Risultato della ricerca: fabbrica creatività

Papa Francesco a Lisbona per la GMG con i giovani di tutto il Mondo. Svegliati Europa, hai una urgente missione da compiere!

img_3926[Dal sito della sala stampa vaticana]
Alle ore 12.20 locali (13.20 ora di Roma), il Santo Padre Francesco ha incontrato le Autorità, la Società Civile e il Corpo Diplomatico presso il Centro Cultural de Belém di Lisbona.

Al Suo arrivo il Papa è stato accolto dal Presidente della Repubblica del Portogallo, S.E. il Sig. Marcelo Rebelo de Sousa, all’entrata laterale del Centro ed insieme si sono recati sul palco.

Dopo il discorso introduttivo del Presidente, il Santo Padre ha pronunciato il Suo discorso.

Al termine dell’incontro, dopo essersi congedato dal Presidente della Repubblica, Papa Francesco si è trasferito in auto alla Nunziatura Apostolica di Lisbona dove, dopo l’accoglienza all’ingresso del personale della Nunziatura, ha pranzato in privato.

Pubblichiamo di seguito il discorso che il Papa ha pronunciato nel corso dell’incontro con le Autorità, la Società Civile e il Corpo Diplomatico:

Discorso del Santo Padre

Signor Presidente della Repubblica,
Signor Presidente dell’Assemblea della Repubblica,
Signor Primo Ministro,
Membri del Governo e del Corpo diplomatico,
Autorità, Rappresentanti della società civile e del mondo della cultura,
Signore e Signori!

Vi saluto cordialmente e ringrazio il Signor Presidente per l’accoglienza e per le cortesi parole che mi ha rivolto – è molto accogliente il Presidente, grazie! Sono felice di essere a Lisbona, città dell’incontro che abbraccia vari popoli e culture e che diventa in questi giorni ancora più universale; diventa, in un certo senso, la capitale del mondo, la capitale del futuro, perché i giovani sono futuro. Ciò ben si adatta al suo carattere multietnico e multiculturale – penso al quartiere Mouraria, dove vivono in armonia persone provenienti da più di sessanta Paesi – e rivela il tratto cosmopolita del Portogallo, che affonda le radici nel desiderio di aprirsi al mondo e di esplorarlo, navigando verso orizzonti nuovi e più vasti.

Non lontano da qui, a Cabo da Roca, è scolpita la frase di un grande poeta di questa città: «Aqui… onde a terra se acaba e o mar começa» (L. Vaz de Camões, Os Lusíadas, VIII). Per secoli si credeva che lì vi fosse il confine del mondo, e in un certo senso è vero: ci troviamo ai confini del mondo perché questo Paese confina con l’oceano, che delimita i continenti. Lisbona ne porta l’abbraccio e il profumo. Mi piace associarmi a quanto amano cantare i portoghesi: «Lisboa tem cheiro de flores e de mar» (A. Rodrigues, Cheira bem, cheira a Lisboa, 1972). Un mare che è molto più di un elemento paesaggistico, è una chiamata impressa nell’animo di ogni portoghese: «mar sonoro, mar sem fundo, mar sem fin» l’ha chiamato una poetessa locale (S. de Mello Breyner Andresen, Mar sonoro). Davanti all’oceano, i portoghesi riflettono sugli immensi spazi dell’anima e sul senso della vita nel mondo. E anch’io, lasciandomi trasportare dall’immagine dell’oceano, vorrei condividere alcuni pensieri.

Secondo la mitologia classica, Oceano è figlio del cielo (Urano): la sua vastità porta i mortali a guardare in alto e a elevarsi verso l’infinito. Ma, al contempo, Oceano è figlio della terra (Gea) che abbraccia, invitando così ad avvolgere di tenerezza l’intero mondo abitato. L’oceano, infatti, non collega solo popoli e Paesi, ma terre e continenti; perciò Lisbona, città dell’oceano, richiama all’importanza dell’insieme, a pensare i confini come zone di contatto, non come frontiere che separano. Sappiamo che oggi le grandi questioni sono globali, eppure spesso sperimentiamo l’inefficacia nel rispondervi proprio perché davanti a problemi comuni il mondo è diviso, o per lo meno non abbastanza coeso, incapace di affrontare unito ciò che mette in crisi tutti. Sembra che le ingiustizie planetarie, le guerre, le crisi climatiche e migratorie corrano più veloci della capacità, e spesso della volontà, di fronteggiare insieme tali sfide.

Lisbona può suggerire un cambio di passo. Qui nel 2007 è stato firmato l’omonimo Trattato di riforma dell’Unione Europea. Esso afferma che «l’Unione si prefigge di promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli» (Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull’Unione Europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea, art. 1,4/2.1); ma va oltre, asserendo che «nelle relazioni con il resto del mondo […] contribuisce alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile della Terra, alla solidarietà e al rispetto reciproco tra i popoli, al commercio libero ed equo, all’eliminazione della povertà e alla tutela dei diritti umani» (art. 1,4/2.5). Non sono solo parole, ma pietre miliari per il cammino della comunità europea, scolpite nella memoria di questa città. Ecco lo spirito dell’insieme, animato dal sogno europeo di un multilateralismo più ampio del solo contesto occidentale.

Secondo un’etimologia discussa, il nome Europa deriverebbe proprio da una parola che indica la direzione di occidente. È certo invece che Lisbona è la capitale più a ovest dell’Europa continentale. Essa richiama dunque la necessità di aprire vie di incontro più vaste, come il Portogallo già fa, soprattutto con Paesi di altri continenti accomunati dalla stessa lingua. Auspico che la Giornata Mondiale della Gioventù sia, per il “vecchio continente” – possiamo dire l’“anziano” continente -, un impulso di apertura universale, cioè un impulso di apertura che lo renda più giovane. Perché di Europa, di vera Europa, il mondo ha bisogno: ha bisogno del suo ruolo di pontiere e di paciere nella sua parte orientale, nel Mediterraneo, in Africa e in Medio Oriente. Così l’Europa potrà apportare, all’interno dello scenario internazionale, la sua specifica originalità, delineatasi nel secolo scorso quando, dal crogiuolo dei conflitti mondiali, fece scoccare la scintilla della riconciliazione, inverando il sogno di costruire il domani con il nemico di ieri, di avviare percorsi di dialogo, percorsi di inclusione, sviluppando una diplomazia di pace che spenga i conflitti e allenti le tensioni, capace di cogliere i segnali di distensione più flebili e di leggere tra le righe più storte.

Nell’oceano della storia, stiamo navigando in un frangente tempestoso e si avverte la mancanza di rotte coraggiose di pace. Guardando con accorato affetto all’Europa, nello spirito di dialogo che la caratterizza, verrebbe da chiederle: verso dove navighi, se non offri percorsi di pace, vie creative per porre fine alla guerra in Ucraina e ai tanti conflitti che insanguinano il mondo? E ancora, allargando il campo: quale rotta segui, Occidente? La tua tecnologia, che ha segnato il progresso e globalizzato il mondo, da sola non basta; tanto meno bastano le armi più sofisticate, che non rappresentano investimenti per il futuro, ma impoverimenti del vero capitale umano, quello dell’educazione, della sanità, dello stato sociale. Preoccupa quando si legge che in tanti luoghi si investono continuamente fondi sulle armi anziché sul futuro dei figli. E questo è vero. Mi diceva l’economo, alcuni giorni fa, che il migliore reddito di investimenti è nella fabbricazione di armi. Si investe più sulle armi che sul futuro dei figli. Io sogno un’Europa, cuore d’Occidente, che metta a frutto il suo ingegno per spegnere focolai di guerra e accendere luci di speranza; un’Europa che sappia ritrovare il suo animo giovane, sognando la grandezza dell’insieme e andando oltre i bisogni dell’immediato; un’Europa che includa popoli e persone con la loro propria cultura, senza rincorrere teorie e colonizzazioni ideologiche. E questo ci aiuterà a pensare ai sogni dei padri fondatori dell’Unione europea: questi sognavano alla grande!

L’oceano, immensa distesa d’acqua, richiama le origini della vita. Nel mondo evoluto di oggi è divenuto paradossalmente prioritario difendere la vita umana, messa a rischio da derive utilitariste, che la usano e la scartano: la cultura dello scarto della vita. Penso a tanti bambini non nati e anziani abbandonati a sé stessi, alla fatica di accogliere, proteggere, promuovere e integrare chi viene da lontano e bussa alle porte, alla solitudine di molte famiglie in difficoltà nel mettere al mondo e crescere dei figli. Verrebbe anche qui da dire: verso dove navigate, Europa e Occidente, con lo scarto dei vecchi, i muri col filo spinato, le stragi in mare e le culle vuote? Verso dove navigate? Dove andate se, di fronte al male di vivere, offrite rimedi sbrigativi e sbagliati, come il facile accesso alla morte, soluzione di comodo che appare dolce, ma in realtà è più amara delle acque del mare? E penso a tante leggi sofisticate sull’eutanasia.

Lisbona, abbracciata dall’oceano, ci dà però motivo di sperare, è città della speranza. Un oceano di giovani si sta riversando in quest’accogliente città; e io vorrei ringraziare per il grande lavoro e il generoso impegno profusi dal Portogallo per ospitare un evento così complesso da gestire, ma fecondo di speranza. Come si dice da queste parti: «Accanto ai giovani, uno non invecchia». Giovani provenienti da tutto il mondo, che coltivano i desideri dell’unità, della pace e della fraternità, giovani che sognano ci provocano a realizzare i loro sogni di bene. Non sono nelle strade a gridare rabbia, ma a condividere la speranza del Vangelo, la speranza della vita. E se da molte parti oggi si respira un clima di protesta e insoddisfazione, terreno fertile per populismi e complottismi, la Giornata Mondiale della Gioventù è occasione per costruire insieme. Rinverdisce il desiderio di creare novità, di prendere il largo e navigare insieme verso il futuro. Vengono in mente alcune parole ardite di Pessoa: «Navigare è necessario, vivere non è necessario […]; quello che serve è creare» (Navegar é preciso). Diamoci dunque da fare con creatività per costruire insieme! Immagino tre cantieri di speranza in cui possiamo lavorare tutti uniti: l’ambiente, il futuro, la fraternità.

L’ambiente. Il Portogallo condivide con l’Europa tanti sforzi esemplari per la protezione del creato. Ma il problema globale rimane estremamente serio: gli oceani si surriscaldano e i loro fondali portano a galla la bruttezza con cui abbiamo inquinato la casa comune. Stiamo trasformando le grandi riserve di vita in discariche di plastica. L’oceano ci ricorda che la vita dell’uomo è chiamata ad armonizzarsi con un ambiente più grande di noi, che va custodito, va custodito con premura, pensando alle giovani generazioni. Come possiamo dire di credere nei giovani, se non diamo loro uno spazio sano per costruire il futuro?

Il futuro è il secondo cantiere. E il futuro sono i giovani. Ma tanti fattori li scoraggiano, come la mancanza di lavoro, i ritmi frenetici in cui sono immersi, l’aumento del costo della vita, la fatica a trovare un’abitazione e, ancora più preoccupante, la paura di formare famiglie e mettere al mondo dei figli. In Europa e, più in generale, in Occidente, si assiste a una fase discendente della curva demografica: il progresso sembra una questione riguardante gli sviluppi della tecnica e gli agi dei singoli, mentre il futuro chiede di contrastare la denatalità e il tramonto della voglia di vivere. La buona politica può fare molto in questo, può essere generatrice di speranza. Essa, infatti, non è chiamata a detenere il potere, ma a dare alla gente il potere di sperare. È chiamata, oggi più che mai, a correggere gli squilibri economici di un mercato che produce ricchezze, ma non le distribuisce, impoverendo di risorse e certezze gli animi. È chiamata a riscoprirsi generatrice di vita e di cura, a investire con lungimiranza sull’avvenire, sulle famiglie e sui figli, a promuovere alleanze intergenerazionali, dove non si cancelli con un colpo di spugna il passato, ma si favoriscano i legami tra giovani e anziani. Questo dobbiamo riprenderlo: il dialogo tra giovani e anziani. A questo richiama il sentimento della saudade portoghese, la quale esprime una nostalgia, un desiderio di bene assente, che rinasce solo a contatto con le proprie radici. I giovani devono trovare le proprie radici negli anziani. In tal senso è importante l’educazione, che non può solo impartire nozioni tecniche per progredire economicamente, ma è destinata a immettere in una storia, a consegnare una tradizione, a valorizzare il bisogno religioso dell’uomo e a favorire l’amicizia sociale.

L’ultimo cantiere di speranza è quello della fraternità, che noi cristiani impariamo dal Signore Gesù Cristo. In tante parti del Portogallo il senso del vicinato e la solidarietà sono molto vivi. Però, nel contesto generale di una globalizzazione che ci avvicina, ma non ci dà la prossimità fraterna, tutti siamo chiamati a coltivare il senso della comunità, a partire dalla ricerca di chi ci abita accanto. Perché, come notò Saramago, «ciò che dà il vero senso all’incontro è la ricerca, e bisogna fare molta strada per raggiungere ciò che è vicino» (Todos os nomes, 1997). Com’è bello riscoprirci fratelli e sorelle, lavorare per il bene comune lasciando alle spalle contrasti e diversità di vedute! Anche qui ci sono d’esempio i giovani che, con il loro grido di pace e la loro voglia di vita, ci portano ad abbattere i rigidi steccati di appartenenza eretti in nome di opinioni e credo diversi. Ho saputo di tanti giovani che qui coltivano il desiderio di farsi prossimi; penso all’iniziativa Missão País, che porta migliaia di ragazzi a vivere nello spirito del Vangelo esperienze di solidarietà missionaria nelle zone periferiche, specialmente nei villaggi all’interno del Paese, andando a trovare molti anziani soli, e questo è un’ “unzione” per la gioventù. Vorrei ringraziare e incoraggiare, accanto ai tanti che nella società portoghese si occupano degli altri, la Chiesa locale, che fa tanto bene, lontana dalla luce dei riflettori.

Fratelli e sorelle, sentiamoci tutti insieme chiamati, fraternamente, a dare speranza al mondo in cui viviamo e a questo magnifico Paese. Deus abençoe Portugal!

[01184-IT.02] [Testo originale: Italiano]
——————————————————-
[3 agosto 2012 Dalla sala stampa vaticana] Incontro con i Giovani Universitari presso la Universidade Católica Portuguesa di Lisbona
Discorso del Santo Padre

Traduzione in lingua italiana

Questa mattina, Papa Francesco ha celebrato la Santa Messa in forma privata in Nunziatura. Erano presenti quattro familiari della donna francese, animatrice di catechesi di 62 anni, venuta a Lisbona per la GMG e deceduta nei giorni scorsi a causa di un incidente nella casa in cui era ospitata.

Prima di lasciare la Nunziatura, Papa Francesco ha incontrato un gruppo di quindici giovani pellegrini dall’Ucraina accompagnati dal Sig. Denys Kolada, Consulente per il Dialogo con le organizzazioni religiose presso il Governo ucraino. Dopo aver ascoltato le loro toccanti storie, il Papa ha rivolto ai ragazzi alcune parole, manifestando la sua vicinanza, “dolorosa e di preghiera”. Nel concludere l’incontro, durato circa 30 minuti, il Papa e i ragazzi hanno recitato insieme il Padre Nostro, con il pensiero rivolto alla martoriata Ucraina.

Quindi, il Santo Padre Francesco ha lasciato la Nunziatura Apostolica e si è trasferito in auto all’Universidade Católica Portuguesa di Lisbona dove, alle ore 9.00 (10.00 ora di Roma), ha incontrato i Giovani Universitari nel piazzale antistante l’Università.
Dopo l’esecuzione di un brano musicale e il saluto di benvenuto della Prof.ssa Isabel Capeloa Gil, Rettore dell’Università Cattolica Portoghese, hanno avuto luogo due testimonianze, una ispirata alla Laudato si’ e un’altra ispirata dal Patto Educativo Globale. Poi, dopo un canto della Corale, hanno fatto seguito una testimonianza sull’Economy of Francesco e una di una giovane aiutata dal Fondo Papa Francesco per una cultura dell’incontro. Quindi il Papa ha pronunciato il Suo discorso.
Al termine, dopo la recita del Padre Nostro, la Benedizione finale e l’esecuzione di un ultimo brano musicale, il Santo Padre ha benedetto la Prima Pietra del Campus Veritatis. Secondo le autorità locali hanno partecipato all’incontro circa 6500 persone.
Quindi, il Papa ha lasciato l’Università e si è trasferito in auto alla sede di Scholas Occurrentes di Cascais.

Pubblichiamo di seguito il discorso che Papa Francesco ha pronunciato nel corso dell’incontro con i Giovani Universitari.

Discorso del Santo Padre

[01186-ES.02] [Texto original: Español]
Traduzione in lingua italiana

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Grazie, Signora Rettrice, per le sue parole. Obrigado! Ha detto che tutti ci sentiamo «pellegrini». È una parola bella, il cui significato merita di essere meditato; letteralmente vuol dire lasciare da parte la routine abituale e mettersi in cammino con un’intenzione, muovendosi «attraverso i campi» o «oltre i propri confini», cioè fuori dalla propria zona di comfort verso un orizzonte di senso. Nel termine “pellegrino” vediamo rispecchiata la condizione umana, perché ognuno è chiamato a confrontarsi con grandi domande che non hanno risposta, una risposta semplicistica o immediata, ma invitano a compiere un viaggio, a superare sé stessi, ad andare oltre. È un processo che un universitario comprende bene, perché così nasce la scienza. E così cresce pure la ricerca spirituale. Essere pellegrino è camminare verso una meta o cercando una meta. C’è sempre il pericolo di camminare in un labirinto, dove non c’è meta. E nemmeno uscita. Diffidiamo delle formule prefabbricate – sono labirintiche –, diffidiamo delle risposte che sembrano a portata di mano, di quelle risposte sfilate dalla manica come carte da gioco truccate; diffidiamo di quelle proposte che sembrano dare tutto senza chiedere nulla. Diffidiamo! Questa diffidenza è un’arma per poter andare avanti e non continuare a girare in tondo. Una delle parabole di Gesù dice che la perla di grande valore colui la cerca con intelligenza e con intraprendenza, e dà tutto, rischia tutto ciò che ha per averla (cfr Mt 13,45-46). Cercare e rischiare: ecco i due verbi del pellegrino. Cercare e rischiare.

Pessoa ha detto, in modo tormentato ma corretto, che «essere insoddisfatti è essere uomini» (Mensagem, O Quinto Império). Non dobbiamo aver paura di sentirci inquieti, di pensare che quanto facciamo non basti. Essere insoddisfatti, in questo senso e nella giusta misura, è un buon antidoto contro la presunzione di autosufficienza e contro il narcisismo. L’incompletezza caratterizza la nostra condizione di cercatori e pellegrini; come dice Gesù, “siamo nel mondo, ma non siamo del mondo” (cfr Gv 17,16). Siamo in cammino verso… Siamo chiamati a qualcosa di più, a un decollo senza il quale non c’è volo. Non allarmiamoci allora se ci troviamo interiormente assetati, inquieti, incompiuti, desiderosi di senso e di futuro, com saudade do futuro! E qui, insieme alla saudade do futuro, non dimenticatevi di mantenere viva la memoria del futuro. Non siamo malati, siamo vivi! Preoccupiamoci piuttosto quando siamo disposti a sostituire la strada da fare col fare sosta in qualsiasi punto di ristoro, purché ci dia l’illusione della comodità; quando sostituiamo i volti con gli schermi, il reale con il virtuale; quando, al posto delle domande che lacerano, preferiamo le risposte facili che anestetizzano. E le possiamo trovare in qualsiasi manuale sui rapporti sociali, su come comportarsi bene. Le risposte facili anestetizzano.

Amici, permettetemi di dirvi: cercate e rischiate, cercate e rischiate. In questo frangente storico le sfide sono enormi, e i gemiti dolorosi. Stiamo vedendo una terza guerra mondiale a pezzi. Ma abbracciamo il rischio di pensare che non siamo in un’agonia, bensì in un parto; non alla fine, ma all’inizio di un grande spettacolo. Ci vuole coraggio per pensare questo. Siate dunque protagonisti di una “nuova coreografia” che metta al centro la persona umana, siate coreografi della danza della vita. Le parole della Signora Rettrice sono state per me ispiratrici, in particolare quando ha detto che «l’università non esiste per preservarsi come istituzione, ma per rispondere con coraggio alle sfide del presente e del futuro». L’autopreservazione è una tentazione, è un riflesso condizionato della paura, che fa guardare all’esistenza in modo distorto. Se i semi preservassero sé stessi, sprecherebbero completamente la loro potenza generativa e ci condannerebbero alla fame; se gli inverni preservassero sé stessi, non ci sarebbe la meraviglia della primavera. Abbiate perciò il coraggio di sostituire le paure coi sogni. Sostituite le paure coi sogni: non siate amministratori di paure, ma imprenditori di sogni!

Sarebbe uno spreco pensare a un’università impegnata a formare le nuove generazioni solo per perpetuare l’attuale sistema elitario e diseguale del mondo, in cui l’istruzione superiore resta un privilegio per pochi. Se la conoscenza non viene accolta come responsabilità, diventa sterile. Se chi ha ricevuto un’istruzione superiore (che oggi, in Portogallo e nel mondo, rimane un privilegio) non si sforza di restituire ciò di cui ha beneficiato, non ha capito fino in fondo cosa gli è stato offerto. Mi piace pensare al Libro della Genesi; le prime domande che Dio pone all’uomo sono: «Dove sei?» (Gen 3,9) e «Dov’è tuo fratello?» (Gen 4,9). Ci farà bene chiederci: dove sono? Me ne sto chiuso nella mia bolla o corro il rischio di uscire dalle mie sicurezze per diventare un cristiano praticante, un artigiano della giustizia, un artigiano della bellezza? E ancora: Dov’è mio fratello? Esperienze di servizio fraterno come la Missão País e molte altre che nascono in ambito accademico dovrebbero essere considerate indispensabili per chi passa da un’università. Il titolo di studio non deve infatti essere visto solo come una licenza per costruire il benessere personale, ma come un mandato per dedicarsi a una società più giusta, una società più inclusiva, cioè più progredita. Mi è stato detto che una vostra grande poetessa, Sophia de Mello Breyner Andresen, in un’intervista che è una sorta di testamento, alla domanda: «Che cosa le piacerebbe vedere realizzato in Portogallo in questo nuovo secolo?», ha risposto senza esitare: «Vorrei vedere realizzata la giustizia sociale, la riduzione del divario tra ricchi e poveri» (Entrevista de Joaci Oliveira, in Cidade Nova, nº 3/2001). Giro a voi questa domanda. Voi, cari studenti, pellegrini del sapere, cosa volete vedere realizzato in Portogallo e nel mondo? Quali cambiamenti, quali trasformazioni? E in che modo l’università, soprattutto quella cattolica, può contribuirvi?

Beatriz, Mahoor, Mariana, Tomás, vi ringrazio per le vostre testimonianze. Avevano tutte un tono di speranza, una carica di entusiasmo realista, senza lamentele ma nemmeno senza fughe in avanti idealiste. Volete essere «protagonisti, protagonisti del cambiamento», come ha detto Mariana. Ascoltandovi, ho pensato a una frase che forse vi è familiare, dello scrittore José de Almada Negreiros: «Ho sognato un Paese in cui tutti arrivavano a essere maestri» (A Invenção do Dia Claro). Anche questo anziano che vi parla – ormai sono vecchio –, sogna che la vostra generazione divenga una generazione di maestri. Maestri di umanità. Maestri di compassione. Maestri di nuove opportunità per il pianeta e i suoi abitanti. Maestri di speranza. E maestri che difendano la vita del pianeta, minacciata in questo momento da una grave distruzione ecologica.

Come alcuni di voi hanno sottolineato, dobbiamo riconoscere l’urgenza drammatica di prenderci cura della casa comune. Tuttavia, ciò non può essere fatto senza una conversione del cuore e un cambiamento della visione antropologica alla base dell’economia e della politica. Non ci si può accontentare di semplici misure palliative o di timidi e ambigui compromessi. In questo caso «le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel disastro» (Lett. enc. Laudato si’, 194). Non dimenticatelo: le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel disastro. Si tratta invece di farsi carico di quello che purtroppo continua a venir rinviato: ossia la necessità di ridefinire ciò che chiamiamo progresso ed evoluzione. Perché, in nome del progresso, si è fatto strada troppo regresso. Studiate bene questo che vi dico: in nome del progresso, si è fatto strada troppo regresso. Voi siete la generazione che può vincere questa sfida: avete gli strumenti scientifici e tecnologici più avanzati ma, per favore, non cadete nella trappola di visioni parziali. Non dimenticate che abbiamo bisogno di un’ecologia integrale, abbiamo bisogno di ascoltare la sofferenza del pianeta insieme a quella dei poveri; abbiamo bisogno di mettere il dramma della desertificazione in parallelo con quello dei rifugiati; il tema delle migrazioni insieme a quello della denatalità; abbiamo bisogno di occuparci della dimensione materiale della vita all’interno di una dimensione spirituale. Non creare polarizzazioni, ma visioni d’insieme.

