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Oggi giovedì 21 novembre 2024

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Il mondo devastato dalle guerre sta dimenticando l’emergenza climatica
21 Novembre 2024

Alfiero Grandi su Democraziaoggi.
Sergio Mattarella in Cina non ha fatto discorsi di circostanza, sono l’indicazione di una via d’uscita dall’avvitamento del pianeta in una spirale di guerra (56 quelle in corso) e dalla logica che trasforma l’avversario in nemico. Comprendere che si è in una via senza uscita, molto pericolosa, con sullo sfondo il rischio dell’olocausto nucleare impone […]
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img_9605Giovedì 21 incontro sull’Europa democratica secondo il Manifesto di Ventotene
Novembre 2024 su Democraziaoggi
Giovedì 21 ore 16-19 Aula magna Baffi di Scienze politiche via S. Ignazio n. 73, incontro-dibattito sull’Europa democratica secondo il Manifesto di Ventotene.
Presiede Luisa Sassu – ANPI Cagliari
Introduce Susanna Florio – ANPI Nazionale
Intervengono
Luca Pantaleo, Carlo Dore jr., Francesca Pubusa – Univ. Cagliari
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Stiamo per cominciare!

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Oggi, martedì 19 novembre, alle 17:30, presso la Fondazione di Sardegna in Via San Salvatore da Horta 2 a Cagliari, verrà presentato il romanzo di Gianni Ibba “L’ORDITO E LA TRAMA – Due esuli sardi nell’Europa di Napoleone” (AIPSA edizioni, 18 €). Interverranno lo scrittore Gianni Loy, il giornalista Franco Meloni, l’editore Annamaria Baldussi, con l’inedita irruzione della New Old Jazz Band.
img_9703La trama del romanzo è semplice: due personaggi immaginari, entrambi giovani, il medico Emilio Asproni di Bono e l’avvocato nuorese Lorenzo Sulis, di idee libertarie e per questo perseguitati dal reazionario e sanguinoso regime sabaudo, lasciano la Sardegna, partendo da Cagliari, per la Francia napoleonica, nella quale credono si realizzino gli ideali rivoluzionari. Contano di incontrare Giovanni Maria Angioy, esule a Parigi, nella convinzione che si riproponga un movimento per cacciare i Savoia e instaurare in Sardegna una Repubblica indipendente sotto la protezione della Francia.
Da qui la narrazione di una serie di avvenimenti che si dispiegano, anche nell’incontro di grandi figure storiche politiche ed artistiche dell’Ottocento europeo. Ma i protagonisti sono sempre i due giovani sardi, che singolarmente o insieme, si spostano dalla Francia all’Inghilterra, alla Russia… spingendosi fino al Canada, per ritrovarsi infine in Inghilterra. Essi vivono i drammi della guerra, della morte, della malattia, di tradimenti e di tante altre sofferenze, così come le gioie dell’amicizia e della fratellanza senza frontiere, dell’amore carnale e spirituale, dell’amore filiale, della paternità propria e altrui, del buon cibo e del buon bere, della poesia e dell’arte, della musica colta e popolare, delle speranze di avere avuto un ruolo nel costruire un mondo migliore… tutto con “eroica normalità”.
Non sveliamo oltre: vale la pena leggere questa romanzo storico dell’esordiente Gianni Ibba, che si presterebbe agevolmente a una avvincente riduzione cinematografica. Glielo auguriamo! [fm]
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Oggi martedì 19 novembre 2024

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Il campo largo vince alle regionali. E l’astensione?
18 Novembre 2024
Andrea Pubusa su Democraziaoggi
Buone notizie dall’Emilia Romagna e dall’Umbria. Vince il centro sinistra contro la destra. Grave tuttavia l’enorme massa di astenuti. Si pensi che in queste regioni fino a non molti anni fa l’affluenza alle urne era alta, molto alta, addirittura fino all’80%. Forse questo dato è la chiave di lettura del senso politica di questa […]
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Assurdo autorizzare Zelensky all’uso di missili di lunga gittata
19 Novembre 2024
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
Dunque, Biden dà un colpo di coda in Europa. Accorda a Zelensky la facoltà di usare missili di lunga gittata contro la Russia. Gli USA nel 1962, con Kennedy, posero un diktat all’URSS di Kruscev: no all’installazione di missili a Cuba, troppo vicina al territorio degli States. Sappiamo come andò a finire. Krusciov fece marcia […]
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Davide Carta in Consiglio comunale: Cagliari città della Pace e del dialogo nel Mediterraneo

Segnalo l’intervento del Consigliere Davide Carta, svolto in Consiglio Comunale nel dibattito seguito alla presentazione delle dichiarazioni programmatiche del Sindaco Zedda per la nuova Consiliatura (Giancarlo Morgante).

Davide fa un discorso di ampio respiro teso alla costruzione di una comunità più inclusiva e coesa, a partire dalla cultura, avendo come punto di riferimento il Mediterraneo, il dialogo con le città e i paesi che si affacciano su di esso “Cagliari città della pace”.
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38264076-10ce-4668-a69d-5bcb94e00a98Qualche anno fa sono stato con la Caritas diocesana in Terra Santa. Durante la navigazione (con tutto il gruppo di pellegrini) nel lago di Tiberiade è stato ricordato un discorso dello storico Sindaco di Firenze “Giorgio La Pira”.
“Mediterraneo come il lago di Tiberiade”, il nuovo universo delle nazioni.
Traduzione concreta del messaggio evangelico di giustizia sociale e amore verso gli ultimi.
img_9565La Pira aveva una visione politica: “Il pilotaggio della speranza” sua questa espressione. È stato un profeta del dialogo, della speranza e della pace (mai come in questi ultimi tempi così tanto invocata).
Alla logica del conflitto, La Pira opponeva la supremazia del dialogo, cercato con tutte le forze nei Paesi dell’Europa dell’Est, in Asia, in America Latina e in Africa.
Amava ripetere “Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci” (Isaia).
Si proponeva di arrivare al disarmo generale trasformando le «armi distruttive in strumenti edificatori della pace e della civiltà». Secondo la sua visione escatologica, tutta la storia convergerà verso «il porto finale» la pace.
Per raggiungerla, La Pira aveva incontrato capi di Stato di parecchie Nazioni.
In uno di questi incontri, conia una delle sue espressioni più note: «Abbattere i muri e costruire i ponti».
Abbattere il muro della diffidenza tra i popoli e costruire ponti di dialogo tra le genti. Unire e non dividere.
Diceva “il Mediterraneo è il lago di Tiberiade del nuovo universo delle nazioni”. Il Mediterraneo, culla delle civiltà monoteiste che chiamava «la triplice famiglia di Abramo». Il futuro del Mediterraneo è quello di riprendersi il suo posto (dialogo, pace, fratellanza tra i popoli che ivi si affacciano), in un mondo sempre più minacciato da guerre e distruzione.
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Per concludere, riprendendo l’intervento di Davide Carta, “un dialogo con città e paesi che si affacciano sul Mediterraneo e che domani potranno diventare opportunità anche di cooperazione economica e di crescita, consapevoli che lo sviluppo è il nuovo nome della Pace”.
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img_9316Di Davide Carta.

LA COSA SEMBRAVA IMPOSSIBILE E QUINDI LA FECERO
La politica deve avere l’ambizione di realizzare i sogni dei cittadini e la loro felicità, partendo dalla comunità, nella quale ci sono i bisogni, le risposte e le energie.
Questa la chiusura del mio intervento in aula sulle dichiarazioni programmatiche del sindaco Zedda. [...]

Cosa succede?

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Carissimi,
molto è stato detto sull’elezione di Trump alla Casa Bianca, non insisteremo perciò qui sulle diagnosi, più o meno allarmate, su quanto potrà accadere soprattutto a Gaza, dato lo stretto rapporto della famiglia Trump con anna-foaIsraele e Netanyahu: c’è il rischio di un incentivo al suicidio di Israele, come lo chiama Anna Foa, e di una sua ricaduta sul popolo ebraico della diaspora, come fanno presagire le violenze scatenatesi ad Amsterdam tra olandesi e tifosi ultras israeliani; né si può non essere atterriti al preannuncio trumpiano della deportazione di milioni di immigrati dagli Stati Uniti.
Quello che invece vorremmo qui rilevare è che la vittoria di Trump ha sdoganato una crudeltà che prima era nascosta. L’abbiamo vista con sgomento nei volti di alcuni partecipanti a uno dei consueti talk show televisivi, un professore, un imprenditore, una parlamentare di governo, sia che si parlasse di Gaza sia che si discutesse della “deterrenza” con cui il governo vuol dissuadere i migranti dal venire in Italia suscitando in loro il terrore di finire in Albania e di qui essere rispediti là da dove, per tremende ragioni, sono fuggiti.
Sui volti di questi interlocutori televisivi abbiamo visto i tratti di una singolare durezza nell’imperativo della “difesa dei confini”, e più ancora abbiamo visto addirittura un sorriso beffardo di fronte alle immagini degli uccisi, degli scacciati, degli affamati e dei disperati di Gaza con l’alibi di dire che nulla vi fosse di vero.
Ci siamo ricordati allora della invocazione di Italo Mancini il cui auspicio, per uscire dai tormenti di questa nostra modernità, era che “tornino i volti”, cioè che si torni a rapportarsi con l’infinito valore e l’unicità di ogni persona, i volti, “questi inauditi centri di alterità che sono i volti, volti da guardare, da rispettare, da accarezzare”: ma oggi sono i volti di Gaza, i volti nascosti dalla fitta selva di mani alzate per cercare di strappare un frammento di cibo o una ciotola di minestra sfuggiti al blocco degli aiuti impediti dall’assedio per fame.
E abbiamo pensato a quello che oggi l’Occidente non vuole vedere dei tormenti che esso stesso ha inflitto e infligge a popoli interi, a milioni di volti, per quella falsa coscienza che esalta la violenza travestita da democrazia e da Stato di diritto come difesa della nostra identità e dei “nostri” valori. È quello che dice Roberta De Monticelli denunciando la “catastrofe intellettuale e morale” in cui si è trasformato il dibattito pubblico sull’eccidio di Gaza, su questa “umanità violata”, come recita il titolo del suo libro dedicato alla “Palestina e l’inferno della ragione”. È il libro che mancava sulla guerra in corso nel Vicino Oriente, della quale sono piene le cronache, mentre non viene scandagliata la sua ragione profonda, la filosofia che la interpreta, la fenomenologia che la spiega: la Palestina come un “nodo del pensiero”. Un libro che perciò non si può fare a meno di leggere perché, se nulla possiamo fare per lenire la sofferenza anche di un solo volto a Gaza o a Nablus, almeno abbiamo il dovere di capire e sapere, per immaginare, sperare e promuovere un altro futuro per Israele, i palestinesi, e anche per noi. Quel futuro che oggi, come spiega la De Monticelli, è oggetto di rimozione, perché come riconosceva un autorevole articolo a più voci pubblicato su Foreign Affairs, c’è un “innegabile” che è anche “indicibile”: l’innegabile è che “una soluzione a uno Stato non è una futura possibilità, esiste già un unico Stato tra il Mediterraneo e il Giordano”, ciò che per Israele è irreversibile benché l’annessione non sia stata dichiarata, e si risolve in un regime di apartheid; ma questo innegabile è “indicibile” perché fingendo che sia ancora in corso il processo per la soluzione a due Stati si può ancora mascherare la contraddizione tra l’ebraicità e la democraticità dello Stato di Israele, come è stato finora concepito.
La soluzione è perciò che la realtà innegabile e indicibile sia resa visibile, presa in carico e trasformata attraverso un processo di riconciliazione fino a fare di Israele uno Stato binazionale, con due tradizioni, due culture, due popoli con pieni e identici diritti. Solo allora la crudeltà sarà sconfitta, e torneranno i volti da amare.
Sulla elezione di Trump e il deperimento della democrazia di cui è segno, pubblichiamo, da Other News, un articolo di Gabriele Crocco; sui progetti di trasformazione di Gaza, tolti i palestinesi, in un paradiso di coloni e di ricchi, pubblichiamo un allarmato articolo dell’Osservatore Romano, e sugli scontri di Amsterdam un’informazione di RaiNews
La lettera ai nostri fratelli ebrei della diaspora non è stata ancora inoltrata, anche se uno se ne è già adontato. Vi terremo informati dello sviluppo dell’iniziativa a cui si sono associati finora 300 mittenti.
Con i più cordiali saluti,

Raniero La Valle

Chiesa di Tutti Chiesa dei Poveri
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LETTERA AI NOSTRI CONTEMPORANEI DEL POPOLO EBRAICO DELLA
DIASPORA

Carissimi Ebrei della Diaspora,

Anticipazioni. In libreria L’ordito e la trama, romanzo d’esordio di Gianni Ibba

lordito-e-la-trama-gibba-1Anticipazioni. In libreria “L’ordito e la trama – due esuli sardi nell’Europa di Napoleone”, romanzo d’esordio di Gianni Ibba, Aipsa Editore. Martedì 19 novembre, ore 17.30, alla Fondazione di Sardegna (Via San Salvatore da Horta 2), la prima presentazione a Cagliari.

