, per la mancanza della documentazione tecnica della quale la Regione Sardegna avrebbe dovuto e potuto da tempo dotarsi.
Avvalendosi dello stato di attuazione del Programma Operativo Regionale FEST dell’Emilia-Romagna alla fine del 2018, Bruzzo compie una valutazione dei risultati che si stanno profilando a seguito della politica di coesione, con l’obiettivo di “sollecitare l’attenzione da parte sia degli studiosi, che dei policy maker” sugli effetti di tale politica a livello locale; obiettivo, questo, solitamente “trascurato e sottovalutato”, nonostante che dalla maggior coesione sociale realizzata a livello locale, attraverso gli investimenti infrastrutturali e produttivi previsti dall’attuazione dei POR regionali, dipenda “il conseguimento di un più elevato livello di sviluppo socio-economico”, non solo delle singole regioni, ma anche dell’intera area economica nazionale alla quale esse appartengono.
Al riguardo è bene ricordare che il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR) è uno dei principali strumenti finanziari della politica regionale dell’Unione europea, il cui scopo è quello di rafforzare la coesione economica, sociale e territoriale, per ridurre il divario fra le regioni più avanzate e quelle in ritardo sulla via dello sviluppo. L’impiego del fondo si inserisce quindi all’interno della politica di coesione comunitaria, con l’obiettivo fondamentale di supportare e promuovere il processo di integrazione economica del Vecchio Continente. A tal fine, la politica di coesione europea, col concorso nel finanziamento delle misure adottate di ogni Stato membro, si propone di perseguire la creazione di posti di lavoro, il miglioramento della competitività tra le imprese, la crescita economica, lo sviluppo sostenibile e il “miglioramento della qualità della vita dei cittadini in tutte le regioni e le città dell’Unione europea”. Il miglioramento-sviluppo delle qualità della vita è dunque stabilito a livello regionale, e solo indirettamente a livello locale.
Bruzzo ha condotto la sua analisi, non a livello regionale, ma locale, considerando in particolare la Provincia di Ferrara, in quanto rappresentante “la porzione del territorio regionale notoriamente meno sviluppata”; in quanto tale, sarebbe stato logico attendersi una particolare attenzione verso di essa da parte dell’Amministrazione regionale, mediante una più consistente destinazione di risorse, in considerazione della specifica finalità assegnata alla politica di coesione dal Trattato sul funzionamento dell’UE, “di perseguire un più ‘armonioso’ livello di sviluppo economico all’interno del territorio europeo”.
Sulla base dell’analisi dei dati risultanti dalla documentazione disponibile, Bruzzo ha accertato che l’attuazione della politica di coesione in Emilia-Romagna è stata “del tutto ottimale” e che il periodo di programmazione 2014-2020 potrà concludersi, per la Regione, “entro la scadenza prevista, senza imbattersi nelle difficoltà sofferte da buona parte delle altre Amministrazioni regionali”. Stando infatti alle informazioni diffuse dall’Agenzia per la Coesione Territoriale (un ente pubblico, vigilato direttamente dal Presidente del Consiglio dei Ministri, che ha l’obiettivo di sostenere, promuovere ed accompagnare programmi e progetti per lo sviluppo e la coesione territoriale), le altre Amministrazioni regionali alla fine del 2018 apparivano in ritardo rispetto all’Emilia-Romagna, al punto che alcune di esse risultavano impossibilitate “ad assumere in tempo utile tutti gli impegni previsti dai rispettivi Programmi”.
Però, la valutazione dell’azione della Regione Emilia-Romagna può essere considerata positiva solo per quanto riguarda l’attuazione della politica di coesione sociale dallo stretto punto di vista degli obblighi operativi; non altrettanto può dirsi nei confronti dell’impatto socio-economico manifestatosi concretamente sull’intero territorio regionale, considerato questo nella sue articolazioni territoriali. A livello territoriale, i dati disponibili, hanno consentito di rilevare come, dal punto di vista di molte grandezze socio-economiche, la provincia di Ferrara sia stata penalizzata sul piano demografico e, più specificatamente, su quello della popolazione residente: a partire dal 2010, tale provincia ha invertito il suo precedente trend crescente, facendo presumere che esso, in assenza di adeguate contromisure di medio e lungo periodo, sia destinato a proseguire; dal 2013, l’occupazione è stata caratterizzata da un andamento tendenzialmente negativo, mentre ancora più preoccupante sono risultati il livello e l’andamento della disoccupazione, mantenutasi su posizioni più elevate rispetto a quelli regionali; infine, se si considera l’aggregato maggiormente rappresentativo circa il livello di sviluppo economico di un’area territoriale, il valore aggiunto pro-capite nella Provincia di Ferrara ha assunto, alla fine del periodo 2014-2020, valori inferiori rispetto alla media nazionale e ancor più rispetto a quella regionale
Le cause di tutti questi aspetti, a parere di Bruzzo, sono sicuramente situate in buona parte all’interno del territorio ferrarese, che risulta tradizionalmente arretrato da molti punti di vista, non solo da quello economico; esse, però, ricadono anche all’esterno, in considerazione del fatto che la crescita e lo sviluppo della provincia di Ferrara, dipendono, oltre che dalle sue relazioni economiche con le altre regioni italiane, anche da quelle con le restanti province emiliano-romagnole. Sulla posizione economico-sociale di maggior debolezza della Provincia di Ferrara, rispetto alle altre province della regione di appartenenza, avrebbe dovuto intervenie con maggiore oculatezza la politica di coesione sociale co-finanziata dall’Unione Europea, che ha come obiettivo “il conseguimento di uno sviluppo equilibrato e bilanciato sia tra le varie regioni ed aree urbane europee sia al loro interno, al fine di evitare in tal modo il permanere nel lungo periodo di porzioni di territorio in condizioni di arretratezza socio-economica”.
La conoscenza del modo in cui sono avvenute le erogazioni effettuate a livello territoriale, quale quella offerta dall’accesso al “portale web”, coordinato dal “Dipartimento per le Politiche di Coesione” della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha consentito di accertare come le risorse stanziate, distinte per ambiti tematici, sono state distribuite a livello locale; nel caso della Regione Emilia-Romagna, le erogazioni in attuazione della politica di coesione della Comunità Europea, secondo il programma 2014-2020, sono state caratterizzate da una loro maggiore concentrazione nell’area del capoluogo (quelle godute dalla Provincia di Bologna sono risultate maggiori del 40% rispetto a quelle destinate alla Provincia di Ferrara).
Appare evidente, secondo Bruzzo, che la politica di coesione sociale attuata in Emilia-Romagna (e, generalizzando, in tutte le regioni caratterizzate da diffusa arretratezza economica), invece di favorire “il riequilibrio intra-regionale che dovrebbe essere uno dei primari obiettivi di tale politica”, ha incrementato la forza attrattiva dei centri regionali privilegiati, a causa della concentrazione territoriale delle erogazioni. Le risultanze empiriche evidenziano infatti che la distribuzione territoriale degli investimenti effettuati nella Regione Emilia-Romagna è avvenuta a scapito delle aree periferiche, dando luogo ad un processo di sviluppo regionale squilibrato, sorretto da una logica di “causazione circolare cumulativa” negativa.
La conseguenza di ciò sarà che, a causa di questa logica, le iniziali differenze territoriali, in termini di crescita economica e di sviluppo sociale, saranno destinate ad accentuarsi, con il pericolo (spesso reale come, ad esempio, sta a dimostrare l’esperienza della Sardegna, afflitta dal fenomeno dello spopolamento dei comuni delle zone periferiche) che, lasciando le disuguaglianze territoriali incontrastate, si finisca – afferma Bruzzo – per modificare la struttura produttiva, demografica ed urbanistico-territoriale delle regioni; da aree regionali “tendenzialmente policentriche” (in cui i vari centri urbani possono stabilire tra loro un valido rapporto di complementarietà per la promozione di un processo di crescita e sviluppo condiviso) si passerà ad aree regionali dove prevarranno solo alcuni centri dominanti (o, al limite, solo uno), lasciando a quelli periferici, nel migliore dei casi, un ruolo marginale, e nel peggiore, una sicura estinzione.
Per evitare il consolidarsi degli esiti della logica di causazione circolare cumulativa negativa, sarebbe importante, sottolinea Bruzzo, cercare di approfondire, attraverso un approccio interdisciplinare, quali sono le cause che danno luogo agli esiti produttivi, demografici ed urbanistico-territoriale indesiderati a livello locale. E’ questo un tema da sempre dibattuto, ma mai affrontato razionalmente; l’approccio interdisciplinare evocato da Bruzzo, implicherebbe che le regioni arretrate (ma, in generale, tutte, indipendentemente dal loro livello di sviluppo) si dotassero di una “matrice di contabilità sociale”. Ciò al fine di acquisire informazioni utili per la predisposizione di “modelli” di politica di sviluppo regionale che tengano conto del modo in cui si distribuisce il prodotto sociale a livello locale, a seguito dell’attuazione degli interventi attuativi della politica di coesione, considerando tale distribuzione come causa ed effetto dei processi di formazione del prodotto sociale.
Il successo riscosso dal sistema di contabilità sociale nelle sue applicazioni ai Paesi sottosviluppati è da attribuirsi principalmente alla sua caratteristica di utilizzare, nelle decisioni assunte, i dati puramente economici in combinazione con informazioni di carattere sociale. Ma non basta, per contrastare le disuguaglianze sub-regionali, occorrerebbe anche che le regioni decentrassero il processo decisionale, realizzando le condizioni compatibili con la partecipazione delle popolazioni locali alla determinazione degli investimenti destinati alle infrastrutture e ai comparti produttivi che maggiormente possono contribuire alla valorizzazione della risorse locali.
Solo in questo modo la crescita e lo sviluppo territoriale possono diventare la condizione necessaria e sufficiente per assicurare una coesione sociale diffusa nell’intero territorio delle singole regioni; quindi, permettere che gli esiti della maggior coesione sociale siano distribuiti in modo da evitare il permanere e l’approfondimento delle disuguaglianze territoriali e di quelle sociali esistenti.
Tra l’altro, una più larga partecipazione dal basso nella determinazione degli interventi servirebbe, come sottolinea Bruzzo, a recidere la correlazione spesso esistente tra le decisioni di distribuzione territoriale degli investimenti e i “processi socio-politici”, che nell’esperienza delle politiche regionali di sviluppo risultano spesso connessi alla formazione delle disuguaglianze; è noto come i processi socio-politici nelle regioni arretrate siano all’origine dell’”affievolimento” del ruolo e della funzione degli imprenditori, i quali, partecipando all’attuazione della politica di sviluppo delle regioni, hanno spesso privilegiato di svolgere il ruolo di “imprenditore da trasferimento di risorse pubbliche”, piuttosto che quello di “imprenditore da re-investimento”. Anche per la rimozione di queste collusioni improprie, la partecipazione dal basso nella determinazione della politica regionale di crescita e di sviluppo può risultare strumentale rispetto al contenimento delle disuguaglianze territoriali.