Grazie, Tomás, per aver detto che «non è possibile un’autentica ecologia integrale senza Dio, che non può esserci futuro in un mondo senza Dio». Vorrei dirvi: rendete la fede credibile attraverso le scelte. Perché se la fede non genera stili di vita convincenti non fa lievitare la pasta del mondo. Non basta che un cristiano sia convinto, deve essere convincente; le nostre azioni sono chiamate a riflettere la bellezza, gioiosa e insieme radicale, del Vangelo. Inoltre, il cristianesimo non può essere abitato come una fortezza circondata da mura, che alza bastioni nei confronti del mondo. Perciò ho trovato toccante la testimonianza di Beatriz, quando ha detto che proprio «a partire dal campo della cultura» si sente chiamata a vivere le Beatitudini. In ogni epoca uno dei compiti più importanti per i cristiani è recuperare il senso dell’incarnazione. Senza l’incarnazione, il cristianesimo diventa ideologia – e la tentazione delle ideologie cristiane, tra virgolette, è molto attuale. È l’incarnazione che permette di essere stupiti dalla bellezza che Cristo rivela attraverso ogni fratello e sorella, ogni uomo e donna.

A tale proposito, è interessante che nella vostra nuova cattedra dedicata all’«Economia di Francesco» abbiate aggiunto la figura di Chiara. Il contributo femminile è indispensabile. Nell’inconscio collettivo, quante volte si pensa che le donne sono di seconda categoria, sono riserve, non giocano come titolari. Questo esiste nell’inconscio collettivo. Il contributo femminile è indispensabile. Del resto, nella Bibbia si vede come l’economia della famiglia è in larga parte in mano alla donna. Lei, con la sua saggezza, è la vera “reggente” della casa, che non ha per fine esclusivamente il profitto, ma la cura, la convivenza, il benessere fisico e spirituale di tutti, e pure la condivisione con i poveri e i forestieri. È entusiasmante intraprendere gli studi economici con questa prospettiva: con l’obiettivo di restituire all’economia la dignità che le spetta, perché non sia preda del mercato selvaggio e della speculazione.

L’iniziativa del Patto Educativo Globale, e i sette principi che ne formano l’architettura, includono molti di questi temi, dalla cura della casa comune alla piena partecipazione delle donne, fino alla necessità di trovare nuove modalità d’intendere l’economia, la politica, la crescita e il progresso. Vi invito a studiare il Patto educativo globale e ad appassionarvene. Uno dei punti che tratta è l’educazione all’accoglienza e all’inclusione. Non possiamo fingere di non aver sentito le parole di Gesù nel capitolo 25 di Matteo: «ero straniero e mi avete accolto» (v. 35). Ho seguito con emozione la testimonianza di Mahoor, quando ha evocato cosa significa vivere con «il sentimento costante di assenza di un focolare, della famiglia, degli amici […], di essere rimasta senza casa, senza università, senza soldi […], stanca, esausta e abbattuta dal dolore e dalle perdite». Ci ha detto di aver ritrovato speranza perché qualcuno ha creduto nell’impatto trasformante della cultura dell’incontro. Ogni volta che qualcuno pratica un gesto di ospitalità, provoca una trasformazione.

Amici, sono molto contento di vedervi comunità educativa viva, aperta alla realtà, e consapevoli che il Vangelo non fa da ornamento, ma anima le parti e l’insieme. So che il vostro percorso comprende diversi ambiti: studio, amicizia, servizio sociale, responsabilità civile e politica, cura della casa comune, espressioni artistiche… Essere un’università cattolica vuol dire anzitutto questo: che ogni elemento è in relazione al tutto e che il tutto si ritrova nelle parti. Così, mentre si acquisiscono le competenze scientifiche, si matura come persone, nella conoscenza di sé e nel discernimento della propria strada. Strada sì, labirinto no. Allora, avanti! Una tradizione medievale racconta che quando i pellegrini del Cammino di Santiago si incrociavano, uno salutava l’altro esclamando «Ultreia» e l’altro rispondeva «et Suseia». Sono espressioni di incoraggiamento a continuare la ricerca e il rischio del cammino, dicendoci reciprocamente: “Dai, coraggio, vai avanti!”. Questo è ciò che auguro anch’io a tutti voi, con tutto il cuore. Grazie.

[01186-IT.02] [Testo originale: Spagnolo]
————————————————————
L’incontro con i giovani universitari: https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2023/08/03/0544/01187.html
_____________________

Formazione per far vincere la Pace. L’insegnamento di Aldo Capitini

574ac741-1550-43f2-ad9f-2be5967149474bf7cd01-076a-4be1-a565-16a735523215BIBLIOGRAFIA DISARMATA: ALDO CAPITINI .
Aldo Capitini (1899-1968).

Aldo Capitini: 20 ragioni della nonviolenza

1. La nonviolenza prende in considerazione il nostro rapporto con gli altri esseri viventi, con la fiducia di renderlo sempre più reciprocamente amichevole, comprensivo, soccorrente, lieto, malgrado le difficoltà che gli altri stessi possono metterci. Questa fiducia non cessa di colpo al confine degli esseri umani e spera anche per gli esseri viventi non umani; ma si rende conto che la storia con la sua spinta vitale ha separato da noi finora questi esseri (animali e piante) in forme di più difficile educazione, trasformazione, liberazione.
2 La nonviolenza è aperta all’esistenza, alla libertà, allo sviluppo di ogni essere. Quando nel Settecento sono stati banditi i principi di libertà, eguaglianza, fratellanza, non è stato fatto tutto. La libertà era più la libertà propria come diritto che la libertà degli altri come dovere;l’eguaglianza era un bel principio, ma si fermava a metà perché restavano i miseri e gli sfruttati; la fratellanza era più quella generica con i lontani che quella difficile, nonviolenta e perdonante verso i vicini.
3 La bellezza della nonviolenza è che essa preferisce non di distruggere gli avversari, ma di lottare con loro in modo nobile e dignitoso, con il metodo nonviolento, che fa bene, prima o poi, a chi lo applica e a chi lo riceve. In fondo è più coraggioso volere vivi e ragionanti gli avversari, che farli a pezzi.
4 Ma sarebbe errore credere che la nonviolenza consista nel non fare nulla, nell’incassare i colpi, le cattiverie e le stupidaggini degli altri. La nonviolenza è sveglia e attiva, e protesta apertamente, anzi cerca i modi non solo per convincere gli autori delle ingiustizie, ma per informare l’opinione pubblica, di cui ha la massima considerazione: la nonviolenza per nessuna ragione crede che si possa sospendere la libertà e la possibilità abbondante di informazione e di critica per tutti, fino all’ultimo essere umano. Anche qui la nonviolenza attua al massimo un principio del Settecento, che la borghesia ha poi alterato a proprio vantaggio: la formazione libera dell’opinione pubblica, comprendente tutti.
5 La nonviolenza può rinnovare veramente la vita interna di un paese, perché nell’insieme di un’opinione pubblica, tutta sveglia e obbiettivamente informata, porta eventuali piani di non collaborazione e perfino, in casi estremi, di disobbedienza civile, che servono a bloccare iniziative autoritarie dall’alto. In Italia un popolo privo di esatta informazione e critica responsabilità fu portato ad uccidere e a morire, e poi al popolo privo del metodo di opposizione nonviolenta fu imposta una dittatura. L’uso del metodo nonviolento avrebbe salvato e trasformato l’Europa, a cominciare dall’Italia e dalla Germania.
6 Trasformare la situazione interna dei paesi vuol dire anche avere un continuo promovimento di campagne giuste e rinnovatrici, in cose piccole e in cose grandi, e senza portare il terrorismo della guerra civile nelle strade e nelle case. È un metodo nuovo, il tenere attiva una società con il metodo nonviolento, controllando e smascherando, protestando e agitando, sacrificandosi e così educando i giovanissimi a cercare coraggiosamente di migliorare le società dal di dentro. Anche qui la nonviolenza salva i giovani, occupandoli bene (rivoluzione permanente).
7 La nonviolenza è strettamente congiunta col punto a cui è giunta la guerra, con la sua attrezzatura tecnica e le armi nucleari. L’esasperazione della ferocia e della vastità distruttiva della guerra, specialmente dopo Hiroshima, ha posto il problema di arrivare a un altro modo di condurre le lotte e la stessa difesa. Come ci si difende alle frontiere da missili che varcano i continenti e in pochi minuti distruggono città, specialmente le industrie, i civili? Si può arrischiare una tale strage e un tale avvelenamento dell’educazione delle generazioni? Dietro e dopo le soluzioni provvisorie dell’equilibrio del terrore, mentre è enorme nel mondo la fabbricazione di armi di tutte le specie e la loro distribuzione anche ai popoli sottosviluppati, la nonviolenza prepara la svolta storica del possesso in tutto il mondo di un metodo di lotta che esclude la distruzione dei nemici, attraverso la non collaborazione con il male, la solidarietà aperta dei giusti. Questo metodo non ha bisogno di armi e perciò di appoggiarsi ad una nazione con industrie capaci di darle, come sono costretti a fare i guerriglieri violenti, che usano anche i vecchi modi del terrorismo tra gli avversari e della tortura dei prigionieri
8 Il metodo nonviolento esige prima di tutto qualità di coraggio, tenacia, sacrificio, e di non perdere mai l’amore; poi esige un addestramento fisico e psicologico, ma possibile anche per persone di forze modeste. Un metodo in cui un cieco può essere più utile di un gigante. Così il metodo nonviolento si rivela come la possibilità di partecipazione attiva, appassionata ed eroica, di persone che non hanno altro che il loro animo e le loro giuste esigenze: la nonviolenza le valorizza, illumina, e rende presenti anche moltitudini di donne, di giovinetti, folle del Terzo Mondo, che entrano nel meglio della civiltà, che è l’apertura amorevole alla liberazione di tutti. E allora perché essere così esclusivi (razzisti) verso altre genti? Oramai non è meglio insegnare, sì, l’affetto per la terra dove si nasce, ma anche tenere pronte strutture e mezzi per accogliere fraternamente altri, se si presenta questo fatto? La nonviolenza è un’altra atmosfera per tutte le cose e un’altra attenzione per le persone, e per ciò che possono diventare.
9 Davanti a questa svolta storica in anni e decenni, il prevalere di gruppi violenti per un certo periodo rimane un episodio. L’unica forza che scava loro il terreno è la nonviolenza, ma ci può volere pazienza, tempo, costanza. È vero che un atto di violenza può fronteggiare un altro atto di violenza, ma poi? Nel quadro generale è meglio attuare un altro metodo. Si possono conservare ancora forze coercitive per piccoli fatti, di ordine quotidiano, ma nel più e nell’insieme è il metodo del rapporto nonviolento che va risolto e articolato sempre più. In esso, nel fatto che esso è amorevolezza,approfondimento dell’unità, festa della vicinanza, inizio di una storia nuova con nuovi modi di realizzarsi, sta il compenso per i sacrifici della lotta nonviolenta e per il ritardo delle vittorie.
10. La nonviolenza è la porta da aprire per non sentirsi soli. La nonviolenza cerca sempre di essere con gli altri. E questo è molto importante oggi, perché sta dilagando il bisogno di una democrazia diretta, dal basso, con il controllo di tutti su tutto. Contro i poteri imperiali dei capi degli eserciti e delle industrie che li servono (private o statali), la democrazia diretta costituirà i suoi strumenti con la continua guida della nonviolenza, per smontare la varia violenza dei potenti (violenza burocratica, giudiziaria, nella scuola, nel lavoro, negli enti di assistenza, nella stampa e nella radio), non con assalti sanguinari che non trasformerebbero, ma con la preparazione al controllo serio e aperto.

11 Dire nonviolenza è come dire apertura in tutti i campi, occuparsi degli esseri viventi in modo concreto e aiutarli (che è anche un modo per avere forza in se stessi); tenersi pronti per sostenere cause giuste e meritare il nome di essere perfettamente leale; riconoscere che negli errori degli altri c’è sempre una qualche responsabilità e possibilità attiva per noi; perdonare facilmente al passato nella serietà di impegni migliori per il futuro; invidiare Dio che può conoscere più da vicino tutti gli esseri e aiutarli infinitamente; tendere a costituire comunità di vita con più persone e famiglie in modo che ci sia uno scambio più attivo e un’educazione comune dei piccoli; essere più sensibili ad ogni altro valore pratico e contemplativo (l’onestà, l’umiltà, la musica, ecc.); essere più fermi nella serietà e severità quando occorra (per es. contro le ingiuste e molli raccomandazioni); cercare di estendere il rispetto della vita quando è possibile (per es. col vegetarianesimo, ma facendolo bene perché non sia dannoso) e assecondare dalla fanciullezza la zoofilia; utilizzare l’appassionamento universale per la massima valorizzazione degli esseri per arricchire l’attenzione nel tu rivolto a un singolo essere, perché non sia isolato e stagnante; attuare quotidianamente la gentilezza costante, senza ipocrisia e con franchezza; portare in ogni situazione un’aggiunta di ragionevolezza umana e di comprensione reciproca; garantire una riserva di serenità per il fatto che la nonviolenza è qualche cosa di più rispetto alla semplice amministrazione della vita.
12 La nonviolenza non sta in un individuo astratto, ma è da individui a individui in situazioni, strutture, grandi problematiche e urgenti realizzazioni. Un modo in cui si fa presente è, come abbiamo visto, quello del pacifismo integrale. Il che vuol dire non solo il rifiuto di collaborare alla guerra e guerriglia, e a ciò che inevitabilmente le accompagna, il terrorismo contro i civili e la tortura sui prigionieri; ma anche la scelta del disarmo unilaterale, unito all’addestramento all’azione del metodo nonviolento. Perciò la nonviolenza indica il pericolo dell’equilibrio del terrore, durante il quale eserciti e industrie alimentano di armi tutto il mondo, da cui conflitti grandi e piccoli; indica gli spegnimenti della democrazia che vengono fatti per allinearsi in grandi blocchi politico-militari; mostra l’immenso consumo di denari nelle spese militari invece che nello sviluppo civile. Le Nazioni Unite, come insieme di sforzi per dominare razionalmente le situazioni difficili e per provocare continuamente la cooperazione, sono sostenibili, anche perché tutte le trasformazioni rivoluzionarie che la nonviolenza porta, sono sempre il fondamento e l’integrazione di quelle decisioni razionali e giuridiche che gli uomini prendono, quando esse sono un bene per tutti. Certo, il nonviolento non si scalda per il governo mondiale,che potrebbe diventare arbitrario e oppressivo, ma per il suscitamento di consapevoli e bene orientate moltitudini nonviolente dal basso.
13 La nonviolenza vuole la liberazione di tutti, e non cessa mai di portare l’eguaglianza a tutti i livelli. Ora un problema molto importante è che l’uomo non subisca la violenza mediante il lavoro. Il lavoro è uno dei modi che l’uomo ha (non il solo) per esprimere la sua personalità, ed è perciò positivo, un diritto-dovere, una partecipazione alla comunità. Ma va sempre più realizzato il fatto che ogni lavoro è verso tutti, e in certo senso pubblico, non privato e sottoposto a condizioni di servitù e di sfruttamento. Difendere e sviluppare la posizione di tutti i lavoratori vuol dire renderli sempre più capaci di eguaglianza di fruizione della vita comune, nei beni materiali e nei beni culturali, mediante la formazione nell’adolescenza e mediante il tempo libero, e capaci di partecipazione attiva, civica, critica, costruttiva. Perciò i provvedimenti per cui la proprietà viene resa pubblica e controllata, cioè aperta e non chiusa (socialismo) snidano la violenza sostanziale di chi si vale della proprietà per alienare gli uomini, staccandoli dal loro pieno sviluppo nonviolento e creativo sul piano orizzontale di tutti.
14 Il grande fatto della metà di questo secolo è il discorso sul potere. La nonviolenza, meglio di ogni altro atteggiamento, può indicare quanta violenza si annidi nel vecchio potere. Si è constatato che la statalizzazione della proprietà non toglie la durezza del potere. Non basta far cadere le posizioni della proprietà privata perché “il potere operaio” abbia il diritto di tutto costruire. Il problema non è che nuova gente arrivi, in un modo o in un altro, al potere; ma che il potere sia esercitato in modo nuovo; altrimenti è meglio continuare a lottare e formare un terreno più favorevole per arrivare ad un “potere nuovo”, magari cominciando da forme di potere locale, dove è meglio possibile attuare tipi di “potere aperto”, che conta sulla costante collaborazione degli altri e possibilmente di tutti.
15 Che fa la nonviolenza davanti alla legge? La scruta per intenderla, per integrarla con l’animo, per migliorarla, per ridurre la violenza. La legge, come decisione razionale, che riguarda azioni da comandare o da impedire, non può essere respinta senz’altro per sostituirla con la naturale istintività individualistica umana. La legge è una conquista della ragione, e spesso merita di essere aiutata. Ma il nonviolento l’aiuta a modo suo. L’accetta quando è molto buona. Consiglia di sostituire progressivamente alla esclusiva fiducia nei mezzi coercitivi, lo sviluppo di mezzi educativi e di controllo cooperante di tutti. Fa campagne per sostituire leggi migliori, quando le attuali sono insoddisfacenti e sbagliate. Errato è insegnare a ubbidire sempre alle leggi e a non volerle riformare, come se non esistesse la coscienza e la ragione. La nonviolenza aiuta a capire che non basta dire: “Noi siamo autonomi e ci diamo perciò le nostre leggi”. Bisogna aggiungere: “E le nostre leggi hanno l’orientamento di realizzare la nonviolenza come apertura all’esistenza, alla libertà, allo sviluppo di tutti”.
16 In questo tempo in cui la nonviolenza allarga e approfondisce le sue responsabilità, essa si trova davanti il potere delle autorità religiose, e l’urto è inevitabile. Tali autorità pretendono di decidere su violenza e nonviolenza. La nonviolenza porta una sua prospettiva, di un sacro aperto e non chiuso, del valore di raggiungere l’orizzonte di tutti come superiore al cerchio dei credenti. Il credente nonviolento finisce col trovarsi più volentieri a fianco del nonviolento di un’altra fede che con le “autorità” della propria fede. Lo spirito di autoritarismo che pervade tutto il corpo ecclesiastico cerca di scacciare proprio quello spirito della nonviolenza aperto all’interesse per ogni singolo nel suo contributo e nel suo sviluppo, e impone una assenza di violenza che è passiva obbedienza. Ben altro è la nonviolenza aperta, che non ha paura di nessuna autorità, ed è sicura di farsi valere prima o poi.
17 La nonviolenza non è soltanto una cosa della vita e nella vita. Nel suo sforzo continuo di migliorare il rapporto tra gli esseri, e di congiungere più saldamente la vita del singolo con la vita di tutti, avviene effettivamente un’influenza sulla così detta “natura”, che è la vitalità, la volontà di forza, di vita come vita, come piacere, come guadagno e profitto, come potenza, come riposo utile, come schiacciante energia dal seno stesso della realtà fisica. Il Vesuvio sterminatore osservato dal Leopardi e che uccise tanta gente; l’acqua di un’inondazione, che copre indifferente un sasso e il volto di un bambino, sono aspetti della natura. Ma natura è anche la vitalità che spinge il bambino a nascere e a crescere; la forza che ci affluisce ogni giorno mediante il cibo, il riposo, l’aria. Non si può tagliare da noi tutta la natura; ma si può scegliere: o svilupparci come bruta natura, o svilupparci come crescente nonviolenza verso gli esseri, rimediando la crudeltà della natura e proseguendola nel buono, nel vivo, trasformandola progressivamente.
Perché al limite estremo c’è la sua trasformazione e il suo portarsi al servizio di tutti gli esseri affratellati. Un atto di nonviolenza è perciò anche un atto di speranza in questa trasformazione della cruda forza della natura.
18 Ma la nonviolenza non soltanto progredisce come rapporto. Essa qualche volta ha a che fare direttamente con la morte: è rifiuto di dare quella morte determinata, è constatazione dell’impotenza davanti ad una morte, è l’improvviso trovarsi a dire un tu ad un essere che ci sembra non lo riceva più perché è morto. Il nonviolento, che fonda molto della sua decisione sul rispetto della vita, può anche semplicemente confermare, davanti alla morte, il proposito di non darla, e accomunare i morti in una cara memoria dei singoli e in una generale pietà. Ma può anche considerare ogni morte come una crocifissione che la natura fa di ogni essere, come l’impero di Roma lo faceva per i ribelli; e se ogni morte è una crocifissione, il morto non è spento ma risorge nella compresenza di tutti. Così la nonviolenza può condurre a vivere questo grande mistero della compresenza di tutti, viventi e morti.
19 Vista ora nell’insieme di queste possibili attuazioni e prese di influenza e di azione su una realtà che oggi parrebbe così contraria ad essere penetrata dalla nonviolenza, essa mostra il suo posto, l’aggiunta che fa al mondo presente. È facile la profezia che ancora gli imperi militari-industriali del mondo concentreranno forze immani. Ma la nonviolenza ha cominciato ad aprire in ogni paese un conto, in cui ognuno può depositare via via impegni e iniziative. Se si pensa alla creatività teorica e pratica di pochi decenni, si sente la crescita potenziale di una Internazionale della nonviolenza. Bisogna riconoscere che, indipendentemente dalle altre sue teorie, Gandhi, con la formazione del metodo di azione nonviolenta, ha dato il più grande contributo all’era della nonviolenza; e così ogni altro grande attuatore del metodo nonviolento, e suo testimone, ci è fratello e padre. Nessuna paura e nessuna fretta, nessuna gelosia e nessuna presunzione, per l’organizzazione: possono sorgere innumerevoli centri per l’addestramento alle tecniche del metodo nonviolento
20 E se da questo largo quadro torniamo al semplice e singolo individuo che prende interesse per la nonviolenza, che prova a sceglierla, che vede di poter resistere al pensiero della violenza come soluzione, che non si impiglia nella casistica dello schiaffo e del non schiaffo, del bambino ucciso e non ucciso, perché non tutto sta lì, e bisogna rifarsi al quadro generale, vediamo che lo stesso processo di sviluppo c’è in grande come c’è in piccolo, nel mondo e nel singolo individuo. Noi abbiamo ancora molta violenza addosso, come ce l’ha il mondo. Se uno per togliersela si isolasse da eremita, sbaglierebbe, perché si priverebbe di tutte le occasioni per far progredire in sé e nel mondo la nonviolenza, che è amore concreto, e per riprenderla, se l’avesse trascurata.
—————————-

Sergio Mattarella ai cittadini italiani e a tutto il mondo

4ba2b31b-de94-46d6-a980-fae29ed1b4a4
36931ac1-9bfb-4e0b-9f78-ecc6f2deb794Messaggio del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella al Parlamento nel giorno del giuramento

Roma, 03/02/2022

Signori Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica,

Signori parlamentari e delegati regionali,

il Parlamento e i rappresentanti delle Regioni hanno preso la loro decisione.

È per me una nuova chiamata – inattesa – alla responsabilità; alla quale tuttavia non posso e non ho inteso sottrarmi.

Ritorno dunque di fronte a questa Assemblea, nel luogo più alto della rappresentanza democratica, dove la volontà popolare trova la sua massima espressione.

Vi ringrazio per la fiducia che mi avete manifestato chiamandomi per la seconda volta a rappresentare l’unità della Repubblica.

Adempirò al mio dovere secondo i principi e le norme della Costituzione, cui ho appena rinnovato il giuramento di fedeltà, e a cui ho cercato di attenermi in ogni momento nei sette anni trascorsi.

La lettera e lo spirito della nostra Carta continueranno a essere il punto di riferimento della mia azione.
[segue]

Videomessaggio di Papa Francesco in occasione del IV Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari (EMMP)

2e44801c-9d6f-4f46-9c5d-23d539e3626e“(…) mettere l’economia al servizio dei popoli per costruire una pace duratura fondata sulla giustizia sociale e sulla cura della Casa comune”.
Videomessaggio del Santo Padre in occasione del IV Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari (EMMP), 16.10.2021
[B0669]

Originale in lingua spagnola, segue la traduzione in lingua italiana

Pubblichiamo di seguito il testo del Videomessaggio che il Santo Padre Francesco ha inviato ai partecipanti alla seconda Sessione del IV Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari (EMMP), che si è svolta sabato 16 ottobre online:

Videomessaggio del Santo Padre

Hermanas, hermanos, queridos poetas sociales:

1. Queridos Poetas Sociales

Así me gusta llamarlos, poetas sociales, porque ustedes son poetas sociales, porque tienen la capacidad y el coraje de crear esperanza allí donde sólo aparece descarte y exclusión. Poesía quiere decir creatividad, y ustedes crean esperanza; con sus manos saben forjar la dignidad de cada uno, la de sus familias y la de la sociedad toda con tierra, techo y trabajo, cuidado, comunidad. Gracias porque la entrega de ustedes es palabra con autoridad capaz de desmentir las postergaciones silenciosas y tantas veces educadas a las que fueron sometidos —o a las que son sometidos tantos hermanos nuestros—. Pero al pensar en ustedes creo que, principalmente, su dedicación es un anuncio de esperanza. Verlos a ustedes me recuerda que no estamos condenados a repetir ni a construir un futuro basado en la exclusión y la desigualdad, el descarte o la indiferencia; donde la cultura del privilegio sea un poder invisible e insuprimible y la explotación y el abuso sea como un método habitual de sobrevivencia. ¡No! Eso ustedes lo saben anunciar muy bien. Gracias.