Oggi domenica 27 ottobre 2024

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La difficile capacità di comprendere il testo: Rapporto dell’Ecri per l’Italia adottato dalla Commissione indipendente del Consiglio d’Europa in materia di diritti umani (2 luglio 2024)
27 Ottobre 2024
Rosamaria Maggio su Democraziaoggi.
Il rapporto del luglio 2024, commentato dalla stampa ma anche dal Governo e dalla Presidenza della Repubblica, attira l’attenzione e la curiosità.
Possibile che il Consiglio d’Europa con una sua Commissione faccia un attacco all’Italia così maldestro?
L’ultimo rapporto è del 2016 e quindi era da tanto che la Commissione non si esprimeva su questo […]
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Lettera agli Ebrei della Diaspora

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Gentili Amici,
approfitto della consueta disponibilità della Vs pubblicazione, che già ci tiene in comunicazione, per mettervi a parte di una iniziativa che riguarda la tragedia in atto in Palestina e nel Vicino Oriente. Si tratta di una lettera che vorremmo indirizzare agli Ebrei della Diaspora. Siamo tutti sgomenti nel vedere il livello estremo cui è giunta la distruzione della popolazione e del territorio di Gaza, nonché la caccia ai palestinesi considerati indocili o terroristi, sia in Cisgiordania che in Libano e in Iran, con grave rischio per la stessa pace mondiale. Ma non minore è lo sgomento per la acquiescenza del mondo di fronte a questa tragedia e per la nostra impotenza a fare alcunché per mettervi fine. Sentiamo però fortemente che non ci è consentita né la rassegnazione né l’indifferenza dinanzi alla passione palestinese, né possiamo ignorare il dramma che vive la stessa popolazione di Israele, una gran parte della quale vorrebbe sottrarsi alla complicità con le politiche genocide del proprio governo, mentre lo stesso popolo ebreo della Diaspora è coinvolto in una contraddizione che lo mette a rischio nel suo rapporto con le nazioni in cui vive.
Ci sembra pertanto che questa crisi non coinvolga solo Israeliani e Palestinesi, ma tutti noi, Ebrei e non Ebrei, per l’intreccio strettissimo delle nostre storie e per i legami di fraternità e di amicizia che, soprattutto dopo l’Olocausto, siamo riusciti a ristabilire tra noi.
Il nostro coinvolgimento in questa tragedia è determinato anche dal fatto che essa non investe direttamente solo i due popoli in lotta, né è solo un evento di portata locale, ma investe tutti i popoli e gli Stati ed ha una portata di carattere mondiale. Se, non risolvendosi questo conflitto, esso lasciasse dietro di sé due
popoli irrimediabilmente nemici, la cui spinta vitale
fosse la distruzione l’uno dell’altro, così ogni altro popolo potrebbe cadere nella stessa sindrome di annientamento reciproco, in modo tale che l’unità della famiglia umana sarebbe rotta e il mondo non potrebbe sussistere.
La lettera vorrebbe promuovere un dialogo fecondo, non viziato da estremismi e preconcetti. Ve ne allego il testo, non solo per conoscenza, ma anche perché chi lo condivida e voglia firmarla associandosi ai mittenti risponda alla e-mail ranierolavalle@gmail.com, indicando nome e qualifica.
Con i più cordiali saluti,
Raniero La Valle

LETTERA AI NOSTRI CONTEMPORANEI DEL POPOLO EBRAICO DELLA DIASPORA
Carissimi Ebrei della Diaspora,
vi scriviamo per parteciparvi una duplice angoscia che cresce in noi a partire da quel 7 ottobre del 2023, quando un’efferata azione dei palestinesi di Hamas fece scempio dinun gran numero di ebrei di Israele e di molti non israeliani sui bordi della “striscia” di Gaza.
Insieme al dolore per le vittime e alla esecrazione per la brutalità dell’aggressione, la prima di tali angosce ha tratto origine dalla percezione che le conseguenze di quella azione, con tutto il male che portava con sé, sarebbero ricadute sulla intera popolazione di Gaza e sul popolo palestinese in quanto tale, ovunque situato, nei territori colonizzati della Cisgiordania come nei Paesi vicini.
L’altra angoscia è sorta, ed è cresciuta nel tempo, dalla considerazione che le conseguenze della spietata ritorsione intrapresa dagli Ebrei delle Israel Defence Forces, con tutto il male che porta con sé, ricadranno sull’intero popolo ebraico, sia privando di ogni sicurezza, ad onta di ogni possibile difesa, i cittadini dello Stato di Israele, sia mettendo a repentaglio, con risultati imprevedibili, il popolo ebraico della Diaspora in quanto tale.
A questa duplice angoscia si aggiunge quella per ciò che può accadere a causa dell’allargamento del conflitto al Libano e all’Iran, e per le conseguenze che ne possono derivare per tutto il Medio Oriente e la residua pace del mondo. Ciò che ci accomuna di fronte a questi eventi, è la nostra condizione di terzietà che ci fa trovare con voi dalla stessa parte sia al cospetto delle attuali condotte dello Stato di Israele, che sono in odore di genocidio, sia delle reazioni violente e illegittime dei suoi antagonisti, sia della responsabilità che tutti abbiamo in ordine alla “questione palestinese”.
Il nostro coinvolgimento in questa tragedia è determinato anche dal fatto che essa non investe direttamente solo i due popoli in lotta, né è solo un evento di portata locale, ma investe tutti i popoli e gli Stati ed ha una portata di carattere mondiale. Se, non risolvendosi questo conflitto, esso lasciasse dietro di sé due popoli irrimediabilmente
nemici, la cui spinta vitale fosse la distruzione l’uno dell’altro, così ogni altro popolo potrebbe cadere nella stessa sindrome di annientamento reciproco, in modo tale che l’unità della famiglia umana sarebbe rotta e il mondo non potrebbe sussistere.
Perciò, e non solo per molte altre ragioni di cui si potrebbe parlare, noi sentiamo il vostro problema come nostro, e vi scriviamo non per darvi moniti e consigli che non abbiamo l’autorità di darvi e che voi potreste non trovare alcuna ragione di accogliere, ma perché siamo convinti che insieme dobbiamo farci carico di questa sfida e insieme immaginare e cercarne la soluzione sul piano effettuale e politico. Se siamo, come si dice, a un “cambiamento d’epoca”, tutti noi contemporanei ne siamo responsabili e autori.
Un’altra ragione per farlo, senza che questo voglia dire un’interferenza in una questione che è solo vostra, è il fatto che come noi comprendiamo ed è di dominio comune, alla radice di questa terribile vicenda c’è una realtà di fatto che non è solo dello Stato di Israele, che in oltre 70 anni non è riuscito a dare soluzione al problema del rapporto sulla stessa terra con un gran numero di residenti che hanno altra origine, storia, lingua, religione e cultura, ma è anche e sempre più potrà diventare un problema anche nostro; e ciò in ragione delle correnti migratorie, regolari e irregolari, che affluiscono nei nostri Stati e che le nostre politiche sembrano non in grado di fronteggiare. La differenza sta nel fatto che mentre gli Ebrei sono gli “altri sopraggiunti a sostituire una popolazione già esistente, i nostri Stati sono la popolazione esistente a cui si aggiungono gli “altri” che arrivano sempre più numerosi, provocando in essa inevitabili cambiamenti. Se i nostri Stati affrontassero il problema del rapporto con i migranti nella prevalente preoccupazione di una “identità” e invarianza da preservare, il rischio sarebbe di vivere “la questione migratoria” con la stessa ambascia con cui lo Stato di Israele fin dall’inizio ha avvertito “la questione palestinese”. E sarebbe una catastrofe se noi volessimo difendere la “nazione” e i valori nazionali, ben oltre la chiusura delle frontiere e dei porti, in modo corrispondente alla perentorietà con cui lo Stato di Israele rivendica e tutela la propria identità nella sua Legge fondamentale. Tale Legge, adottata per iniziativa del premier Netanyahu ma con l’opposizione del Presidente di Israele Reuven Rivlin il 19 luglio 2018, com’è noto definisce Israele come “Stato Nazione del Popolo Ebraico”, la Terra di Israele (più volte identificata in Israele con la terra che si stende dal mare al Giordano) come “la patria storica del popolo ebraico in cui lo Stato di Israele si è insediato” e “Gerusalemme integra e indivisa” come la capitale – di Israele.
Si può obiettare che l’identità che rende così tipico e coeso il popolo ebraico è ben più forte e storicamente sperimentata di quella che unisce i cittadini dei nostri Stati, che sono ormai inclusi in società per larga parte multietniche e pluraliste, legittimate da
ordinamenti democratici, a differenza dello Stato di Israele in cui la citata Legge fondamentale riserva i diritti di natura politica “esclusivamente al popolo ebraico”. Ma se si rifiuta di cogliere la “differenza ebraica” nella specificità razziale, che è stata usata a fondamento della perversione dell’antisemitismo (“razziali” si chiamavano le leggi che l’hanno promosso) si deve cercare altrove il cemento di questa unità e specificità del popolo cui appartenete; e noi lo troviamo nella storia di Israele, nella sua fede, nel suo riferimento alla tradizione biblica e talmudica, (“la Legge e i Profeti”!), e nella
solidarietà nel dolore determinata dall’esperienza e dalla memoria delle persecuzioni subite.
Ma allora di nuovo si scopre quanto abbiamo in comune e come sia anche nostro il problema delle politiche e della figura attuali dello Stato di Israele.
Prima di tutto ci sembra che il riferimento alla fede e alla tradizione religiosa di Israele apra uno spazio fecondo di alterità tra voi, popolo ebraico della Diaspora, e i vostri fratelli ebrei dello Stato di Israele. Diverso infatti nei due casi ci appare questo rapporto. I cittadini anche non credenti della società israeliana, in larga parte secolarizzata (non diversamente dalle altre società dell’Occidente) vi fanno riferimento e le professano fedeltà come fondamento e garanzia dello Stato, che fin dall’origine ha scelto di stabilire in essa la propria legittimazione; infatti essa è implicitamente
riconosciuta dalla comunità internazionale che correntemente si riferisce ad Israele
come allo “Stato ebraico”. Questo però comporta una lettura del patrimonio spirituale
dell’ebraismo in termini temporali e politici, non sempre prudenti, che distorcono agli
occhi degli osservatori esterni il significato della fede ebraica e che nei momenti di crisi sono accentuati dai governanti di Israele per difendere le loro scelte e ottenere una sorta di insindacabilità delle loro politiche, mettendo in carico all’antisemitismo le
riserve e le critiche che vengono loro rivolte. Il danno di questo uso strumentale dei tesori dell’ebraismo ci è apparso ingigantito nel corso di questa crisi, per il frequente ricorso che vi ha fatto il premier Netanyahu, rivendicando una filiazione diretta delle sue scelte dai comandi di Mosè e dalle gesta di Giosuè, stabilendo una continuità di
fatto tra le azioni distruttive di oggi e gli stermini di ieri dei popoli vinti da Israele
nell’epica conquista della Terra promessa, interpretando settariamente l’effetto della
presenza di Israele sulla “mappa” del mondo in termini di benedizione e maledizione,
presentando lo Stato di Israele nella forma di un messianismo realizzato e rompendo
con la comunità delle Nazioni in una rinnovata contrapposizione tra Ebrei e “Gentili”.
Una linea di governo che si è manifestata bollando l’Organizzazione che le riunisce, l’ONU, come una “palude di antisemitismo”, non risparmiando la vita dei suoi operatori umanitari, attaccandone i militari in missione di pace, dichiarando persona
non grata il suo massimo rappresentante e sdegnando le pronunzie i moniti e le accuse
dei suoi organi istituzionali e giudiziari. Siamo particolarmente raccapricciati e appare
blasfema la pratica di uccidere i nemici uno per uno e promettere di ucciderli tutti invocando il nome di Dio, avendo in premio la luce e l’entusiastico consenso di Biden.
Vogliamo rendervi atto che molto diversa è la testimonianza dei valori dell’ebraismo e
della fede di Israele che si sprigiona dal vasto mondo degli Ebrei della Diaspora. Anche tra voi ci sono credenti e non credenti, e senza dubbio è ragione di arricchimento per tutti la presenza e l’integrazione degli Ebrei della Diaspora nelle nostre società laiche
e nella costruzione di autentiche democrazie. Ma se teniamo conto della ricca varietà
di posizioni espresse in seno all’ebraismo, vediamo come una gran parte dei sapienti
d’Israele e dell’ebraismo rabbinico ha respinto nel passato, e in notevole misura lo fa
anche oggi, una interpretazione del messianismo in senso politico e mondano, professando come riservata a Dio l’attuazione delle promesse messianiche, ha giurato
di “non forzare la fine”, si è dissociata da una versione del sionismo in un suo intreccio
perverso con lo Stato, rivendica il valore della vita ebraica “nel differimento” della
redenzione e nell’esilio, legge in modo non fondamentalista il libro sacro e ha parole
di vita riguardo a molte altre cose. Grande perciò, dal nostro punto di vista, sarebbe
l’importanza di una crescita del dialogo e del confronto tra il mondo della Diaspora e
gli Ebrei dello Stato di Israele, in vista di un cambiamento e di una rettifica degli errori
commessi (denunciati perfino dagli Stati Uniti) e anche ai fini di un contenimento e di
un antidoto al risorgente mostro dell’antisemitismo o, come è stato chiamato anche da
autorevoli Ebrei, al “suicidio di Israele”.
La seconda realtà chiamata in causa dal riferimento alla fede e alla tradizione biblica
di Israele è quella dell’Occidente, il quale non a caso è collocato, da un luogo comune
di cui molti ignorano la vera portata, nella filiazione dalla tradizione “ebraico-cristiana”.
Se questo è vero, si pone un problema molto grave per noi, al di là delle opzioni di fede
di ognuno. A questa nostra tradizione appartiene una parola di Gesù detta alla donna samaritana presso il pozzo di Giacobbe, tramandata dal Vangelo di Giovanni, che afferma: “La salvezza viene dai Giudei”. La nostra esperienza attuale e la tragedia di
Gaza insinuano che ne venga invece la perdizione e la fine. Il problema consiste nel
fatto che o lasciamo cadere come infondata e inattendibile la predizione di Gesù, ma
allora è tutto il Vangelo che cade, oppure la situazione presente viene rovesciata e
questa profezia si traduce in lieto preannunzio di un altro futuro e in un compito da
assolvere. Nella storia della cristianità per molto tempo questa seconda ipotesi è stata
scartata (“i perfidi Giudei”!) ma nel nostro tempo il rovesciamento è avvenuto, come
dimostrano la riforma della liturgia, la fede espressa nel documento “Nostra aetate”
del Concilio Vaticano II”, il dialogo ecumenico e quello ebraico-cristiano, il
riconoscimento degli Ebrei come “nostri fratelli maggiori” secondo la pronunzia di
Paolo VI, il documento di Abu Dhabi e la “Fratres omnes” di papa Francesco, così
come nel mondo laico il ravvedimento è attestato dal pentimento e dalla condanna
universale della Shoà insieme all’onore e al pregiudizio favorevole riservati agli Ebrei
contro ogni antisemitismo. A ciò si aggiunge, da parte della storiografia scientifica e
della ermeneutica cristiana una lettura non pedissequa della Bibbia (quella letterale
sarebbe secondo i teologi cattolici “un suicidio del pensiero”) che non considera
“storici” i libri “storici” dell’Antico Testamento, scritti molti secoli dopo i fatti narrati,
e perciò non attestanti fatti effettivamente avvenuti. Ciò significa liberare il popolo
ebraico dalla pretesa origine da un delitto fondatore, e addirittura da un passato di
decreti di sterminio ed eccidi di interi popoli (molti dei quali all’epoca nemmeno
esistenti) su commissione di un improbabile Dio violento, a sua volta successivamente
ucciso nel Figlio, e cancellare l’intero armamentario ideologico su cui è stata
storicamente fondata la persecuzione antisemita. Per contro un passato di delitti
fondatori e di messianismi letali lo hanno molte realizzazioni genocide e colonizzazioni
insediative dell’Occidente “civilizzatore”, come nella “scoperta” e conquista
dell’America, nell’America cosiddetta “latina”, nell’Africa non solo del Sud, in
Oceania e altrove.
Così ristabilito l’orizzonte in cui operare, si apre la possibilità di un’alleanza di tutti i
soggetti fautori di pace con gli Ebrei della Diaspora per un dialogo con l’attuale Stato
di Israele, la ricerca di una soluzione e la costruzione di un’alternativa riguardante non
solo Israele e i palestinesi ma la pace e l’unità stessa del mondo.
Sarebbe una presunzione e ancora il riflesso di una mentalità egemonica stabilire i
termini di tale soluzione, che possono scaturire solo da una ricerca comune e dalla
inventiva della storia. Si può però affermare con un sufficiente grado di certezza che
una soluzione può risiedere solo in una riconciliazione tra Israeliani e Palestinesi e non
solo venire da artifici politici e diplomatici.
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Per la costruzione di un’alternativa si deve ormai abbandonare la fuorviante soluzione a due Stati, anche ove mai fosse stata possibile e auspicabile in passato, e la finzione di negoziati in realtà ordinati a confermare e preservare la situazione qual è, come è stato sostenuto anche in un dialogo tra due culture diverse, quale il dialogo tra Ilan Pappé con Noam Chomski. Resta la soluzione a uno Stato, ma allora va costruita attraverso una riforma della figura di Stato
vigente, riforma che pertanto riguarda non solo lo Stato di Israele, nel quale l’identità etnico-religiosa spinta all’estremo ha dato luogo a un regime di dominio e di guerra, ma la stessa forma di Stato moderno, quale si è andata a fissare negli Stati esistenti, che
nel loro insieme ormai globalizzato si presentano come un coacervo di sovranità in competizione se non in lotta tra loro, che hanno eletto come ultimo (e spesso anche primo) giudice tra loro, la guerra. Lo Stato rispondente alla nuova realtà di una comunità mondiale pluralistica e multiculturale dovrà piuttosto costruirsi in una pluralità di ordinamenti giuridici interagenti tra loro, che insedino come sovrana la
pace, assicurino l’eguaglianza, riconoscano non solo come affare individuale e “privato”, ma sociale e significante per tutti, le culture le religioni e le tradizioni diverse, e aprano le frontiere e i porti alla libera circolazione non solo delle economie
e delle merci, ma delle persone e dei popoli. Si potrebbe perfino pensare che nel nuovo “villaggio globale” agli organismi che corrispondono ai tre poteri competenti nelle relazioni interne agli Stati, legislativo, esecutivo e giudiziario, possa aggiungersi un altro organo, quello della diplomazia, con poteri di consiglio e di controllo sui rapporti esterni e le scelte internazionali dello Stato, a partire dalla scelta costituzionalmente obbligante della pace, della salvaguardia del creato e della dignità delle creature. Così come si potrebbe pensare a uno sviluppo del diritto che giunga ad abrogare e sanzionare la figura del “Nemico”; e ciò non solo in Europa, quando perfino nell’Impero ottomano Ebrei e Islamici hanno vissuto insieme pacificamente per secoli, senza ombra di
antisemitismo.
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Questo volevamo dire agli Ebrei con noi conviventi, nostri vicini, concittadini, sorelle e fratelli in quest’epoca nuova.