Europa Europa

Félix Vallotton (Losanna 1865-1925) il ratto d' Europa
8 tesi sull’Europa per cui varrebbe la pena battersi. Un contromanifesto
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Alle elezioni del 2019 è in gioco l’Europa come grande spazio di civiltà. Ma il terreno dello scontro è occupato da due squadre imbarazzanti: “sovranisti” ed “europeisti”. Esiste però una terza via oltre lo sbaraccamento nazionalista o la mummificazione tecnoliberista: un’Europa della Sinistra Illuminista, democratica e progressista. Come costruirla? Alcuni spunti per la discussione, a partire da ciò che oggi è vivo e ciò che non lo è più nel progetto europeo. E da tre dilemmi politico -operativi inaggirabili.

di Pierfranco Pellizzetti su Micromega*

Che epoca terribile quella in cui
degli idioti governano dei ciechi
William Shakespeare – Re Lear

1. La tragedia e la farsa

Come le rondini di primavera al tempo lontano della mia fanciullezza, oggi l’avvento di un radicale cambio di stagione continentale è annunciato dal volo sempre più insistente di manifesti che ci garriscono propositi sulla congiuntura europea. Non messaggeri di prossimi tepori, bensì dell’incombere di un grande freddo; minaccioso come mai in passato: le elezioni 2019 per il Parlamento dell’Unione, in cui sarà messa in gioco la stessa sopravvivenza dell’idea di civile convivenza che da quasi settant’anni tiene a freno le pulsioni autodistruttive del Vecchio Continente.

Se tale è lo scenario, stride assai di più che nel passato lo scarto tra la drammaticità della posta in palio e la risibilità degli assunti con cui si vorrebbe contrastare questa nuova distruzione della ragione. E l’inadeguatezza di chi se ne fa portavoce.

Sicché taluno ripropone stantie retoriche buoniste che parlano di improbabili “sogni”, suscitando il convinto assenso in reperti da establishment, altri ipotizzano più che improbabili aggregazioni elettorali difensive (come – ad esempio – il rassemblement che dovrebbe andare dal fils à papà di Massoneria e Banche parigine Emmanuel Macron all’ormai screditato collaborazionista greco Alexis Tsipras). E poi reiterati appelli a venerande tradizioni, largamente anacronistiche (dunque mute in quanto a indirizzi progettuali), che ormai sono soltanto l’abito della festa per vuote retoriche domenicali di notabili e carrieristi. La trimurti liberale-socialista-popolare.

Intanto la quasi settantennale costruzione europea è sull’orlo dal baratro in cui intendono spingerla definitivamente i mestatori demagogici; inopinatamente balzati sulla scena pubblica cavalcando strumentalmente gli effetti dell’impotenza in cui staziona da un decennio l’istituzione europea. Da quel 2008/2009, quando ha cominciato a crescere drammaticamente il numero degli europei che dubitano della bontà del progetto di integrazione solidale, che oggi appare la causa di ogni male. Mentre «che siano stati in primo luogo i singoli stati nazionali, e non l’Unione europea, i principali responsabili della crisi non viene riconosciuto pubblicamente»[1].

Ossia crisi a geometria variabile: oltre che a Bruxelles/Strasburgo, nel cuore dei vari territori partner. Magari per prima nella Germania: ancora una volta gigante economico e nano politico. Insomma nessuna salvezza, nessuna rigenerazione etico-politica, si può realisticamente attendere dagli screditati e imbolsiti attori attualmente sulla scena.

2. La crisi o le crisi?

Come spesso accade in epoche di crisi, le visioni a campo lungo tendono a svanire, soppiantate dalla chiacchiera congiunturalista; che riduce a tattiche e marchingegni comunicativi la sfida in atto attorno alla sopravvivenza dell’idea stessa d’Europa, trasmessaci dai Padri Fondatori. Se così non fosse le argomentazioni a slogan di “Europa Sì”, in campo contro gli sfasciacarrozze ululanti “Europa No”, verrebbero immediatamente sostituite dalla consapevolezza che «la crisi dell’Europa è multidimensionale: economica, finanziaria, sociale ed eminentemente politica. Al tempo stesso culturale, intellettuale, morale e colpisce il nucleo degli stessi valori che la definiscono»[2]. Un insieme di processi involutivi interdipendenti seppure differenti, che si alimentano reciprocamente. Con un di più: il vizio d’origine del progetto Ue gestito da élites – il cosiddetto “concerto di Bruxelles” e la sua “diplomazia dei summit”- che mai si sono poste il problema di coinvolgervi i propri corpi sociali (le cittadinanze); creando così il macroscopico vuoto di consenso e relativa “carenza di legittimazione democratica”.

Situazione i cui effetti sono stati amplificati dalle sfide senza risposta (o con risposte insufficienti/inaccettabili) dell’ultimo decennio. Destinate alla deflagrazione continuando a ignorarle. Che impongono repliche ben differenti dal contro-terrorismo labiale all’insegna del “après l’Europe, le deluge!”. E l’accantonamento delle voci bianche che continuano a intonarle a disco rotto. Prendendo atto – lo si ribadisce – che un’Europa mondata dalle sue contraddizioni non potrebbe confidare nell’attuale classe dirigente insediata a Bruxelles e Strasburgo, in quelle aule popolate da mestieranti; negli opachi trade-off tra tecnostruttura funzionariale e ceto politico, esclusivamente mirati al controllo e al mantenimento delle rispettive posizioni di privilegio. L’aggregato umano che potremmo denominare ancora una volta con il termine di “Casta” (corporazione del potere autoreferenziale); già omologata negli anni Ottanta nel superamento delle distinzioni culturali/antropologiche tra Destra e Sinistra dall’interiorizzazione del mito blairiano-clintoniano di Terza Via (la ricollocazione dell’intero ceto politico nel campo dei presunti vincitori del tempo); poi dall’acritica adozione delle ricette di austerity anti-popolari e di precarizzazione del lavoro, nello smarrimento davanti ai nuovi “giovedì neri” “in arrivo da Wall Street”; il crollo del cui muro non fece meno fragore di quello a Berlino nel ventennio precedente.

Dunque, la constatazione definitiva di un’inadeguatezza devastante (attivata dall’incapacità dei vari sistemi nazionali di offrire al progetto-Europa attori politici all’altezza di un compito di tale respiro), che rende irrecuperabile l’intero personale protagonista e responsabile dello scontento che si diffonde in un’Europa avviata al declino. In assenza di inversioni radicali di marcia.

3. Un groviglio di nodi interconnessi

Contro la banalizzazione delle questioni in campo e – di converso – analizzando le derive che ci hanno condotto alla situazione attuale, occorre prendere atto che le radici di tali processi risalgono almeno agli anni Settanta del secolo scorso. A cui possiamo far riferimento osservando già l’embrionale ritorno di pulsioni paleo-nazionalistiche come il razzismo e l’antisemitismo, in palese contraddizione con i principi umanistici ispiratori dell’Europa post-bellica; alimentate dall’incapacità di percepirle e affrontarle da parte delle forze politiche ufficiali prima che dilagassero; come sta accadendo. Così come la radicalizzazione delle terze generazioni degli immigrati di cultura islamica e i conseguenti richiami del terrorismo hanno trovato inquietante terreno di coltura in assenza di politiche dell’integrazione, che riducessero i rischi dell’emarginazione economica e sociale nei ghetti periferici; del disagio e del risentimento. Poi – negli anni Ottanta e Novanta – il tatticismo (rivelatosi sui tempi medi autolesionistico) della creazione di una moneta unica «non per calcolata mossa strategica sulla via di un prestabilito obiettivo europeo»[3]; semmai come astuzia di cinici professional politici (capofila François Mitterand) che – così – presumevano di tenere a bada una Germania riunificata. Terribile imprevidenza; fondativa dell’attuale egemonia economica tedesca, che a fronte delle scelte di de-industrializzazione dei partner sud-europei, usciva dalla condizione di “grande malato dell’Unione” grazie alla svalutazione competitiva insita – di fatto – nel passaggio dal Marco all’Euro, che ne incrementava la capacità competitiva manifatturiera. Quella potenza esportativa (in larga misura rivolta al mercato interno europeo) che ha sbilanciato le ragioni di scambio con i propri partner. Uno sbilanciamento che – come ha scritto l’ex vice-cancelliere Joschka Fischer – costringe a mettere seriamente in conto il naufragio del progetto europeo per dinamiche squisitamente endogene. «Processo iniziato in modo strisciante nel 2009 quando il governo Merkel di allora ha deciso di imboccare la strada di una soluzione nazionale alla crisi contro un approccio comune europeo»[4].