Gracias por el vídeo que recién compartimos. He leído las reflexiones del encuentro, el testimonio de lo que vivieron en estos tiempos de tribulación y angustia, la síntesis de sus propuestas y sus anhelos. Gracias. Gracias por hacerme parte del proceso histórico que están transitando y gracias por compartir conmigo este diálogo fraterno que busca ver lo grande en lo pequeño y lo pequeño en lo grande, un diálogo que nace en las periferias, un diálogo que llega a Roma y en el que todos podemos sentirnos invitados e interpelados. «Para encontrarnos y ayudar mutuamente necesitamos dialogar» (FT 198), ¡y cuánto!

Ustedes sintieron que la situación actual ameritaba un nuevo encuentro. Sentí lo mismo. Aunque nunca perdimos el contacto —y ya pasaron seis años, creo, del último encuentro, el encuentro general—. Durante este tiempo pasaron muchas cosas; muchas cosas han cambiado. Son cambios que marcan puntos de no retorno, puntos de inflexión, encrucijadas en las que la humanidad debe elegir. Se necesitan nuevos momentos de encuentro, discernimiento y acción conjunta. Cada persona, cada organización, cada país y el mundo entero necesita buscar estos momentos para reflexionar, discernir y elegir, porque retornar a los esquemas anteriores sería verdaderamente suicida, y si me permiten forzar un poco las palabras, ecocida y genocida. Estoy forzando, ¡eh!

En estos meses muchas cosas que ustedes denunciaban quedaron en total evidencia. La pandemia transparentó las desigualdades sociales que azotan a nuestros pueblos y expuso —sin pedir permiso ni perdón— la desgarradora situación de tantos hermanos y hermanas, esa situación que tantos mecanismos de post-verdad no pudieron ocultar.

Muchas cosas que dábamos por supuestas se cayeron como un castillo de naipes. Experimentamos cómo, de un día para otro, nuestro modo de vivir puede cambiar drásticamente impidiéndonos, por ejemplo, ver a nuestros familiares, compañeros y amigos. En muchos países los Estados reaccionaron. Escucharon a la ciencia y lograron poner límites para garantizar el bien común y frenaron al menos por un tiempo ese “mecanismo gigantesco” que opera en forma casi automática donde los pueblos y las personas son simples piezas (cf. S. Juan Pablo II, Carta enc. Sollicitudo rei socialis, 22).

Todos hemos sufrido el dolor del encierro, pero a ustedes, como siempre, les tocó la peor parte: en los barrios que carecen de infraestructura básica (en los que viven muchos de ustedes y cientos y cientos y millones de personas) es difícil quedarse en casa, no sólo por no contar con todo lo necesario para llevar adelante las mínimas medidas de cuidado y protección, sino simplemente porque la casa es el barrio. Los migrantes, los indocumentados, los trabajadores informales sin ingresos fijos se vieron privados, en muchos casos, de cualquier ayuda estatal e impedidos de realizar sus tareas habituales agravando su ya lacerante pobreza. Una de las expresiones de esta cultura de la indiferencia es que pareciera que este tercio sufriente de nuestro mundo no reviste interés suficiente para los grandes medios y los formadores de opinión, no aparece. Permanece escondido, acurrucado.

Quiero referirme también a una pandemia silenciosa que desde hace años afecta a niños, adolescentes y jóvenes de todas las clases sociales; y creo que, durante este tiempo de aislamiento, se incrementó aún más. Se trata del estrés y la ansiedad crónica, vinculada a distintos factores como la hiperconectividad, el desconcierto y la falta de perspectivas de futuro que se agrava ante el contacto real con los otros —familias, escuelas, centros deportivos, oratorios, parroquias—; en definitiva, la falta de contacto real con los amigos, porque la amistad es la forma en que el amor resurge siempre.

Es evidente que la tecnología puede ser un instrumento de bien, y es un instrumento de bien que permite diálogos como éste y tantas otras cosas, pero nunca puede suplantar el contacto entre nosotros, nunca puede suplantar una comunidad en la cual enraizarnos y hacer que nuestra vida se vuelva fecunda.

Y si de pandemia se trata, no podemos dejar de cuestionarnos por el flagelo de la crisis alimentaria. Pese a los avances de la biotecnología millones de personas fueron privadas de alimentos, aunque estos estén disponibles. Este año, 20 millones de personas más se han visto arrastradas a niveles extremos de inseguridad alimentaria, ascendiendo a [muchos] millones de personas; la indigencia grave se multiplicó, el precio de los alimentos escaló un altísimo porcentaje. Los números del hambre son horrorosos, y pienso, por ejemplo, en países como Siria, Haití, Congo, Senegal, Yemen, Sudán del Sur pero el hambre también se hace sentir en muchos otros países del mundo pobre y, no pocas veces, también en el mundo rico. Es posible que las muertes por año por causas vinculadas al hambre puedan superar a las del COVID.[1] Pero eso no es noticia, eso no genera empatía.

Quiero agradecerles porque ustedes sintieron como propio el dolor de los otros. Ustedes saben mostrar el rostro de la verdadera humanidad, esa que no se construye dando la espalda al sufrimiento del que está al lado sino en el reconocimiento paciente, comprometido y muchas veces hasta doloroso de que el otro es mi hermano (cf. Lc 10,25-37) y que sus dolores, sus alegrías y sus sufrimientos son también los míos (cf. GS 1). Ignorar al que está caído es ignorar nuestra propia humanidad que clama en cada hermano nuestro.

Cristianos o no, han respondido a Jesús, que dijo a sus discípulos frente al pueblo hambriento: «Denles ustedes de comer» (Mt 14,16). Y donde había escasez, el milagro de la multiplicación se repitió en ustedes que lucharon incansablemente para que a nadie le faltase el pan (cf. Mt 14,13-21). ¡Gracias!

Al igual que los médicos, enfermeros y el personal de salud en las trincheras sanitarias, ustedes pusieron su cuerpo en la trinchera de los barrios marginados. Tengo presente muchos, entre comillas, “mártires” de esa solidaridad sobre quienes supe por medio de muchos de ustedes. El Señor se los tendrá en cuenta.

Si todos los que por amor lucharon juntos contra la pandemia pudieran también soñar juntos un mundo nuevo, ¡qué distinto sería todo! Soñar juntos.

2. Bienaventurados

Ustedes son, como les dije en la carta que les envié el año pasado,[2] un verdadero ejército invisible, son parte fundamental de esa humanidad que lucha por la vida frente a un sistema de muerte. En esa entrega veo al Señor que se hace presente en medio nuestro para regalarnos su Reino. Jesús, cuando nos ofreció el protocolo con el cual seremos juzgados —Mateo 25—, nos dijo que la salvación estaba en cuidar de los hambrientos, los enfermos, los presos, los extranjeros, en definitiva, en reconocerlo y servirlo a Él en toda la humanidad sufriente. Por eso me animo a decirles: «Felices los que tienen hambre y sed de justicia porque serán saciados» (Mt 5,6), «felices los que trabajan por la paz, porque serán llamados hijos de Dios» (Mt 5,9).

Queremos que esa bienaventuranza se extienda, permee y unja cada rincón y cada espacio donde la vida se vea amenazada. Pero nos sucede, como pueblo, como comunidad, como familia e inclusive individualmente, tener que enfrentar situaciones que nos paralizan, donde el horizonte desaparece y el desconcierto, el temor, la impotencia y la injusticia parece que se apoderan del presente. Experimentamos también resistencias a los cambios que necesitamos y que anhelamos, resistencias que son profundas, enraizadas, que van más allá de nuestras fuerzas y decisiones. Esto es lo que la Doctrina social de la Iglesia llamó “estructuras de pecado”, que estamos llamados también nosotros a convertir y que no podemos ignorar a la hora de pensar el modo de accionar. El cambio personal es necesario, pero es imprescindible también ajustar nuestros modelos socio-económicos para que tengan rostro humano, porque tantos modelos lo han perdido. Y pensando en estas situaciones, me vuelvo pedigüeño. Y paso a pedir. A pedir a todos. Y a todos quiero pedirles en nombre de Dios.

A los grandes laboratorios, que liberen las patentes. Tengan un gesto de humanidad y permitan que cada país, cada pueblo, cada ser humano tenga acceso a las vacunas. Hay países donde sólo tres, cuatro por ciento de sus habitantes fueron vacunados.

Quiero pedirles en nombre de Dios a los grupos financieros y organismos internacionales de crédito que permitan a los países pobres garantizar las necesidades básicas de su gente y condonen esas deudas tantas veces contraídas contra los intereses de esos mismos pueblos.

Quiero pedirles en nombre de Dios a las grandes corporaciones extractivas —mineras, petroleras—, forestales, inmobiliarias, agro negocios, que dejen de destruir los bosques, humedales y montañas, dejen de contaminar los ríos y los mares, dejen de intoxicar los pueblos y los alimentos.

Quiero pedirles en nombre de Dios a las grandes corporaciones alimentarias que dejen de imponer estructuras monopólicas de producción y distribución que inflan los precios y terminan quedándose con el pan del hambriento.

Quiero pedirles en nombre de Dios a los fabricantes y traficantes de armas que cesen totalmente su actividad, una actividad que fomenta la violencia y la guerra, y muchas veces en el marco de juegos geopolíticos que cuestan millones de vidas y de desplazamientos.

Quiero pedirles en nombre de Dios a los gigantes de la tecnología que dejen de explotar la fragilidad humana, las vulnerabilidades de las personas, para obtener ganancias, sin considerar cómo aumentan los discursos de odio, el grooming, las fake news, las teorías conspirativas, la manipulación política.

Quiero pedirles en nombre de Dios a los gigantes de las telecomunicaciones que liberen el acceso a los contenidos educativos y el intercambio con los maestros por internet para que los niños pobres también puedan educarse en contextos de cuarentena.

Quiero pedirles en nombre de Dios a los medios de comunicación que terminen con la lógica de la post-verdad, la desinformación, la difamación, la calumnia y esa fascinación enfermiza por el escándalo y lo sucio, que busquen contribuir a la fraternidad humana y a la empatía con los más vulnerados.

Quiero pedirles en nombre de Dios a los países poderosos que cesen las agresiones, bloqueos, sanciones unilaterales contra cualquier país en cualquier lugar de la tierra. No al neocolonialismo. Los conflictos deben resolverse en instancias multilaterales como las Naciones Unidas. Ya hemos visto cómo terminan las intervenciones, invasiones y ocupaciones unilaterales; aunque se hagan bajo los más nobles motivos o ropajes.

Este sistema con su lógica implacable de la ganancia está escapando a todo dominio humano. Es hora de frenar la locomotora, una locomotora descontrolada que nos está llevando al abismo. Todavía estamos a tiempo.

A los gobiernos en general, a los políticos de todos los partidos quiero pedirles, junto a los pobres de la tierra, que representen a sus pueblos y trabajen por el bien común. Quiero pedirles el coraje de mirar a sus pueblos, mirar a los ojos de la gente, y la valentía de saber que el bien de un pueblo es mucho más que un consenso entre las partes (cf. Exhort. ap. Evangelii gaudium, 218); cuídense de escuchar solamente a las elites económicas tantas veces portavoces de ideologías superficiales que eluden los verdaderos dilemas de la humanidad. Sean servidores de los pueblos que claman por tierra, techo, trabajo y una vida buena. Ese “buen vivir” aborigen que no es lo mismo que la “dolce vita” o el “dolce far niente”, no. Ese buen vivir humano que nos pone en armonía con toda la humanidad, con toda la creación.

Quiero pedir también a todos los líderes religiosos que nunca usemos el nombre de Dios para fomentar guerras ni golpes de Estado. Estemos junto a los pueblos, a los trabajadores, a los humildes y luchemos junto a ellos para que el desarrollo humano integral sea una realidad. Tendamos puentes de amor para que la voz de la periferia con sus llantos, pero también con su canto y también con su alegría, no provoque miedo sino empatía en el resto de la sociedad.

Y así soy pedigüeño.

Es necesario que juntos enfrentemos los discursos populistas de intolerancia, xenofobia, aporofobia —que es el odio a los pobres—, como todos aquellos que nos lleve a la indiferencia, la meritocracia y el individualismo; estas narrativas sólo sirvieron para dividir nuestros pueblos y minar y neutralizar nuestra capacidad poética, la capacidad de soñar juntos.

3. Soñemos juntos

Hermanas y hermanos, soñemos juntos. Y así, como pido esto con ustedes, junto a ustedes, quiero también trasmitirles algunas reflexiones sobre el futuro que debemos construir y soñar. Dije reflexiones, pero tal vez cabría decir sueños, porque en este momento no alcanza el cerebro y las manos, necesitamos también el corazón y la imaginación: necesitamos soñar para no volver atrás. Necesitamos utilizar esa facultad tan excelsa del ser humano que es la imaginación, ese lugar donde la inteligencia, la intuición, la experiencia, la memoria histórica se encuentran para crear, componer, aventurar y arriesgar. Soñemos juntos, porque fueron precisamente los sueños de libertad e igualdad, de justicia y dignidad, los sueños de fraternidad los que mejoraron el mundo. Y estoy convencido de que en esos sueños se va colando el sueño de Dios para todos nosotros, que somos sus hijos.

Soñemos juntos, sueñen entre ustedes, sueñen con otros. Sepan que están llamados a participar en los grandes procesos de cambio, como les dije en Bolivia: «El futuro de la humanidad está, en gran medida, en sus manos, en su capacidad de organizarse, de promover alternativas creativas» (Discurso a los movimientos populares, Santa Cruz de la Sierra, 9 julio 2015). Está en sus manos.

“Pero esas son cosas inalcanzables”, dirá alguno. Sí. Pero tienen la capacidad de ponernos en movimiento, de ponernos en camino. Y ahí reside precisamente toda la fuerza de ustedes, todo el valor de ustedes. Porque son capaces de ir más allá de miopes autojustificaciones y convencionalismos humanos que lo único que logran es seguir justificando las cosas como están. Sueñen. Sueñen juntos. No caigan en esa resignación dura y perdedora… El tango lo expresa tan bien: “Dale que va, que todo es igual. Que allá en el horno se vamo a encontrar”. No, no, no caigan en eso por favor. Los sueños son siempre peligrosos para aquellos que defienden el statu quo porque cuestionan la parálisis que el egoísmo del fuerte o el conformismo del débil quieren imponer. Y aquí hay como un pacto no hecho, pero es inconsciente: el egoísmo del fuerte con el conformismo del débil. Esto no puede funcionar así. Los sueños desbordan los límites estrechos que se nos imponen y nos proponen nuevos mundos posibles. Y no estoy hablando de ensoñaciones rastreras que confunden el vivir bien con pasarla bien, que no es más que un pasar el rato para llenar el vacío de sentido y así quedar a merced de la primera ideología de turno. No, no es eso, sino soñar, para ese buen vivir en armonía con toda la humanidad y con la creación.

Pero, ¿cuál es uno de los peligros más grandes que enfrentamos hoy? A lo largo de mi vida —no tengo quince años, o sea, cierta experiencia tengo—, pude darme cuenta de que de una crisis nunca se sale igual. De esta crisis de la pandemia no vamos a salir igual: o se sale mejor o se sale peor, igual que antes, no. Pero nunca saldremos igual. Y hoy día tenemos que enfrentar juntos, siempre juntos, esta cuestión: ¿Cómo saldremos de estas crisis? ¿Mejores o peores? Queremos salir ciertamente mejores, pero para eso debemos romper las ataduras de lo fácil y la aceptación dócil de que no hay otra alternativa, de que “éste es el único sistema posible”, esa resignación que nos anula, de que sólo podemos refugiarnos en el “sálvese quien pueda”. Y para eso hace falta soñar. Me preocupa que mientras estamos todavía paralizados, ya hay proyectos en marcha para rearmar la misma estructura socioeconómica que teníamos antes, porque es más fácil. Elijamos el camino difícil, salgamos mejor.

En Fratelli tutti utilicé la parábola del Buen Samaritano como la representación más clara de esta opción comprometida en el Evangelio. Me decía un amigo que la figura del Buen Samaritano está asociada por cierta industria cultural a un personaje medio tonto. Es la distorsión que provoca el hedonismo depresivo con el que se pretende neutralizar la fuerza transformadora de los pueblos y en especial de la juventud.

¿Saben lo que me viene a la mente a mí ahora, junto a los movimientos populares, cuando pienso en el Buen Samaritano? ¿Saben lo que me viene a la mente? Las protestas por la muerte de George Floyd. Está claro que este tipo de reacciones contra la injusticia social, racial o machista pueden ser manipuladas o instrumentadas para maquinaciones políticas y cosas por el estilo; pero lo esencial es que ahí, en esa manifestación contra esa muerte, estaba el “samaritano colectivo” —¡que no era ningún bobeta!—. Ese movimiento no pasó de largo cuando vio la herida de la dignidad humana golpeada por semejante abuso de poder. Los movimientos populares son, además de poetas sociales, “samaritanos colectivos”.

En estos procesos hay tantos jóvenes que yo siento esperanza…; pero hay muchos otros jóvenes que están tristes, que tal vez para sentir algo en este mundo necesitan recurrir a las consolaciones baratas que ofrece el sistema consumista y narcotizante. Y otros, es triste, pero otros optan por salir del sistema. Las estadísticas de suicidios juveniles no se publican en su total realidad. Lo que ustedes realizan es muy importante, pero también es importante que logren contagiar a las generaciones presentes y futuras lo mismo que a ustedes les hace arder el corazón. Tienen en esto un doble trabajo o responsabilidad. Seguir atentos, como el buen Samaritano, a todos aquellos que están golpeados por el camino pero, a su vez, buscar que muchos más se sumen en este sentir: los pobres y oprimidos de la tierra se lo merecen, nuestra casa común nos lo reclama.

Quiero ofrecer algunas pistas. La Doctrina social de la Iglesia no tiene todas las respuestas, pero sí algunos principios que pueden ayudar a este camino a concretizar las respuestas y ayudar tanto a los cristianos como a los no cristianos. A veces me sorprende que cada vez que hablo de estos principios algunos se admiran y entonces el Papa viene catalogado con una serie de epítetos que se utilizan para reducir cualquier reflexión a la mera adjetivación degradatoria. No me enoja, me entristece. Es parte de la trama de la post-verdad que busca anular cualquier búsqueda humanista alternativa a la globalización capitalista, es parte de la cultura del descarte y es parte del paradigma tecnocrático.

Los principios que expongo son mesurados, humanos, cristianos, compilados en el Compendio elaborado por el entonces Pontificio Consejo “Justicia y Paz”.[3] Es un manualito de la Doctrina social de la Iglesia. Y a veces cuando los Papas, sea yo, o Benedicto, o Juan Pablo II decimos alguna cosa, hay gente que se extraña, ¿de dónde saca esto? Es la doctrina tradicional de la Iglesia. Hay mucha ignorancia en esto. Los principios que expongo, están en ese libro, en el capítulo cuarto. Quiero aclarar una cosa, están compilados en este Compendio y este Compendio fue encargado por san Juan Pablo ll. Les recomiendo a ustedes y a todos los líderes sociales, sindicales, religiosos, políticos y empresarios que lo lean.

En el capítulo cuarto de este documento encontramos principios como la opción preferencial por los pobres, el destino universal de los bienes, la solidaridad, la subsidiariedad, la participación, el bien común, que son mediaciones concretas para plasmar a nivel social y cultural la Buena Noticia del Evangelio. Y me entristece cuando algunos hermanos de la Iglesia se incomodan si recordamos estas orientaciones que pertenecen a toda la tradición de la Iglesia. Pero el Papa no puede dejar de recordar esta doctrina, aunque muchas veces le moleste a la gente, porque lo que está en juego no es el Papa sino el Evangelio.

Y en este contexto, quisiera rescatar brevemente algunos principios con los que contamos para llevar adelante nuestra misión. Mencionaré dos o tres, no más. Uno es el principio de solidaridad. La solidaridad no sólo como virtud moral sino como un principio social, principio que busca enfrentar los sistemas injustos con el objetivo de construir una cultura de la solidaridad que exprese —literalmente dice el Compendio— «una determinación firme y perseverante de empeñarse por el bien común» (n. 193).

Otro principio es estimular y promover la participación y la subsidiariedad entre movimientos y entre los pueblos capaz de limitar cualquier esquema autoritario, cualquier colectivismo forzado o cualquier esquema estado céntrico. El bien común no puede utilizarse como excusa para aplastar la iniciativa privada, la identidad local o los proyectos comunitarios. Por eso, estos principios promueven una economía y una política que reconozca el rol de los movimientos populares, «la familia, los grupos, las asociaciones, las realidades territoriales locales; en definitiva, aquellas expresiones agregativas de tipo económico, social, cultural, deportivo, recreativo, profesional y político, a las que las personas dan vida espontáneamente y que hacen posible su efectivo crecimiento social». Esto en el número 185 del Compendio.

Como ven, queridos hermanos, queridas hermanas, son principios equilibrados y bien establecidos en la Doctrina social de la Iglesia. Con estos dos principios creo que podemos dar el próximo paso del sueño a la acción. Porque es tiempo de actuar.

4. Tiempo de actuar

Muchas veces me dicen: “Padre, estamos de acuerdo, pero, en concreto, ¿qué debemos hacer?”. Yo no tengo la respuesta, por eso debemos soñar juntos y encontrarla entre todos. Sin embargo, hay medidas concretas que tal vez permitan algunos cambios significativos. Son medidas que están presentes en vuestros documentos, en vuestras intervenciones y que yo he tomado muy en cuenta, sobre las que medité y consulté a especialistas. En encuentros pasados hablamos de la integración urbana, la agricultura familiar, la economía popular. A estas, que todavía exigen seguir trabajando juntos para concretarlas, me gustaría sumarle dos más: el salario universal y la reducción de la jornada de trabajo.

Un ingreso básico (el IBU) o salario universal para que cada persona en este mundo pueda acceder a los más elementales bienes de la vida. Es justo luchar por una distribución humana de estos recursos. Y es tarea de los Gobiernos establecer esquemas fiscales y redistributivos para que la riqueza de una parte sea compartida con la equidad sin que esto suponga un peso insoportable, principalmente para la clase media —generalmente, cuando hay estos conflictos, es la que más sufre—. No olvidemos que las grandes fortunas de hoy son fruto del trabajo, la investigación científica y la innovación técnica de miles de hombres y mujeres a lo largo de generaciones.

La reducción de la jornada laboral es otra posibilidad, el ingreso básico uno, es una posibilidad, la otra es la reducción de la jornada laboral. Y hay que analizarla seriamente. En el siglo XIX los obreros trabajaban doce, catorce, dieciséis horas por día. Cuando conquistaron la jornada de ocho horas no colapsó nada como algunos sectores preveían. Entonces, insisto, trabajar menos para que más gente tenga acceso al mercado laboral es un aspecto que necesitamos explorar con cierta urgencia. No puede haber tantas personas agobiadas por el exceso de trabajo y tantas otras agobiadas por la falta de trabajo.

Considero que son medidas necesarias, pero desde luego no suficientes. No resuelven el problema de fondo, tampoco garantizan el acceso a la tierra, techo y trabajo en la cantidad y calidad que los campesinos sin tierras, las familias sin un techo seguro y los trabajadores precarios merecen. Tampoco van a resolver los enormes desafíos ambientales que tenemos por delante. Pero quería mencionarlas porque son medidas posibles y marcarían un cambio positivo de orientación.

Es bueno saber que en esto no estamos solos. Las Naciones Unidas intentaron establecer algunas metas a través de los llamados Objetivos de Desarrollo Sostenible (ODS), pero lamentablemente desconocidas por nuestros pueblos y las periferias; lo que nos recuerda la importancia de compartir y comprometer a todos en esta búsqueda común.

Hermanas y hermanos, estoy convencido de que el mundo se ve más claro desde las periferias. Hay que escuchar a las periferias, abrirle las puertas y permitirles participar. El sufrimiento del mundo se entiende mejor junto a los que sufren. En mi experiencia, cuando las personas, hombres y mujeres que han sufrido en carne propia la injusticia, la desigualdad, el abuso de poder, las privaciones, la xenofobia, en mi experiencia veo que comprenden mucho mejor lo que viven los demás y son capaces de ayudarlos a abrir, realísticamente, caminos de esperanza. Qué importante es que vuestra voz sea escuchada, representada en todos los lugares de toma de decisión. Ofrecerla como colaboración, ofrecerla como una certeza moral de lo que hay que hacer. Esfuércense para hacer sentir su voz y también en esos lugares, por favor, no se dejen encorsetar ni se dejen corromper. Dos palabras que tienen un significado muy grande, que yo no voy a hablar ahora.