Primi firmatari: Raniero La Valle e Comitati Dossetti per la Costituzione, Domenico
Gallo, giurista, Elena De Monticelli, filosofa, Raffaele Nogaro, vescovo cattolico,
Claudio Grassi, legislatore, Felice Scalia, gesuita, Elena Basile, ambasciatrice, Luigi
Ferrajoli, giurista, Giovanni Ricchiuti, vescovo cattolico, presidente di Pax Christi
Italia, Stefania Tuzi, storica dell’architettura, Francesco Di Matteo, avvocato,
Francesco Zanchini di Castiglionchio, canonista, Massimo Zucconi, architetto, Fulvio
De Giorgi, ordinario di filosofia, Agata Cancelliere, insegnante, Giorgio Rivolta,
docente di pedagogia, Santino Di Dio, impiegato, Raffaele Luise, giornalista, Sergio
Tanzarella, storico del cristianesimo, Vito Micunco, Comitati pugliesi per la Pace,
Nicola Colaianni, già Magistrato di Cassazione; Nicola Costantino, ex Rettore del
Politecnico di Bari; Nicola Pantaleo, già Presidente del Consiglio della Chiesa
Evangelica Battista di Bari;, Antonio Malorni, biochimico, Paolo Cento, legislatore,
Fabio Filippi, editore, Enrico Peyretti, insegnante e maestro di pace, Grazia Portoghesi
Tuzi, etnomusicologa, Francesco Comina, insegnante, Tonio Dell’Olio, presidente Pro
Civitate Christiana, Don Renato Sacco, Pax Christi, Mario Menin, direttore di
“Missione Oggi”, Paola Patuelli, insegnante, Anna Sabatini Scalmati, psicanalista,
Angelo Cifatte, funzionario pubblico, Riccardo Valeriani, assistente sociale, Luca
Robino, (Persona al centro), Don Emilio Maltagliati, già Parroco, Lina Ibba, medico, Franco Meloni, direttore Aladinpensiero, Giacomo Meloni, segretario generale della CSS, e…
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Oggi sabato 19 ottobre 2024

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Martedì 19 novembre 2024 presso la Fondazione di Sardegna via San Salvatore da Horta 2, Cagliari, presentazione del libro, romanzo storico “L’ordito e la trama – Due esuli sardi nell’Europa di Napoleone”, Aipsa Edizioni, dell’esordiente Gianni Ibba, nostro amico.
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Aladinpensiero News online, media partner.
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Il governo italiano fa ridere
19 Ottobre 2024
Andrea Pubusa su Democraziaoggi
Se non ci fosse da piangere, ci sarebbe da ridere. Il governo italiano deve difendere i suoi soldati dell’Unifil …dalle proprie armi. Meloni e Crosetto intimano a Netanyahu di non spararci mentre gli forniscono le pallottole per farlo. Poi fornisce sempre armi a Zelensky per fargli vincere la gueŕra, e cioè riconquistare il territorio perduto […]
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Importantissimo! Rapporto ASviS 2024: l’Italia è in “drammatico ritardo” su tutti gli Obiettivi dell’Agenda 2030.

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[Articolo di Flavio Natale]
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“L’alternativa a un mondo sostenibile è un mondo insostenibile. Come l’attuale”: questo l’avvertimento lanciato da Enrico Giovannini, direttore scientifico dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile, nel
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Rapporto ASviS 2024 “Coltivare ora il nostro futuro”, che come ogni anno fa il punto sull’avanzamento dei 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs) dell’Agenda 2030 a livello nazionale ed europeo, oltre a offrire un’analisi globale. Il Rapporto, frutto del lavoro di un vasto numero di esperte ed esperti provenienti da più di 320 aderenti dell’Alleanza, è stato lanciato durante l’evento di presentazione che si è tenuto il 17 ottobre presso l’Acquario Romano.

“Per chi si occupa seriamente di sviluppo sostenibile l’attuale stato del mondo non è una sorpresa”, ha aggiunto Giovannini. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha in più occasioni ribadito che l’Agenda 2030 “non è un esercizio burocratico per sognatori” e che “per troppo tempo abbiamo affrontato in modo inadeguato la questione della tutela dell’ambiente e del cambiamento climatico”. Ma nonostante gli appelli del Capo dello Stato e la firma del Patto sul Futuro, in cui i leader del mondo (inclusa l’Italia) si sono impegnati ad attuare 56 azioni da attuare nei prossimi anni per non precipitare verso crisi devastanti, l’Agenda 2030 non gode di buona salute nel nostro Paese, e i dati lo dimostrano. A questo proposito, le previsioni effettuate dall’ASviS, sulla base della metodologia Eurostat, si sono avvalse quest’anno (per la prima volta) della collaborazione della società di consulenza Prometeia, per indicatori e previsioni al 2030. Altra novità di questa edizione riguarda l’elaborazione di pillole infografiche del Rapporto, prodotte dallo studio editoriale Withub.