Al tempo stesso, problemi virati rapidamente a crisi per l’inettitudine delegittimante dell’istituzione continentale a essi preposta.

Complessificati ulteriormente a livello mondiale da rotture epocali avvenute nei secolari paradigmi di governo delle cosiddette “società avanzate”.

In particolare l’usura delle regole tradizionali di democrazia rappresentativa e il discredito della forma-partito, nella transizione apparentemente ineluttabile alla Postdemocrazia o – se si vuole – alla politica star-system (in procinto di degenerare in “Democratura”), nella colonizzazione mediatica della sfera pubblica

4. Comunità di progetto Vs. blindate

L’Europa degli egoismi miopi che in tempi recenti ha manifestato ancora tutta quella sua inettitudine, lasciandosi travolgere da due effetti devastanti della globalizzazione finanziaria come assetto dominante del sistema-Mondo nel giro di millennio: prima l’esplosione della bolla finanziaria proveniente da oltre Atlantico, affrontata concentrandosi sulla stabilità del sistema bancario e nell’indifferenza totale alle conseguenze sociali di tale scelta, poi il crollo della coesione indotta dai flussi migratori attivati dalle avventure belliche occidentali nel vicino e medio oriente; nonché dalle strumentalizzazioni di un’ipotetica “invasione etnica” da parte dei mestatori sovranisti. I propugnatori reazionari delle “piccole patrie”.

In questo attacco concentrico all’istituzione europea in stallo – le delegittimanti insorgenze sociali ed economiche interne, l’eclisse di democrazia come paradigma di riferimento dell’ordine mondiale – si appalesa con sempre maggiore evidenza ciò che è vivo e ciò che tale non è (più) nel progetto europeo. Per un verso rimane assolutamente attuale l’intuizione federalista dei “visionari” che nel bel mezzo del secondo conflitto mondiale propugnavano l’idea di un grande esperimento costruttivistico che integrasse l’intero Vecchio Mondo fratricida: nell’attuale scenario che vede il protagonismo di grandi Stati-continente le dinamiche prevalenti, materiali e virtuali, possono trovare forme plausibili di governance solo entro format spaziali in grado di contenerne e gestirne gli effetti.

La straordinaria intuizione che ipotizzava l’Europa come un vasto laboratorio di sperimentazione innovativa in materia di convivenza, che la Comunità-Unione è riuscita (seppure parzialmente) a essere per alcuni decenni; con i suoi Erasmus che integravano attraverso la mobilità generazionale, i progetti di cooperazione regionali e transfrontalieri, le politiche di sussidiarietà e così via: un mood intellettuale diffuso che oggi è sempre più urgente ricreare come rifondazione dei sentimenti democratici di appartenenza.

Di converso, risulta del tutto accantonabile l’idea saint-simoniana di Europa messa all’opera già dai suoi primi costruttori: «un progetto di modernizzazione realizzato dall’alto: una strategia per la produttività, l’efficienza e la crescita economica gestita da esperti e funzionari, con ben poca attenzione per i desideri dei beneficiari»[5]. Quel modello tecnocratico che sotto l’effetto di crescenti tensioni ha visto le proprie oligarchie “esperte” blindarsi a esclusiva difesa del loro status.

5. In difesa dell’Europa, grande spazio di civiltà

In previsione dello show-down 2019 onestà imporrebbe di ammettere che il terreno dello scontro elettorale è occupato da due squadre a dir poco imbarazzanti.

L’annunciato match tra “sovranisti” ed “europeisti” è destinato a rivelarsi un breve diversivo che non allontana di un centimetro il baratro incombente. Visto che nulla di una democrazia europea può essere salvato sia da terroristi verbali che da presidiatori di rendite unioniste. A maggior ragione nel campo italiano, dove l’europeismo dovrebbe essere promosso da avventurieri della politica alla Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, politici-tappezzeria come Paolo Gentiloni o Antonio Tajani. A fronte del clerico-fascista Matteo Salvini, poligamo incrollabile difensore della “famiglia naturale” (poligamica?), e il chiliasta dolciniano a cinque stelle Luigi Di Maio.

Cosa succederebbe qualora prevalessero i cosiddetti sovranisti è facile prevederlo: l’Unione finirà in tanti pezzi. Ma nel caso opposto, la vittoria di QUESTI europeisti comporterebbe uno scenario altrettanto liquidatorio: molte nuove Brexit di Stati-nazione che abbandonano Bruxelles alla spicciolata, la secessione dell’Europa del Nord protestante (per cui il debito è sinonimo di peccato) dai detestati papisti fancazzisti PIIGS, magari l’arrocco di un Centro ricco separato dalle Periferie impoverite. Intanto è già avvenuta la saldatura proto-secessionista del patto anti-immigrati di Visegrad. E Paul Krugman ne ha composto il raggelante epitaffio: «ora che l’Europa dell’Est si è liberata dell’ideologia straniera del comunismo può tornare nel suo vero alveo storico: il fascismo»[6].

D’altro canto – ad oggi – ben pochi sono i possibili soggetti in campo che si riconoscano nel modello federalista, progressista e di sinistra (linea Ventotene: Ernesto Rossi-Altiero Spinelli-Eugenio Colorni), forse individuabili soltanto nella penisola iberica (i socialisti portoghesi di Antonio Costa e Podemos), mentre l’establishment europeisticamente benpensante si ritrova tutto attorno alla filiera verticista (e opportunista), da Jean Monnet a Jean-Claude Juncker.

Di conseguenza, per trovare in campo un soggetto propugnatore di quella che ci piacerebbe chiamare “l’Europa della Sinistra Illuminista” (democratica e progressista), bisognerà che vengano rapidamente sciolti almeno tre dilemmi politico-operativi inaggirabili.

6. Primo dilemma: la questione del consenso sociale

Nella Modernità post-industriale non è più possibile individuare un soggetto in grado di assumersi il ruolo di “classe generale”, levatrice della trasformazione; come nell’età precedente veniva attribuito alla classe operaia (con qualche fuga nell’astrazione; nel wishful thinking, la profezia che intende auto-avverarsi).

Il motivo per cui il pensiero post-gramsciano dei cosiddetti “populisti” (a prescindere dalla loro ridefinizione in senso denigratorio nell’odierna neo-lingua del Potere, coloro che contestano le politiche antipopolari delle plutocrazie in questa stagione di crescenti disuguaglianze) – da Ernesto Laclau a Chantal Mouffe – pone al centro della riflessione il problema della costruzione dell’aggregato sociale che possa sostenere una politica di trasformazioni in senso progressista.

Dunque, una sintesi teorica come guida per una comunicazione politica e organizzativa capace di assiemare l’estremo pluralismo di appartenenze identitarie emergenti nel passaggio ad assetti sociali in cui il lavoro non è più l’unico determinante sociale. Sicché «non sono solo le istanze operaie a essere importanti per un progetto di emancipazione. C’è il femminismo, c’è l’ecologia, ci sono le istanze antirazziste e per i diritti dei gay. Per questo parlo della necessità di stabilire una catena di equivalenze tra tutte queste istanze. Ed è proprio questa catena di equivalenza che chiamo costruire un popolo»[7]. Volendo significare con “popolo” l’aggregazione di quanto un tempo si sarebbe definito “blocco storico”.

Il punto critico è quello di individuare il minimo comun denominatore che possa tenere assieme istanze e sensibilità diverse. Il cui bandolo potrebbe essere il contrasto insanabile tra dignità e autonomia delle persone – da un lato – e i processi di omologazione massificante/conformistizzante promossi tanto dai sovranisti che dai tecno-europeisti; gli uni con il loro ritorno a un comunitarismo pre-moderno, gli altri come tardivi promotori di un progetto «legato alla svolta economica, sociale e ideologica degli anni ’70, quando si è assistito a un fondamentale cambiamento ideologico»[8]; inducendo la disillusione che ha colpito il complesso di speranze di investimento nel futuro mediante la moltiplicazione inarrestabile delle diseguaglianze. Nel passaggio caratteristico di quegli anni dallo sfruttamento all’emarginazione; che ormai contraddistingue la svendita di democrazia nelle società finanziarizzate; al cui modello il mainstream europeo è venuto accodandosi. A partire dalle direttive Bolkenstein o De Palacio.

7. Secondo dilemma: la questione comunicativa

L’idea del tutto controcorrente di rifondare l’Unione europea recuperandone le radici ideali democratiche è a forte rischio di finire stritolata nella morsa di due pensieri convergenti, seppure antagonisticamente, nell’escludere un rilancio del progetto originario; e prima ancora del suo spirito. Morsa che consiste in una potenza di fuoco delle organizzazioni sovraniste e tecno-europeiste incommensurabilmente superiore a quelle dei non allineati sul fronte di un’alternativa meramente distruttiva.

Ciò nonostante, in un’età ad altissimo tasso di mediatizzazione quale l’attuale, in cui il Potere si mantiene e consolida inducendo la propria identificazione con la Verità (e la Naturalità), il contropotere modifica le relazioni di dominio riprogrammando le reti intorno a interessi e valori alternativi, atti a minare attraverso l’esercizio della critica l’attendibilità degli assunti con cui il pensiero dominante si legittima.