Reafirmemos el compromiso que tomamos en Bolivia: poner la economía al servicio de los pueblos para construir una paz duradera fundada en la justicia social y el cuidado de la Casa común. Sigan impulsando su agenda de tierra, techo y trabajo. Sigan soñando juntos. Y gracias, gracias en serio, por dejarme soñar con ustedes.

Pidámosle a Dios que derrame su bendición sobre nuestros sueños. No perdamos las esperanzas. Recordemos la promesa que Jesús hizo a sus discípulos: “siempre estaré con ustedes” (cf. Mt 28,20); y recordándola, en este momento de mi vida, quiero decirles también que yo voy a estar con ustedes. También lo importante es que se den cuenta de que está Él con ustedes. Gracias.

_____________________

[1] “El virus del hambre se multiplica”, Informe de Oxfam del 9 de julio de 2021, en base al Global Report on Food Crises (GRFC) del Programa Mundial de Alimentos de las Naciones Unidas.
[2] Carta a los movimientos populares, 12 abril 2020.
[3] Dicasterio para el Servicio del Desarrollo Humano Integral, Compendio de la Doctrina Social de la Iglesia, 2004.

[01413-ES.01] [Texto original: https://movpop.org/wp-content/uploads/2021/07/IT-Comunicato-stampa-2-IV-IMMP.pdf
—/-/-/-/-/-/-/-/-
2c9f46c8-fdc1-4d2f-9b06-223e283f8225
Traduzione in lingua italiana

Sorelle, fratelli, cari poeti sociali!

1. Cari poeti sociali

Così mi piace chiamarvi, “poeti sociali”. Perché voi siete poeti sociali, in quanto avete la capacità e il coraggio di creare speranza laddove appaiono solo scarto ed esclusione. Poesia vuol dire creatività, e voi create speranza. Con le vostre mani sapete forgiare la dignità di ciascuno, quella delle famiglie e quella dell’intera società con la terra, la casa e il lavoro, la cura e la comunità. Grazie perché la vostra dedizione è parola autorevole, capace di smentire i rinvii silenziosi e tante volte “educati” a cui siete stati sottoposti, o a cui sono sottoposti tanti nostri fratelli. Ma pensando a voi credo che la vostra dedizione sia principalmente un annuncio di speranza. Vedervi mi ricorda che non siamo condannati a ripetere né a costruire un futuro basato sull’esclusione e la disuguaglianza, sullo scarto o sull’indifferenza; dove la cultura del privilegio sia un potere invisibile e insopprimibile e lo sfruttamento e l’abuso siano come un metodo abituale di sopravvivenza. No! Questo voi lo sapete annunciare molto bene. Grazie.
[segue]

Fratelli tutti: materiali di studio per l’associazione Amici sardi della Cittadella di Assisi

schermata-2020-10-07-alle-11-09-43
CAPITOLO PRIMO
LE OMBRE DI UN MONDO CHIUSO

“Fratelli tutti. Sulla Fraternità e l’Amicizia sociale”. Premessa e Capitolo I

schermata-2020-10-07-alle-11-09-43LETTERA ENCICLICA
FRATELLI TUTTI
DEL SANTO PADRE
FRANCESCO
SULLA FRATERNITÀ
E L’AMICIZIA SOCIALE

1. «Fratelli tutti»,[1] scriveva San Francesco d’Assisi per rivolgersi a tutti i fratelli e le sorelle e proporre loro una forma di vita dal sapore di Vangelo. Tra i suoi consigli voglio evidenziarne uno, nel quale invita a un amore che va al di là delle barriere della geografia e dello spazio. Qui egli dichiara beato colui che ama l’altro «quando fosse lontano da lui, quanto se fosse accanto a lui».[2] Con queste poche e semplici parole ha spiegato l’essenziale di una fraternità aperta, che permette di riconoscere, apprezzare e amare ogni persona al di là della vicinanza fisica, al di là del luogo del mondo dove è nata o dove abita.
[segue]

Che fare?

giglio5
PER IL DOMANI La risposta è un’ecologia integrale
06 Luglio 2020
Da MEIC
di THIERRY MAGNIN
teologo e fisico, segretario generale della Conferenza episcopale francese
Un piccolissimo virus di qualche millesimo di millimetro e di una quindicina di geni semina il panico in numerosissimi paesi del globo, siano essi ricchi o in via di sviluppo. Esso travolge la vita del mondo intero: le persone colpite dal virus potrebbero essere più di un centinaio di milioni, milioni le persone ricoverate in ospedale e alcune centinaia di migliaia i decessi. Più di tre miliardi di persone sono confinate e le strade delle grandi città sono deserte. Ma il virus non si ferma qui: l’espansione dell’epidemia mette l’economia a riposo o addirittura la ferma completamente in un gran numero di settori, le borse crollano, i disoccupati si contano a milioni. C’è di che spaventarsi! Al tempo delle tecnoscienze noi riscopriamo improvvisamente quanto siamo interdipendenti davanti alla pandemia e più vulnerabili di quanto pensiamo. In alcune settimane il mondo si è immobilizzato nella paura: numerose persone sono colpite nei loro corpi e molto nel loro cuore.
La crisi del covid-19 è venuta bruscamente a ricordarci che la specie umana non ha mai cessato e non cesserà mai di coevolvere con le altre specie, a cominciare dai virus e dai batteri. Certe malattie di questi ultimi tempi (ebola ieri, covid-19 oggi) ci arrivano dalla natura, dal mondo delle bestie selvagge. Esse provocano delle devastazioni perché sono connotate dall’irruzione brutale, nelle società umane, di agenti patogeni che vivevano fino ad ora al di fuori della nostra sfera, e con le quali noi non abbiamo potuto coevolvere. Noi distruggiamo le foreste a un ritmo accelerato e mettiamo così in contatto le popolazioni di questi territori con i nuovi agenti patogeni che erano propri di animali selvaggi.
Noi formiamo degli “ecosistemi” con la natura, compresi questo microorganismi che influenzano direttamente la nostra salute e impariamo a coabitare. “Tutto è legato”, potremmo dire, anche se la complessità degli ecosistemi rende difficile la previsione della loro evoluzione (poiché interagisce con una moltitudine di fattori di natura differente). Forse abbiamo dimenticato che la specie umana è intimamente legata alle altre specie viventi, come le teorie dell’evoluzione evidenziano da tempo, e anche al cosmo intero se si ritiene che le ipotesi del Big Bang o quelle di altri scenari si mantengano valide. Le tecnoscienze che permettono oggi di fabbricare parti di esseri umani artificiali grazie alle biotecnologie e a controllare la materia per meglio progettarla ci hanno dato l’illusione che l’uomo si sia definitivamente affrancato dalla natura. Il covid-19 rimette le cose a posto, anche se sappiamo che i nostri legami con la natura non sono sempre causa di epidemia ma possono regolarsi per una buona coabitazione. C’è un vasto campo di lavoro che l’ecologia scientifica e la medicina esplorano ogni giorno di più.
In questa crisi del covid-19 noi vediamo anche quanto l’influenza della natura e la mondializzazione si coniughino per diffondere l’epidemia. Il trasporto aereo, insieme al commercio e al turismo di massa favoriscono grandemente tale espansione. Il virus del pangolino cinese infettato da un pipistrello ha potuto così percorrere il globo! Anche in questo caso tutto è legato, nel meglio e nel peggio! Queste condizioni permettono ai virus e agli altri patogeni di uscire dai loro ecosistemi naturali e di infettare l’uomo che non li “conosce” e che dovrà coabitare e coevolvere con essi per trovare un nuovo equilibrio di salute!
Un articolo della rivista Nature del 21 febbraio 2008 sottolinea che tra il 1940 e il 2004, 335 malattie infettive sono emerse a causa del nostro modello di sviluppo economico e della spinta demografica che l’accompagna. Il 71,8% di queste malattie proviene dalla fauna selvaggia e il 60,3% sono trasmissibili dall’animale all’essere umano come nel caso del covid-19.
L’iniziativa “One health”, “Un mondo/una sanità” (connettere la salute umana con la salute animale e la salubrità dell’ambiente), prevede giustamente di gestire la salute umana in relazione all’ambiente e alla biodiversità, con tre obiettivi principali: combattere contro le zoonosi (malattie trasmissibili dagli animali agli umani e viceversa), assicurare la sicurezza sanitaria degli alimenti, lottare contro la resistenza agli antibiotici.
Allo stesso modo, si studia sempre più il ruolo determinante di milioni di batteri che noi abbiamo nel nostro intestino (il microbiota intestinale) e il cui comportamento influenza fortemente il nostro “benessere globale”. Si dice che questo microbiota sia “simbiotico” per significare che questo ecosistema all’interno del nostro corpo sia in interazione molto stretta con l’insieme di esso. Queste interazioni giocano un ruolo importante sulla salute e l’eventuale sviluppo di malattie, ma anche, grazie ad una coevoluzione, sulla stabilizzazione se non addirittura sulla guarigione di malattie come il diabete e certe forme di autismo. I nostri stili alimentari e i nostri stili di vita interferiscono su questi equilibri dinamici come oggi evidenziano molti studi scientifici. Per più ragioni noi siamo legati ai batteri! Per più ragioni è importante considerare le relazioni tra “ecosistemi”, tanto a livello personale quanto a livello di genere umano, in particolare per definire diversamente le malattie (e le vie di guarigione) che sono in effetti largamente dipendenti dalle perturbazioni dell’equilibrio dei sistemi.
Questa presa di coscienza determinata dai danni del coronavirus rinvia in maniera veemente all’ultima dichiarazione del Forum di Davos, la quale afferma che è giunto il tempo di riflettere sulle nostre azioni in termini di ecosistemi. Speriamo che la crisi attuale acceleri questo processo.

UNA SITUAZIONE INEDITA, REAZIONI PROFONDAMENTE UMANE?
Impauriti per l’ampiezza dell’epidemia, eccoci invitati a una nuova forma di solidarietà: la mobilitazione si è organizzata, lo Stato “è tornato con forza” per tentare di sostenere la sanità pubblica e le conseguenze sociali di questa crisi. Noi pensiamo al notevole lavoro del personale sanitario, all’intelligenza collettiva degli scienziati e dei tecnici che cercano di trovare spazio (tuttavia non senza discussioni e rivalità) e di tutti quelli che, nelle aziende e nei servizi, permettono alla società di continuare a vivere, rischiando la loro salute e perfino la loro vita. Questa mobilitazione si accompagna sovente a molta creatività e ingegnosità. E’ il tempo della solidarietà e della lotta collettiva contro l’epidemia. La nostra intelligenza collettiva è mobilitata per questo.
La nostra prima reazione di credenti è quella di partecipare, ciascuno per la propria parte, a questa solidarietà nazionale e mondiale: alleviare i più colpiti, accompagnare le famiglie di fronte alla malattia e talvolta alla morte di un congiunto, sostenere le persone sole, le persone che perdono il loro lavoro, senza dimenticare i carcerati, gli stranieri senza documenti e i senzatetto. Solidarietà materiali, morali e spirituali. È la priorità del momento. La mia esperienza personale di membro di una rete “di persone in ascolto tramite un numero verde” mi porta a sottolineare il’importanza del sostegno spirituale. In questo momento, più che mai, molti risentono il bisogno di essere ascoltati nella loro sofferenza, nei loro problemi, nella loro/nostra impotenza comune davanti al numero dei morti, ai lutti difficili da piangere ora che le condizioni della morte e dei funerali sono rese delicate. Il ruolo delle religioni “sul campo” è qui essenziale. Credere che la vita sia più forte della morte, al tempo del coronavirus è un richiamo e una sfida! Anche se non si è direttamente toccati dalla malattia i periodi di segregazione sono propizi non solo alla riflessione, alla lettura, ma anche al raccoglimento, alla meditazione, come pure occasioni per ripensare grandi questioni esistenziali.
IN NOME DELLA SALUTE PUBBLICA
Noi abbiamo il dovere il riflettere su quello che ci capita, senza per questo dimenticare il quotidiano della lotta contro l’epidemia. Senza cercare subito dei capri espiatori che ci sollevino un cambiamento del nostro stile di vita. E se questo sventurato virus fosse per noi anche un “segno” in tal senso? Eminenti personalità come Bruno Latour ci invitano così a pensare che questa crisi sanitaria prepari, induca, inciti a tenerci pronti alla mutazione climatica. La nostra interdipendenza passa attraverso i nostri legami con la natura, compresi i virus e i microbi, i nostri legami di mondializzazione (economici, digitali, turistici, giuridici, ecologici, politici…). Essa tocca “il grido della terra e il grido dei poveri” cari a papa Francesco, le questioni sociali e l’equilibrio degli ecosistemi; in breve essa ci dice qualcosa della sfida dell’”ecologia integrale”.
In questa crisi del coronavirus, si vede ritornare con forza il ruolo degli Stati per garantire un bene comune molto prezioso: la salute delle persone e delle popolazioni. In nome di questa salute si decreta un confinamento generale, con ristrette possibilità di spostamento. Rispettando queste misure ciascun individuo è ritenuto essere responsabile non solamente della sua salute ma di quella degli altri, in particolare per mezzo delle famose misure di protezione. E ciò che appariva impossibile poco tempo fa accade: la messa a riposo dell’economia, fatti salvi i bisogni della vita quotidiana, la messa in cassa integrazione di molti lavoratori, la diminuzione drastica dei trasporti, la fine dei viaggi turistici… Nei nostri paesi industrializzati si scopre l’importanza dei servizi pubblici come quelli riguardanti la salute. Lo Stato sblocca i fondi necessari per sostenere lo sforzo della sanità, come pure un’economia al rallentatore, attraverso misure sociali che garantiscano, in Francia per esempio, il pagamento delle ore non lavorate e la proroga del pagamento di alcune tasse o imposte per le persone e le aziende.
I miliardi di euro e di dollari annunciati dagli Stati come gli Usa e gli Stati europei per garantire la sopravvivenza delle nostre società sviluppate (e noi speriamo, una solidarietà con i Paesi in via di sviluppo) ci sorprendono per la loro ampiezza. Sebbene noi dicessimo che il debito degli Stati era insopportabile, ecco che il suo attuale allargamento si pone in modo differente davanti al bene comune della salute da preservare. E anche se si annuncia una grave crisi economica come conseguenza di questa crisi sanitaria, alcuni aggiungono che la priorità è oggi chiara e l’aggravamento del debito è secondario.
Senza essere ingenui (bisognerà rimborsare questo debito un giorno o l’altro) si vede come la sanità pubblica, che l’epidemia virulenta sta facendo emergere come un bene comune prioritario, prenda oggi ( e per un cento tempo) il sopravvento su ogni altro fattore che noi dicevamo essere indispensabile. Si comprende l’urgenza vitale di assumere, sul campo, tutte le misure necessarie riorientando le priorità. Ne va della sopravvivenza di una parte importante della popolazione e del nostro futuro. Ma l’improvviso verificarsi di una epidemia non deve farci dimenticare quello che minaccia anche la nostra salute tutti i giorni in maniera meno repentina e più nociva, cioè l’inquinamento connesso alla catena ecologica che deriva in particolare da una industrializzazione poco rispettosa dell’ambiente, dal riscaldamento climatico e le sue molteplici conseguenze, da una biodiversità mal trattata e da molti altri elementi ambientali, dai nostri modi di produrre, dai nostri scambi commerciali, dai nostri stili e le nostre scelte di vita.
Alcuni sognano un ritorno a “prima del coronavirus” quando l’urgenza ecologica ci poneva già davanti un muro. Del resto vedendo decrescere l’inquinamento delle nostre città in questi tempi di confinamento noi siamo ulteriormente chiamati a trovare dei nuovi equilibri di vita su scala planetaria perché la mondializzazione dell’economia non conduca a una situazione peggiore di quella dell’epidemia attuale. Ma altri vorrebbero chiudere le frontiere o veder decrescere la popolazione mondiale (a cominciare da quella dei paesi poveri, ovviamente!) la cui crescita accelerata appare loro come la causa numero uno dei problemi odierni.
VERSO UN’ECOLOGIA INTEGRALE
Papa Francesco e il Patriarca Bartolomeo propongono, oggi con molte altre personalità, di pervenire alla salvaguardia della casa comune attraverso un’altra via, quella dell’ecologia integrale. Il grido dei poveri e il grido della terra sono connessi. Più che mai, la prova che noi viviamo attualmente è come un invito a riflettere e ad agire in questo senso, in nome di una sorta di “sanità pubblica” che coinvolge l’uomo globale e tutto il genere umano.
Questi appelli provocanti per “cambiare i nostri stili di vita” non pretendono di rifiutare in blocco i frutti della modernità. Del resto noi sperimentiamo attualmente quanto i mezzi digitali e il telelavoro possano essere dei formidabili strumenti di comunicazione che ci consentono di uscire dall’isolamento e permettono incontri amicali e il proseguimento della necessaria attività lavorativa. Si tratta soprattutto di trovare nuovi modi di vivere e di lavorare su scala planetaria, per una nuova mondializzazione coniugando lungo uno stesso percorso ecologia ambientale ed ecologia umana.
L’impatto sanitario in un contesto di impatto ecologico modifica la tensione tra economia ed ecologia mettendoci di fronte alle nostre scelte sociali, alle nostre priorità e a “ciò che è prezioso ai nostri occhi”! La natura, la materia, le specie viventi, i territori non sono innanzitutto delle risorse da sfruttare da parte di un umano “padrone e possessore della natura”. Alcuni economisti pensano che l’attuale pandemia ci offra l’opportunità di regolare una macchina economica speculativa divenuta folle che indebolisce le risorse umane ed ambientali. Ricordandoci brutalmente la nostra fragilità, la crisi sanitaria ci indica che la scienza e la tecnica non bastano, contrariamente a ciò che ci vorrebbero far credere gli attuali transumanisti, con una visione di “uomo-dio” che sfugge ai suoi determinismi biologici e alla sua contingenza grazie alle tecnoscienze. Questa crisi è l’illustrazione della morte di un paradigma progressista che ha fatto il suo tempo.
In questo contesto, le parole di Papa Francesco nella Laudato sì risuonano più forti che mai: «Non basta conciliare in una via di mezzo, la cura della natura con la rendita finanziaria, o la conservazione dell’ambiente con il progresso… si tratta di ridefinire il progresso. Uno sviluppo tecnologico ed economico che non lascia un mondo migliore ed una qualità di vita integralmente superiore, non può considerarsi progresso» (194). Per il Papa, questo progresso non si confonde con la crescita, con un accrescimento della potenza tecnologica, con l’accumulazione di ricchezze materiali e con l’aumento del pil, senza tuttavia trascurare questi fattori.
Francesco raccomanda e sostiene un nuovo approccio all’ecologia che non si limiti alle relazioni dell’essere umano con il suo ambiente, ma riguardi anche lo sviluppo economico, le relazioni sociali, i valori culturali e, infine, la qualità della sua vita quotidiana sia nello spazio pubblico che nel suo ambiente abitativo. Questo approccio di ecologia integrale considera che il rapporto con Dio, il rapporto con se stessi, il rapporto con gli altri e il rapporto con la natura siano connessi: occorre prendersene cura in una stessa misura per non introdurre del disordine nel mondo (il disordine climatico ne è un aspetto). Lo squilibrio di questi rapporti è l’origine antropologica della crisi ecologica. Francesco ci invita ad assumere i rischi necessari per promuovere, in questi tempi di crisi ecologica, uno “sviluppo umano integrale”.
Cosa ne faremo di questo “appello” uscendo dalla crisi sanitaria, e dovendo quindi vivere senza dubbio una crisi economica e sociale? Oseremo sperimentare dei nuovi stili di vita, di lavoro, di produzione, di consumo, di economia giusta e solidale, di relazione con la terra, con gli esseri viventi, con la natura, con il cosmo, avendo come priorità lo sguardo rivolto verso i più poveri? La trasformazione ecologica qui prospettata si situa a lungo termine e richiede riforme strutturali di portata tale che solo un soffio spirituale profondo può suscitare.

(traduzione a cura di Beppe Elia)
(da “Coscienza” 1-2/2020)
————————-
c5db0f71-a908-4805-955c-45277125ffc7

Che succede?

acdf3030-809b-4f1f-935c-968a589b465aSEI PAROLE PER IL DOMANI La risposta è un’ecologia integrale
06 Luglio 2020
di THIERRY MAGNIN, teologo e fisico, segretario generale della Conferenza episcopale francese. Su MEIC.
[segue]

Come cambia il lavoro

Il lavoro da casa mette alla prova il sindacato
Cambiamento. La burocrazia è smart se la professione non è più a comando ma a progetto

Andrea Ranieri
Su il manifesto, EDIZIONE DEL 02.06.2020
PUBBLICATO 1.6.2020, 23:58
Non chiamiamoli smart. Come se il lavoro intelligente e autonomo si identificasse con quello da casa. La pandemia ci ha mostrato quanto smart, densi di competenze, capaci di gestire imprevisti, siano i lavori essenziali per le persone e le comunità.
[segue]

Coronavirus. Pensare, analizzare, agire

c7b6289c-6c27-40fc-9a77-85484b1e03f5
Proponiamo alle nostre lettrici e ai nostri lettori il terzo contributo, a firma dello spagnolo Ángel Luis Lara, sociologo, sceneggiatore e professore di studi culturali presso la State University di New York, tradotto in italiano da Pierluigi Sullo*, condiviso dalle redazioni de il manifesto sardo, Democraziaoggi e aladinpensiero, nell’ambito dell’impegno comune che qui si richiama.
————————
Covid-19, non torniamo alla normalità. La normalità è il problema
di Ángel Luis Lara, in “il manifesto” del 5 aprile 2020