Sarà inoltre possibile visionare tutti i contenuti chiave del paper attraverso una pagina dedicata del sito asvis.it, con infografiche interattive, card facilmente divulgabili per raccontare i dati, possibilità di esplorare ciascun Obiettivo, e molto altro.

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Infografiche interattive, indicatori statistici, card social e molto altro:
esplora il Rapporto ASviS 2024
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L’Italia è su un sentiero di sviluppo insostenibile

Secondo il Rapporto ASviS, il nostro Paese è in “drammatico ritardo” su tutti gli Obiettivi dell’Agenda 2030. Tra il 2010 e il 2023 si riscontrano peggioramenti per cinque Goal: povertà, disuguaglianze, qualità degli ecosistemi terrestri, governance e partnership. Miglioramenti molto contenuti per sei Obiettivi: cibo, energia pulita, lavoro e crescita economica, città sostenibili, lotta al cambiamento climatico e qualità degli ecosistemi marini. Miglioramenti più consistenti per cinque Goal: salute, educazione, uguaglianza di genere, acqua e sistemi igienico-sanitari e innovazione, mentre l’unico miglioramento molto consistente interessa l’economia circolare. Guardando invece alle disuguaglianze territoriali, si evidenzia una riduzione per un solo Goal (governance), un aumento per due (educazione e acqua e servizi igienico-sanitari) e una sostanziale stabilità per i restanti dodici per cui sono disponibili dati sul territorio, in totale contraddizione con il principio chiave dell’Agenda 2030 di “non lasciare nessuno indietro”.

Se guardiamo agli obiettivi quantitativi, elaborati in base agli impegni definiti a livello europeo o dalla Strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile 2022 (SNSvS), le scelte del Paese risultano insufficienti per raggiungere i 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile. Secondo l’analisi condotta in collaborazione con Prometeia, dei 37 target da raggiungere entro il 2030 solo otto sono raggiungibili (il 21,6%), 22 non potranno essere raggiunti (il 59,5%) e per sette il risultato è incerto (il 18,9%). A conferma del ritardo del nostro Paese, i grafici contenuti nel Rapporto ASviS dimostrano che i dieci obiettivi raggiungibili per l’Ue si riducono a cinque per l’Italia. Mentre i cinque non raggiungibili a livello europeo diventano dieci per l’Italia. “Siamo di fronte a un disastro annunciato”, ha commentato Giovannini.

La situazione appare ancora più grave se si considera il divario tra le preoccupazioni della popolazione e l’azione politica: circa la metà degli italiani si sente minacciata da rischi ambientali come incendi, frane o alluvioni, solo il 21% pensa che il governo stia operando pensando alle prospettive del Paese a lungo termine, il 62% chiede al Governo una transizione ecologica più rapida e incisiva e il 93% ritiene che l’Italia debba rafforzare i propri impegni per affrontare il cambiamento climatico. I dati allarmanti e le opinioni dei cittadini dovrebbero far raccogliere attorno all’Agenda 2030 tutte le forze politiche, economiche e sociali del Paese, ma così non è: “Nonostante il sostegno della cittadinanza a queste tematiche e gli impegni assunti in sede Ue, G7 e Onu dal Governo italiano, l’attuazione dell’Agenda 2030 non appare centrale nel disegno delle politiche, visto che gli interventi adottati negli ultimi due anni non solo non sono in grado di produrre il cambio di passo necessario, ma diversi di essi sono andati in contrasto con quanto previsto dalla SNSvS 2022”.

Mancare questi obiettivi non è solo una questione di traguardi, ma significa generare effetti negativi sulla nostra popolazione: secondo gli studi raccolti nel Rapporto ASviS, nel 2023 5,7 milioni di persone si trovano in condizioni di povertà assoluta e il 22,8% della popolazione è a rischio di povertà o esclusione sociale; nel 2022, il 5% delle famiglie italiane più ricche deteneva il 46% della ricchezza netta complessiva, mentre il 50% delle famiglie più povere possedeva meno dell’8% della ricchezza netta totale; nel 2023, il 10,5% dei giovani di 18-24 anni sono usciti dal sistema di istruzione e formazione senza un diploma o una qualifica, mentre i 25-34enni che hanno completato l’istruzione terziaria sono il 30,6%, in aumento ma comunque molto al di sotto del 45% previsto dagli obiettivi concordati con l’Europa. L’Italia è inoltre al centro dell’hotspot climatico del Mediterraneo, e si riscalda a quasi il doppio della media globale. Ultimo dato: il nostro Paese si classifica in 83esima posizione su 146 Stati per la parità di genere, perdendo otto posizioni rispetto al 2023.

Cosa succede in Europa

Il Rapporto ASviS dedica anche un capitolo all’analisi delle politiche Ue e all’andamento degli indicatori europei per l’Agenda 2030, di grande rilevanza in particolare dopo la rielezione di Ursula von der Leyen alla guida della Commissione. Nei suoi orientamenti politici, in linea con il manifesto che l’ASviS aveva pubblicato alla vigilia delle elezioni europee, von der Leyen ha infatti avanzato numerose proposte per rafforzare le iniziative già avviate in materia di sostenibilità (compreso il Green Deal) e stimolarne di nuove. Inoltre, la Presidente, come aveva già fatto cinque anni fa, ha inserito nelle lettere di missione dei nuovi Commissari l’obiettivo di raggiungere gli SDGs di propria competenza, ribadendo così l’impegno complessivo dell’Unione europea per l’attuazione dell’Agenda 2030.

Ma come sta messa, in effetti, l’Ue? Dal 2010 a oggi sono stati registrati progressi per gran parte degli Obiettivi di sviluppo sostenibile, anche se appaiono insufficienti per sperare di conseguire i Target dell’Agenda 2030 entro la fine di questa decade. Sulla base dei dati pubblicati da Eurostat vediamo che, rispetto ai valori del 2010, nel 2022 si registra una crescita molto consistente solo nel caso dell’uguaglianza di genere, aumenti significativi per energia pulita, lavoro e crescita economica, e innovazione, dinamiche moderatamente positive per dieci Goal, e peggioramenti per la qualità degli ecosistemi terrestri e la partnership. I risultati dell’Italia sono complessivamente sotto la media degli Stati membri. Tra quelli che vanno molto male istruzione, lavoro, povertà e riduzione delle disuguaglianze. Mentre va molto bene l’economia circolare, fiore all’occhiello del nostro Paese.

Quattro game changer per l’Italia

Altra novità del Rapporto è l’individuazione di quattro possibili fattori di cambiamento per il futuro del Paese, uno negativo e tre positivi: la legge sull’autonomia differenziata e i fortissimi rischi ad essa associati in termini di aumento dei divari territoriali; l’impatto sulle imprese derivanti dalle nuove normative europee sulla rendicontazione di sostenibilità e il dovere di diligenza di impresa sui temi sociali e ambientali; il recepimento della direttiva europea sul ripristino della natura; la modifica della Costituzione del 2022 e la recente sentenza della Corte Costituzionale in materia di bilanciamento delle esigenze economiche con la tutela dell’ambiente e della salute. Secondo l’ASviS, dalle evoluzioni e svolte che prenderanno questi game changer potrebbe dipendere il futuro del nostro Paese.

Le proposte dell’ASviS

Infine, il Rapporto avanza come ogni anno numerose proposte per invertire la rotta del Paese, alcune di carattere trasversale, altre riguardanti questioni più settoriali, ma sempre nell’ottica integrata tipica del lavoro dell’Alleanza. L’obiettivo è quello di stimolare i soggetti pubblici, a partire da Governo e Parlamento, e quelli privati, a fare il necessario salto di qualità. In particolare, per ciò che riguarda gli interventi “di sistema”, l’Italia deve attuare con urgenza la Strategia nazionale di sviluppo sostenibile approvata dal Governo nel settembre 2023 e poi dimenticata. Inoltre, occorre:
definire il Piano d’accelerazione nazionale per il conseguimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile, assegnarne la responsabilità alla Presidenza del Consiglio, e integrarlo nei documenti di programmazione economica;
rendere operativo il Programma d’azione nazionale per la coerenza delle politiche per lo sviluppo sostenibile;
approvare la Legge sul Clima e attuare il Regolamento sul ripristino della natura, in linea con la riforma della Costituzione del 2022;
rafforzare le politiche per lo sviluppo sostenibile in una prospettiva territoriale e contrastare i rischi di aumento delle diseguaglianze territoriali derivanti dall’autonomia differenziata;
attuare la “Dichiarazione sulle Future generazioni” e rafforzare la partecipazione giovanile alla vita democratica del Paese.
Seguire queste proposte aiuterebbe dunque a “colmare il gap tra impegni e realtà”, come scrivono i presidenti ASviS Marcella Mallen e Pierluigi Stefanini nella loro introduzione al Rapporto. Ma il tempo che resta non è molto: “Non realizzare lo sviluppo sostenibile vuol dire ridurre la qualità della vita delle persone, le loro potenzialità, la loro libertà, la resilienza delle comunità locali, la tenuta dei nostri territori, la capacità del pianeta di rigenerarsi e sostenere la nostra società”, scrivono i presidenti. Mentre seguire il sentiero dello sviluppo sostenibile significa orientarci verso una società più giusta ed equa. Come sottolinea anche il titolo del Rapporto, dobbiamo “Coltivare ora il nostro futuro”, attuando adesso con urgenza azioni concrete e trasformative e prendendo sul serio gli impegni che sottoscriviamo a livello internazionale ed europeo per orientarci verso uno sviluppo pienamente sostenibile, perché “È l’unica strada possibile per costruire un futuro di speranza”.

Scarica:

- il Rapporto ASviS
- la presentazione del direttore scientifico.

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Silvano Tagliagambe: “ gli abitanti della Sardegna possono disporre di tutti i mezzi per assumere una consapevolezza ancora maggiore del ruolo che possono svolgere oggi e in futuro nell’area cruciale del Mediterraneo per contribuire a orientare in senso positivo l’avvenire”.

img_9130L’articolo-dialogo che segue si riferisce all’ultimo libro di Silvano Tagliagambe, pubblicazione articolata, fascinosa e molto rigorosa e, così sembra a me, lavoro che può essere di ulteriore stimolo nel dibattito sulla Sardegna [rp].
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Tra Mediterraneo e Sardegna il rilancio del presente
di Roberto Paracchini

-Voce. Davvero i tuoi bisbisbissavoli vivevano del tutto isolati in Sardegna?
-Autore. No, ma che dici?
-Voce. Veramente non lo dico io ma lo narrano in tanti affermando che la Sardegna, essendo un’isola, non poteva che essere isolata; ed raccontano anche che voi tutti siete figli di una Sardegna arcaica.
-Autore. Allora capovolgiamo il paradigma.
-Voce. Paradigma?
-Autore. Sì, indica una visione d’insieme quando è dominante su tutti gli aspetti di interpretazione di una determinata realtà.
-Voce. Mi vuoi forse dire che è ininfluente che la Sardegna sia circondata dal mare?
-Autore. No, anzi, il contrario. Prova a metterti sul litorale e volgi lo sguardo non al tracciato terrestre ma a quello marino. Ti sembrerà di mandare lo sguardo all’infinito, tra viaggi e scoperte e non certo di essere in un luogo isolato.
-Voce. D’accordo, ma tutti i discorsi che voi sardi fate sulla mancata continuità territoriale?
-Autore. Non confondere i problemi attuali dei trasporti con quello che il Mediterraneo è stato nei secoli per la Sardegna.
-Voce. Una parte di voi sostiene, però, che la Sardegna sia stata per decenni molto arretrata anche perché più isolata per le difficoltà dei collegamenti.
-Autore. Non esattamente. Innanzi tutto tieni presente che i dibattiti sulla storia della Sardegna sono molto ampi…
-Voce. Quindi?
-Autore. Quindi nel leggere i fatti storici dobbiamo decifrare, colmare i vuoti, cercare di mettere assieme i frammenti, analizzare e studiare con l’aiuto dell’archeologia e anche, come vedremo, della mitologia e della genetica. E questo non è affatto facile e ci vogliono ricerche e tempo, non conclusioni affrettate.
-Voce. In un libro che mi è capitato di sfogliare ho letto che nei primi decenni del Novecento il linguista Max Leopold Wagner, autore anche del primo dizionario di lingua sarda, prese come paradigma di tutta l’isola la Sardegna più arcaica e la sua lingua, il nuorese; e anche lo storico Marc Bloch sottolineò l’isolamento e l’arcaicità della Sardegna…
-Autore. Vedo che sei molto curiosa ma, scusa, tu chi sei?