Ma come farlo? Se vale il principio che il problema filosofico novecentesco di cambiare il mondo oggi va ritarato come reinterpretazione del mondo, ci si chiede in che modo si possa raggiungere direttamente le proprie audience potenziali. D’altro lato ogni operazione di costruttivismo sociale si è realizzata storicamente incontrando un medium ad hoc: 1519, la rivoluzione luterana si diffonde grazie alla stampa a caratteri mobili di Gutemberg, 1848, il contagio liberale si espande in tutta Europa grazie al telegrafo, 1932, la radio diffonde il messaggio del New Deal, 1968, la televisione funge da catalizzatore della protesta studentesca, 1993, Internet infrastruttura la globalizzazione finanziaria, 2011, i social come accampamenti virtuali degli indignados. E adesso, quale canale può veicolare il messaggio della rifondazione di Ue?

Un punto su cui andare a poggiare la leva dell’innovazione illuminista che richiede fantasia e creatività; ricordando che in Spagna, dopo l’attentato alla stazione madrilena di Atocha del 2004 furono stormi di messaggini telefonici (SMS) a bloccare il tentativo di insabbiamento della verità da parte del governo Aznar.

Dunque, la necessità di affrontare la questione prima di tutto enunciandola, poi aprendo un cantiere di riflessione tenendo conto della recente lezione di Occupy Wall Street, il movimento degli indignati newyorchesi che si acquartierarono nella primavera del 2013 nel Zuccotti Park, con lo slogan “siamo il 99%”: «le tattiche devono rimanere flessibili: se non riescono a reinventarsi costantemente, i movimenti finiscono per ripiegarsi su se stessi e morire in breve tempo»[9].

Ciò detto, il problema rimane e va elaborato.

8. Terzo dilemma: la questione organizzativa

Allo stesso modo (e maggior ragione, incombendo decisive scadenze elettorali) il nodo della strutturazione locale/nazionale/continentale della rinnovata visione democratica europea non può essere eluso. Del resto le recenti evoluzioni dei movimenti politici, in Italia e non solo, hanno sgombrato il campo da tanto facile illusionismo sulle forme di partecipazione totalmente dirette, della voce sovrana del singolo se versata nel calderone informatico. E con la questione organizzativa si pone il problema del reclutamento di personale militante che assicuri continuità all’azione politica finalizzata a creare una terza via per l’Ue, oltre lo sbaraccamento o la mummificazione. Di certo tale nucleo non può derivare dalla cooptazione di riciclati, evitando di ripetere l’errore funesto per cui ogni tentativo dell’ultimo decennio di far nascere una sinistra-sinistra è naufragato sullo scoglio della credibilità; avendo saputo varare soltanto scialuppe di salvataggio per reduci da mille naufragi.

Probabilmente il criterio con cui operare le selezioni sarà quello del radicamento, territoriale e/o nelle realtà sociali (lavoro, ambiente, genere, competenze, ecc.) aggregate nel costituendo popolo per l’Europa democratica e di sinistra.

D’altro canto non era intenzione di questo scritto proporre un piano articolato per la rinascita dell’Unione, bensì sottoporre temi a quanti interessa un’interpretazione non di maniera per quanto riguarda l’attuale stato dell’arte e un’inventariazione di massima degli spunti per una discussione allargata il più possibile.

Con l’ottimismo della volontà criticamente controllata, rinforzata dal paradosso ipotizzato da Jürgen Habermas: «siamo capaci di apprendimento soltanto se colpiti da catastrofi?»[10].

NOTE

[1] Joschka Fischer, “Se l’Europa fallisce?”, Ledizioni, Milano 2015 pag. 139

[2] Manuel Castells (a cura di), “Europe’s Crisis”, Polity Press, Ltd, Cambridge 2017 pag.429

[3] Tony Judt, Postwar, Laterza, Bari/Roma 2017 pag. 654

[4] J. Fischer, “Se l’Europa”, cit. pag. 159

[5] T. Judt, Postwar, cit. pag. 899

[6] Paul Krugman, “Se l’America perdesse la libertà”, La Repubblica 29 agosto 2018

[7] Chantal Mouffe, “Non c’è democrazia senza populismo”, MicroMega 5/2017

[8] Marcel Gauchet, “Un mondo disincantato?”, Dedalo, Bari 2008 pag. 109

[9] David Graeber, “Progetto democrazia”, il Saggiatore, Milano 2014 pag. 173

[10] Jürgen Habermas, “La costellazione postnazionale”, Feltrinelli, Milano pag. 18

(2 settembre 2019)
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* Pierfranco Pellizzetti, su MicroMega 5/2018: Camilleri sono.
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Nel riquadro: Félix Vallotton – Losanna – 1865-1925, il ratto d’Europa.ù

Sardegna

sardegna-dibattito-si-fa-carico-181x300sedia di VannitolaLa sedia
di Vanni Tola
Fondi europei – La Sardegna declassata vince la “maglia nera”, a qualcuno pare una vittoria.
Tempo fa, durante il giro d’Italia, si assegnava un premio anche all’ultimo qualificato, la “maglia nera”. Dopo qualche tempo tale premio fu abolito perché si era notato che alcuni ciclisti, fra i meno dotati, facevano “i furbi” rallentando l’andatura per avere almeno il premio di consolazione, la mitica maglia nera. Ho ripensato a questa vicenda quando ho appreso che l’Unione ha recentemente declassato la Sardegna da regione “in transizione” (con Pil tra il 75 e il 90 per cento della media dei bilanci nell’Unione) in regione “meno sviluppata” (Pil inferiore al 75 per cento della media Ue). Niente di cui andare fieri, mi pare. Eppure c’è chi ne parla quasi con compiacimento, perché? Come nel giro d’Italia di qualche tempo fa, anche in Europa, l’assegnazione della “maglia nera” comporta dei vantaggi. Il declassamento ad area “menu sviluppata” infatti, consentirà all’Isola di avere una porzione maggiore di finanziamenti del Fondo di coesione previsto dal bilancio dell’Unione per il periodo 2021-2027, attualmente in fase di definizione. Nella prima bozza del bilancio comunitario il finanziamento previsto per l’Italia ammonterebbe a 43,4 miliardi di euro contro gli attuali 36 miliardi dell’esercizio 2014-2020.
Nel periodo 2014-2020 la Sardegna ha ricevuto 600 milioni di euro tramite il Fondo sociale, 900 milioni di euro con il Fondo per lo sviluppo regionale e 1 miliardo e 300 milioni per il Piano di sviluppo rurale. L’introito futuro per l’Isola, per conseguenza del declassamento, dovrebbe aumentare di circa il 30 per cento. E certamente nessuno degli amministratori regionali si strapperà i capelli o farà plateali autocritiche. Non è neppure inverosimile pensare che durante la campagna elettorale qualcuno di loro possa perfino intestarsi il merito di aver fatto arrivare nell’Isola una quota maggiore di finanziamenti comunitari. Poco importa che l’aumento dei contributi comunitari rappresenti la prova provata dell’incapacità politica di non aver saputo condurre l’Isola al di fuori della fascia delle “regioni in transizione”. Occorre poi soffermarsi un attimo pure su un altro aspetto concernente l’impiego dei fondi comunitari, la scarsa capacità d’impiego degli stessi con il permanente pericolo di dovere restituire all’Unione parte dei contributi ottenuti e non utilizzati.
Entro la fine del 2018 la Regione Sardegna dovrà aver speso 65 milioni di risorse Por del Fondo sociale europeo 2014-2020, per non rischiare di perdere le risorse. Finora sono stati impiegati soltanto 45 milioni. Dovremmo riflettere su queste vicende in un periodo storico nel quale va per la maggiore attribuire all’Unione europea la responsabilità di tutto ciò che non va bene nella realtà isolana e italiana. Sicuramente è necessario lavorare per migliorare il funzionamento dell’Unione ma è pure innegabile che la nostra realtà richieda un salto di qualità nella scelta del quadro politico, nello sviluppo di una reale capacità di riforma dell’esistente, nella programmazione dello sviluppo e nella realizzazione degli investimenti. Le prossime elezioni regionali dovranno cogliere tale aspetto della vicenda e affrontarlo con proposte e programmi seri, concreti e realizzabili. Se poi si vuole fare a gara a chi saprà scaricare meglio le nostre responsabilità su ’Europa, accomodatevi pure. Sarà soltanto un’altra occasione mancata.

Reddito di cittadinanza? Per finanziarlo si può attingere dal Fondo Sociale Europeo (FSE). Ma non basta.

italia_goal_1Reddito di cittadinanza? Per finanziarlo si può attingere dal Fondo Sociale Europeo (FSE). Ma non basta.
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Strade nuove

magatti-libroSussidiarietà economica, beni comuni e riforma del Terzo settore
di Umberto Di Maggio – su LabSus, 9 aprile 2018

I beni comuni sono strumenti per lo sviluppo comunitario, la rigenerazione e la promozione territoriale. Sono risorse per la coesione sociale e ricchezze imprescindibili per stimolare e radicare fiducia, reciprocità e sussidiarietà anche in campo economico. Il mercato infatti può (e deve) essere un luogo civile (Bruni, Zamagni 2015) di scambio e relazioni, prima che di lotta degli uni contro gli altri per il consumo egoistico e dissipativo. Può essere un’occasione per collaborare, cooperare e cioè per cercare e fare insieme il bene comune. Questa premessa per evidenziare come i beni comuni e la sussidiarietà (anche economica) possono essere le parole chiave per una lettura tematica delle interessanti recenti modifiche del 2017 alla normativa nazionale di riforma del Codice del Terzo settore a regolamentazione anche dell’ampio e variegato ecosistema dell’imprenditoria sociale, che fa dei beni “per tutti” un punto di riferimento irrinunciabile.