Nell’ottobre del 2016 i suini neonati degli allevamenti della provincia di Guangdong, nel sud della China, cominciarono ad ammalarsi per il virus della diarrea epidemica suina (PEDV), un coronavirus che colpisce le cellule che ricoprono l’intestino tenue dei maiali. Quattro mesi dopo, tuttavia, i piccoli suini smisero di risultare positivi al PEDV, anche se continuavano ad ammalarsi e a morire.
Come confermarono gli esami, si trattava di un tipo di malattia mai visto prima e che fu battezzata come Sindrome della Diarrea Acuta Suina (SADS-CoV), provocata da un nuovo coronavirus che uccise 24 mila suini neonati fino al maggio del 2017, precisamente nella stessa regione in cui tredici anni prima si era scatenata l’epidemia di polmonite atipica conosciuta come SARS.
Nel gennaio del 2017, nel pieno dello sviluppo dell’epidemia suina che devastava la regione di Guangdong, vari ricercatori in virologia degli Stati uniti pubblicarono uno studio sulla rivista scientifica “Virus Evolution” in cui si indicavano i pipistrelli come la maggiore riserva animale di coronavirus del mondo.
Le conclusioni della ricerca sviluppata in Cina furono coincidenti con lo studio nordamericano: l’origine del contagio fu localizzata, con precisione, nella popolazione di pipistrelli della regione.
Ma come fu possibile che una epidemia tra i maiali fosse scatenata dai pipistrelli? Cos’hanno a che fare i maiali con questi piccoli animali con le ali?
La risposta arrivò un anno dopo, quando un gruppo di ricercatori cinesi pubblicò un rapporto sulla rivista “Nature” in cui, oltre a segnalare al loro paese il focolaio rilevante di apparizione di nuovi virus ed enfatizzare l’alta possibilità di una loro trasmissione agli esseri umani, facevano notare come la crescita dei macro-allevamenti di bestiame avesse alterato le nicchie vitali dei pipistrelli.
Inoltre, lo studio rese chiaro che l’allevamento industriale ha incrementato le possibilità di contatto tra la fauna selvatica e il bestiame, facendo esplodere il rischio di trasmissione di malattie originate da animali selvatici i cui habitat sono drammaticamente aggrediti dalla deforestazione.
Tra gli autori di questo studio compare Zhengli Shi, ricercatrice principale dell’Istituto di virologia di Wuhan, la città da cui proviene l’attuale Covid-19, il cui ceppo è identico per il 96 per cento al tipo di coronavirus trovato nei pipistrelli per mezzo dell’analisi genetica.
Nel 2004, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), l’Organizzazione mondiale della salute animale (Oie) e l’Organizzazione delle Nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), segnalarono l’incremento della domanda di proteina animale e l’intensificazione della sua produzione industriale come principali cause dell’apparizione e propagazione di nuove malattie zoonotiche sconosciute, ossia di nuove patologie trasmesse dagli animali agli esseri umani.
Due anni prima, l’organizzazione per il benessere degli animali Compassion in World Farming aveva pubblicato sull’argomento un interessante rapporto. Per redigerlo, l’associazione britannica aveva utilizzato dati della Banca mondiale e dell’Onu sull’industria dell’allevamento che erano stati incrociati con rapporti sulle malattie trasmesse attraverso il ciclo mondiale della produzione alimentare.
Lo studio concluse che la cosiddetta “rivoluzione dell’allevamento”, ossia l’imposizione del modello industriale dell’allevamento intensivo legato ai macro-allevamenti, stava provocando un incremento globale di infezioni resistenti agli antibiotici, rovinando i piccoli allevatori locali e promuovendo la crescita delle malattie trasmesse attraverso alimenti di origine animale.
Nel 2005, esperti della Oms, della Oie e del Dipartimento dell’agricoltura degli Stati uniti e il Consiglio nazionale del maiale di questo paese elaborarono uno studio nel quale si tracciava la storia della produzione negli allevamenti dal tradizionale modello delle piccole fattorie familiari fino all’imposizione delle macro-fattorie industriali.
Tra le sue conclusioni, il rapporto segnalava, come uno dei maggiori impatti del nuovo modello di produzione agricola, la sua incidenza nell’amplificazione e mutazione di patogeni, così come il rischio crescente di disseminazione di malattie.
Inoltre, lo studio notava come la sparizione dei modi tradizionali di allevamento a favore dei sistemi intensivi si stava producendo nella percentuale del 4 per cento l’anno, soprattutto in Asia, Africa e Sudamerica.
Nonostante i dati e gli allarmi, non si è fatto nulla per frenare la crescita dell’allevamento industriale intensivo.
Oggi, Cina e Australia concentrano il maggior numero di macro-fattorie del mondo. Nel gigante asiatico la popolazione degli animali allevati si è praticamente triplicata tra il 1980 e il 2010.
La Cina è il produttore di animali allevati più importante del mondo, e concentra nel suo territorio il maggior numero di “landless systems” (sistemi senza terra), macro sfruttamento di allevamenti in cui si affollano migliaia di animali in spazi chiusi.
Nel 1980 solo il 2,5 per cento degli allevamenti cinesi era costituito da questo tipo di fattoria, nel 2010 raggiungeva il 56 per cento.
Come ci ricorda Silvia Ribeiro, ricercatrice del Gruppo di azione su erosione, tecnologia e concentrazione (ETC), una organizzazione internazionale che si concentra nella difesa della diversità culturale e ecologica e dei diritti umani, la Cina è la fabbrica del mondo.
La crisi scatenata dall’attuale pandemia provocata dal Covid-19 rivela il suo ruolo nell’economia globale, particolarmente nella produzione industriale di alimenti e nello sviluppo dell’allevamento intensivo.
Solo la Mudanjiang Ciy Mega Farm, una fattoria gigante situata nel nord-est della Cina, che contiene centomila vacche la cui carne e il cui latte sono destinati al mercato russo, è cinquanta volte più grande della più grande fattoria bovina dell’Unione europea.
Le epidemie sono un prodotto dell’urbanizzazione. Quando circa cinquemila anni fa gli esseri umani cominciarono a raggrupparsi in città con una certa densità di popolazione, le infezioni poterono colpire simultaneamente grandi quantità di persone e i loro effetti mortali si moltiplicarono.
Il pericolo di pandemie come quella attuale si generalizzò quando il processo di urbanizzazione è diventato globale.
Se applichiamo questo ragionamento all’evoluzione della produzione di carne le conclusioni sono realmente inquietanti. In un periodo di cinquanta anni l’allevamento industriale ha “urbanizzato” una popolazione animale che prima si distribuiva in piccole e medie fattorie familiari. Le condizioni di affollamento di questa popolazione in macro-fattorie convertono ciascun animale in una sorta di potenziale laboratorio di mutazioni virali suscettibili di provocare nuove malattie e epidemie.
Questa situazione è tuttavia più inquietante se consideriamo che la popolazione globale di animali allevati è quasi tre volte maggiore di quella di esseri umani.
Negli ultimi decenni, alcune delle infezioni virali con maggiore impatto si sono prodotte grazie a infezioni che, oltrepassando la barriera delle specie, hanno avuto origine nello sfruttamento intensivo dell’allevamento.
Michael Greger, ricercatore statunitense sulla salute pubblica e autore del libro “Flu: A virus of our own hatching” (influenza aviaria: un virus che abbiamo incubato noi stessi), spiega che prima della domesticazione degli uccelli, circa 2500 anni fa, l’influenza umana di certo non esisteva.
Allo stesso modo, prima della domesticazione degli animali da allevamento non si hanno tracce dell’esistenza del morbillo, del vaiolo e di altri morbi che hanno colpito l’umanità da quando sono apparsi in fattorie e stalle intorno all’anno ottomila prima della nostra era.
Una volta che i morbi saltano la barriera tra specie possono diffondersi nella specie umana provocando conseguenze tragiche, come la pandemia scatenata da un virus dell’influenza aviaria nel 1918 e che in un solo anno uccise tra 20 e 40 milioni di persone.
Come spiega il dottor Greger, le condizioni di insalubrità nelle trincee della prima guerra mondiale sono solo una delle variabili che causarono una rapida propagazione del contagio del 1918, e sono a loro volta replicate oggi in molti dei mega-allevamenti che si sono moltiplicati negli ultimi venti anni con lo sviluppo dell’allevamento industriale intensivo.
Miliardi di polli, per esempio, sono allevati in questa macro-imprese che funzionano come spazio di contenimento suscettibile di generare una tempesta perfetta di carattere virale.
Da quando l’allevamento industriale si è imposto nel mondo, la medicina sta rilevando morbi sconosciuti e un ritmo insolito: negli ultimi trent’anni si sono identificati più di trenta patogeni umani, la maggior parte dei quasi virus zoonotici come l’attuale Covid-19.
Il biologo Robert G. Wallace ha pubblicato nel 2016 un libro importante per tracciare la connessione tra i modelli della produzione capitalista di bestiame e l’eziologia delle epidemie esplose negli ultimi decenni: “Big Farms Make Big Flu” (le mega-fattorie producono macro- influenze).
Alcuni giorni fa, Wallace concesse una intervista alla rivista tedesca Marx21, nella quale sottolinea una idea chiave: concentrare l’azione contro il Covid-19 su mezzi d’emergenza che non combattano le cause strutturali dell’epidemia è un errore dalle conseguenze drammatiche. Il principale pericolo che fronteggiamo è considerare il nuovo coronavirus come un fenomeno isolato.
Come spiega il biologo statunitense, l’incremento degli incidenti con virus, nel nostro secolo, così come l’aumento delle loro pericolosità, sono direttamente legati alle strategie delle corporazioni agricole e dell’allevamento, responsabili della produzione industriale intensiva di proteine animali.
Queste corporazioni sono così preoccupate per il loro profitto da assumere come un rischio proficuo la creazione e propagazione di nuovi virus, esternalizzando così i costi epidemiologici delle loro operazioni agli animali, alle persone, agli ecosistemi locali, ai governi e, proprio come mostra la pandemia attuale, allo stesso sistema economico mondiale.
Nonostante l’origine esatta del Covid-19 non sia del tutto chiara, essendo possibili cause dell’infezione virale tanto i maiali delle macro-fattorie quanto il consumo di animali selvatici, questa seconda ipotesi non scagiona gli effetti diretti della produzione intensiva di animali.
La ragione è semplice: l’industria dell’allevamento è responsabile dell’epidemia di influenza suina africana (ASP) che ha devastato le fattorie cinesi che allevano maiali l’anno scorso.
Secondo Christine McCracken, la produzione cinese di carne di maiale potrebbe essere crollata del 50 per cento alla fine dell’anno passato. Considerato che, almeno prima dell’epidemia di ASf nel 2019, la metà dei maiali che esistevano nel mondo veniva allevata in Cina, le conseguenze per l’offerta di carne di maiale sono state drammatiche, particolarmente nel mercato asiatico.
E’ precisamente questa drastica diminuzione dell’offerta di carne di maiale che avrebbe motivato un aumento della domanda di proteina animale proveniente dalla fauna selvatica, una delle specialità del mercato della città di Wuhan, che alcuni ricercatori hanno segnalato come l’epicentro dell’epidemia di Covid-19.
Frédéric Neyrat ha pubblicato nel 2008 il libro “Biopolitique des catastrophes” (biopolitica delle catastrofi), una definizione con la quale egli indica una maniera di gestire il rischio che non mette mai in questione le cause economiche e antropologiche, precisamente le modalità di comportamento dei governi, delle élites e di una parte significativa delle popolazioni mondiali in relazione alla pandemia attuale.
Nella proposta analitica del filosofo francese, le catastrofi implicano una interruzione disastrosa che sommerge il presunto corso normale dell’esistenza. Nonostante il suo carattere di evento, si tratta di processi in marcia che mostrano, qui e ora, gli effetti di qualcosa che è già in corso.
Come segnala Neyrat, una catastrofe sempre si origina da qualche parte, è stata preparata, ha una storia.
La pandemia che ci devasta disegna con efficacia la sua caratteristica di catastrofe, tra l’altro nell’incrocio tra epidemiologia e economia politica. Il suo punto di partenza è saldamente ancorato nei tragici effetti dell’industrializzazione capitalista del ciclo alimentare, particolarmente nell’allevamento.
Oltre alle caratteristiche biologiche intrinseche dello stesso coronavirus, le condizioni della sua propagazione includono gli effetti di quattro decenni di politiche neoliberiste che hanno eroso drammaticamente le infrastrutture sociali che aiutano a sostenere la vita. In questa deriva, i sistemi sanitari pubblici sono stati particolarmente colpiti.
Da giorni circolano nelle reti sociali e nei telefoni mobili testimonianze del personale sanitario che sta combattendo con la pandemia negli ospedali. Molti coincidono con la descrizione di una condizione generale catastrofica caratterizzata da una drammatica mancanza di risorse e di personale sanitario.
Come annota Neyrat, la catastrofe possiede sempre una storicità e dipende da un principio di causalità.
Dagli inizi del secolo, differenti collettivi e reti cittadine hanno denunciato il profondo deterioramento del sistema pubblico della salute che, per mezzo di una politica reiterata di sottrazione di capitali, ha condotto praticamente al collasso la sanità in Spagna.
Nella Comunidad (Regione) di Madrid, territorio particolarmente colpito dal Covid-19, l’investimento pro capite destinato al sistema sanitario si è andato riducendo in modo critico negli ultimi anni, mentre si scatenava un parallelo processo di privatizzazione. Sia la cura primaria come i servizi di urgenza della regione erano già saturi e con gravi carenze di risorse prima dell’arrivo del coronavirus.
Il neoliberismo e i suoi agenti politici hanno seminato su di noi temporali che un microorganismo ha trasformato in tempesta.
Nel pieno della pandemia ci sarà sicuramente chi si affannerà nella ricerca di un colpevole, si tratti di un capro espiatorio o di un furfante. Si tratta di certo di un gesto inconscio per mettersi in salvo: trovare qualcuno a cui attribuire la colpa tranquillizza perché depista sulle responsabilità.
Tuttavia più che impegnarsi nello smascherare un soggetto solo, è più opportuno identificare una forma di soggettivizzazione, ossia interrogarsi su uno stile di vita capace di scatenare devastazioni così drammatiche come quelle che oggi investono le nostre esistenze.
Si tratta senza dubbio di una domanda che non ci salva né ci conforta e meno ancora ci offre una via d’uscita. Sostanzialmente perché questo stile di vita è il nostro.
Un giornalista si è avventurato qualche giorno fa ad offrire una risposta sull’origine del Covid-19: “Il coronavirus è una vendetta della natura”. Al fondo non gli manca una ragione. Nel 1981 Margaret Thatcher depose una frase per i posteri che rivelava il senso del progetto cui lei partecipava: “L’economia è il metodo, l’obiettivo è cambiare l’anima”.
La prima ministra non ingannava nessuno. Da tempo la ragione neoliberista ha convertito ai nostri occhi il capitalismo in uno stato di natura. L’azione di un essere microscopico, tuttavia, non solo sta riuscendo di arrivare anche alla nostra anima, ma ha spalancato una finestra grazie alla quale respiriamo l’evidenza di quel che non volevamo vedere.
Ad ogni corpo che tocca e fa ammalare, il virus reclama che tracciamo la linea di continuità tra la sua origine e la qualità di un modo di vita incompatibile con la vita stessa. In questo senso, per paradossale che sembri, affrontiamo un patogeno dolorosamente virtuoso.
La sua mobilità aerea sta mettendo allo scoperto tutte le violenze strutturali e le catastrofi quotidiane là dove si producono, ossia ovunque.
Nell’immaginario collettivo comincia a diffondersi una razionalità di ordine bellico: siamo in guerra contro un coronavirus. Eppure sarebbe forse più esatto pensare che è una formazione sociale catastrofica quella che è in guerra contro di noi già da molto tempo.
Nel corso della pandemia, le autorità politiche e scientifiche dicono che sono le persone gli agenti più decisivi per arginare il contagio.
Il nostro confinamento è inteso in questi giorni come il più vitale esercizio di cittadinanza. Tuttavia, abbiamo bisogno di essere capaci di portarlo più lontano.
Se la clausura ha congelato la normalità delle nostre inerzie e dei nostri automatismi, approfittiamo del tempo sospeso per interrogarci su inerzie e automatismi.
Non c’è normalità alla quale ritornare quando quello che abbiamo reso normale ieri ci ha condotto a quel che oggi abbiamo.
Il problema che affrontiamo non è solo il capitalismo in sé, ma anche il capitalismo in me. Chissà che il desiderio di vivere non ci renda capaci della creatività e della determinazione per costruire collettivamente l’esorcismo di cui abbiamo bisogno.
Questo, inevitabilmente, tocca a noi persone comuni.
Grazie alla storia sappiamo che i governanti e i potenti si affanneranno a fare il contrario.
Non permettiamo che ci combattano, dividano o mettano gli uni contro gli altri.
Non permettiamo che, travolti una volta ancora dal linguaggio della crisi, ci impongano la restaurazione intatta della struttura stessa della catastrofe.
Benché apparentemente il confinamento ci abbia isolato gli uni dagli altri, tutto questo lo stiamo vivendo insieme.
Anche in questo il virus appare paradossale: si mette in una condizione di relativa eguaglianza. In qualche modo riscatta dalla nostra amnesia il concetto di genere umano e la nozione di bene comune. Forse i fili etici più efficaci da cui cominciare a tessere un modo di vita diverso a un’altra sensibilità.
————–
*Articolo pubblicato in italiano per gentile concessione dell’autore. Traduzione dal castigliano di Pierluigi Sullo. Edizione originale su El Diario.
————–
- La foto in testa all’articolo “luna nel mare di Santa Margherita” è di Gianni Loy.
—————————————-
Nota del traduttore (Pierluigi Sullo). [segue]

Europa, Europa. Carlo Magno e Francesco

famcristionline_20160506004348436_1760267
Conferimento del Premio Internazionale Carlo Magno 2016 a Sua Santità Papa Francesco, 6 maggio 2016
———————————————–
Alle ore 12 del 6 maggio 2016, nella Sala Regia del Palazzo Apostolico Vaticano è stato conferito a Sua Santità Papa Francesco il Premio Internazionale Carlo Magno 2016.
Alla presenza di numerose autorità, la cerimonia è stata introdotta dal discorso del Sindaco di Aachen, Sig. Marcel Philipp.
Quindi il Presidente del Comitato direttivo dell’Associazione per l’assegnazione del Premio Internazionale Carlo Magno di Aquisgrana – Per l’Unità dell’Europa, Sig. Jürgen Linden ha dato lettura dell’attestato del Premio che recita: “Il 6 maggio 2016, in Vaticano (Roma), a Sua Santità Papa Francesco è stato conferito il Premio Internazionale Carlo Magno di Aquisgrana in tributo al Suo straordinario impegno a favore della pace, della comprensione e della misericordia in una società europea di valori” e insieme al Sindaco di Aachen ha consegnato il Premio al Papa.
La cerimonia è proseguita con gli interventi del Presidente del Parlamento europeo, On.le Martin Schulz, del Presidente della Commissione europea, On.le Jean-Claude Junker e del Presidente del Consiglio europeo, On.le Donald Tusk.
Infine Papa Francesco ha pronunciato il discorso che riportiamo di seguito:
—————————————————
Discorso del Santo Padre

Illustri Ospiti,
vi porgo il mio cordiale benvenuto e vi ringrazio per la vostra presenza. Sono grato in particolare ai Signori Marcel Philipp, Jürgen Linden, Martin Schulz, Jean-Claude Juncker e Donald Tusk per le loro cortesi parole. Desidero ribadire la mia intenzione di offrire il prestigioso Premio, di cui vengo onorato, per l’Europa: non compiamo infatti un gesto celebrativo; cogliamo piuttosto l’occasione per auspicare insieme uno slancio nuovo e coraggioso per questo amato Continente.

La creatività, l’ingegno, la capacità di rialzarsi e di uscire dai propri limiti appartengono all’anima dell’Europa. Nel secolo scorso, essa ha testimoniato all’umanità che un nuovo inizio era possibile: dopo anni di tragici scontri, culminati nella guerra più terribile che si ricordi, è sorta, con la grazia di Dio, una novità senza precedenti nella storia. Le ceneri delle macerie non poterono estinguere la speranza e la ricerca dell’altro, che arsero nel cuore dei Padri fondatori del progetto europeo. Essi gettarono le fondamenta di un baluardo di pace, di un edificio costruito da Stati che non si sono uniti per imposizione, ma per la libera scelta del bene comune, rinunciando per sempre a fronteggiarsi. L’Europa, dopo tante divisioni, ritrovò finalmente sé stessa e iniziò a edificare la sua casa.

Questa «famiglia di popoli» (1), lodevolmente diventata nel frattempo più ampia, in tempi recenti sembra sentire meno proprie le mura della casa comune, talvolta innalzate scostandosi dall’illuminato progetto architettato dai Padri. Quell’atmosfera di novità, quell’ardente desiderio di costruire l’unità paiono sempre più spenti; noi figli di quel sogno siamo tentati di cedere ai nostri egoismi, guardando al proprio utile e pensando di costruire recinti particolari. Tuttavia, sono convinto che la rassegnazione e la stanchezza non appartengono all’anima dell’Europa e che anche «le difficoltà possono diventare promotrici potenti di unità» (2).

Nel Parlamento europeo mi sono permesso di parlare di Europa nonna. Dicevo agli Eurodeputati che da diverse parti cresceva l’impressione generale di un’Europa stanca e invecchiata, non fertile e vitale, dove i grandi ideali che hanno ispirato l’Europa sembrano aver perso forza attrattiva; un’Europa decaduta che sembra abbia perso la sua capacità generatrice e creatrice. Un’Europa tentata di voler assicurare e dominare spazi più che generare processi di inclusione e trasformazione; un’Europa che si va “trincerando” invece di privilegiare azioni che promuovano nuovi dinamismi nella società; dinamismi capaci di coinvolgere e mettere in movimento tutti gli attori sociali (gruppi e persone) nella ricerca di nuove soluzioni ai problemi attuali, che portino frutto in importanti avvenimenti storici; un’Europa che lungi dal proteggere spazi si renda madre generatrice di processi (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 223).

Che cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà? Che cosa ti è successo, Europa terra di poeti, filosofi, artisti, musicisti, letterati? Che cosa ti è successo, Europa madre di popoli e nazioni, madre di grandi uomini e donne che hanno saputo difendere e dare la vita per la dignità dei loro fratelli?

Lo scrittore Elie Wiesel, sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, diceva che oggi è capitale realizzare una “trasfusione di memoria”. E’ necessario “fare memoria”, prendere un po’ di distanza dal presente per ascoltare la voce dei nostri antenati. La memoria non solo ci permetterà di non commettere gli stessi errori del passato (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 108), ma ci darà accesso a quelle acquisizioni che hanno aiutato i nostri popoli ad attraversare positivamente gli incroci storici che andavano incontrando. La trasfusione della memoria ci libera da quella tendenza attuale spesso più attraente di fabbricare in fretta sulle sabbie mobili dei risultati immediati che potrebbero produrre «una rendita politica facile, rapida ed effimera, ma che non costruiscono la pienezza umana» (ibid., 224).

A tal fine ci farà bene evocare i Padri fondatori dell’Europa. Essi seppero cercare strade alternative, innovative in un contesto segnato dalle ferite della guerra. Essi ebbero l’audacia non solo di sognare l’idea di Europa, ma osarono trasformare radicalmente i modelli che provocavano soltanto violenza e distruzione. Osarono cercare soluzioni multilaterali ai problemi che poco a poco diventavano comuni.

Robert Schuman, in quello che molti riconoscono come l’atto di nascita della prima comunità europea, disse: «L’Europa non si farà in un colpo solo, né attraverso una costruzione d’insieme; essa si farà attraverso realizzazioni concrete, creanti anzitutto una solidarietà di fatto» (3). Proprio ora, in questo nostro mondo dilaniato e ferito, occorre ritornare a quella solidarietà di fatto, alla stessa generosità concreta che seguì il secondo conflitto mondiale, perché – proseguiva Schuman – «la pace mondiale non potrà essere salvaguardata senza sforzi creatori che siano all’altezza dei pericoli che la minacciano» (4). I progetti dei Padri fondatori, araldi della pace e profeti dell’avvenire, non sono superati: ispirano, oggi più che mai, a costruire ponti e abbattere muri. Sembrano esprimere un accorato invito a non accontentarsi di ritocchi cosmetici o di compromessi tortuosi per correggere qualche trattato, ma a porre coraggiosamente basi nuove, fortemente radicate; come affermava Alcide De Gasperi, «tutti egualmente animati dalla preoccupazione del bene comune delle nostre patrie europee, della nostra Patria Europa», ricominciare, senza paura un «lavoro costruttivo che esige tutti i nostri sforzi di paziente e lunga cooperazione» (5).

Questa trasfusione della memoria ci permette di ispirarci al passato per affrontare con coraggio il complesso quadro multipolare dei nostri giorni, accettando con determinazione la sfida di “aggiornare” l’idea di Europa. Un’Europa capace di dare alla luce un nuovo umanesimo basato su tre capacità: la capacità di integrare, la capacità di dialogare e la capacità di generare.

Capacità di integrare
idea-europaErich Przywara, nella sua magnifica opera L’idea di Europa, ci sfida a pensare la città come un luogo di convivenza tra varie istanze e livelli. Egli conosceva quella tendenza riduzionistica che abita in ogni tentativo di pensare e sognare il tessuto sociale. La bellezza radicata in molte delle nostre città si deve al fatto che sono riuscite a conservare nel tempo le differenze di epoche, di nazioni, di stili, di visioni. Basta guardare l’inestimabile patrimonio culturale di Roma per confermare ancora una volta che la ricchezza e il valore di un popolo si radica proprio nel saper articolare tutti questi livelli in una sana convivenza. I riduzionismi e tutti gli intenti uniformanti, lungi dal generare valore, condannano i nostri popoli a una crudele povertà: quella dell’esclusione. E lungi dall’apportare grandezza, ricchezza e bellezza, l’esclusione provoca viltà, ristrettezza e brutalità. Lungi dal dare nobiltà allo spirito, gli apporta meschinità.

Le radici dei nostri popoli, le radici dell’Europa si andarono consolidando nel corso della sua storia imparando a integrare in sintesi sempre nuove le culture più diverse e senza apparente legame tra loro. L’identità europea è, ed è sempre stata, un’identità dinamica e multiculturale.

L’attività politica sa di avere tra le mani questo lavoro fondamentale e non rinviabile. Sappiamo che «il tutto è più delle parti, e anche della loro semplice somma», per cui si dovrà sempre lavorare per «allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 235). Siamo invitati a promuovere un’integrazione che trova nella solidarietà il modo in cui fare le cose, il modo in cui costruire la storia. Una solidarietà che non può mai essere confusa con l’elemosina, ma come generazione di opportunità perché tutti gli abitanti delle nostre città – e di tante altre città – possano sviluppare la loro vita con dignità. Il tempo ci sta insegnando che non basta il solo inserimento geografico delle persone, ma la sfida è una forte integrazione culturale.

In questo modo la comunità dei popoli europei potrà vincere la tentazione di ripiegarsi su paradigmi unilaterali e di avventurarsi in “colonizzazioni ideologiche”; riscoprirà piuttosto l’ampiezza dell’anima europea, nata dall’incontro di civiltà e popoli, più vasta degli attuali confini dell’Unione e chiamata a diventare modello di nuove sintesi e di dialogo. Il volto dell’Europa non si distingue infatti nel contrapporsi ad altri, ma nel portare impressi i tratti di varie culture e la bellezza di vincere le chiusure. Senza questa capacità di integrazione le parole pronunciate da Konrad Adenauer nel passato risuoneranno oggi come profezia di futuro: «Il futuro dell’Occidente non è tanto minacciato dalla tensione politica, quanto dal pericolo della massificazione, della uniformità del pensiero e del sentimento; in breve, da tutto il sistema di vita, dalla fuga dalla responsabilità, con l’unica preoccupazione per il proprio io» (6).