La guerra infinita su: Chiesadituttichiesadeipoveri News

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Cari Amici,
riprendiamo il nostro dialogo, che ha avuto una lunga pausa per varie ragioni. Ma in questo tempo non hanno conosciuto pausa né il genocidio a Gaza, né la guerra in Ucraina, e ciò che è ancora più grave è che non se ne vede la fine, perché sia nell’uno che nell’altro conflitto una delle parti esclude di porvi termine fino a quando non abbia raggiunto il suo obiettivo o, come dice uno di loro, “finché non abbia finito il lavoro”. E l’obiettivo, o il lavoro da finire, è irraggiungibile sia per l’uno che per l’altro: per lo Stato di Israele si tratterebbe di chiudere definitivamente la questione palestinese, estirpando il popolo palestinese da tutta la terra – dal mare al Giordano – che esso considera sua, e lo sta facendo con la devastazione di Gaza programmata con gli algoritmi e guidata dall’Intelligenza Artificiale; l’Ucraina, a sua volta, insieme all’Europa e agli Stati Uniti che ne sono i mandanti, persegue l’obiettivo della sconfitta o in ogni caso dell’annichilimento della Russia. Dunque dalla crisi innescata da queste due guerre, che danzano sul ciglio di una possibile guerra nucleare e mondiale, non sembra possibile un’uscita attraverso le vie della politica e della razionalità umana. E il discorso di Netanyahu all’ONU del 27 settembre scorso ha dato il colpo di grazia non solo all’idea che possa aver termine la spietata mattanza di Gaza, ma anche che possa esserci un mondo decente nel nostro prossimo futuro. Attribuendone il movente direttamente a Mosè, e quindi a un comando divino, il primo ministro israeliano ha infatti difeso i crimini del suo governo come protesi alla “vittoria totale”. Questa consisterebbe nel dar luogo a un mondo raffigurato in due mappe che egli ha esibito all’attonita assemblea dell’ONU (dimezzata per l’assenza polemica di un gran numero di Stati non gravanti nell’orbita occidentale). Nella sua descrizione queste due mappe sono l’una di benedizione e l’altra di maledizione, la prima è quella di una metà del mondo sotto lo scettro di Israele, dall’Arabia Saudita all’Oceano Indiano, e l’altra siamo noi. Israele ha peraltro cominciato ad attuare questo disegno con l’invasione del Libano, l’assalto alle forze di interposizione dell’ONU, tra cui gli Italiani, e perciò la rottura anche militare con la comunità delle Nazioni, l’attacco all’Iran.
Netanyahu non è il primo a fare il mondo a pezzi. L’altro è il Corriere della Sera che ama celebrare le glorie dell’Occidente come quelle che lo dividono dal “resto del mondo”, “democrazie” contro “autocrazie”. Ma c’è anche il mondo teatro della “competizione strategica” indetta dagli Stati Uniti, dove la sfida sta nel mettere al tappeto la Russia e la Cina, c’è l’Europa che manda l’Ucraina a morire e ghettizza i mondi che una volta andava a scoprire, e c’è il vecchio fantasma della cortina di ferro che torna a dividere l’Est e l’Ovest.
In un mondo così frantumato sarebbe molto strano che non ci fossero guerre su guerre, infinite, pervasive e non convenzionali. Siamo ancora in grado di uscirne? Se “la casa brucia”, come ha gridato un convegno fiorentino a ciò dedicato, e la politica non è in grado di dare risposte, non se ne deve chiedere conto non solo a questo o a quel governo, a questa o a quella cultura, ma alla stessa modernità fondata sul vecchio presupposto, ben noto a Mosè, di mettere un idolo manufatto al posto di Dio? L’idolo è oggi la tecnologia grazie alla quale, come denunciò papa Giovanni nella “Pacem in terris”, siamo entrati nell’età che si gloria della potenza atomica, e che ora, con l’Intelligenza Artificiale, dà ragione a Heidegger per il quale la tecnica non ha più nulla a che fare con gli strumenti, ma “nella sua essenza è qualcosa che l’uomo di per sè non è in grado di dominare”. Messo di fronte a questo abisso, lo stesso Heidegger in una estrema riflessione consegnata alla rivista tedesca “Der Spiegel”, apriva un vertiginoso spazio alla domanda se “solo un Dio ci può salvare”. Era un’ipotesi temeraria, non “politicamente corretta”, in quanto proferita nel cuore di una modernità fondata sull’ipotesi opposta, che “Dio non ci sia e non si occupi dell’umanità”, che provocatoriamente era stata avanzata dal cristiano Ugo Grozio nell’Olanda riformata del XVII secolo per aprire la stagione dell’età adulta dell’uomo. Senonché di questa ipotesi la modernità ha fatto un assoluto e su questo presupposto ha fondato tutta la sua identità, la sua feconda laicità e il dogma del secolarismo, escludendo come dismessa e infantile l’ipotesi opposta. Ma oggi, di fronte alla guerra perpetua e alla minaccia della fine non è forse venuto il momento di rimettere in questione questo assunto, e chiederci se l’ipotesi esclusa della presenza amorevole di Dio nella storia non debba avere la stessa legittimità di quella assunta per vera?
Ciò non vuol dire invocare un miracolo, un intervento straordinario da parte di Dio, abbandonarsi a una trascendenza che non possiamo controllare, ma vuol dire sapere come in rapporto con questo Dio gli uomini possano cambiare, possano convertirsi, possano abbandonare i loro propositi di guerra di sterminio e di odio; e questo è possibile perfino se non credono in Dio e se non sanno nulla della grazia, perché come dice papa Francesco con un neologismo spagnolo, Dio “primerea”, cioè arriva col suo amore prima ancora dell’invocazione o del peccato dell’uomo.
È questo il messianismo cristiano, fondato sull’incarnazione, sullo “scambiarsi” degli uomini con Dio, sulla vocazione a farsi come lui, di cui parla san Paolo nella seconda lettera ai Corinzi. Se rimettiamo in gioco l’ipotesi esclusa, forse possiamo chiedere a noi stessi e agli altri che sono con noi in questa vita, di rimettere in discussione le loro scelte, di rimettere in discussione le loro guerre, di rimettere in discussione la loro idea del Nemico, e dar mano a costruire una società diversa, un mondo diverso, un mondo che non finisca.
Nel sito pubblichiamo l’intervento di Raniero La Valle al citato convegno di Firenze [vedasi più sotto], e un articolo dell’americano Alon Ben-Meir sugli errori compiuti da tutti gli attori della tragedia israelo-palestinese.
Con i più cordiali saluti,

Chiesa di Tutti Chiesa dei Poveri

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La sfida di Israele
CAMBIARE LA MODERNITÀ?

11 OTTOBRE 2024 / EDITORE / DICONO LA LORO /
Netanyahu rompe con la comunità internazionale e apre una voragine all’antisemitismo. Dopo 3000 anni di guerra non è forse il caso di riprendere l’ipotesi di una presenza dell’amore di Dio nella storia? La lezione di Claudio Napoleoni

Raniero La Valle

Pubblichiamo l’intervento fatto da Raniero La Valle il 5 ottobre 2024 a Firenze al convegno promosso dall’associazione “Il coraggio della pace”, sul tema: “La casa brucia, La guerra dell’Occidente”

Cari Amici,

Il tema di questo Convegno è che l’Occidente sta distruggendo se stesso. Ma ancora di più, il fatto è che l’Occidente ha perduto se stesso. Non perché compie dei crimini, perché questo lo ha sempre fatto dalla Pace di Augusto e dalla “donazione di Costantino” in poi, ma perché non riconosce questi crimini come tali; l’Occidente ha abbandonato il diritto, che era il suo valore più prezioso, la sua vera gloria, l’anima del suo ethos, contraddice i valori di cui si vanta, esalta l’individuo e fa a pezzi i popoli, persegue lo sviluppo e produce sfruttamento, incrementa il turismo e dà la caccia ai migranti, promette sicurezza e dà le armi a un suicidio, assiste a un genocidio e lo chiama difesa.

Dunque è venuto il momento di prendere una decisione impossibile e necessaria, oggi, non domani, prima dell’ultimo ucciso, prima dell’ultimo bambino dilaniato, prima dell’ultima donna stuprata, prima dell’ultima speranza perduta. Fermiamo la guerra. È vero che la guerra ci ha accompagnato per tutta la storia, e la modernità l’ha messa come arbitra tra Stati sovrani, ma proprio per questo va strappata fin dalla radice, non basta fermarla a Gaza o in Ucraina o nel Libano, bisogna farlo in ogni luogo della terra.

Ma come? Quello che mi ripromettevo venendo qui oggi era un’analisi del punto cui la guerra è arrivata, e fare delle proposte per dare un contributo ad uscirne. Poi mi sono reso conto che questo non basta più, bisogna dire qualche altra cosa e forse qualche cosa che precede la proposta politica.

Ma, prima di tutto che cosa possiamo dire della guerra, anzi delle guerre in atto?

Io penso che dobbiamo guardare al cambiamento che nella guerra è intervenuto, dobbiamo guardare a come sta cambiando questa istituzione che è la guerra. E dunque possiamo dire forse che dopo 3000 anni la guerra ha cambiato natura. Sono 3000 anni che c’è la guerra, la guerra ha accompagnato sempre il corso della storia. Da quando è stata teorizzata dalla filosofia greca, da Eraclito, che l’ha definita come “il padre e il re di tutte le cose”, questa guerra ci ha accompagnato sempre, è stata il re che ha dominato, è stata la sovrana delle nostre relazioni pubbliche. Però da quando questa guerra è cominciata (ed è durata finora), ha avuto dei cambiamenti. E il più importante che vorrei ricordare è quella svolta che c’è stata nel 1945, quando con l’avvento dell’età atomica – di “questa età che si gloria della potenza atomica”, come aveva detto Giovanni XXIII nella Pacem in Terris – essa era uscita dalla ragione; la diagnosi di papa Giovanni era che ormai la guerra, dal momento che c’era il nucleare, che era cominciata l’età atomica, non aveva più alcuna possibilità di entrare dentro una logica, dentro una dimensione razioneale, e quindi non era più una cosa umana, perché una cosa che sta fuori della ragione, di questa ragione che abbiamo messo – anch’essa – sul trono, non è umana; però la guerra non era uscita solo dalla ragione, era uscita anche dal diritto, perché lo Statuto dell’ONU l’aveva messa fuori legge considerandola un crimine; e in Italia era uscita anche da quel suo legame indissolubile con le glorie della Patria, perché con la Costituzione le avevamo dato il libello del ripudio, non possiamo più celebrarla come il segnale delle glorie patriottiche.

Ma ora siamo nella situazione in cui la guerra ha cambiato di nuovo natura, e l’ha cambiata sotto almeno tre profili.