I beni comuni nella Riforma

A proposito di sussidiarietà va riconosciuto, innanzitutto, che la sua importanza è gia chiara nei principi generali. All’art. 2, infatti, si dice che “è riconosciuto il valore e la funzione sociale degli enti del Terzo settore, dell’associazionismo, dell’attività di volontariato e della cultura e pratica del dono quali espressione di partecipazione, solidarietà e pluralismo, ne è promosso lo sviluppo salvaguardandone la spontaneità ed autonomia, e ne è favorito l’apporto originale per il perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, anche mediante forme di collaborazione con lo Stato, le Regioni, le Province autonome e gli enti locali”. Ciò significa che la collaborazione (individuale o associata) tra cittadini, e fra essi e le diramazioni territoriali dello Stato è la strada maestra per la coesione sociale e l’interesse generale.
Nel testo, in materia di beni comuni è evidenziata l’importanza della loro cura attraverso l’attivazione volontaria della cittadinanza (art. 63). La contemporanea revisione della disciplina in materia di impresa sociale ha inoltre evidenziato la priorità della loro riqualificazione quando per beni comuni possiamo intendere beni pubblici inutilizzati o beni confiscati alla criminalità organizzata (Di Maggio, Notarstefano, Ragusa 2018). Inoltre ha sottolineato come queste attività, insieme a molte altre, rientrino appieno nell’interesse generale per il perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale valorizzando e promuovendo l’attivazione e la mobilitazione dei cittadini anche in associazioni, cooperative ed imprese sociali.
L’aggiornamento normativo ha evidenziato anche importanti novità circa le misure fiscali e di sostegno economico. E’ prevista, ad esempio, una razionalizzazione e semplificazione della deducibilità e detraibilità per le persone giuridiche e fisiche che intendono procedere con erogazioni liberali al fine di promuovere e stimolare comportamenti cosiddetti donativi. Ciò sembra essere coerente con il principio di sussidiarietà (art. 118 ultimo comma della Costituzione) e con quello di solidarietà (art. 2 della Costituzione). Attraverso queste forme di sostegno orizzontale i beni comuni possono rigenerarsi ed uscire dallo stato di depauperamento in cui troppe volte purtroppo si trovano a causa di mancato o cattivo utilizzo.

Forme di sostegno e beni immobili

In particolare nel decreto legislativo del 3 luglio 2017 n° 117 è evidenziato lo strumento del cosiddetto “Social Bonus” (art. 83) che prevede un credito d’imposta per donazioni a sostegno del recupero degli immobili pubblici inutilizzati e dei beni sottratti alla criminalità organizzata. Nella stessa legge è istituito un fondo presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (art. 72) per progetti promossi dalle organizzazioni del Terzo Settore e, soprattutto, è evidenziata la valorizzazione di beni culturali ed ambientali, secondo i criteri della semplificazione e di economicità, e l’assegnazione – anche in forma consorziata – di immobili pubblici inutilizzati e di beni confiscati.
Queste novità hanno un portato innovativo di grande importanza che va letto, attualizzato e contestualizzato alla natura di quegli stessi beni immobili ed a quella dei contesti geografici e sociali in cui quelle strutture si trovano. Non va dimenticato, ad esempio, che molti beni sottratti alle mafie (ma lo stesso può dirsi di tanti beni pubblici che confiscati non sono) si trovano all’atto dell’assegnazione al soggetto gestore in condizione di estrema difficoltà. Le cause, ovviamente, sono tante e l’affidamento da parte dell’Ente locale a soggetti facenti parte dell’associazionismo, della cooperazione, del volontariato e più in generale del Terzo Settore non può essere soluzione da “ultima spiaggia”. Un virtuoso riutilizzo dei beni comuni, Labsus l’ha evidenziato ad esempio nel modello di regolamento sulla collaborazione tra cittadini ed amministratori per la cura, la rigenerazione e la gestione condivisa dei beni comuni urbani, non può prescindere dai principi di continuità, inclusività, integrazione e sostenibilità anche economica.
Altre forme di sostegno previste dalla legge sono quelle di natura finanziaria di crowdfunding del Social Lending (art. 78 D.Lgs. 117/2017). Per queste forme innovative di raccolta di denaro attraverso piattaforme online il legislatore ha previsto agevolazioni sulle remunerazioni a chi presta denaro per progetti a valore sociale, anche e soprattutto per quelli che prevedono la riqualificazione di strutture pubbliche inutilizzate o di beni confiscati (art. 5 lett. z) con una tassazione equiparabile a quella degli interessi sulle obbligazioni pubbliche.

Altri programmi e misure finanziarie di supporto

Prescindendo dalla riforma del Terzo settore, ma restando nell’alveo degli strumenti di programmazione istituzionale di natura finanziaria messi di recente in campo in materia di beni confiscati alle mafie è certamente da citare la misura “Imprese sequestrate o confiscate alla criminalità organizzata” del Ministero dello Sviluppo Economico che eroga un sostegno a tasso zero alle imprese sottratte alle mafie. Tale programma di 48 milioni di euro è stato previsto a seguito della Legge di stabilità 2016 (art. 1, comma 195, legge 28 dicembre 2015, n. 208) che ha stanziato 30 milioni di euro per il periodo 2016-2018, a cui vanno aggiunti altri 10 milioni previsti dalla Legge di bilancio 2017. A questo va aggiunto il programma “Banca delle Terre incolte” previsto nel decreto Mezzogiorno (91/2017) per la crescita socio-economica del Sud Italia attraverso la concessione a giovani di terre incolte ed improduttive al fine di un loro pronto riutilizzo ed infine la misura “Resto al Sud” per la promozione dell’autoimprenditoria giovanile.
L’esposizione degli strumenti va anche arricchita con quelli direttamente a disposizione degli enti pubblici in materia di riutilizzo di beni pubblici e di partecipazione civica alla rigenerazione di spazi collettivi. Va citato il Programma Operativo Nazionale plurifondo Città Metropolitane 2014-2020 “PON Metro” che si inserisce nel quadro più generale dell’Agenda Urbana nazionale e delle strategie di sviluppo urbano sostenibile per una crescita intelligente, inclusiva e sostenibile della “Strategia Europa 2020”. Interessante è il riferimento all’innovativo percorso di “co-progettazione strategica” di confronto tra i diversi soggetti del partenariato strategico delle 14 città metropolitane (Bari, Bologna, Cagliari, Catania, Firenze, Genova, Messina, Milano, Napoli, Palermo, Reggio Calabria, Roma, Torino, Venezia) sede degli interventi. L’azione 4.2.1., in particolare, prevede il “Recupero di immobili inutilizzati e definizione di spazi attrezzati da adibire a servizi di valenza sociale” e mira a sostenere il miglioramento del tessuto urbano attraverso l’attivazione dell’economia sociale per lo start-up di nuovi servizi di prossimità in territori e quartieri di forte criticità. Tra i risultati attesi dall’azione “Inclusione sociale” si prevede la creazione ed il recupero di 2270 alloggi per famiglie con particolari fragilità sociali ed economiche, il recupero di 35600 mq di immobili inutilizzati da destinare a servizi del terzo settore, un percorso di pronto intervento per individui senza dimora e per comunità Rom, nonché di inserimento lavorativo, sociale ed educativo, sanitario e di accompagnamento all’abitare per individui a basso reddito e con gravi forme di disagio.
Questo elenco di provvedimenti non è certamente esaustivo. Al quadro generale dei progetti in corso di attuazione in materia di politiche di coesione vanno aggiunte infatti le tante opportunità per il volontariato ed il Terzo Settore da parte di Fondazioni e non solo.

Tutto ciò certamente si inserisce all’interno del più generale ragionamento sull’economia circolare (Bonomi 2017) e sul valore dei beni comuni che, come si è detto in premessa, hanno la capacità di contribuire allo sviluppo economico e sociale delle comunità e alla custodia rigeneratrice (Venturi, Zamagni 2017) dei territori e dei patrimoni (materiali ed immateriali) di cui quegli stessi territori sono dotati. Si lega anche al grande valore della sussidiarietà che stringe in un patto di corresponsabilità e reciprocità cittadini-Stato-mercato, non prescindendo proprio dal destino dei beni comuni di cui l’uso virtuoso è tale solo se condiviso, circolare, inclusivo.