Capacità di dialogo
Se c’è una parola che dobbiamo ripetere fino a stancarci è questa: dialogo. Siamo invitati a promuovere una cultura del dialogo cercando con ogni mezzo di aprire istanze affinché questo sia possibile e ci permetta di ricostruire il tessuto sociale. La cultura del dialogo implica un autentico apprendistato, un’ascesi che ci aiuti a riconoscere l’altro come un interlocutore valido; che ci permetta di guardare lo straniero, il migrante, l’appartenente a un’altra cultura come un soggetto da ascoltare, considerato e apprezzato. E’ urgente per noi oggi coinvolgere tutti gli attori sociali nel promuovere «una cultura che privilegi il dialogo come forma di incontro», portando avanti «la ricerca di consenso e di accordi, senza però separarla dalla preoccupazione per una società giusta, capace di memoria e senza esclusioni» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 239). La pace sarà duratura nella misura in cui armiamo i nostri figli con le armi del dialogo, insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro e della negoziazione. In tal modo potremo lasciare loro in eredità una cultura che sappia delineare strategie non di morte ma di vita, non di esclusione ma di integrazione.

Questa cultura del dialogo, che dovrebbe essere inserita in tutti i curriculi scolastici come asse trasversale delle discipline, aiuterà ad inculcare nelle giovani generazioni un modo di risolvere i conflitti diverso da quello a cui li stiamo abituando. Oggi ci urge poter realizzare “coalizioni” non più solamente militari o economiche ma culturali, educative, filosofiche, religiose. Coalizioni che mettano in evidenza che, dietro molti conflitti, è spesso in gioco il potere di gruppi economici. Coalizioni capaci di difendere il popolo dall’essere utilizzato per fini impropri. Armiamo la nostra gente con la cultura del dialogo e dell’incontro.

Capacità di generare
Il dialogo e tutto ciò che esso comporta ci ricorda che nessuno può limitarsi ad essere spettatore né mero osservatore. Tutti, dal più piccolo al più grande, sono parte attiva nella costruzione di una società integrata e riconciliata. Questa cultura è possibile se tutti partecipiamo alla sua elaborazione e costruzione. La situazione attuale non ammette meri osservatori di lotte altrui. Al contrario, è un forte appello alla responsabilità personale e sociale.

In questo senso i nostri giovani hanno un ruolo preponderante. Essi non sono il futuro dei nostri popoli, sono il presente; sono quelli che già oggi con i loro sogni, con la loro vita stanno forgiando lo spirito europeo. Non possiamo pensare il domani senza offrire loro una reale partecipazione come agenti di cambiamento e di trasformazione. Non possiamo immaginare l’Europa senza renderli partecipi e protagonisti di questo sogno.

Ultimamente ho riflettuto su questo aspetto e mi sono chiesto: come possiamo fare partecipi i nostri giovani di questa costruzione quando li priviamo di lavoro; di lavori degni che permettano loro di svilupparsi per mezzo delle loro mani, della loro intelligenza e delle loro energie? Come pretendiamo di riconoscere ad essi il valore di protagonisti, quando gli indici di disoccupazione e sottoccupazione di milioni di giovani europei sono in aumento? Come evitare di perdere i nostri giovani, che finiscono per andarsene altrove in cerca di ideali e senso di appartenenza perché qui, nella loro terra, non sappiamo offrire loro opportunità e valori?

«La giusta distribuzione dei frutti della terra e del lavoro umano non è mera filantropia. E’ un dovere morale».(7) Se vogliamo pensare le nostre società in un modo diverso, abbiamo bisogno di creare posti di lavoro dignitoso e ben remunerato, specialmente per i nostri giovani.

Ciò richiede la ricerca di nuovi modelli economici più inclusivi ed equi, non orientati al servizio di pochi, ma al beneficio della gente e della società. E questo ci chiede il passaggio da un’economia liquida a un’economia sociale. Penso ad esempio all’economia sociale di mercato, incoraggiata anche dai miei Predecessori (cfr Giovanni Paolo II, Discorso all’Ambasciatore della R.F. di Germania, 8 novembre 1990). Passare da un’economia che punta al reddito e al profitto in base alla speculazione e al prestito a interesse ad un’economia sociale che investa sulle persone creando posti di lavoro e qualificazione.

Dobbiamo passare da un’economia liquida, che tende a favorire la corruzione come mezzo per ottenere profitti, a un’economia sociale che garantisce l’accesso alla terra, al tetto per mezzo del lavoro come ambito in cui le persone e le comunità possano mettere in gioco «molte dimensioni della vita: la creatività, la proiezione nel futuro, lo sviluppo delle capacità, l’esercizio dei valori, la comunicazione con gli altri, un atteggiamento di adorazione. Perciò la realtà sociale del mondo di oggi, al di là degli interessi limitati delle imprese e di una discutibile razionalità economica, esige che “si continui a perseguire quale priorità l’obiettivo dell’accesso al lavoro […] per tutti” (8)» (Enc. Laudato si’, 127).

Se vogliamo mirare a un futuro che sia dignitoso, se vogliamo un futuro di pace per le nostre società, potremo raggiungerlo solamente puntando sulla vera inclusione: «quella che dà il lavoro dignitoso, libero, creativo, partecipativo e solidale». (9) Questo passaggio (da un’economia liquida a un’economia sociale) non solo darà nuove prospettive e opportunità concrete di integrazione e inclusione, ma ci aprirà nuovamente la capacità di sognare quell’umanesimo, di cui l’Europa è stata culla e sorgente.

Alla rinascita di un’Europa affaticata, ma ancora ricca di energie e di potenzialità, può e deve contribuire la Chiesa. Il suo compito coincide con la sua missione: l’annuncio del Vangelo, che oggi più che mai si traduce soprattutto nell’andare incontro alle ferite dell’uomo, portando la presenza forte e semplice di Gesù, la sua misericordia consolante e incoraggiante. Dio desidera abitare tra gli uomini, ma può farlo solo attraverso uomini e donne che, come i grandi evangelizzatori del continente, siano toccati da Lui e vivano il Vangelo, senza cercare altro. Solo una Chiesa ricca di testimoni potrà ridare l’acqua pura del Vangelo alle radici dell’Europa. In questo, il cammino dei cristiani verso la piena unità è un grande segno dei tempi, ma anche l’esigenza urgente di rispondere all’appello del Signore «perché tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21).

Con la mente e con il cuore, con speranza e senza vane nostalgie, come un figlio che ritrova nella madre Europa le sue radici di vita e di fede, sogno un nuovo umanesimo europeo, «un costante cammino di umanizzazione», cui servono «memoria, coraggio, sana e umana utopia» (10). Sogno un’Europa giovane, capace di essere ancora madre: una madre che abbia vita, perché rispetta la vita e offre speranze di vita. Sogno un’Europa che si prende cura del bambino, che soccorre come un fratello il povero e chi arriva in cerca di accoglienza perché non ha più nulla e chiede riparo. Sogno un’Europa che ascolta e valorizza le persone malate e anziane, perché non siano ridotte a improduttivi oggetti di scarto. Sogno un’Europa, in cui essere migrante non è delitto, bensì un invito ad un maggior impegno con la dignità di tutto l’essere umano. Sogno un’Europa dove i giovani respirano l’aria pulita dell’onestà, amano la bellezza della cultura e di una vita semplice, non inquinata dagli infiniti bisogni del consumismo; dove sposarsi e avere figli sono una responsabilità e una gioia grande, non un problema dato dalla mancanza di un lavoro sufficientemente stabile. Sogno un’Europa delle famiglie, con politiche veramente effettive, incentrate sui volti più che sui numeri, sulle nascite dei figli più che sull’aumento dei beni. Sogno un’Europa che promuove e tutela i diritti di ciascuno, senza dimenticare i doveri verso tutti. Sogno un’Europa di cui non si possa dire che il suo impegno per i diritti umani è stato la sua ultima utopia. Grazie.

____________________

(1) Discorso al Parlamento europeo, Strasburgo, 25 novembre 2014.
(2) Ibid.
(3) Dichiarazione del 9 Maggio 1950, Salon de l’Horloge, Quai d’Orsay, Parigi.
(4) Ibid.
(5) Discorso alla Conferenza Parlamentare Europea, Parigi, 21 aprile 1954.
(6) Discorso all’Assemblea degli artigiani tedeschi, Düsseldorf, 27 aprile 1952.
(7) Discurso a los movimientos populares en Bolivia, Santa Cruz de la Sierra, 9 luglio 2015.
(8) Benedetto XVI, Lett. Enc. Caritas in veritate (29 giugno 2009), 32: AAS 101 (2009), 666.
(9) Discurso a los movimientos populares en Bolivia, Santa Cruz de la Sierra, 9 luglio 2015.
(10) Discorso al Consiglio d’Europa, Strasburgo, 25 novembre 2014.

Fonte: [00735-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Per salvare la nostra Casa, la Terra! Un’alleanza per il clima, la Terra e la giustizia sociale

coordinamento-democraziaPubblichiamo il documento Laudato Si’, risultato di un lavoro a molte voci, su iniziativa della Casa della carità di Milano. Un lavoro aperto perché è possibile tuttora avanzare suggerimenti, proposte e perché le varie posizioni non sono giustapposte, ma convivono l’una a fianco dell’altra e come ricorda Maria Agostina Cabiddu non c’è un prendere o lasciare di tutto il documento.
- Il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, che ce lo ha inviato, sottolinea di essere interessato a questo lavoro, in cui tanti si sono impegnati come singoli e come associazioni.
- Questo documento è presentato da brevi scritti di Raniero La Valle e di Maria Agostina Cabiddu, entrambi componenti del direttivo nazionale del Cdc, che hanno partecipato al lavoro di costruzione del documento.
- La Valle in particolare pone un problema politico fondamentale: trovare le modalità per attuare politiche che non sono realizzabili senza un salto di qualità di strumenti e di iniziative.
- Può sembrare un’utopia. In realtà le utopie sono necessarie per individuare percorsi nuovi, per avere una nuova stella polare istituzionale e politica. Basta ricordare che per regolare I rapporti tra i mercati nazionali è stata costruita una struttura sovranazionale come il WTO, come del resto ne sono state costruite altre.
- Oppure sono stati ipotizzati trattati tra grandi aree del mondo per regolare i commerci, come quello tra Europa e Canada.
- Perché mai i mercati debbono potere proporre e attuare discutibili proposte di regolazione, che arrivano a mettere sullo stesso piano gli Stati e le multinazionali, mentre se si tratta di cambiare in profondità il sistema economico, le sue relazioni, i suoi obiettivi tutto questo viene liquidato come una utopia ?
- In fondo il milione di giovani e ragazze che ha manifestato per il clima e l’ambiente in tutto il mondo, proseguendo l’impegno e il protagonismo proposto da Greta Thumberg pone esattamente il problema della svolta politica ed istituzionale di cui c’è bisogno.
- La Valle con la consueta lucidità pone il problema, ipotizza delle soluzioni. La soluzione concreta dipenderà da tutti noi e quindi è bene che se ne discuta.

Per La Presidenza di CdC
Alfiero Grandi
28/5/2019
———————————————
logo-laudato_sii_homeDOCUMENTI UTILI

- La Valle – presentazione.pdf

- Cabiddu – Commento.pdf

- Un’alleanza per il clima, la Terra e la giustizia sociale 13 maggio 2019.pdf

Europa e le contestate radici cristiane

carlo-magno
I cristiani, l’Europa, la democrazia: segnali di crisi, nuove responsabilità
c3dem_banner_04
4 dicembre 2018 by Forcesi| C3dem
Il crinale storico e politico sul quale ci troviamo a camminare viene sempre più interpretato e definito in termini di crisi della “democrazia”. Il successo elettorale che, in molti paesi europei, negli Stati Uniti e più in generale nei paesi retti da democrazie rappresentative, si è determinato a vantaggio di formule politiche che rivendicano in modo assoluto l’esigenza di un’identità e di una sovranità nazionali da difendere e preservare, rappresenta la cifra forse più evidente ed appariscente del quadro che si viene componendo sul piano internazionale. Le scelte compiute su questioni cruciali come l’immigrazione o le relazioni economiche e politiche internazionali, dentro e fuori i confini dell’Unione Europea, rappresentano i frutti di un’applicazione di questo assunto fondamentale che viene esemplificato attraverso una linguistica politica che si è arricchita dei termini “populismo” e “sovranismo”.

Le letture possibili della crisi
Numerose sono le interpretazioni che sono state offerte di questo evolversi del panorama storico e politico del nostro tempo. Si osserva allora che quello a cui assistiamo costituisce il riverbero, sul piano politico, di un combinato che unisce la crisi economica alla crisi dell’ordine internazionale, di cui il fenomeno migratorio rappresenta la più diretta e vistosa manifestazione, che ha messo in luce la fragilità politica di molti partiti e la efficacia di molteplici istituzioni.
Diversamente, si è messo l’accento sul carattere “originario” della crisi del sistema partitico che ha sin qui caratterizzato le democrazie rappresentative attraverso una distinzione fra partiti di matrice conservatrice e liberale e partiti di orientamento progressista e socialista. Seguendo questa lettura, il punto cruciale da cui origina il rivolgimento che attraversiamo è da collocarsi nella crisi delle forze politiche di sinistra, socialiste o progressiste, che si somma a quella della cultura politica “liberal” negli Stati Uniti e oramai si estende ai partiti conservatori di matrice liberale (dalla CDU-CSU tedesca, ai popolari spagnoli, ai conservatori inglesi e ai repubblicani americani che conoscono il riemergere di una tentazione “di destra” a cui già si sono adeguati, ad esempio, i popolari austriaci).
Una terza lettura possibile è quella che qualifica questo secondo decennio del Ventunesimo secolo come il tempo della crisi della democrazia stessa, almeno nella sua forma rappresentativa e liberale. Rispetto al principio della rappresentatività, alla divisione e distinzione dei poteri e all’idea cardine del limite imposto all’esercizio dell’autorità dello Stato rappresentato dai diritti individuali e sociali, sembrano avere successo modelli giudicati più efficienti (come la Russia o la Turchia). Nell’opinione pubblica dei paesi con istituzioni “democratiche” si fa allora strada una preferenza per soluzioni istituzionali che accentrano nel governo i poteri e la funzione decisionale, arrivando a ridurre la divisione dei poteri non solo e non tanto ad un “orpello” rispetto alla necessità di decisioni rapide, ma ad una sorta di menomazione di un potere “del popolo” che non dovrebbe conoscere divisioni ma dovrebbe essere riversato interamente nelle mani di chi riceve un mandato politico attraverso il suffragio elettorale.
Tutte queste prospettive interpretative fanno luce su aspetti diversi del nostro presente ma vi è una ulteriore lettura possibile che può aiutare a individuare una sorta di filo conduttore che attraversa la crisi dei partiti e la lega a quella delle strutture politiche, sociali ed economiche. Vi è infatti una sorta di saldatura delle fratture che emergono sul piano politico e istituzionale così come su quello economico e sociale, con faglie culturali antiche, che affondano le radici nel Novecento e che hanno un forte connotato religioso, cristiano e cattolico in particolare.

Le faglie del cattolicesimo europeo
Quello che si ha di fronte è un mutamento culturale di portata globale, che nasce da un quadro storico generale dove sono messi radicalmente in questione i fondamenti della democrazia. Si tratta di una sfida che investe il piano essenziale e dimenticato della cultura politica e che fino ad ora nessuno ha saputo o voluto affrontare. Tuttavia, dentro questo deterioramento progressivo delle forme della politica, vi sono luoghi nei quali più evidente è l’esistenza di un nesso strettissimo fra l’emergere di una politica che esplicitamente rifiuta i fondamenti della democrazia liberale e il manifestarsi di un cattolicesimo identitario, declinato secondo forme molteplici di nazionalismo o di affermazione della diversità culturale esclusiva ed escludente di un popolo.
Se ci limitiamo ai confini dell’Unione Europea, la esplicita volontà di difendere la sovranità nazionale attraverso l’affermazione identitaria di un insieme di valori che hanno un fondamento religioso di matrice cattolica rappresenta un tratto qualificante della politica di alcuni governi europei: Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Austria, Italia. A questo elenco è possibile aggiungere, considerando il dato politico che emerge dalle recenti consultazioni elettorali regionali, alcune ampie zone della Germania, soprattutto la Baviera, storicamente “cattolica”.
Si tratta di una geografia che investe certamente paesi di più “recente” democrazia, nei quali, come un attento osservatore qual è Massimo Cacciari ha notato, sembra manifestarsi ora una saldatura fra identità statuale e identità nazionale che i paesi dell’Europa occidentale avevano conosciuto due secoli fa. Tuttavia, la diffusione di un consenso per una politica autoritaria e “forte” si dispiega dentro un’area che ha un connotato storico-geografico specifico: quello che cento anni fa è emerso dalle ceneri dell’impero asburgico e che è fatto di linee di faglie e di linee tensione che hanno un fortissimo connotato cattolico.
Occorre capire le ragioni di tutto questo, soprattutto le ragioni di un cattolicesimo che nel corso del Novecento ha assunto un ruolo identitario sul piano nazionale in ragione di un susseguirsi di contingenze storiche spesso tragiche. Quell’area geografica multiculturale che dal Mar Baltico arriva all’Adriatico, ha conosciuto infatti il deflagrare dei nazionalismi e il loro assumere l’aspetto di totalitarismi di matrice fascista, per poi essere proiettata dentro il perimetro di un socialismo reale che, nella sfera di influenza dell’Unione Sovietica, aveva cercato di livellare le differenze nazionali e culturali. È qui, che il cattolicesimo supplisce alla costruzione di una dimensione identitaria nazionale e assume così un ruolo di carattere politico che oggi mostra tutta la sua problematicità. Soprattutto perché si tratta di un cattolicesimo che, se è stato un palese avversario del socialismo reale, lo è stato anche dei sistemi liberali, giudicati non solo come “non cristiani” ma come anticristiani. Il magistero di un pontificato come quello di Giovanni Paolo II, che pure ha assunto una portata planetaria e internazionale come mai prima era accaduto ad un successore di Pietro, è attraversato da alcune di queste tensioni. Dentro i diversi contesti nazionali, soprattutto dell’Europa dell’Est, il cattolicesimo ha così conosciuto riformulazioni secondo una chiave di lettura che recuperava un carattere antico dell’apologetica cattolica: l’idea che la modernità, liberale o socialista, sia costitutivamente anticristiana e che come tale abbia dato origine a strutture politiche che, nei loro fondamenti, sono viziate da un relativismo. Così, in questo che è un giudizio storico-religioso ed etico sugli ultimi secoli, la democrazia diviene la traduzione politica di un atteggiamento, per così dire, filosofico, che ponendo ogni verità sullo stesso piano, finisce per negare la possibilità di affermarne una che abbia valore universale.

Il ritorno della critica della “modernità”
Si tratta di giudizi che non più di un decennio fa ancora venivano espressi, anche in sede di magistero, nei confronti di un’Unione Europea che non aveva esplicitato le proprie “radici giudaico-cristiane” nel suo progetto di Costituzione. Una posizione, questa della critica alla “modernità” filosofica e con essa alla modernità politica, che oggi si fa particolarmente efficace, sul piano culturale, in quei paesi nei quali il cattolicesimo fatica a trovare un confronto critico ed efficace con il nodo chiave della democrazia, intesa non solo come formulaistituzionale ma come metodo e prassi di governo delle relazioni politiche e sociali.
Una dinamica diversa si compie in paesi “occidentali” come l’Austria e l’Italia e in regioni come la Baviera, ma anche in Francia con il successo del Front National di Marine Le Pen. Qui, la decennale battaglia culturale del magistero contro il relativismo si è saldata con la battaglia di movimenti di destra contro la democrazia plurale e rappresentativa e dunque, anch’essa, “relativista”, incapace di proteggere i cittadini perché frammentata e preda di interessi “altri”, “privati” e non “nazionali”.
L’esito di tutto questo è un’Europa nella quale la questione della democrazia e della sua crisi si traduce in una crisi strutturale che certamente è anche determinata da una problematica originaria: quella del rapporto fra cattolicesimo e politica. Essa nasce dalle critiche che, da ambienti ecclesiastici o di cultura cattolica, sono state mosse alla democrazia e dall’aver stabilito o teorizzato l’esistenza di una saldatura fra il sistema istituzionale democratico e l’indifferentismo etico dello Stato liberale. Vi è in questo l’effetto lungo dei decenni a volte tormentati che sono seguiti al Concilio Vaticano II. A questo si aggiunge un dato di carattere storico-politico. A partire dalla fine degli anni Ottanta del Novecento la crisi dei partiti politici di ispirazione cristiana, soprattutto nell’Europa occidentale, inizia a rivelarsi come qualcosa di ben più profondo della semplice fine di un sistema politico, determinata dal venir meno della contrapposizione fra Est e Ovest.
La fine della Democrazia Cristiana in Italia, che è il frutto di molteplici fattori, fra i quali vi è anche una crisi irreversibile di un metodo di gestione del potere, ha tuttavia manifestato un vuoto progressivo nella traduzione politica di una cultura politica specifica. Quella cultura politica che, ispirandosi all’insegnamento sociale della Chiesa, aveva saputo mettere a disposizione di una spiccata sensibilità sociale le istituzioni della democrazia liberale e rappresentativa, dando ad esse una finalità politica. È la stessa cultura che, ancora negli anni Ottanta del Novecento, era propria degli omologhi partiti tedesco e spagnolo e di una parte del panorama politico francese (Mitterrand era stato, nella prima fase della sua carriera politica, un uomo di governo del partito “cattolico” francese).
Se in Italia quella cesura storica ha determinato la fine della Democrazia cristiana, negli altri paesi essa ha assunto i tratti di una mutazione “genetica” di quei partiti di tradizione democratico-cristiana: questi sono diventati partiti liberal-conservatori, modificando i loro riferimenti culturali e accettando un orientamento che veniva dall’America di Ronald Regan o dall’Inghilterra di Margareth Thatcher e che gli storici della politica e dell’economia chiamano “Washington consensus”.
Questa mutazione ha coinvolto anche i partiti progressisti e socialisti, che hanno accettato un ordine di rapporti politici ed economici che era imperniato sulla drastica contrazione dell’autorità delle istituzioni pubbliche, sia nazionali che internazionali. Del resto, è questo l’orientamento che, negli anni Novanta e nei primi anni duemila, hanno seguito paesi come la Germania e l’Inghilterra, la Francia e la Spagna, l’Italia stessa, quando sono stati governati da coalizioni di matrice progressista. Pur di fronte al riemergere di istanze sociali e pur con la consapevolezza di dover rispondere ai contraccolpi di un quadro che diventava globale, non si è adeguatamente compreso quanto l’ordine delle cose che prendeva forma avrebbe fatto emergere nuove questioni identitarie, nuove paure e nodi sociali che sono governabili solo attraverso le istituzioni pubbliche e non possono essere risolti dalle forze “naturali” del mercato.

La sfida delle culture politiche
La vera sfida che allora sembra emergere dal nostro tempo e dalle sue radici storiche è quella della cultura politica. Si tratta di una questione che oggi riguarda, in modo particolarmente evidente, le forze politiche di sinistra e progressiste, che sembrano soffrire una crisi di identità senza soluzione e senza fine. Essa però riguarda anche, e forse in modo ancor più decisivo, il cattolicesimo e la sua capacità di animare culture politiche rinnovate o nuove nel quadro europeo di oggi.
Non si tratta di ricostruire partiti “cattolici” o partiti dei cattolici. Farlo significherebbe non capire che quello che oramai è venuto meno è un modo di intendere la politica che è proprio del Novecento: fatto di partiti con un forte connotato ideologico e di una coincidenza fra una struttura partitica e una determinata cultura politica, che oggi è difficilmente riproponibile. In questo, i cosiddetti “populismi” o “sovranismi”, che invece rivendicano proprio un carattere espressamente “di parte”, mostrano il loro essere l’ultimo resto del Novecento politico.
La questione è allora cosa viene dopo, o più direttamente: cosa costruire dopo? Un primo passo è quello di ritessere la trama di una, meglio, di più culture politiche: certamente di una cultura politica che, lasciandosi provocare dall’insegnamento della Chiesa, dal Vangelo e dalla teologia, rilegga i tratti così confusi del nostro tempo per decifrarne gli intrecci e leggerne i contenuti. Economia e politica, democrazia e solidarietà, istituzioni politiche e relazioni economiche, strutture sociali e orientamenti intellettuali, sono gli elementi costitutivi della realtà storica in cui questo nostro tempo si esprime e da cui soltanto può emergere una cultura politica rinnovata.
La costruzione di una cultura politica non è rinviabile e soprattutto non si deve commettere l’errore, che troppo spesso si fa, di giudicarla qualcosa di decorativo ma di non importante perché lontano dalla “concretezza”. Cultura politica non significa esercizio di un giudizio filosofico sulla politica o sulla storia: significa invece avere gli strumenti per guardare e capire il cambio d’epoca che attraversiamo, significa apprendere l’alfabeto con cui è scritta la realtà che viviamo e dunque tutt’altro che chiudersi in un mondo di sole idee. Significa fare quell’esercizio di comprensione dell’ordine delle cose che disegna linee di sviluppo storico il cui punto di fuga è nel domani. Più ancora, la cultura politica ha un ruolo essenziale proprio per la politica: perché è l’unico efficace antidoto ad ogni tentazione di declinarla o come pura competizione per l’esercizio del potere o come semplice onesta amministrazione. In entrambi i casi, per usare una locuzione teologica, l’esito è una politica disincarnata, che perde la sua umanità perché non è più nella storia e quindi diventa la cosa forse più distante dalla “concretezza”.
Rispondere a questa urgenza non rappresenta certamente una soluzione rapida alle tensioni che il quadro attuale ci mette davanti. Ma questo non ne riduce la necessità: se possibile l’accentua. Occorre dunque la pazienza di raccogliere questa sfida, che è quella di “pensare politicamente” e di farlo alla luce di un’ispirazione cristiana. È solo così che si edifica un rapporto fra cattolicesimo e democrazia che, consegnando alla storia una lettura diffidente della vicenda degli ultimi secoli, sappia riconoscere la presenza e il perdurare di un’influenza religiosa anche in quella modernità che pure sembra essere inesorabilmente etichettata come “laica”.
Rileggere la storia della democrazia, per come noi la conosciamo, da questo punto di vista permette di far luce su un dato essenziale che diventa anche una prospettiva percorribile per il futuro. Se il secolo che segue il 1789 è segnato, sul piano della cultura politica, dalle istanze di libertà che si traducono nelle istituzioni rappresentative e parlamentari e nelle prime costituzioni, quello che lo ha seguito, il “secolo breve” delle guerre mondiali, dei nazionalismi e dei totalitarismi, è stato anche attraversato da una sensibilità crescente per istanze di giustizia non solo individuale ma sociali e collettive. Forse, allora, una cultura politica per il secolo che ci sta davanti è quella che completa la libertà e l’uguaglianza con il terzo, più dimenticato e forse più cristiano, degli ideali della Rivoluzione francese: la fraternità.