1) La prima novità è che la guerra oggi ti può raggiungere ovunque, anche dove non è stata dichiarata nessuna guerra, come in Iran, come in Libano; la guerra può arrivare “da remoto”, cordless, col cercapersone, col telefonino, con il messaggio improvviso che sopraggiunge come un bagliore, come un fulmine domesticato, come la pubblicità sgradita, che ti arriva in casa; la morte arriva per grandi numeri, ma individualizzata, ti viene addosso, uno per uno, non 180.000 in un colpo solo, come a Hiroshima, ma disseminata per regioni intere, provocando lo scempio dei corpi a volontà, quanti se ne possono volere, quanto più si vuole spaventare, distruggere, punire. Il genocidio per corrispondenza. Questo è Netanyahu! Ma operazioni immaginate e programmate in questo modo, con tecnologie sofisticate e complesse, sono una perversione del pensiero, anche se vengono ammirate dai giornali in Occidente. Le persone, gli uomini, le donne, non sono persone ma “obiettivi” e basta dar loro un nome infamante, chiamare Hezbollah i libanesi o gli iraniani, chiamare Hamas i palestinesi, chiamare terroristi i talebani, ed ecco l’indiscriminata licenza ad uccidere, ma non solo i cosiddetti “obiettivi”, a morire possono essere anche i bambini nelle culle che vengono localizzati a distanza dal pianto (sapete che ci sono quei piccoli trasmettitori che fanno sentire il bambino che piange, anche quelli possono diventare strumenti di morte), e i clienti del supermercato alla lettura del codice a barre dei prodotti che passano alle casse, e magari gli arrestati a domicilio col braccialetto elettronico L’informatica va alla guerra, l’Intelligenza Artificiale prende il comando, ogni prodotto della tecnologia può diventare un’arma; per salvarcene dovremmo tornare all’età della pietra: nella pietra, infatti, non si possono inserire circuiti elettrici, con la fionda eravamo più sicuri. Finirà che non sarà più permesso di salire su un aereo coi cellulari, con i computer, con gli smartphone, e negli aeroporti si creeranno montagne di telefonini, che poi la gente dovrà ricomprare, e saranno fonte di enormi ricchezze.

2) L’altra novità, oltre l’elettronica ubiquitaria, è la guerra infinita. Essa non ha più fine, è come l’ergastolo: fine pena, mai. Non deve finire in Ucraina, non deve finire a Gaza, nel Libano. L’atto di nascita di questa guerra infinita si può far risalire alla famosa frase del maresciallo Badoglio quando alla caduta del fascismo, annunziando di aver avuto dal re l’ordine di formare un governo militare al posto di Mussolini, dichiarò, contro ogni speranza: “la guerra continua”. Da allora non è mai finita, dalla guerra fredda alla prima guerra del Golfo è continuata fino ad ora: di guerra in guerra e si potrebbe dire di abisso in abisso.

Perché la guerra non finisce?

Non finisce anzitutto perché l’America mette la sua sicurezza nel dominio del mondo, dice di non volere nessuna potenza eguale a sé e concepisce la sua politica estera come una “competizione strategica” fino alla sfida finale con la Cina. Perciò non ha un termine che possa essere previsto. La competizione strategica non è la pace, è la guerra potenziale o reale, che dura sempre.

In secondo luogo non finisce perché è stata presa la decisione di non farla finire, la decisione di adottare la guerra come permanente anche mentre si finge di perseguire negoziati, tregue e soluzioni di cui si sa che non potranno essere realizzate (come i due Stati in Palestina, come la “sconfitta” della Russia, come le immigrazioni controllate).

La guerra non finisce perché con la guerra si possono instaurare i fascismi: con la guerra è più facile fare uno Stato di polizia, passare il potere alla Polizia sul piano interno, agli Eserciti sul piano esterno – lo vediamo con la NATO – e al potere economico e bancario sul piano mondiale.

In Israele con la guerra perpetua finisce la cosiddetta democrazia del Medio Oriente, e Netanyahu porta a compimento il passaggio da quello che doveva essere uno Stato democratico (addirittura socialista, si pensava all’inizio), allo Stato ebraico, monoetnico, dove per legge costituzionale i diritti di natura politica sono riservati in esclusiva al solo popolo ebreo; e dice Netanyahu che non smetterà la guerra finché il lavoro non sarà finito, e il lavoro è l’estirpazione dei palestinesi da Israele.

In Ucraina la guerra (che deve durare per legge) è finalizzata alla transizione a un regime dispotico (capo carismatico, abolizione dei partiti, divieto di espatrio, bulimia di armamenti per fare dell’Ucraina lantemurale dell’Occidente).

In Italia c’è la consegna del potere alla Polizia mediante la legge per la sicurezza in corso di approvazione, che giunge fino al punto di vietare la vendita delle SIM card – le schede telefoniche – agli immigrati che non hanno il permesso di soggiorno, cioè vieta le comunicazioni individuali, tra le persone. Si conferma così che si va verso uno Stato di polizia, ciò che si sta facendo con la consegna della giurisdizione ai P.M., con il premierato, con l’indottrinamento scolastico, che è in corso, con la chiusura (o difesa, come si dice) dei confini e con la sostituzione della cultura che si sostiene sia stata finora egemone, cioè la cultura democratica e di sinistra, con quella prefascista e sovranista: non sarà fascista ma certamente è prefascista.

In Europa grazie alla guerra permanente la Von der Lein è acclamata come Capo del costituendo esercito europeo, il Parlamento europeo vota per la sconfitta della Russia, rinunziando così a fare politica: ma che l’Ucraina sia pure con le nostre armi sconfigga la Russia è fuori del principio di realtà, a meno che non si voglia passare attraverso la guerra atomica mondiale.

In sintesi viene prescelta la guerra perpetua come uscita dalla democrazia e come ritorno dello Stato al modello hobbesiano teorizzato da Carl Schmitt come ”Stato della moderna polizia” fondato sul criterio del Nemico e la guerra come possibilità reale. E questa è una lezione per noi: vuol dire che la lotta per la pace è ormai indissolubile da quella per la democrazia.

3) Il terzo cambiamento nella natura della guerra sta nel suo contenuto stesso. Lo scopo della guerra non era quello di uccidere i nemici, essa aveva i fini più svariati, conquistare un territorio, costruirsi un impero, impadronirsi di ricchezze, risarcire diritti violati, risolvere le controversie internazionali, come dice il nostro articolo 11; ma l’uccisione dei nemici, tanto più se civili, era il costo della guerra, non era il suo scopo, tanto è vero che c’erano le Convenzioni sul diritto di guerra, che legittimavano le carneficine, ma con moderazione, ammettevano che ci andassero di mezzo i civili, i non combattenti, gli obiettivi non militari, ma li chiamava danni collaterali, sarebbe stato meglio che non ci fossero, erano supposti come involontari; tanto meno si potevano bombardare gli ospedali, le autoambulanze, i bambini nelle sale parto, o tagliare alle popolazioni l’acqua e il cibo. Oggi invece la guerra ha per obiettivo di uccidere i nemici, perché sono loro che non devono esistere, che devono essere annientati, allora se ne uccidono 42.000 a Gaza, non importa se ci sono donne e 14.000 bambini, tanto più che i bambini diverranno adulti, saranno un pericolo, l’aveva già capito Erode con la strage degli innocenti; e per ammazzare un nemico, dovunque si trovi, specie se è un capo, se ne ammazzano cento; come racconta il Corriere della sera – questo giornale di salotto e di guerra – per ammazzare Nasrallah a Beirut “sono stati livellati alcuni palazzi, impiegate decine di bombe, alcune da una tonnellata, che hanno scavato crateri giganteschi e provocato forse centinaia di vittime, Concepite per distruggere protezioni, anche in cemento, penetrano nei target ed esplodono dall’interno”. Il giornale aggiunge che quelle bombe gliele hanno mandate gli Stati Uniti. Questi non sono danni collaterali, si uccidono uno per uno e tutti insieme gli appartenenti al popolo palestinese, ai termini della Convenzione dell’ONU questo è un genocidio; e ormai ogni guerra è un genocidio.

Ecco, questo è ciò che volevo dirvi fino a ieri, prima di procedere con delle proposte concrete: Comitati territoriali, ricorso a forme di democrazia diretta, petizioni alle Camere, ecc.

Ma poi ho sentito e visto integralmente il discorso di Netanyahu all’ONU e questo discorso mi ha spaventato, perché mi ha fatto capire che siamo a un punto limite, siamo per così dire a una soglia terminale, dopo la quale non sappiamo che cosa può accadere, qualcosa che non riguarda più solo la guerra ma investe il nostro destino, l’epoca nostra. Questo discorso di Netanyahu è un discorso feroce, annuncia la decisione di combattere fino alla “vittoria totale”, dice che non c’è nessun posto in Iran, ma nemmeno in Medio Oriente che non possa essere raggiunto dalla violenza vendicativa dell’esercito di Israele; e poi presenta due mappe, una di benedizione e una di maledizione, due mappe di un mondo diviso in due, e da una parte c’è la mappa con Israele, e l’Arabia Saudita che Israele vorrebbe recuperare dopo gli accordi di Abramo, e il Medio Oriente fino all’Oceano Indiano, e questo sarebbe il mondo sognato, il mondo fatato, il mondo bello che Israele vorrebbe costruire insieme ai suoi partner, quelli che non sono i suoi nemici; e poi c’è l’altra mappa, che egli insieme alla prima ha mostrato, così, davanti all’assemblea dell’ONU, la mappa del male, la mappa della maledizione, di quelli che sono contro Israele, che è l’Occidente questo Occidente di cui stiamo parlando qui oggi. E ciò nel contesto di una rottura irriducibile con l’ONU, definita come una “palude di antisemitismo”, e quindi con la comunità delle Nazioni. Ma c’è ancora qualcosa di più importante, cioè viene esibito il fondamento indiscutibile di questa pretesa di predominio; e questo fondamento indiscutibile risale a migliaia di anni fa, e deriva da una lettura fondamentalista, una lettura integralista, letterale, della Bibbia, una lettura che rappresenta un vilipendio della Sacra Scrittura; e di fronte a questo l’Occidente, che ormai ignora queste categorie e non sa leggere la Bibbia, e forse non sa nemmeno cos’è, è disarmato, non può entrare in dialogo, non può nemmeno veramente capire gli appelli drammatici di papa Francesco, mentre, sul versante dei credenti, entra in una crisi grave quello che era il promettente e benedetto dialogo ebraico-cristiano, che risale alla profezia di Gesù al pozzo di Giacobbe, quando disse: “la salvezza viene dai Giudei”.
[segue]

Oggi venerdì 11 ottobre 2024

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Percorrere con tenacia le vie della pace
11 Ottobre 2024
Intervento introduttivo alla III sessione del convegno organizzato da Disarma “La casa brucia” Firenze, 5 ottobre 2024
Alfonso Gianni su Democraziaoggi
Sulle cause materiali della guerra
Introdurre una discussione su “quali proposte possibili in Europa per la pace” è cosa davvero ardua per le condizioni nella quale si trova la Ue, specialmente dopo le recenti elezioni, la formazione della nuova […]
————————Oggi e giovedì 24 ottobre————-
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Verso l’incontro Treeology Theology – Documentazione pertinente

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Da DOPPIOZERO
Si cita spesso, fra le riflessioni fondative dell’etica ambientale, un saggio apparso su “Science” nel 1967, The Historical Roots of Our Ecological Crisis [Le radici storico-culturali della nostra crisi ecologica], opera dello storico delle tecniche Lynn White jr. (1907-1987); il saggio venne tradotto da Silvia Laila in italiano nel numero di marzo/aprile (credo sia ormai introvabile) del 1973 della rivista “il Mulino”. L’idea centrale era che “le radici storiche della nostra crisi ecologica” andavano cercate nella tradizione ebraico-cristiana. La sacralizzazione esclusiva dell’uomo, immagine di quel Dio che affida ad Adamo il compito di dare un nome a vegetali e animali per divenirne padrone, prepara il terreno su cui può sorgere l’ideale della modernità: il sapere-potere della scienza, baconiana e cartesiana, invita al dominio umano di una natura ridotta a puro meccanismo, privato d’anima. Lynn White jr. terminava il saggio con le parole: “Forse dovremmo meditare sulla più grande figura del cristianesimo dopo quella di Cristo: san Francesco d’Assisi […]. La chiave per comprendere Francesco è la sua fede nella virtù dell’umiltà, non la semplice umiltà individuale, ma l’umiltà dell’uomo come specie. Francesco tentò di spodestare l’uomo dal suo ruolo di monarca del creato e di instaurare la democrazia di tutte le creature di Dio”. Ma il tentativo di Francesco, il più grande rivoluzionario spirituale dell’Occidente, è fallito. “Il sentimento profondamente religioso, ma eretico, dell’autonomia spirituale di tutte le creature espresso dai primi francescani, può indicarci una direzione. Propongo che Francesco sia considerato il patrono degli ecologisti”.