Riferimenti bibliografici

Bruni L., Zamagni S., (2015), L’economia civile, Il Mulino, Bologna
Bonomi A., (2017), La società circolare, Derive Approdi, Roma
Di Maggio, U., Notarstefano. G., Ragusa G., (2018). Ri–conoscere i beni confiscati. Un percorso tra partecipazione, condivisione e trasparenza – in Economia, organizzazioni criminali e corruzione di Ingrassia, R. (a cura di), Aracne Editrice, Roma
Venturi P., Zamagni S., (2017), Da Spazi a Luoghi, Aiccon, Short Paper, 13/17, Bologna

Maurizio Sacripanti a Cagliari… della scuola popolare e del centro sociale

Sacripanti 24 03 17 uno
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Maurizio Sacripanti, architetto, a Cagliari, venerdì 24 marzo 2017
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ape-innovativa Intervento di Franco Meloni.
- SEGUE -

ITI San Michele – Is Mirrionis. Solo un imbarazzante silenzio istituzionale…

Aladinews del 12 maggio 2016
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Come saranno spesi i 15 milioni per Is Mirrionis? Studiamo la documentazione e esercitiamo le nostre capacità critiche.
quartiere-di-is-mirrionis-stefanoconti(Dal sito web della RAS) Delibera del 11 maggio 2016, n. 26/6 [file .pdf]
Programmazione Unitaria 2014-2020. POR FESR e POR FSE 2014-2020. Agenda Urbana – Investimento Territoriale Integrato (ITI). Accordo di Programma tra la Regione Autonoma della Sardegna e il Comune di Cagliari “ITI Is Mirrionis”.
- All. 26/6 – Accordo di programma quadro [file .pdf]
- All. A – Investimento Territoriale Integrato [file .pdf]
- All. B - quadro finanziario dell’ITI [file .pdf]
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lampada aladin micromicroVolete un primo commento? Questo progetto è negativamente contraddistinto da un “deficit di partecipazione”. Sembra fatto in uno studio isolato da professionisti incuranti di confrontarsi con la gente in carne ed ossa. Le strutture fisiche di partecipazione, tra tutte l’hangar, appaiono scelte più per ragioni di attenzione alle spese che per l’efficacia delle azioni rispetto alle finalità. Non risulta alcuna analisi delle attività socio-culturali esistenti, che ci si è ben guardati di coinvolgere. Come un pugno in un occhio il fatto che si continui ad ignorare la richiesta di riuso dell’edificio di proprietà di Area dove si svolse l’esperienza della Scuola Popolare dei Lavoratori. Sorvoliamo per ora sulla governance del progetto che appare pesante, eccessivamente burocratica e chiusa a riccio rispetto alle esigenze di partecipazione democratica dei singoli cittadini e delle loro associazioni. E’ un progetto che può essere emendato? Diciamo di SI. Diciamo anche che DEVE essere emendato perché nella sua formulazione attuale contrasta in molta sua parte con gli indirizzi comunemente concordati tra Unione Europea e Regione Sarda, risultanti agli atti dei PO Fesr e Fse della programmazione 2014-2020. Torneremo presto sull’argomento.
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Ripensare la città. Senza la partecipazione popolare non c’è presente e futuro accettabili

lezione alla scuola popolare 1971Oltre i festival, per una nuova alfabetizzazione

di Ottavio Olita, su il manifesto sardo.

Area vasta, città metropolitana, grandi dimensioni per un futuro che si spera migliore. Ma quale attenzione per gli storici quartieri periferici viene posta nelle dichiarazioni programmatiche della nuova giunta di Cagliari? Vediamo cosa c’è scritto di specifico.

A pag. 18: “Proseguirà la cura delle azioni possibili per garantire i diritti di tutela sociale e giuridica dei minori stranieri non accompagnati, in una logica di corretto raccordo interistituzionale e con l’obiettivo di produrre vera inclusione sociale. Saranno rafforzate le azioni che hanno già portato ottimi risultati: il progetto ‘Centri di Quartiere’ a San Michele, Mulinu Becciu, Pirri e Marina (in fase di realizzazione Centro di Quartiere a Sant’Elia), il potenziamento di attività oratoriali destinate a spazi di accoglienza per minori dai 6 ai 18 anni, lo sviluppo del servizio ‘educativa di strada’ a favore di adolescenti e giovani di età compresa tra 14 e 21 anni nel quartiere di Sant’Elia e nel quartiere di San Michele, l’ufficio Mediazione e lo Spazio famiglia”.

Alle pag. 27 e 28: “A seguito di un’approfondita analisi di contesto, il Comune di Cagliari, in coprogettazione con il Centro Regionale di Programmazione della Regione, ha individuato nei quartieri di Is Mirrionis e San Michele l’area urbana per un Investimento Territoriale Integrato (ITI). La proposta progettuale prevede un intervento di rigenerazione urbana, inteso quale insieme di azioni materiali e immateriali integrate fra loro. L’intervento è articolato su due livelli:

la riqualificazione urbana, finalizzata al recupero edilizio di contesti caratterizzati da elevato disagio abitativo con prevalenza di Edilizia Residenziale Pubblica (ERP), mediante interventi di riduzione dello stato di degrado degli immobili e miglioramento e incremento delle strutture e degli spazi pubblici;
le azioni di supporto e accompagnamento all’inclusione dei residenti nel quartiere, con l’obiettivo di creare un contesto sociale in cui si previene il disagio, si crea coesione sociale e si risponde ai bisogni insieme alle istituzioni, al fine di accrescere il capitale sociale.
L’ITI si compone di 6 azioni declinate in sub-azioni. Gli obiettivi previsti devono essere raggiunti entro 48 mesi, tempo entro cui devono anche essere completati gli interventi. Le azioni previste riguardano:

il miglioramento della qualità degli spazi di vita nel quartiere attraverso la realizzazione di azioni che stimolino la partecipazione attiva dei residenti alla vita pubblica (Azione 1);
il recupero funzionale dell’Hangar per la realizzazione di una ‘casa del quartiere’ in cui svolgere attività di animazione territoriale e inclusione sociale (Azione 2);
il recupero della ex scuola di via Abruzzi per realizzare servizi di cura socio educativi (Azione 3);

la riqualificazione dell’istituto comprensivo Ciusa per la realizzazione di un polo didattico-scientifico (Azione 4);
innovazione sociale e inclusione attiva, attraverso progetti orientati all’occupazione e alla creazione d’impresa (Azione 5).
Tutte le azioni saranno accompagnate da un processo partecipativo per informare, costruire consapevolezza sulle opportunità di cambiamento materiale e immateriale, costruire un percorso di fiducia per promuovere e guidare la crescita e la responsabilità civile degli abitanti del quartiere (Azione 6)”.

Le sei azioni indicate sono evidentemente frutto di una valutazione di quel che è accaduto in questi quartieri negli ultimi decenni e quel che continua a determinarsi in particolare tra le giovani generazioni. Come fare per rendere efficaci gli interventi? Come passare dall’enunciazione alla pratica? Come riuscire a raggiungere gli obiettivi se non si crea una sorta di task force realmente operante nel quartiere che svolga opera di aggregazione, socializzazione, diffusione della conoscenza? Bisogna innanzi tutto ricorrere alle associazioni e ai gruppi di volontariato che operano già all’interno per aiutarli ad incrementare e migliorare i loro interventi. Bisogna inoltre mettere a disposizione gli spazi necessari. Perché, ad esempio, non recuperare a questo fine quel Centro Culturale, diventato ormai un rudere, che negli anni ’70 del secolo scorso ospitò l’esaltante esperienza della Scuola Popolare di is Mirrionis?

L’appello è rivolto soprattutto al nuovo assessore comunale alla Cultura, Paolo Frau, che conosciamo molto sensibile a questi temi e al quale sottoponiamo un’altra nostra riflessione: siamo proprio sicuri che la strada migliore per diffondere curiosità culturale sia la spettacolarizzazione degli eventi? I festival dei generi più disparati muovono gli interessi e le curiosità dei già informati, dei lettori più avvertiti, degli intellettuali frequentatori delle antiche terze pagine dei giornali, delle librerie, delle biblioteche. Servono anche, senz’altro, a far giungere nuovi visitatori.

Ma perché non impiegare altrettante energie intellettuali ed economiche per favorire una nuova alfabetizzazione nelle periferie, dando gambe possenti a quelle sei Azioni così diligentemente elencate? La buona volontà è bella ma non basta. Perché non cominciare a coinvolgere molto di più i Comitati, le Associazioni, i gruppi di volontari che già operano e quindi conoscono bene quelle realtà così diverse dai tanti salotti e cenacoli letterari pubblici e privati?
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Libro SP Is Mirrionis ca
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Approfondimenti sull’ITI (da Aladinews)
via Is Mirrionis segue numerazione
Por FESR Sardegna 2014-2020 Parte ITI Investimenti Territoriali Integrati

Azione 9.6.6. Interventi di recupero funzionale e riuso di vecchi immobili in collegamento con attività di animazione sociale e partecipazione collettiva, inclusi interventi per il riuso e la rifunzionalizzazione dei beni confiscati alle mafie

Descrizione della tipologia e degli esempi di azioni da sostenere.

L’azione che si intende sostenere è incardinata nell’ambito della Strategia per le Aree urbane ed è finalizzata a sperimentare, in stretta sinergia con le altre azioni del presente Asse (9.3.8 e 9.4.1), un approccio multidisciplinare alle problematiche della legalità orientato alla vita della comunità promuovendo la sperimentazione di progetti innovativi improntati su politiche di prevenzione.

Si intende, quindi, favorire il recupero funzionale e il riuso di vecchi immobili pubblici da destinare a spazi di relazione per il quartiere e l’intera comunità locale, nella piena convinzione che la rifunzionalizzazione di spazi pubblici dismessi o sottoutilizzati in stretto collegamento con attività di animazione sociale e partecipazione attiva, possa rispondere a una duplice finalità: da un lato evitare l’ulteriore degrado dell’area, dall’altro rappresentare una leva di coesione sociale.

Gli interventi infrastrutturali saranno funzionali alle attività di animazione sociale che sul territorio si intenderà promuovere, per diventare dei luoghi fisici di partecipazione attiva dei cittadini, degli spazi in cui sviluppare un lavoro di prossimità. Tali iniziative dovranno fungere da catalizzatore per la costruzione di nuove reti di relazione e rappresentare dei luoghi in cui si potranno intercettare i problemi sociali della famiglia, degli anziani, delle persone inoccupate e disoccupate in cerca di lavoro, e diventare delle vere e proprie “case di quartiere”, in grado di offrire servizi alla collettività (supporto alla genitorialità, sostegno alla legalità, prevenzione di fenomeni di devianza giovanile e/o abbandono scolastico).

Particolare attenzione verrà data alla sostenibilità di gestione nel medio-lungo periodo dei servizi realizzati, garantendo adeguate analisi di fattibilità ex ante, l’individuazione di risorse per lo start-up e l’avvio immediato delle procedure di selezione degli eventuali soggetti gestori, anche contestuale alla progettazione, così da incorporare l’effettivo fabbisogno del gestore.