Riccardo Saccenti

Relazione tenuta a Parma, con questo titolo, il 15 novembre 2018.
L’autore, ex fucino, è ricercatore di Storia della filosofia medievale, assegnista di ricerca presso l’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea (CNR) e membro della Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII (Bologna).
———————————————–
papa-francesco-premio-carlo-magno-2016
Conferimento del Premio Internazionale Carlo Magno 2016 a Sua Santità Papa Francesco, 06.05.2016

[B0319]

Discorso del Santo Padre

Alle ore 12 di oggi, nella Sala Regia del Palazzo Apostolico Vaticano è stato conferito a Sua Santità Papa Francesco il Premio Internazionale Carlo Magno 2016.

Alla presenza di numerose autorità, la cerimonia è stata introdotta dal discorso del Sindaco di Aachen, Sig. Marcel Philipp.

Quindi il Presidente del Comitato direttivo dell’Associazione per l’assegnazione del Premio Internazionale Carlo Magno di Aquisgrana – Per l’Unità dell’Europa, Sig. Jürgen Linden ha dato lettura dell’attestato del Premio che recita: “Il 6 maggio 2016, in Vaticano (Roma), a Sua Santità Papa Francesco è stato conferito il Premio Internazionale Carlo Magno di Aquisgrana in tributo al Suo straordinario impegno a favore della pace, della comprensione e della misericordia in una società europea di valori” e insieme al Sindaco di Aachen ha consegnato il Premio al Papa.

La cerimonia è proseguita con gli interventi del Presidente del Parlamento europeo, On.le Martin Schulz, del Presidente della Commissione europea, On.le Jean-Claude Junker e del Presidente del Consiglio europeo, On.le Donald Tusk.

Infine Papa Francesco ha pronunciato il discorso che riportiamo di seguito:

Discorso del Santo Padre

Illustri Ospiti,
vi porgo il mio cordiale benvenuto e vi ringrazio per la vostra presenza. Sono grato in particolare ai Signori Marcel Philipp, Jürgen Linden, Martin Schulz, Jean-Claude Juncker e Donald Tusk per le loro cortesi parole. Desidero ribadire la mia intenzione di offrire il prestigioso Premio, di cui vengo onorato, per l’Europa: non compiamo infatti un gesto celebrativo; cogliamo piuttosto l’occasione per auspicare insieme uno slancio nuovo e coraggioso per questo amato Continente.

La creatività, l’ingegno, la capacità di rialzarsi e di uscire dai propri limiti appartengono all’anima dell’Europa. Nel secolo scorso, essa ha testimoniato all’umanità che un nuovo inizio era possibile: dopo anni di tragici scontri, culminati nella guerra più terribile che si ricordi, è sorta, con la grazia di Dio, una novità senza precedenti nella storia. Le ceneri delle macerie non poterono estinguere la speranza e la ricerca dell’altro, che arsero nel cuore dei Padri fondatori del progetto europeo. Essi gettarono le fondamenta di un baluardo di pace, di un edificio costruito da Stati che non si sono uniti per imposizione, ma per la libera scelta del bene comune, rinunciando per sempre a fronteggiarsi. L’Europa, dopo tante divisioni, ritrovò finalmente sé stessa e iniziò a edificare la sua casa.

Questa «famiglia di popoli»1, lodevolmente diventata nel frattempo più ampia, in tempi recenti sembra sentire meno proprie le mura della casa comune, talvolta innalzate scostandosi dall’illuminato progetto architettato dai Padri. Quell’atmosfera di novità, quell’ardente desiderio di costruire l’unità paiono sempre più spenti; noi figli di quel sogno siamo tentati di cedere ai nostri egoismi, guardando al proprio utile e pensando di costruire recinti particolari. Tuttavia, sono convinto che la rassegnazione e la stanchezza non appartengono all’anima dell’Europa e che anche «le difficoltà possono diventare promotrici potenti di unità»2.

Nel Parlamento europeo mi sono permesso di parlare di Europa nonna. Dicevo agli Eurodeputati che da diverse parti cresceva l’impressione generale di un’Europa stanca e invecchiata, non fertile e vitale, dove i grandi ideali che hanno ispirato l’Europa sembrano aver perso forza attrattiva; un’Europa decaduta che sembra abbia perso la sua capacità generatrice e creatrice. Un’Europa tentata di voler assicurare e dominare spazi più che generare processi di inclusione e trasformazione; un’Europa che si va “trincerando” invece di privilegiare azioni che promuovano nuovi dinamismi nella società; dinamismi capaci di coinvolgere e mettere in movimento tutti gli attori sociali (gruppi e persone) nella ricerca di nuove soluzioni ai problemi attuali, che portino frutto in importanti avvenimenti storici; un’Europa che lungi dal proteggere spazi si renda madre generatrice di processi (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 223).

Che cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà? Che cosa ti è successo, Europa terra di poeti, filosofi, artisti, musicisti, letterati? Che cosa ti è successo, Europa madre di popoli e nazioni, madre di grandi uomini e donne che hanno saputo difendere e dare la vita per la dignità dei loro fratelli?

Lo scrittore Elie Wiesel, sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, diceva che oggi è capitale realizzare una “trasfusione di memoria”. E’ necessario “fare memoria”, prendere un po’ di distanza dal presente per ascoltare la voce dei nostri antenati. La memoria non solo ci permetterà di non commettere gli stessi errori del passato (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 108), ma ci darà accesso a quelle acquisizioni che hanno aiutato i nostri popoli ad attraversare positivamente gli incroci storici che andavano incontrando. La trasfusione della memoria ci libera da quella tendenza attuale spesso più attraente di fabbricare in fretta sulle sabbie mobili dei risultati immediati che potrebbero produrre «una rendita politica facile, rapida ed effimera, ma che non costruiscono la pienezza umana» (ibid., 224).

A tal fine ci farà bene evocare i Padri fondatori dell’Europa. Essi seppero cercare strade alternative, innovative in un contesto segnato dalle ferite della guerra. Essi ebbero l’audacia non solo di sognare l’idea di Europa, ma osarono trasformare radicalmente i modelli che provocavano soltanto violenza e distruzione. Osarono cercare soluzioni multilaterali ai problemi che poco a poco diventavano comuni.

Robert Schuman, in quello che molti riconoscono come l’atto di nascita della prima comunità europea, disse: «L’Europa non si farà in un colpo solo, né attraverso una costruzione d’insieme; essa si farà attraverso realizzazioni concrete, creanti anzitutto una solidarietà di fatto»3. Proprio ora, in questo nostro mondo dilaniato e ferito, occorre ritornare a quella solidarietà di fatto, alla stessa generosità concreta che seguì il secondo conflitto mondiale, perché – proseguiva Schuman – «la pace mondiale non potrà essere salvaguardata senza sforzi creatori che siano all’altezza dei pericoli che la minacciano»4. I progetti dei Padri fondatori, araldi della pace e profeti dell’avvenire, non sono superati: ispirano, oggi più che mai, a costruire ponti e abbattere muri. Sembrano esprimere un accorato invito a non accontentarsi di ritocchi cosmetici o di compromessi tortuosi per correggere qualche trattato, ma a porre coraggiosamente basi nuove, fortemente radicate; come affermava Alcide De Gasperi, «tutti egualmente animati dalla preoccupazione del bene comune delle nostre patrie europee, della nostra Patria Europa», ricominciare, senza paura un «lavoro costruttivo che esige tutti i nostri sforzi di paziente e lunga cooperazione»5.

Questa trasfusione della memoria ci permette di ispirarci al passato per affrontare con coraggio il complesso quadro multipolare dei nostri giorni, accettando con determinazione la sfida di “aggiornare” l’idea di Europa. Un’Europa capace di dare alla luce un nuovo umanesimo basato su tre capacità: la capacità di integrare, la capacità di dialogare e la capacità di generare.

Capacità di integrare
Erich Przywara, nella sua magnifica opera L’idea di Europa, ci sfida a pensare la città come un luogo di convivenza tra varie istanze e livelli. Egli conosceva quella tendenza riduzionistica che abita in ogni tentativo di pensare e sognare il tessuto sociale. La bellezza radicata in molte delle nostre città si deve al fatto che sono riuscite a conservare nel tempo le differenze di epoche, di nazioni, di stili, di visioni. Basta guardare l’inestimabile patrimonio culturale di Roma per confermare ancora una volta che la ricchezza e il valore di un popolo si radica proprio nel saper articolare tutti questi livelli in una sana convivenza. I riduzionismi e tutti gli intenti uniformanti, lungi dal generare valore, condannano i nostri popoli a una crudele povertà: quella dell’esclusione. E lungi dall’apportare grandezza, ricchezza e bellezza, l’esclusione provoca viltà, ristrettezza e brutalità. Lungi dal dare nobiltà allo spirito, gli apporta meschinità.

Le radici dei nostri popoli, le radici dell’Europa si andarono consolidando nel corso della sua storia imparando a integrare in sintesi sempre nuove le culture più diverse e senza apparente legame tra loro. L’identità europea è, ed è sempre stata, un’identità dinamica e multiculturale.

L’attività politica sa di avere tra le mani questo lavoro fondamentale e non rinviabile. Sappiamo che «il tutto è più delle parti, e anche della loro semplice somma», per cui si dovrà sempre lavorare per «allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 235). Siamo invitati a promuovere un’integrazione che trova nella solidarietà il modo in cui fare le cose, il modo in cui costruire la storia. Una solidarietà che non può mai essere confusa con l’elemosina, ma come generazione di opportunità perché tutti gli abitanti delle nostre città – e di tante altre città – possano sviluppare la loro vita con dignità. Il tempo ci sta insegnando che non basta il solo inserimento geografico delle persone, ma la sfida è una forte integrazione culturale.

In questo modo la comunità dei popoli europei potrà vincere la tentazione di ripiegarsi su paradigmi unilaterali e di avventurarsi in “colonizzazioni ideologiche”; riscoprirà piuttosto l’ampiezza dell’anima europea, nata dall’incontro di civiltà e popoli, più vasta degli attuali confini dell’Unione e chiamata a diventare modello di nuove sintesi e di dialogo. Il volto dell’Europa non si distingue infatti nel contrapporsi ad altri, ma nel portare impressi i tratti di varie culture e la bellezza di vincere le chiusure. Senza questa capacità di integrazione le parole pronunciate da Konrad Adenauer nel passato risuoneranno oggi come profezia di futuro: «Il futuro dell’Occidente non è tanto minacciato dalla tensione politica, quanto dal pericolo della massificazione, della uniformità del pensiero e del sentimento; in breve, da tutto il sistema di vita, dalla fuga dalla responsabilità, con l’unica preoccupazione per il proprio io»6.

Capacità di dialogo
Se c’è una parola che dobbiamo ripetere fino a stancarci è questa: dialogo. Siamo invitati a promuovere una cultura del dialogo cercando con ogni mezzo di aprire istanze affinché questo sia possibile e ci permetta di ricostruire il tessuto sociale. La cultura del dialogo implica un autentico apprendistato, un’ascesi che ci aiuti a riconoscere l’altro come un interlocutore valido; che ci permetta di guardare lo straniero, il migrante, l’appartenente a un’altra cultura come un soggetto da ascoltare, considerato e apprezzato. E’ urgente per noi oggi coinvolgere tutti gli attori sociali nel promuovere «una cultura che privilegi il dialogo come forma di incontro», portando avanti «la ricerca di consenso e di accordi, senza però separarla dalla preoccupazione per una società giusta, capace di memoria e senza esclusioni» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 239). La pace sarà duratura nella misura in cui armiamo i nostri figli con le armi del dialogo, insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro e della negoziazione. In tal modo potremo lasciare loro in eredità una cultura che sappia delineare strategie non di morte ma di vita, non di esclusione ma di integrazione.

Questa cultura del dialogo, che dovrebbe essere inserita in tutti i curriculi scolastici come asse trasversale delle discipline, aiuterà ad inculcare nelle giovani generazioni un modo di risolvere i conflitti diverso da quello a cui li stiamo abituando. Oggi ci urge poter realizzare “coalizioni” non più solamente militari o economiche ma culturali, educative, filosofiche, religiose. Coalizioni che mettano in evidenza che, dietro molti conflitti, è spesso in gioco il potere di gruppi economici. Coalizioni capaci di difendere il popolo dall’essere utilizzato per fini impropri. Armiamo la nostra gente con la cultura del dialogo e dell’incontro.

Capacità di generare
Il dialogo e tutto ciò che esso comporta ci ricorda che nessuno può limitarsi ad essere spettatore né mero osservatore. Tutti, dal più piccolo al più grande, sono parte attiva nella costruzione di una società integrata e riconciliata. Questa cultura è possibile se tutti partecipiamo alla sua elaborazione e costruzione. La situazione attuale non ammette meri osservatori di lotte altrui. Al contrario, è un forte appello alla responsabilità personale e sociale.

In questo senso i nostri giovani hanno un ruolo preponderante. Essi non sono il futuro dei nostri popoli, sono il presente; sono quelli che già oggi con i loro sogni, con la loro vita stanno forgiando lo spirito europeo. Non possiamo pensare il domani senza offrire loro una reale partecipazione come agenti di cambiamento e di trasformazione. Non possiamo immaginare l’Europa senza renderli partecipi e protagonisti di questo sogno.

Ultimamente ho riflettuto su questo aspetto e mi sono chiesto: come possiamo fare partecipi i nostri giovani di questa costruzione quando li priviamo di lavoro; di lavori degni che permettano loro di svilupparsi per mezzo delle loro mani, della loro intelligenza e delle loro energie? Come pretendiamo di riconoscere ad essi il valore di protagonisti, quando gli indici di disoccupazione e sottoccupazione di milioni di giovani europei sono in aumento? Come evitare di perdere i nostri giovani, che finiscono per andarsene altrove in cerca di ideali e senso di appartenenza perché qui, nella loro terra, non sappiamo offrire loro opportunità e valori?

«La giusta distribuzione dei frutti della terra e del lavoro umano non è mera filantropia. E’ un dovere morale».7 Se vogliamo pensare le nostre società in un modo diverso, abbiamo bisogno di creare posti di lavoro dignitoso e ben remunerato, specialmente per i nostri giovani.

Ciò richiede la ricerca di nuovi modelli economici più inclusivi ed equi, non orientati al servizio di pochi, ma al beneficio della gente e della società. E questo ci chiede il passaggio da un’economia liquida a un’economia sociale. Penso ad esempio all’economia sociale di mercato, incoraggiata anche dai miei Predecessori (cfr Giovanni Paolo II, Discorso all’Ambasciatore della R.F. di Germania, 8 novembre 1990). Passare da un’economia che punta al reddito e al profitto in base alla speculazione e al prestito a interesse ad un’economia sociale che investa sulle persone creando posti di lavoro e qualificazione.

Dobbiamo passare da un’economia liquida, che tende a favorire la corruzione come mezzo per ottenere profitti, a un’economia sociale che garantisce l’accesso alla terra, al tetto per mezzo del lavoro come ambito in cui le persone e le comunità possano mettere in gioco «molte dimensioni della vita: la creatività, la proiezione nel futuro, lo sviluppo delle capacità, l’esercizio dei valori, la comunicazione con gli altri, un atteggiamento di adorazione. Perciò la realtà sociale del mondo di oggi, al di là degli interessi limitati delle imprese e di una discutibile razionalità economica, esige che “si continui a perseguire quale priorità l’obiettivo dell’accesso al lavoro […] per tutti”8» (Enc. Laudato si’, 127).

Se vogliamo mirare a un futuro che sia dignitoso, se vogliamo un futuro di pace per le nostre società, potremo raggiungerlo solamente puntando sulla vera inclusione: «quella che dà il lavoro dignitoso, libero, creativo, partecipativo e solidale».9 Questo passaggio (da un’economia liquida a un’economia sociale) non solo darà nuove prospettive e opportunità concrete di integrazione e inclusione, ma ci aprirà nuovamente la capacità di sognare quell’umanesimo, di cui l’Europa è stata culla e sorgente.

Alla rinascita di un’Europa affaticata, ma ancora ricca di energie e di potenzialità, può e deve contribuire la Chiesa. Il suo compito coincide con la sua missione: l’annuncio del Vangelo, che oggi più che mai si traduce soprattutto nell’andare incontro alle ferite dell’uomo, portando la presenza forte e semplice di Gesù, la sua misericordia consolante e incoraggiante. Dio desidera abitare tra gli uomini, ma può farlo solo attraverso uomini e donne che, come i grandi evangelizzatori del continente, siano toccati da Lui e vivano il Vangelo, senza cercare altro. Solo una Chiesa ricca di testimoni potrà ridare l’acqua pura del Vangelo alle radici dell’Europa. In questo, il cammino dei cristiani verso la piena unità è un grande segno dei tempi, ma anche l’esigenza urgente di rispondere all’appello del Signore «perché tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21).

Con la mente e con il cuore, con speranza e senza vane nostalgie, come un figlio che ritrova nella madre Europa le sue radici di vita e di fede, sogno un nuovo umanesimo europeo, «un costante cammino di umanizzazione», cui servono «memoria, coraggio, sana e umana utopia»10. Sogno un’Europa giovane, capace di essere ancora madre: una madre che abbia vita, perché rispetta la vita e offre speranze di vita. Sogno un’Europa che si prende cura del bambino, che soccorre come un fratello il povero e chi arriva in cerca di accoglienza perché non ha più nulla e chiede riparo. Sogno un’Europa che ascolta e valorizza le persone malate e anziane, perché non siano ridotte a improduttivi oggetti di scarto. Sogno un’Europa, in cui essere migrante non è delitto, bensì un invito ad un maggior impegno con la dignità di tutto l’essere umano. Sogno un’Europa dove i giovani respirano l’aria pulita dell’onestà, amano la bellezza della cultura e di una vita semplice, non inquinata dagli infiniti bisogni del consumismo; dove sposarsi e avere figli sono una responsabilità e una gioia grande, non un problema dato dalla mancanza di un lavoro sufficientemente stabile. Sogno un’Europa delle famiglie, con politiche veramente effettive, incentrate sui volti più che sui numeri, sulle nascite dei figli più che sull’aumento dei beni. Sogno un’Europa che promuove e tutela i diritti di ciascuno, senza dimenticare i doveri verso tutti. Sogno un’Europa di cui non si possa dire che il suo impegno per i diritti umani è stato la sua ultima utopia. Grazie.

____________________

1 Discorso al Parlamento europeo, Strasburgo, 25 novembre 2014.
2 Ibid.
3 Dichiarazione del 9 Maggio 1950, Salon de l’Horloge, Quai d’Orsay, Parigi.
4 Ibid.
5 Discorso alla Conferenza Parlamentare Europea, Parigi, 21 aprile 1954.
6 Discorso all’Assemblea degli artigiani tedeschi, Düsseldorf, 27 aprile 1952.
7 Discurso a los movimientos populares en Bolivia, Santa Cruz de la Sierra, 9 luglio 2015.
8 Benedetto XVI, Lett. Enc. Caritas in veritate (29 giugno 2009), 32: AAS 101 (2009), 666.
9 Discurso a los movimientos populares en Bolivia, Santa Cruz de la Sierra, 9 luglio 2015.
10 Discorso al Consiglio d’Europa, Strasburgo, 25 novembre 2014.

[00735-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Materiali dell’Incontro “Lavorare meno Lavorare meglio Lavorare tutti”. Intervento di Silvano Tagliagambe.

costat-logo-stef-p-c_2demasi-renato-da-foto-variesilvano-tagliagambe-1
lampadadialadmicromicro Con il contributo di Silvano Tagliagambe proseguiamo nella pubblicazione degli interventi all’Incontro-dibattito sul Lavoro, che si è tenuto venerdì scorso, con la partecipazione del sociologo del lavoro Domenico De Masi. Abbiamo chiesto a ciascun relatore di inviarci il proprio contributo per iscritto, anche con eventuale rielaborazione rispetto a quello effettivamente svolto, pur rispettando contenuti e sintesi. Procederemo a pubblicare le relazioni nell’ordine in cui ci perverranno. Questa occasione potrà essere colta anche da quanti non abbiano avuto spazio nel convegno e vogliano intervenire nelle pagine della nostra News, che volentieri mettiamo a disposizione.
——
Lavorare meno, lavorare meglio, lavorare tutti
di Silvano Tagliagambe