Forse dovremmo ripartire dalle tesi di Lynn White per apprezzare la novità costituita dall’enciclica Laudato si’ di un altro Francesco. Certo, novità all’interno del mondo cattolico, che può apparirci in ritardo rispetto a quanto il dibattito ecologico ha promosso in questi decenni, ma che non deve lasciarci indifferenti. La Bibbia, sostiene papa Francesco, non dà adito ad un antropocentrismo dispotico; il mandato divino, dopo la cacciata dall’Eden, chiedeva di coltivare e custodire la Terra, ed i doveri nei confronti della natura e del Creatore sono parte integrante della fede cristiana. L’Enciclica muove dal Cantico del poverello d’Assisi, auspicio di una riconciliazione universale con tutte le creature, per invitarci ad ascoltare il grido di protesta che si leva dalla nostra “casa comune”, da “sora nostra matre Terra”. L’abuso irresponsabile dei beni che Dio ha posto in lei non corrisponde al dettato biblico, al dono che Dio ha fatto all’uomo perché ne prendesse cura. I viventi hanno un valore proprio di fronte a Dio, l’uomo è chiamato a rispettare la bontà di ogni creatura, ed anche i ritmi inscritti nella natura dalla mano del Creatore. Del resto, anche Hans Jonas ricordava che la sostanza etico-religiosa della tradizione ebraico-cristiana è data dal motivo della creazione, con l’implicito postulato del rispetto per l’integrità della vita; l’appellativo liturgico di Dio, “colui che vuole la vita”, ha come corrispettivo la libertà e responsabilità della creatura verso la dignità della vita.

Se è vero che il pensiero ebraico-cristiano ha demitizzato la natura, non attribuendole più carattere sacro (ma il grande Pan era morto e gli dei avevano abbandonato la terra ancor prima della diffusione del cristianesimo), non per questo diviene legittimo il dominio dispotico e irresponsabile dell’essere umano sulle altre creature. Tutta la natura è rivelazione del divino, luogo della sua presenza, linguaggio dell’amore di Dio: “suolo, acqua, montagne, tutto è carezza di Dio”, ricorda papa Francesco. E Dio si prende cura di tutti: “Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre” (Mt. 6,26). Anzi, riprendendo Teilhard de Chardin, papa Francesco afferma che il traguardo del cammino dell’universo è la pienezza di Dio: tutte le creature avanzano, insieme a noi e attraverso di noi, verso questa meta comune.

La novità rilevante dell’Enciclica mi appare l’adozione di una prospettiva ecologica in senso forte: nella “casa comune” tutto è intimamente connesso, le cose sono in dipendenza le une dalle altre e si completano vicendevolmente, gli organismi sono sistemi aperti in costante comunicazione. Il che porta a ridiscutere la visione di una natura retta da una gerarchia, visto che anche la più piccola creatura ha valore per sé ed insieme contribuisce all’equilibrio del sistema cui appartiene. Questo non significa intaccare il privilegio di specie (lo specismo o sciovinismo umano, per dirla con Bryan Norton) che ci vorrebbe unici degni di considerazione morale. E nemmeno accogliere una prospettiva ecocentrica, come quella di Aldo Leopold, il fondatore dell’Etica della Terra: l’appartenenza a una comunità più ampia di quella sociale, a un oikos i cui abitanti includono il suolo, le acque, le piante e gli animali, la terra intera, impone un criterio morale più ampio, per cui giusto è “ciò che tende a mantenere l’integrità, la stabilità e la bellezza della comunità biotica”.

La prospettiva di Francesco è, e non può che essere, quella di un umanesimo cristiano. Non può esserci sentimento di intima unione con gli altri viventi, se non c’è al tempo stesso compassione per gli esseri umani; certo, ogni maltrattamento nei confronti degli animali è contrario alla dignità umana, ma, come ha spiegato Callicot, il pensiero ecologico non chiede di per sé di farsi vegani, di abolire la caccia, di aderire al principio dei diritti degli animali di Tom Regan o di accogliere una morale sensiocentrica, che pone gli umani allo stesso livello delle specie che provano dolore. I facili sentimentalismi di quanti sacrificano la ricerca sanitaria sull’altare della dignità verso le cavie non sempre si coniugano con l’assistenza ai derelitti e disperati della Terra.

Nell’Enciclica, sull’esempio di san Francesco, restano inseparabili la preoccupazione per la natura, la giustizia verso i poveri e la pace interiore. L’asse portante dell’Enciclica è l’intima relazione tra la miseria degli umani e la fragilità del pianeta; un vero approccio ecologico diventa sempre anche un approccio sociale, dobbiamo imparare ad “ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri”. Solo entrando in comunicazione con tutto il creato, potranno scaturire la sobrietà e la cura verso quel che è debole; e oggi lo è la natura stessa, anch’essa entrata nel regno della finitudine, che credevamo attributo esclusivo dell’umano. Accenti analoghi si trovano in Michel Serres, teorico del “contratto naturale” di simbiosi e reciprocità fra la terra e l’uomo. L’enciclica ribadisce quel che il filosofo francese ha scritto in Tempo di crisi: non esistono due crisi, una sociale ed una ambientale, ambiente naturale ed umano si degradano insieme. Esiste una sola crisi e per affrontarla si richiede un’ecologia integrale che combatta la povertà, restituisca dignità agli esclusi e si prenda cura della natura. La terra ci precede e ci è stata data; i testi biblici non assecondano lo sfruttamento selvaggio della natura, ci invitano a coltivare il giardino, in una relazione di reciprocità responsabile fra uomo e natura. Dio nega ogni pretesa di proprietà assoluta: “la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti” (Lv). La natura ci è stata data in eredità comune, dobbiamo dunque fare in modo di lasciarla come l’abbiamo trovata, anzi meglio, ai nostri figli e nipoti.

mario-porro-ft-2024Mario Porro

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albero-14-9-24-img_8724Non di rado una conversazione con Aldous Huxley si trasformava in un indimenticabile monologo. Circa un anno prima della sua morte, Huxley stava parlando di un argomento che aveva molto a cuore, il fatto cioè che l’uomo trattava la natura in modo per così dire “innaturale”. Per chiarire il proprio punto di vista raccontò che l’estate precedente era tornato in una piccola valle dell’Inghilterra dove aveva passato lunghi periodi felici durante l’infanzia. La valle, un tempo ricca di declivi erbosi, era invasa da una squallida boscaglia perché i conigli selvatici che ne controllavano la crescita erano stati decimati dalla mixomatosi, malattia che gli agricoltori avevano intenzionalmente diffuso per evitare che i roditori danneggiassero raccolti. Con una punta di saccenteria lo interruppi, non riuscendo a tacere nemmeno di fronte a un’eloquenza di così alto livello, e gli ricordai che anche i conigli erano stati introdotti in Inghilterra come animali domestici nel 1176, probabilmente allo scopo di integrare la dieta proteica dei contadini.

Tutte le forme di vita modificano l’ambiente in cui si sviluppano. L’esempio più spettacolare in positivo è quello del polipo corallino che, perseguendo il proprio interesse, ha creato un habitat sottomarino favorevole a migliaia di altre specie animali e vegetali. Con il suo intervento l’uomo, almeno dai tempi in cui è diventato una specie numerosa, ha sempre alterato l’ambiente in cui vive. Alcuni esempi. È un’ipotesi plausibile, anche se non provata, che il metodo di caccia per mezzo del fuoco abbia dato origine alle grandi praterie e abbia contribuito allo sterminio dei giganteschi mammiferi del pleistocene. Da almeno sei millenni i terreni lungo le sponde del basso Nilo sono opera dell’uomo e non della natura, che avrebbe piuttosto dato luogo alla giungla umida africana. La diga di Assuan, che ha sommerso 8000 chilometri quadrati di territorio, non è che l’ultimo stadio di un lungo processo. In molte regioni la coltivazione a terrazze, l’irrigazione, i pascoli intensivi, i disboscamenti operati dai romani per costruire navi durante le guerre contro i cartaginesi o dai crociati per risolvere i problemi logistici durante le spedizioni in Medio Oriente, hanno apportato profonde modificazioni in numerosi ecosistemi. L’osservazione che il paesaggio francese è caratterizzato a nord da distese erbose e a sud e a occidente dal bocage, convinse Marc Bloch ad approfondire lo studio dei metodi medievali di coltivazione. Le variazioni nelle abitudini di vita dell’uomo hanno avuto effetti certamente non previsti anche su altre specie viventi. Si è osservato, per esempio, che l’avvento dell’automobile ha determinato la scomparsa degli stormi di passeri che si cibavano degli escrementi di cavallo un tempo disseminati su tutte le strade.

uro-europeo-330px-ur-paintingLo studio della storia delle variazioni ambientali è ancora ai primi passi e poco sappiamo di ciò che è realmente accaduto e quali sono state le conseguenze. A quanto sembra, l’estinzione dell’uro europeo, avvenuta nel 1627, fu semplicemente la conseguenza dell’accanimento dei cacciatori, ma in molti casi è impossibile avere notizie sicure in relazione a questioni più complesse. Per circa mille anni frisoni e olandesi hanno perseverato nel tentativo di ricacciare indietro il mare del Nord e, ai nostri giorni, i loro sforzi sono culminati nel recupero dello Zuiderzee. È possibile ipotizzare che alcune specie di animali, uccelli, pesci e altre forme di vita siano nel frattempo scomparse? E che nella loro epica lotta contro Nettuno, gli abitanti dei Paesi Bassi abbiano trascurato di valutare alcuni aspetti ambientali a scapito della qualità della loro vita? Per quanto è a mia conoscenza, nessuno ha mai posto queste domande e tantomeno ha dato risposte. La specie umana ha spesso rappresentato un elemento dinamico nell’ecosistema che lo ospitava, ma le conoscenze storiche fin qui acquisite non ci permettono di conoscere esattamente quando, dove e con quali effetti sono avvenute le modificazioni apportate dall’uomo anche se, in questo scorcio del ventesimo secolo, il problema di quali possano essere le ripercussioni ambientali è diventato sempre più sentito e pressante. Le scienze naturali, concepite come il tentativo di comprendere la natura delle cose, si sono sviluppate nel corso dei secoli in varie parti del mondo e contemporaneamente si è sviluppato, in modo più o meno rapido, il progresso tecnologico. Ma è solo da circa quattro generazioni che, nell’Europa occidentale e nel Nord America, si è stabilito il collegamento fra scienza e tecnica, vale a dire fra l’approccio teorico all’ambiente naturale e l’approccio empirico. La dottrina baconiana, che al sapere scientifico corrisponde il potere tecnologico sulla natura, si è affermata nella pratica solo intorno alla metà del XIX secolo, con l’eccezione dell’industria chimica che si era diffusa già nel XVIII. Nella storia dell’umanità, e non solo dell’umanità, l’accettazione di questo principio nella pratica comune rappresenta l’evento più importante dopo l’invenzione dell’agricoltura. Il nuovo stato di cose ha portato con sé l’affermazione del concetto di ecologia, termine che nella lingua inglese è apparso per la prima volta nel 1873. Oggi, a quasi un secolo di distanza, l’impatto esercitato dalla specie umana sull’ambiente si è intensificato al punto da cambiare nella sostanza. All’inizio del XIV secolo, epoca in cui entrarono nell’uso i primi cannoni, l’impatto ambientale era rappresentato dagli uomini che, alla ricerca di potassio, zolfo, minerali di ferro e carbone, invadevano foreste e montagne provocandone, in un caso la scomparsa, nell’altro l’erosione. Con le bombe all’idrogeno siamo in un ordine completamente diverso poiché, in caso di guerra, il loro uso provocherebbe alterazioni genetiche in tutte le forme di vita del nostro pianeta. Se, già nel 1285, Londra aveva il problema dello smog causato dall’impiego di carbone bituminoso, ai giorni nostri l’uso di combustibili fossili minaccia di modificare la composizione dell’atmosfera con conseguenze che solo ora cominciamo a intravedere. Con l’esplosione demografica, l’urbanizzazione selvaggia, i depositi ormai geologici di rifiuti e scoli fognari, l’uomo è riuscito in breve tempo a insozzare il suo nido come nessun’altra creatura ha mai fatto. Numerose sono le grida di allarme, ma le proposte, seppure in sé meritevoli, appaiono troppo parziali, semplici palliativi, quindi in realtà negative: per esempio, mettere al bando le bombe, eliminare i cartelloni stradali, distribuire contraccettivi agli indiani e convincerli a mangiare le vacche sacre. La soluzione più semplice per evitare qualunque modificazione ambientale è, ovviamente, quella di porvi fine oppure, meglio ancora, di tornare a un passato mitizzato: trasformare quelle orrende stazioni di servizio in altrettanti cottage di Anne Hathaway oppure, nel Far West, in saloon dei pionieri. Questa mentalità, ispirata al concetto di ‘natura incontaminata’, pretende invariabilmente che un ecosistema (non importa se San Gimignano o la Grande Sierra) sia per così dire ‘surgelato’ nelle condizioni in cui si trovava quando fu gettato in terra il primo kleenex. Ma né la regressione al buon tempo antico, né l’abbellimento fine a se stesso possono risolvere la crisi ecologica dei nostri tempi.