Infine, le azioni afferenti le aree urbane saranno realizzate, secondo quanto previsto nell’ambito della strategia regionale su Agenda Urbana, attraverso il ricorso allo strumento degli Investimenti Territoriali Integrati nelle tre maggiori aree urbane (Cagliari, Sassari e Olbia), con l’affidamento della responsabilità di attuazione alle Autorità Urbane. Con riferimento all’area di Cagliari e agli interventi previsti nell’ambito del PON Metro, la demarcazione avverrà su base territoriale, con l’individuazione di un quartiere target per il POR e il sostegno a iniziative anche di scala metropolitana nei diversi settori di intervento del PON METRO.

Contributo atteso al perseguimento dell’obiettivo specifico

Si ritiene che attraverso tali azioni si possa migliorare la legalità di aree degradate delle principali città attraverso il recupero funzionale e riuso di vecchi immobili in collegamento con attività di animazione sociale e partecipazione attiva della comunità locale.

Principali gruppi di Destinatari: Categorie sociali fragili Territori specifici interessati: Territori urbani degradati Beneficiari: Enti locali; Enti Pubblici

www.sardegnaprogrammazione.it
sardegnaprogrammazione.it
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ITI IS MIRRIONIS

SCHEDA COMUNE DI CAGLIARI
EXECUTIVE SUMMARY
- segue –

DICHIARAZIONI PROGRAMMATICHE MANDATO AMMINISTRATIVO 2016/2021 SINDACO MASSIMO ZEDDA

Torri municipio Cagliarilampadadialadmicromicro13Il nostro amico consigliere comunale del Movimento 5 Stelle Pino Calledda ci ha fatto avere in anteprima il documento con le dichiarazioni programmatiche che il Sindaco Massimo Zedda esporrà nella prossima seduta del Consiglio comunale di Cagliari prevista martedì 11 ottobre. Le stesse dichiarazioni sono pervenute a tutti i consiglieri comunali su richiesta del presidente dell’assemblea civica Guido Portoghese ma allo stato non sono disponibili nel sito web del Comune. Nei prossimi giorni in spirito di servizio, come si diceva un tempo, formuleremo osservazioni critiche – in senso lato – cercando di mantenere comunque una serenità di giudizio. Ciò significa apprezzamento per quanto riteniamo positivo, critica per quanto riteniamo sbagliato, richiesta di spiegazioni per quanto viene omesso. Proprio a quest’ultimo riguardo lasciateci anticipare un interrogativo: perché nelle dichiarazioni non si parla degli immigrati e delle politiche di accoglienza? Ne vogliamo parlare? Ecco: in questo contesto e in questa direzione noi siamo impegnati, ma vorremmo essere in buona compagnia, cioè vorremmo che tutti coloro che hanno qualcosa da osservare o segnalare, per questioni di carattere generali o specifiche, intervenissero. Con tutto il rispetto che abbiamo dei nostri rappresentanti istituzionali che si esprimeranno nell’esercizio del loro mandato, crediamo che non debba mancare l’intervento dei semplici cittadini singoli o associati. A tal proposito gli spazi di ALADINEWS sono dunque a disposizione.
StemmaAraldico_ComuneCagliari_feb2015_d0

    DICHIARAZIONI PROGRAMMATICHE – MANDATO AMMINISTRATIVO 2016/2021
    SINDACO MASSIMO ZEDDA

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Il dibattito sul Brexit

Brexit zBrexit, democrazia, costituzionalismo, istruzione

democraziaoggi loghettodi Rosamaria Maggio su Democraziaoggi

L’ esito del Referendum tenutosi in Gran Bretagna lo scorso 23 giugno tiene banco nella stampa, nei programmi televisivi, nei discorsi della gente. È stato come un fulmine a ciel sereno, come se anche coloro che tifavano ”Leave” fossero rimasti spiazzati dal risultato. Perchè una cosa è fare “propaganda” per una posizione o l’altra, altra cosa è valutarne realmente gli effetti.
C’è chi dice che la generazione dei Beatles abbia tradito i giovani. C’è chi osserva che i giovani in realtà si siano in gran parte astenuti.

Le conseguenze di questo risultato non sono effettivamente conosciute neanche dagli esperti. Si vedrà, ma alcuni effetti si possono già ipotizzare. I giovani sono preoccupati per il loro futuro: potranno ancora andare in Gran Bretagna col progetto Erasmus? Gli inglesi potranno andare nelle Università dell’Unione Europea a studiare? I fondi per la ricerca, sempre abbondantemente finanziata in Gran Bretagna dall’Unione Europea, saranno confermati o sarà il Governo inglese a dover garantire lo stesso livello di finanziamenti?
Poi naturalmente ci sono le preoccupazioni per l’import ed export con dazi o senza, per la finanza e le grandi Banche. Resteranno o se ne andranno? Si dovranno esibire i passaporti per entrare in Gran Bretagna e gli inglesi ugualmente dovranno farlo per entrare nei paesi UE?

Le risposte piano piano saranno evidenti, ma stupisce che nessuno di chi era direttamente coinvolto si sia posto questi problemi in modo esplicito prima del voto.
Qualcuno sostiene che questa è la democrazia, la sovranità popolare prevista dalle nostre Costituzioni. Mi permetto di dissentire da questa visione.
È vero che la divisione dei poteri e la sovranità popolare sono garanzia di democrazia, ma che cosa si intende per democrazia?
Il mero voto popolare non è espressione sempre di democrazia. Il costituzionalismo ci insegna che la sovranità si esercita nei modi previsti dalla Costituzione. Questo è ciò che recita il nostro art. 1. Il che vuol dire che non sempre la Costituzione prevede il voto diretto per ogni tipo di questione.
Per esempio, esclude il referendum abrogativo in una serie di situazioni come le leggi tributarie o quelle di autorizzazione alla ratifica del trattati internazionali (art. 75 Cost.). Ragion per cui non credo che sarebbe possibile proporre un referendum di questo tipo nel nostro Paese e neanche a riguardo dell’eventuale uscita dall’euro. Ci sono ragioni superiori che hanno fatto sì che il legislatore costituente regolasse il principio di sovranità proprio al fine di evitare derive populiste di questo tipo.
E queste sono cose che a scuola si dovrebbero insegnare poiché fanno parte delle consapevolezze, seppure complesse, indispensabili al cittadino. Che poi ne farà l’uso che crede, ma intanto le dovrebbe conoscere.

Ripensando a quanto è accaduto, è inevitabile ripercorrere la storia dell’unità europea (altro tema rilevante di consapevolezza contemporanea): una unità ancora monca, che lascia insoddisfatti del grado di integrazione europea raggiunto.
In questi ultimi anni i paesi dell’Unione hanno sofferto le conseguenze delle decisioni delle nostre istituzioni prevalentemente orientate su politiche di austerità, che hanno pesato principalmente sui paesi più fragili e sugli strati più fragili delle loro popolazioni. È il caso della Grecia, ma anche dell’Italia, che stenta a riprendersi, soprattutto per quanto riguarda l’occupazione e il sostegno alle fasce più deboli. È pertanto ovvio che i ceti meno abbienti, più deprivati, di fronte a forti sperequazioni nella distribuzine della ricchezza e alle politiche di austerità volute dalle istituzioni europee, siano tentati di attribuire tutte le responsabilità a queste stesse istituzioni. Il che non è del tutto falso, ma non ci si può esimere dal considerare come la maggior parte delle istituzioni europee siano affette da deficit democratico in quanto istituzioni non elettive (fatta eccezione per il Parlamento Europeo), ed è quindi proprio in ultima istanza ai nostri Governi nazionali che dobbiamo chiedere conto di queste politiche e principalmente ognuno al proprio.

Si dice spesso che il vizio di fondo delle politiche europee sta nel fatto di essere orientate e governate più dall’economia che dalla politica. Del resto, com’è noto, tutta la vicenda europea ha avuto origine da comunità di natura economica, nel 1951, al tempo dell’istituzione della CECA, la comunità economica del carbone e dell’acciaio, istituita col trattato di Parigi tra i sei paesi fondatori, Italia, Francia, Germania, Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi.

Quella comunità aveva uno scopo ben preciso, e cioè il controllo delle risorse energetiche che erano state il presupposto degli scontri bellici della prima metà del secolo. Si trattava quindi di uno scopo ambizioso, diretto a mantenere la pace, ma realizzato su presupposti prioritariamente economici. Fu una scelta molto importante, che se fosse fatta ora per esempio fra i paesi produttori del petrolio, potrebbe contribuire a fermare molte guerre; quindi il fatto che si trattasse di un accordo economico non deve sminuirne l’importanza. Anche se i trattati non avevano come scopo ufficiale la pace, la assicurarono in Europa per ben 70 anni. Sempre auspicando che gli eventi attuali non aprano nuove conflittualità fra i paesi europei. Le ragioni successive di una unione economica più complessa, attraverso la istituzione della Comunità Economica Europea e poi attraverso Maastricht fino all’unione monetaria, all’eurozona, sono stati importanti passi verso l’integrazione.

Dal punto di vista istituzionale e politico, però, i passi fatti non sono stati sufficienti. E in questi ultimi anni da più parti si è denunciata la carenza democratica delle varie istituzioni e l’atteggiamento poco europeista dei vari Governi dei 28. Lo si è visto nell’incapacità di gestire il terrorismo internazionale, di affrontare la crisi economica dal 2008 e infine di gestire unitariamente il problema dei flussi migratori.
Questa incapacità è alla base di questo voto e della sfiducia dei cittadini europei. Ma nel contempo è probabile che questi non abbiano fatto i conti con gli effetti di una uscita dall’Unione. In queste ore ognuno di noi forse sta cominciando a rendersi conto che non si tratta di un gioco, che – come sempre – i forti cadranno in piedi e che i deboli pagheranno ancora una volta il prezzo più alto.