Il 5 ottobre è stato presentato il volume Lavorare meno, lavorare meglio, lavorare tutti, curato da Fernando Codonesu, a un anno esatto dal Convegno tenutosi a Cagliari, di cui contiene gli Atti.
La discussione, avviata da un corposo intervento di Domenico De Masi, ha affrontato sotto traccia, grazie soprattutto alle stimolanti riflessioni di Antonio Dessì, il tema del destino del lavoro dell’uomo nell’era della crescente (e inarrestabile) digitalizzazione e globalizzazione. Le ragioni delle inquietudini suscitate da questo quadro generale sono ben note: sulla base di una ricognizione analitica, settore per settore, C.B. Frey e M.A. Osborne nel loro documentato articolo “The future of employment: How susceptible are jobs to computerisation?”, comparso l’anno scorso nel numero 114 della rivista Technological Forecasting and Social Change (pp. 254-280) stimano che circa il 47% dei compiti lavorativi in essere siano automatizzabili nel corso dei prossimi dieci o venti anni.
L’Indagine MGI-McKinsey Global Institute, del gennaio dello scorso anno, valuta il tempo-lavoro che le macchine intelligenti si prevede possano sostituire nell’economia degli Stati Uniti in condizioni di fattibilità tecnica “a tecnologie esistenti”. Il tasso medio di sostituzione del tempo-lavoro viene previsto, per l’intera economia, con un valore piuttosto elevato (49%). Ma, soprattutto, emergono forti differenze tra i diversi settori: la sostituzione prevista arriva fino all’81% del tempo lavoro nelle lavorazioni materiali codificate (in pratica nei lavori di fabbrica che si svolgono in modo programmato e in condizioni prevedibili), tra il 60 e il 70% nel campo dell’elaborazione e raccolta dati (una gran parte dei lavori di ufficio regolati da procedure burocratiche e amministrative). Una quota assai minore di sostituzione (26%) si ha invece per il lavoro di fabbrica poco programmato o che si svolge in condizioni poco prevedibili, e una quota ancora minore (intorno al 20%) per i lavori di relazione, creativi o dal forte contenuto decisionale. Minima (9%) è la sostituzione prevista per le attività di gestione delle persone.
In ogni caso il dato che emerge è che il lavoro delle macchine tende a sostituire sempre più il lavoro dell’uomo, con effetti ormai visibili a occhio nudo sulla possibilità di trovare un’occupazione, stabile o occasionale che sia, soprattutto (ma non solo) da parte dei giovani.
Le prospettive che emergono da questa situazione sono diverse a seconda delle lenti con le quali le si valuta. Gli ottimisti ritengono che le innovazioni digital driven, quelle che nascono dal saper cogliere in pieno le potenzialità della rivoluzione digitale in essere, in termini di riduzione dei costi e di aumento delle prestazioni direttamente connesse alla tecnologia applicata, non potranno subentrare in toto alle innovazioni human driven, frutto di proposte e azioni derivanti dalla creatività e dall’intraprendenza umana, che genera valore immaginando nuovi usi (innovazioni d’uso), proponendo esperienze coinvolgenti o realizzando significativi processi di creazione di nuovo significato. A loro giudizio le esperienze riguardanti le relazioni, i legami, le emozioni, la bellezza, il gusto, la contemplazione, il desiderio, l’autenticità, la genuinità, la salubrità, la tradizione, il sogno, la libertà, la fiducia la ricerca della felicità sono di pertinenza esclusiva della creatività umano e disegnano un ampio territorio di produzione di beni materiali e immateriali in cui la macchina non potrà mai sostituirsi all’uomo.
Per questi apologeti della rivoluzione digitale, pertanto, il futuro, prossimo e remoto ci proporrà soluzioni di crescente interazione e collaborazione tra l’innovazione human driven, la quale crea soluzioni di valore unitario più elevato, incorporando nei prodotti e nei servizi elementi intangibili quali design, unicità, emozione ecc., e la tecnologia digital driven, che svolge il suo ruolo di “moltiplicatore”, perché consente la circolazione e il confronto delle buone idee e delle informazioni utili ad alimentare i processi di creazione del nuovo e di sperimentazione del possibile, utilizzando le conoscenze di un vasto circuito sociale ed economico, messo in rete dalla comunicazione digitale. In questa funzione, il digitale rende conveniente la scelta della open innovation, rivolta ad utilizzare al massimo le conoscenze in possesso di altri, riducendo i costi e aumentando il valore della creazione e sperimentazione dei nuovi prodotti e dei nuovi processi. Da questa interazione scaturiranno una fusione di “menti” e “strumenti” e l’incremento di interconnessioni tra intelligenza naturale e intelligenza artificiale destinato non solo a retroagire – tramite un ciclo virtuoso di auto-rinforzo – sulla creazione stessa del valore, ma anche e soprattutto a fungere da amplificatore delle stesse capacità umane, con conseguente aumento (e non decremento) dei processi di innovazione human driven.
Se le cose stessero effettivamente così ciò che si può ragionevolmente ipotizzare è il crescente spostamento del lavoro umano dai mestieri puramente esecutivi, che abbiamo in gran numero ereditato dalla stagione della meccanizzazione rigida, durante la prima modernità, a forme di occupazione sempre più creative, che saranno protagoniste del futuro nel mondo del lavoro e richiederanno nuove forme di apprendimento, che consentano alle persone di usare in modo creativo i linguaggi formali della scienza e delle macchine per generare valore nel mondo reale e siano ancorate ad una visione convinta e condivisa del porto di arrivo verso il quale indirizzare la navigazione. Infatti, come osserva Enzo Rullani nel suo contributo introduttivo a un libro che considero di fondamentale importanza per comprendere i processi in corso e quelli a venire, curato in collaborazione con Alberto F. De Toni (Uomini 4.0: Ritorno al futuro. Creare valore esplorando la complessità), pubblicato quest’anno da Franco Angeli, nel mare della complessità e dell’innovazione, contrariamente a quello che a volte si crede, non si può navigare a vista. Se manca la mappa, per tracciare la rotta serve almeno avere un porto di arrivo ideale, una meta che consenta di distinguere, in ogni momento del presente, i venti favorevoli da quelli contrari, in modo da alzare le vele quando le contingenze ci mettono di fronte ai primi, e da fermarsi e resistere quando, invece, arrivano i secondi. Andando così avanti, passo per passo, e con tutti gli adattamenti tattici del caso, lungo un percorso dotato di senso, che punta verso il porto prescelto. Lo scriveva già Seneca: “Non c’è mai vento a favore per il marinaio che non sa qual è il suo porto”.
De Masi invece, sia nel Convegno dell’anno scorso, rispondendo alle acute domande di Fernando Codonesu, sia nella presentazione degli Atti di quest’anno, è molto meno ottimista riguardo a questa possibile coesistenza di innovazione human driven e digital driven. A suo modo di vedere quest’ultima finirà col subentrare totalmente alla prima, per cui l’umanità è fatalmente destinata ad avviarsi verso una condizione di non-lavoro, che secondo lui va però vista non come una minaccia, bensì come una opportunità che lascia all’uomo uno spazio crescente, da impiegare sia per attività di formazione (che, specialmente in Italia, hanno bisogno di essere accresciute e qualificate), sia per sviluppare condizioni di vita e di cultura sociale che riservino uno spazio sempre maggiore all’«ozio creativo». Come del resto avveniva, a suo giudizio, nella Grecia antica, che ci ha lasciato un patrimonio di cultura sul quale l’umanità sta tuttora prosperando. Un concetto, questo, su cui De Masi insiste da tempo, prefigurando una liberazione (positiva) dallo stato di necessità a cui l’uomo lavoratore è sempre stato vincolato nella storia passata, che va ovviamente accompagnato da misure di equa distribuzione della ricchezza prodotta dall’automazione digitale, nel presente e soprattutto in prospettiva, usando in modo appropriato il surplus che ne deriva.
Ne scaturiscono due opposte valutazioni del lavoro, che per De Masi è un fardello dal quale possiamo liberarci senza troppi rimpianti, anzi con prospettive sicuramente allettanti per il futuro dell’umanità, che ci ricollegano ai momenti più felici della sua storia, come quello dell’antica Grecia appunto, mentre per i fautori della valorizzazione dell’innovazione human driven si tratta di un processo che, a patto di sapersi trasformare in modo da fornire una gestione efficace della maggiore complessità e di trarne positivamente le enormi potenzialità, non va considerato un semplice fattore di costo, da ridurre al minimo, ma diventa al contrario una risorsa trainante, che accresce non solo la quantità, ma soprattutto la qualità delle prestazioni richieste, innalzando il livello dell’intelligenza umana, individuale e collettiva. Il lavoro come valore, quindi, che nel futuro, prossimo e remoto, se ben indirizzato potrà rendere le persone sempre più capaci non solo di rispondere in modo flessibile alle domande e alle sfide che si presentano loro di volta in volta, ma anche di immaginare e identificare nuove soluzioni, di elaborare progetti innovativi, di alimentare significati e relazioni coinvolgenti, di organizzare esperienze emotivamente ricche, di creare identità partecipate e comunità di senso corrispondenti. Il lavoro, dunque, come strumento per creare valore, esplorando livelli di complessità (varietà, variabilità, interdipendenza, indeterminazione) sempre maggiori.
Ciascuno è libero, ovviamente, di optare per l’una o l’altra soluzione. Ci sono però una constatazione e una domanda, quella che appunto affiorava dal citato intervento di Antonio Dessì, che è impossibile evitare di porsi. Un futuro come quello prospettato da De Masi presuppone una rivoluzione che non è solo economica e sociologica, ma antropologica. La domanda che ne consegue è la seguente: l’uomo è predisposto per una vita puramente contemplativa, fatta di ozio creativo e null’altro? Che nel passato si sia effettivamente data una condizione di questo genere è opinabile (l’interpretazione della vita dell’antica Atene, interamente concentrata nell’agorà, il luogo delle adunanze, il centro politico, religioso, amministrativo e commerciale della città, in cui tutti gli uomini liberi si ritrovavano per prendere decisioni politiche importanti e concludere affari, e totalmente assorbita da essa, è suggestiva ma controversa e messa fortemente in discussione). Il problema però è un altro: le neuroscienze ci stanno dicendo, in maniera difficilmente contestabile, che il motore principale del nostro cervello, ciò che è alla base del suo mirabile funzionamento, non è costituito dalla percezione, come si credeva fino a poco tempo fa, né dal semplice movimento, ma dall’azione, caratterizzata dalla presenza di un progetto e di uno scopo. I processi cerebrali non appaiono, pertanto, semplici artefici di sensazioni e controllori di movimenti: alla base della loro organizzazione funzionale c’è la nozione teleologica di scopo.
Questi risultati hanno condotto a una riformulazione della risposta alla domanda: «a cosa serve il sistema motorio?» Per molti anni la risposta è stata: per produrre movimenti. Oggi sappiamo che questa risposta è errata, o quantomeno parziale. Il sistema motorio non produce solo movimenti ma atti motori e azioni, cioè movimenti dotati di uno scopo, come afferrare un oggetto, o sequenze di movimenti atte a conseguire uno scopo più distale, come afferrare un bicchiere e portarlo alla bocca per bere. Un movimento è una semplice dislocazione di parti corporee, come flettere o estendere le dita di una mano. Un atto motorio consiste invece nell’utilizzare quegli stessi movimenti per conseguire uno scopo motorio, per esempio afferrare un oggetto, manipolarlo, romperlo, posizionarlo, tenerlo ecc.
L’uomo, dunque, sembra fatto per progettare e agire. Quale sarà allora il suo destino se lo si costringe esclusivamente a contemplare e a oziare? Non c’è il rischio che l’ozio prolungato e forzato, anziché sfociare in opere creative e formative edificanti, conduca ad agitazioni insensate, che proprio perché non più progettate e indirizzate verso uno scopo, non più controllate razionalmente e frutto invece della prevalenza del puro istinto e delle passioni, rischiano di avere conseguenze opposte rispetto a quelle desiderabili che ci vengono prospettate? Questo sì è già successo e continua purtroppo a succedere nella storia dell’umanità. E non è davvero desiderabile.
—————————-

DIRITTI nuove schiavitù nel mondo del lavoro

amazon7amazon-2
di Giannino Piana su Rocca

Lo sciopero dei lavoratori di Amazon, che si è verificato alla filiale di Castel San Giovanni, vicino a Piacenza, lo scorso 24 novembre, il giorno di Black Friday simbolo degli affari, ha messo a nudo l’avanzare anche nel nostro Paese di una situazione che, concernendo un settore dell’attività commerciale destinato costantemente ad espandersi, non può che suscitare giustificato allarme. Le ragioni dello sciopero nei confronti del colosso di Seattle non sono soltanto rivendicazioni di carattere economico, ma chiamano anche (e soprattutto) in causa la richiesta di tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori. L’aspetto peggiore della situazione è infatti costituito dalle condizioni di lavoro, che sembrano rappresentare un ritorno agli anni cinquanta del secolo scorso.

torna la catena di montaggio?
Ma, entrando più direttamente nel merito della questione, è importante prendere anzitutto in considerazione alcuni dati, che forniscono un quadro puntuale di quanto è avvenuto e sta avvenendo. La filiale della Amazon di Castel San Giovanni è una grande azienda, che conta attualmente circa quattromila lavoratori, metà a tempo indeterminato col badge blu e l’altra metà interinali, cioè precari. Si tratta di un’azienda in costante crescita del fatturato, con straordinari balzi in avanti – in cinque anni l’aumento è stato del 500% – che pratica a livello salariale condizioni anacronistiche, applicando soltanto il contratto nazionale senza un contratto di secondo livello e senza l’assegnazione del premio di produzione.
Al di là del trattamento economico, non in linea con i parametri oggi vigenti, a destare particolare preoccupazione sono soprattutto le modalità di esecuzione del lavoro, il cui ritmo si presenta ripetitivo e pesante. Lavorare in Amazon è una corsa quotidiana contro il tempo: l’attività lavorativa, che consiste essenzialmente nell’imballare gli articoli in vendita, nel sistemarli e nel prelevarli dagli scaffali del magazzino per inviarli ai clienti con una maratona quotidiana anche di venti chilometri, prevede che ogni dipendente segua un target, la cui media produttiva è stabilita sulla base del personale con maggiore anzianità di servizio. A ciò si aggiunge l’abolizione della pausa per il caffè e la fissazione di tempi contati per andare in mensa e in bagno: fattori questi ultimi che aggravano ulteriormente il disagio.
Si tratta, in definitiva, di una condizione psicologicamente stressante e fisicamente logorante – frequenti sono tra i lavoratori le patologie della schiena e della colonna cerebrale – la quale presenta somiglianze indubbie con la vecchia catena di montaggio, con un apparato tuttavia assai più sofisticato che consente un controllo immediato della rendita produttiva di ciascun lavoratore. Esiste infatti un sistema elettronico che permette di registrare, di volta in volta, ciò che si verifica, mettendo in grado il manager di conoscere quanto ciascuno produce e in quanto tempo, con la possibilità perciò di penalizzare chi non riesce a tenere il ritmo previsto.

la deriva dei diritti
Il caso Amazon non è, d’altra parte, unico. Si moltiplicano anche nel nostro Paese situazioni analoghe di società di distribuzione di prodotti on line (e non solo), dove i trattamenti stile anni cinquanta del secolo scorso, con turni di lavoro massacran- ti, con mansioni ripetitive e un clima pesante, nonché con condizioni salariali tutt’altro che ottimali, sono all’ordine del giorno. La crisi economica tuttora non superata, che ha provocato un forte incremento della disoccupazione e dell’inoccupazione giovanile con livelli assolutamente patologici, favorisce il perpetuarsi di questa condizione: sono molti i giovani e gli stranieri – questi ultimi sempre più numerosi grazie all’avanzare del fenomeno migratorio – che accettano passivamente questo status, pur di non perdere il posto, indebolendo in tal modo (e talora persino vanificando) la funzione del sindacato.
A farne le spese è dunque la questione dei diritti, che vengono tranquillamente conculcati da aziende multinazionali, che concentrano nelle proprie mani una parte consistente dell’attività commerciale (e lo fa- ranno sempre più nei prossimi anni) – vi è chi ha previsto la fine entro dieci anni dei centri commerciali e dei supermercati – e che, grazie alla loro trasversalità geografi- ca riescono ad evadere con facilità il fisco – è il caso della Amazon che ha tuttora un contenzioso per evasione dal 2009 al 2015 con l’Agenzia delle entrate italiana di circa 110 milioni di euro – violando, in questo caso, i diritti dell’intera popolazione.

quali possibili rimedi?
Di fronte a questo pesante stato di cose, che ha introdotto anche nei paesi sviluppati dell’Occidente, forme di schiavitù che si ri- tenevano del tutto superate, la denuncia, per quanto importante, non basta. Diviene necessaria un’ampia riflessione sul modello di civiltà che si è venuti costruendo, sui parametri in base ai quali si sono verificate (e tuttora si verificano) le scelte sia in campo economico che politico. Le previsioni sul futuro, infatti, se si lasciano le cose come sono, risultano tutt’altro che ottimistiche. Mentre l’economia finanziaria ha tuttora il primato su quella produttiva, accrescendo in modo esponenziale le diseguaglianze, si assiste nel mondo del lavoro all’introduzione di macchine autonome nello svolgimento predittivo delle loro funzioni che, oltre a sottrarre all’uomo larghi spazi lavorativi con il rischio di un livello sempre più alto di disoccupazione, sono in grado di espropriarne anche l’intelligenza.
La rimessa al centro del lavoro, o meglio – come indicava la Laborem exercens di Giovanni Paolo II – dell’uomo lavoratore, con la sua dignità e i suoi diritti inalienabili, suppone anzitutto un’inversione di rotta nell’ambito del mondo economico, con la creazione di un sistema che si proponga come obiettivi fondamentali il rispetto dell’ambiente, l’uso parsimonioso delle risorse e l’equa distribuzione dei beni prodotti, con la preoccupazione pertanto non solo di quanto si produce, ma di che cosa, per chi e come lo si produce. Ma esige anche la restituzione del primato (che è anche frutto di riacquisita autorevolezza morale) alla politica, alla quale compete il ruolo di elaborazione degli indirizzi e delle regole, che devono guidare i processi collettivi (quello economico in primis) contribuendo alla realizzazione di una ordinata convivenza civile.
Tutto questo senza dimenticare l’importanza del ruolo della cultura, alla quale è richiesto, da un lato, di promuovere con urgenza nuove modalità di rapporto tra la- voro e conoscenza – solo in questo modo è possibile combattere l’alienazione derivante dal tipo di sapere inglobato in larga misura dalla macchina –; e, dall’altro, di rimodulare – come suggerisce Remo Bodei (Macchine per moltiplicare i desideri, Il Sole 24 ore, 10 settembre 2017, p. 27) – il desiderio umano, proiettandolo verso beni – quelli relazionali in primo luogo – che hanno a che fare con un’autentica umanizzazione e limitandone l’espansione, facendo cioè seriamente i conti con l’effettiva possibilità di crescita dell’intera famiglia umana e attribuendo un’importanza privilegiata alla qualità della vita.

Giannino Piana

———————-
rocca-02-2018
—————————-
Fabbriche e Grandi Magazzini
MACCHINE PER MOLTIPLICARE I DESIDERI
I dilemmi tra lavoro e spinte al consumo della rivoluzione industriale alla robotizzazione dei nostri giorni.
di Remo Bodei
La civiltà delle macchine, con il conseguente avvento della civiltà industriale, ha radicalmente modificato non solo la struttura dei nostri desideri e della nostra vita, ma anche la natura del consumo e, ovviamente, del lavoro. In tutte le culture umane e per millenni il desiderio è stato, infatti, frenato o inibito dalla scarsità delle risorse disponibili. Nella Regola Celeste Lao-Tse diceva: “Non c’è colpa maggiore / che indulgere alle voglie! Non c’è male maggiore / Che quel di non sapersi contentare. / Non c’è danno maggiore / Che nutrire bramosia d’acquisto”. Nella nostra tradizione occidentale sono stati soprattutto gli Stoici, in forme meno radicali dei Cinici, a invitare alla rinuncia ai desideri di possesso. Cleante ha così potuto affermare: ‹‹Se vuoi essere ricco, sii povero di desideri››, seguito da Seneca nel ripetere che: ‹‹è povero non chi possiede poco, ma chi brama avere di più››. La tecnica messa in atto per combattere la pleonexia, il desiderio insaziabile di avere sempre di più, consisteva nell’abbassare la soglia delle pretese degli individui piuttosto che alzare quella delle loro attese.
Alla base di tutte queste prescrizioni cautelative vi è non solo la consapevolezza che i desideri umani, abbandonati a se stessi, sono inesauribili, ma anche la constatazione che il desiderio è in sé, per definizione, una passione legata al futuro e segnata, di conseguenza, dall’incertezza sul conseguimento dei suoi obiettivi. Per questo motivo, seppure per finalità differenti, già nel mondo antico, pagani e cristiani avevano cercato di mettere argini all’insaziabilità dei desideri proponendo, rispettivamente, la saggezza in questa vita e l’attesa della beatitudine nell’altra. L’età moderna si caratterizza invece per la caduta di tale divieto e, spesso, per l’esplicito riconoscimento della legittimità di soddisfare i desideri nella vita terrena.
Sono, soprattutto, le macchine a provocare questa mutazione antropologica. Già con Galilei – allorché la meccanica passa da pratica disprezzata a scienza, adornandosi dell’aggettivo “razionale” -, la costruzione di macchine esattamente programmabili rende i suoi prodotti a buon mercato rispetto a quelli prima ottenuti dal lavoro servile artigianale. Nel corso della rivoluzione industriale, l’accentuata divisione del lavoro grazie alle macchine, tuttavia innesca una grave crisi. Infatti, come dimostrerà nel 1817 l’economista svizzero Sismondi, l’allargamento della forbice tra sovrapproduzione e sottoconsumo – nel senso che la industriale produce troppo rispetto alle possibilità di acquisto da parte della maggior parte dei possibili consumatori – provoca la disoccupazione di massa e la conseguente distruzione delle macchine da parte dei luddisti inglesi che davano loro la colpa della perdita di lavoro.
Una soluzione che tamponerà a lungo questa crisi verrà trovata da alcuni altri economisti francesi negli anni Quaranta dell’Ottocento grazie alla proposta di aumentare i consumi per far fronte all’enorme produttività di macchine sempre più efficienti. Dalle loro teorie, ben presto messe in pratica, discende sia la nascita dei grandi magazzini, sia la parallela, vertiginosa crescita della pubblicità, tesa a orientare e far crescere i consumi. Il primo grande magazzino al mondo è l’Au Bon Marché, aperto nel 1852 da Aristide Boucicault, che esiste ancora a Parigi. Diverse le novità qui introdotte. In primo luogo, vi si stabiliscono prezzi fissi, cosa non ovvia (anche in Europa si procedeva allora a mercanteggiare come ancora oggi nei suk arabi). L’acquisto di enormi stock di merci portava, in secondo luogo, all’abbassamento del prezzo unitario dei prodotti. Veniva poi, concessa la possibilità di restituire la merce che non piaceva e si accettavano, infine, acquisti rateizzati. Si aprì così la strada alla “democratizzazione del lusso” e all’attrazione fatale per le merci. Lo avrebbe mostrato ben presto, nel 1883. Émile Zola nel romanzo Au bonheur des dames, dove si descrive l’espandersi dei supermercati a detrimento del piccolo commercio.
Un altro momento simbolicamente importante è costituito dalla scoperta delle vetrine, nel 1902, da parte di un certo Foucault (che non è né quello del pendolo, né il filosofo, ma un bravo artigiano). Prima era impossibile fabbricare grandi superfici di vetro senza che si rompessero per gli sbalzi di temperatura.
Rispetto al grande magazzino, in cui per essere indotti a comprare occorre prima entrarvi, la vetrina attira e seduce già dalla strada esibendo, si potrebbe dire, il trasparente oggetto del desiderio. Nuovi strumenti (il carrello negli anni Trenta del secolo scorso, la carta di credito nel 1949 da parte di Frank X. McNamara, fondatore del Diners Club) incrementano ulteriormente le brame acquisitive.
I discorsi moralistici sul consumismo, sulla “abbondanza frugale”, possono avere una loro intrinseca giustificazione solo se non si dimentica che il consumo è legato alla produzione, che nel nostro attuale sistema economico, se non si consuma, non si produce, e, se non si produce, ne risulta la catastrofe di questa società. Il consumismo ha, infatti, finora salvato la società industriale, ma mostra oramai la sua inadeguatezza perché non è in grado di soddisfare le esigenze di una popolazione mondiale in continua crescita in società che continuano a sprecare risorse non rinnovabili.
È in corso un’altra mutazione che trasformerà, assieme alla dinamica dei nostri desideri e dei nostri stili di vita, anche il lavoro come fino a pochi decenni fa lo abbiamo concepito. A differenza dell’artigianato, in cui conoscenza e lavoro convergono nell’apprendimento e nella pratica di un mestiere, il tipo di sapere che s’impone nell’epoca del fordismo-taylorismo, impersonato dalla catena di montaggio, quello inglobato nella macchina, che richiede al lavoratore l’esecuzione di pochi, semplici e ripetitivi movimenti fisici e si concentra invece in un numero ristretto di addetti negli alti livelli della progettazione e del management.
Si è, quindi avvertita l’urgenza di riunire nuovamente lavoro e conoscenza. Oggi è, tuttavia, facile accorgersi del fatto che il trionfale affermarsi delle tecnologie informatiche, della robotica e dell’intelligenza artificiale rischia, almeno per una fase di transizione di indefinibile durata, di portati a una situazione analoga a quella della prima industrializzazione.
Si ridurrà cioè inesorabilmente il numero degli occupati, sostituiti da macchine non più assistite dall’uomo in processi che espropriano solo il corpo del lavoratore (come, appunto, accade nella catena di montaggio), ma macchine autonome nello svolgimento predittivo delle loro funzioni e capaci di espropriarne anche l’intelligenza. La sostituzione di posti di lavoro umano sarà accentuata dalla nuova generazione di robot dotati di maggiore destrezza fisica, di riconoscimento visivo tridimensionale e, presto, della capacità di collegarsi a “potenti hub computazionali centralizzati”, ossia al cloud da cui attingeranno sia una messe di dati dalle risorse della rete, sia l’aggiornamento continuo del loro software.
Ecco alcuni esempi: l’automazione nella raccolta del cotone o del grano è negli Stati Uniti ormai quasi completa; la preparazione del cibo nelle catene di fast food sta anch’essa cancellando un gran numero di occupati, grazie a una macchina che “riesce a preparare circa 360 hamburgers all’ora, tosta anche il pane e affetta gli ingredienti freschi come i pomodori, le cipolle e i cetrioli sott’aceto, inserendoli nel panino una volta ricevuto l’ordine”, la raccolta delle arance sta per essere compiuta da robot a forma di polipo in grado di riconoscere, localizzare i frutti e coglierli con i loro otto tentacoli.
Se il lavoro umano non manterrà un margine insostituibile di intelligenza e di creatività rispetto all’automazione e se la società non sarà capace di auto-sovvertirsi per far fronte alle nuove tecnologie, le conseguenze saranno molteplici e, certo, non piacevoli. In primo luogo, come aveva già immaginato nel 1949, Norbert Wiener, il padre della cibernetica, a causa dell’avvento di una “rivoluzione industriale di una crudeltà assoluta”, vi saranno macchine capaci di “ridurre il valore economico del comune operaio al punto che non varrà più la pena di assumerlo. A qualunque prezzo”. In secondo luogo, la disoccupazione e la sottocupazione ridurranno drasticamente i consumi, di modo che il consumismo, che ha salvato la rivoluzione industriale, non sarà più utilizzabile. In terzo e ultimo luogo, in che modo gestiremo e organizzeremo i nostri desideri e la nostra vita nella prospettiva dell’enorme quantità di tempo lasciato libero dal lavoro delle macchine?
Remo Bodei dal Sole 24 Ore DOMENICA – 10 Settembre 2017
——————————————————————-
- La foto della manifestazione sindacale è tratta da Piacenza 24.