Qualche considerazione andrebbe fatta sugli elettori inglesi. Sembra che quelli fra i 18 ed i 24 anni abbiano votato “Remain”, ma essi rappresentavano solo il 36 % circa. Gli altri, quelli dai 25 anni in su (peraltro forbice troppo larga per poter essere considerato un campione di adulti) che hanno votato “Leave” hanno rappresentato oltre l’80%. Ricordiamo che la Gran Bretaga è entrata nella CEE solo nel 1973, con oltre 20 anni di ritardo rispetto ai Paesi fondatori: malgrado gli auspici di Winston Churchill, che è stato uno dei primi politici a parlare di Stati uniti d’Europa nel 1946 in un famoso discorso alla gioventù accademica all’Università di Zurigo, essa ha un trascorso di poco più di cinquanta anni senza mai aver aderito alla moneta unica.

Questi giovani, che hanno votato seppure in percentuale ridotta a favore del “Remain”, sono nati a ridosso dell’era euro e del processo di Copenaghen, che dal 2002 si è proposto di migliorare la qualità dell’istruzione e della formazione professionale dei paesi dell’Unione. È vero che non esiste una politica comunitaria unitaria in questo settore in quanto ogni Paese ha un suo sistema di istruzione, ma i vari Ministri europei si sono spesso espressi nel senso di una maggior cooperazione nel settore.
Le azioni che sono state portate avanti attraverso la progettazione europea hanno favorito lo scambio di esperienze, la mobilità fra studenti, la cooperazione per favorire l’apprendimento. E ora da insegnanti, non possiamo non chiederci quale politica per l’istruzione sia stata portata avanti dall’Unione in questi anni. I processi di Copenaghen e di Bologna per l’Università sono stato sufficienti a sviluppare nei giovani l’idea di una Europa solidale?
Evidentemente questo voto giovanile, soprattuto nella sua parte astensionista, ci dice che nei giovani non è maturata la consapevolezza di una cittadinanza euopea, e questo al di là dei risultati e degli effetti che si produrranno con questo voto. Gli altri 27 paesi dovranno molto riflettere sia sulle politiche dell’Unione sia sul messaggio che stiamo trasmettendo ai nostri ragazzi. Non basta che una grande percentuale di essi si spostino con facilità nell’Unione, conoscano le lingue, studino e lavorino lontani da casa. In Gran Bretagna, come negli altri Paesi della Unione Europea, c’è il fenomeno dei NEET (acronimo costruito proprio in lingua inglese), che indica come larghe fasce di giovani non studino, non lavorino non si formino. Sono ragazzi che hanno rinunciato a un progetto di vita. Sono ragazzi che non credono che l’Unione rappresenti quella opportunità in più che nella loro famiglia e nel loro paese non hanno avuto.

Quindi è da questa riflessione da cui dobbiamo ripartire. E la risposta certo non ce la potranno dare le forze politiche, sempre più populiste, diffuse in Europa. A chi ha a cuore l’uguaglianza delle opportunità e i diritti della persona spetta il compito di riflettere e di agire.

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A PROPOSITO DI BREXIT
lampadadialadmicromicro13VABBE’ L’EUROPA OGGI NON TIRA, MA E’ SBAGLIATO DIMENTICARLA PER LE BUONE COSE CHE FA!
Unica Contamination Lab: indubbiamente un’ottima iniziativa che la Regione Sarda giustamente incoraggia e sostiene con i fondi europei della programmazione 2014-2020 e con il proprio cofinanziamento. Ecco, al riguardo segnalo una gravissima omissione (almeno a me così appare): quella di aver dimenticato l’Europa. Che almeno in questa circostanza fornisce un sostegno. L’Europa non appare se non per un marchietto, (la bandiera blu con le dodici stelle) peraltro obbligatorio, nella pagina di presentazione del progetto. Dimentica l’Europa perfino Raffaele Paci, assessore regionale alla Programmazione, nonché vice presidente della Regione, ascrivendosi d’ufficio ai british e/o agli americani (statunitensi). Nella circostanza mi sovviene una dichiarazione di Tim Parks scrittore e professore inglese a proposito dell’esito referendario inglese (Brexit):
“(…) il peggior fallimento dell’Unione è che, con tutto il libero movimento delle persone (un diritto splendido), non c’è stato un minimo di avvicinamento culturale tra i vari paesi membri. Governati, almeno fino a un certo punto, dalla Germania, dei tedeschi sappiamo poco o nulla. Leggiamo solo i nostri quotidiani nazionali, i quali, se ospitano un giornalista straniero, opteranno immancabilmente per un americano, un inglese o un francese. Mai un tedesco o un polacco, raramente uno spagnolo. Siamo rimasti in nazioni separate, ma vincolate da una volontà altrui. Accettiamo diktat sul debito da Bruxelles, ma leggiamo romanzi americani, guardiamo film americani, seguiamo le elezioni americane molto più attentamente che non quelle di qualunque paese dell’Unione. Non può dirsi, questa, una “comunità”. La nostra identità collettiva rimane quella nazionale, ma imbrigliata, castigata, tranne, ogni tanto, in 90 minuti di delirio calcistico (…)”. Ecco le omissioni dell’Università e della Regione riguardo all’Europa mi sembrano precisamente e coerentemente situate in questo contesto culturale.
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Paxit
British-Paci

Come saranno spesi i 15 milioni per Is Mirrionis? Studiamo la documentazione e esercitiamo le nostre capacità critiche.

quartiere-di-is-mirrionis-stefanoconti(Dal sito web della RAS) Delibera del 11 maggio 2016, n. 26/6 [file .pdf]
Programmazione Unitaria 2014-2020. POR FESR e POR FSE 2014-2020. Agenda Urbana – Investimento Territoriale Integrato (ITI). Accordo di Programma tra la Regione Autonoma della Sardegna e il Comune di Cagliari “ITI Is Mirrionis”.
- All. 26/6 – Accordo di programma quadro [file .pdf]
- All. A – Investimento Territoriale Integrato [file .pdf]
- All. B - quadro finanziario dell’ITI [file .pdf]
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lampada aladin micromicroVolete un primo commento? Questo progetto è negativamente contraddistinto da un “deficit di partecipazione”. Sembra fatto in uno studio isolato da professionisti incuranti di confrontarsi con la gente in carne ed ossa. Le strutture fisiche di partecipazione, tra tutte l’hangar, appaiono scelte più per ragioni di attenzione alle spese che per l’efficacia delle azioni rispetto alle finalità. Non risulta alcuna analisi delle attività socio-culturali esistenti, che ci si è ben guardati di coinvolgere. Come un pugno in un occhio il fatto che si continui ad ignorare la richiesta di riuso dell’edificio di proprietà di Area dove si svolse l’esperienza della Scuola Popolare dei Lavoratori. Sorvoliamo per ora sulla governance del progetto che appare pesante, eccessivamente burocratica e chiusa a riccio rispetto alle esigenze di partecipazione democratica dei singoli cittadini e delle loro associazioni. E’ un progetto che può essere emendato? Diciamo di SI. Diciamo anche che DEVE essere emendato perché nella sua formulazione attuale contrasta in molta sua parte con gli indirizzi comunemente concordati tra Unione Europea e Regione Sarda, risultanti agli atti dei PO Fesr e Fse della programmazione 2014-2020. Torneremo presto sull’argomento.
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Altri 15 milioni per Is Mirrionis!

i carri armati di MussoliniDal sito web della Regione: “Le altre delibere di Giunta. Approvato l’accordo di programma che recepisce il protocollo d’intesa sottoscritto con il Comune di Cagliari. Prevede interventi da 15 milioni di euro per il recupero urbanistico e sociale nel quartiere di Is Mirrionis grazie agli Investimenti territoriali”. Ci fa venire alla mente la storia dei carri armati che Benito Mussolini spostava da un punto all’altro dell’Italia per far credere a Hitler che ne possedeva in gran quantità. Si trattava in realtà dei soliti carri armati, di scarsa qualità, che venivano mostrati in certe occasioni di sfilate militari quando sul palco d’onore c’erano gerarchi nazisti. Così Francesco Pigliaru con i soldi per Is Mirrionis: si tratta sempre degli stessi denari che da circa un anno ci sventolano sotto gli occhi!

La Manifattura promessa

Manifattura da vio XX sett 12 4 16 Ecco la delibera. Più avanti daremo conto del dibattito in corso…
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RAS loghettoDELIBERAZIONE N. 19/2 DEL 8.4.2016
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Oggetto: Manifattura Tabacchi di Cagliari. Indirizzi per l’avvio della gestione.
Il Presidente ricorda che la Regione è pienamente impegnata nella Programmazione comunitaria 2014-2020, al fine di attuare le priorità definite dalla Commissione Europea con la strategia “Europa 2020”, il cui scopo è promuovere una crescita intelligente, sostenibile ed inclusiva. Questi principi sono declinati a partire dal Programma Regionale di Sviluppo 2014-2019, con la Strategia 2 – Creare opportunità di lavoro favorendo la competitività delle imprese, attuata nell’ambito della Programmazione Unitaria 2014-2020. L’obiettivo è quello di garantire un approccio strategico e unitario sul territorio regionale, sia in ordine alle azioni, per ottimizzare gli impatti ed evitare sovrapposizioni e duplicazioni, sia per quanto concerne la necessaria concentrazione delle risorse derivanti da fonte comunitaria, nazionale e regionale.
- segue –