Che cosa possiamo fare? Nessuno è ancora in grado di dirlo. Se non affrontiamo il problema alla radice, corriamo il rischio che provvedimenti circoscritti abbiano ripercussioni più gravi di quello a cui dovrebbero porre rimedio.

Come prima cosa dovremmo tentare di chiarire le nostre idee esaminando da un punto di vista storico quali sono i fondamenti alla base della tecnologia e della scienza moderna. La scienza è sempre stata tradizionalmente aristocratica, speculativa e intellettuale; la tecnologia, popolare, empirica in pratica. La loro fusione, avvenuta intorno alla metà del XIX secolo, è sicuramente da collegarsi alle rivoluzioni democratiche di poco precedenti e contemporanee che, rendendo meno rigide le barriere sociali, tendevano ad affermare l’unità funzionale del lavoro intellettuale e di quello manuale. La crisi ecologica attuale è la conseguenza di una cultura democratica emergente e completamente nuova. La questione è se un mondo democraticizzato sia in grado di sopravvivere alle proprie implicazioni. Probabilmente no, a meno che non si proceda alla revisione dei principi alla base della nostra cultura.

Tecnologia e scienza nella tradizione occidentale

Un fatto è certo e può apparire superfluo ribadirlo in questa sede: sia la moderna tecnologia, sia la scienza moderna sono peculiarmente occidentali. Anche se la nostra tecnologia ha assorbito elementi da tutte le parti del mondo, in particolare dalla Cina, attualmente, non importa se in Giappone o in Nigeria, a trionfare è la tecnologia occidentale. La nostra scienza è l’erede di tutte le scienze del passato e deve molto specialmente alle opere di grandi scienziati islamici che spesso superavano gli antichi greci in capacità e dottrina: per esempio, Abu Bakr al-Razi nel campo della medicina, Ibn-al-Haythan in quello dell’ottica, o Omar Khayyam nella matematica. Gran parte delle loro opere di genio non esistono più nella lingua originale, ma sopravvivo nelle traduzioni in latino medievale che contribuirono a gettare le basi della ricerca scientifica nel mondo occidentale. Ai nostri giorni, in tutto il globo, tutta la scienza di un certo livello è occidentale nel metodo e nello stile, qualunque sia la pigmentazione della pelle o la lingua madre degli scienziati.

Esistono poi altri aspetti meno conosciuti in quanto acquisizioni di studi storici recenti. La posizione guida dell’Occidente nel campo della tecnica e della scienza è molto più antica della cosiddetta ‘rivoluzione scientifica’ del XVII secolo e della cosiddetta rivoluzione industriale del XVIII, espressioni superate che mettono in ombra la vera natura di ciò che intendono esprimere, vale a dire due fasi significative di due diversi processi evolutivi di lunga durata. Almeno fin dall’XI secolo d.C., e in qualche caso anche dal IX, in Occidente, l’acqua era utilizzata per produrre energia a uso industriale, non solo per macinare granaglie, e negli ultimi anni del XII secolo si iniziò a sfruttare anche l’energia del vento. Da questi primi tentativi i progressi sono stati costanti e hanno portato alla realizzazione dei congegni meccanici, degli utensili per risparmiare lavoro e all’automazione. Gli scettici dovrebbero ricordare l’opera più grandiosa di tutta la storia dell’automazione, quella dell’orologio meccanico a pesi, realizzata in due versioni nei primi anni del XIV secolo. Nel tardo Medioevo l’Occidente latino superò di gran lunga le raffinate ed esteticamente mirabili culture sorelle di Bisanzio e dell’Islam, non in abilità manuale ma in maestria tecnica. Nel 1444, durante un viaggio in Italia, un ecclesiastico greco, Bessarione, scrisse una lettera a un principe della sua terra in cui si diceva stupefatto della superiorità delle navi, delle armi, dei tessuti e dei vetri occidentali. Ma più di tutto, così affermava, lo aveva sbalordito lo spettacolo di ruote azionate ad acqua che segavano tronchi d’albero e mettevano in funzione i mantici delle fornaci. Evidentemente, Bessarione non aveva mai visto niente del genere nel Medio Oriente.

Alla fine del XV secolo la superiorità tecnologica occidentale era tale che le nazioni europee, piccole e sempre in lotta fra loro, furono in grado di invadere il resto del mondo per conquistare, saccheggiare e colonizzare nuove terre. Simbolo di questa superiorità tecnologica è il Portogallo, una delle nazioni occidentali più deboli, che riuscì a diventare, e rimanere per un secolo, padrone incontrastato delle Indie orientali. Dobbiamo anche ricordare che la tecnologia di Vasco de Gama e di Alfonso de Albuquerque era assolutamente di tipo empirico e non si basava su cognizioni scientifiche.

È opinione diffusa che la scienza moderna nasca nel 1543, anno in cui Copernico e Vesalio pubblicarono i loro scritti. Senza voler in alcun modo sminuire il loro lavoro, è bene ricordare che opere come Fabrica e De rivolutionibus non nascono certo in una notte. La tradizione scientifica occidentale aveva avuto inizio alla fine dell’XI secolo come conseguenza del massiccio lavoro di traduzione in lingua latina di opere scientifiche arabe e greche. Solo pochi libri importanti, per esempio Teofrasto, sfuggirono alla vorace fame scientifica dell’Occidente, ma non erano trascorsi duecento anni che l’intero corpus della scienza greca e islamica era disponibile in latino, avidamente letto e chiosato in tutte le università europee. Lo studio di queste opere dette vita a nuove osservazioni e a nuove ricerche che ebbero come conseguenza una crescente sfiducia negli antichi maestri. Alla fine del XIII secolo l’Europa si era ormai impadronita di tutto il sapere scientifico strappandolo dalle ormai deboli mani dell’Islam. Sarebbe assurdo negare l’originalità del pensiero di Newton, Galileo o Copernico, come lo sarebbe negare quella degli scienziati scolastici del XIV secolo, per esempio Buridano o Oresme, sulle cui opere i primi basarono i loro studi. Si può dire che, prima dell’XI secolo e perfino al tempo dei romani, l’Occidente latino ignorava la scienza, che dall’XI secolo in poi, si è sviluppata in un crescendo inarrestabile.

Poiché in Occidente il progresso tecnologico e quello scientifico ebbero inizio, si caratterizzarono e divennero predominanti durante il Medioevo, è evidente che non possiamo comprenderne l’impatto ambientale se non prendiamo in considerazione quali erano i concetti alla base della cultura del tempo.

La concezione medievale dell’uomo e della natura

Fino a tempi recenti, l’agricoltura è stato il settore produttivo di maggiore importanza anche in società cosiddette “avanzate”, quindi qualsiasi mutamento avvenuto nei metodi di coltivazione assume grande rilevanza. I primi aratri trainati da una coppia di buoi non dissodavano il terreno, ma semplicemente lo smuovevano in superficie, era perciò necessario praticare arature incrociate che determinavano la formazione di campi squadrati. Nei terreni piuttosto leggeri e nei climi semi aridi del Medioriente e del Mediterraneo, il metodo funzionava egregiamente, ma risultava inadeguato nel clima umido e nei territori pesanti dell’Europa settentrionale. Già alla fine del settimo secolo d.C., non sappiamo esattamente quando, alcuni contadini del Nord usavano un nuovo tipo di aratro dotato di una lama verticale che praticava il solco, di un vomero orizzontale che tagliava la zolla e di un versoio che la rovesciava. L’attrito sul terreno era tale che l’aratro doveva essere trainato non da due ma otto buoi e il terreno era aggredito così a fondo che l’aratura incrociata non era necessaria, tanto che i campi presero una forma allungata.

Al tempo in cui era praticata l’aratura superficiale, i campi avevano in genere dimensioni unitarie tali da poter provvedere al sostentamento di una sola famiglia, si trattava cioè di un’agricoltura di sopravvivenza. Ma nessuno possedeva otto buoi, quindi, per usare il nuovo tipo di aratro, i contadini erano costretti a mettere insieme i loro buoi e ciascuno di loro aveva probabilmente diritto a strisce di terreno arato in proporzione al contributo dato. In tal modo, la distribuzione della terra non era più determinata dalle necessità della famiglia, ma piuttosto dalla capacità della macchina. Di conseguenza, il rapporto dell’uomo con la terra si modificò radicalmente: se in precedenza l’uomo faceva parte della natura, ora la sfruttava. In nessun’altra parte del mondo gli agricoltori hanno realizzato un attrezzo di lavoro analogo, è dunque solo una coincidenza che la tecnologia moderna, con la sua spietata indifferenza verso la natura, sia in larga misura opera di discendenti di quei contadini dell’Europa del nord?

Verso l’830 d.C., questo atteggiamento fa la sua comparsa anche nelle illustrazioni dei calendari occidentali. Nei vecchi calendari i mesi erano raffigurati come personificazioni inattive, mentre nei nuovi calendari franchi, che ispirarono l’iconografia medievale, l’uomo si impone sulla natura: ara, miete, abbatte alberi, macella maiali. Uomo e natura sono due cose diverse e l’uomo è il padrone. Queste novità appaiono in armonia con l’atteggiamento culturale dell’epoca. Quello che l’uomo fa al proprio ambiente dipende da quello che pensa di se stesso in rapporto a ciò che lo circonda. L’ecologia umana è profondamente condizionata dalle convinzioni che l’uomo ha della propria natura e del proprio destino, in altre parole dalla religione. A occhi occidentali questo è evidente per quel che riguarda l’India o Ceylon, ma è ugualmente vero nel caso nostro e dei nostri antenati.

La vittoria del cristianesimo sul paganesimo rappresenta la più grande rivoluzione psicologica nella storia della nostra cultura. Attualmente è di moda affermare che, nel bene e nel male, viviamo nell’“era postcristiana”. Se è indubbio che, nella forma, pensiero e linguaggio hanno cessato di essere cristiani, è mia convinzione che la sostanza non sia mai cambiata. Il nostro modo di agire quotidiano, per esempio, è dominato dalla fede implicita nel progresso perenne, concetto sconosciuto sia al mondo greco-romano sia al mondo orientale, ma che ha le sue radici nella teleologia giudaico-cristiana ed è insostenibile al di fuori di quel contesto. Il fatto che i comunisti condividano questo concetto non fa che confermare quanto si può anche altrimenti dimostrare: il marxismo, come l’Islam, è una eresia giudaico-cristiana. Oggi continuiamo a vivere come abbiamo vissuto per circa 1700 anni, in un contesto in larga misura improntato ad assiomi cristiani.

Che cosa insegnava il cristianesimo alla gente sul rapporto dell’uomo con l’ambiente?

La maggior parte delle mitologie hanno storie sulla creazione, ma la mitologia greco-romana ne è singolarmente priva. Come Aristotele, gli intellettuali dell’Occidente antico negavano che il mondo visibile avesse avuto un principio. In realtà, l’idea di principio era inconcepibile nel quadro della loro concezione ciclica del tempo. In netto contrasto, il cristianesimo ereditò dall’ebraismo non solo il concetto di tempo non ripetitivo e lineare, ma anche una stupefacente storia della creazione. In varie fasi un Dio amorevole e onnipotente aveva creato la luce e il buio, i corpi celesti, la terra, le piante, gli animali, gli uccelli e i pesci. Infine Dio aveva creato Adamo e, quindi, Eva, perché Adamo non fosse solo. L’uomo dette un nome a tutte le cose, stabilendo così il proprio predominio su di loro e Dio dispose che tutto fosse a suo esclusivo beneficio: il creato non aveva altro scopo che quello di essere al suo servizio. Inoltre, seppur il suo corpo fosse d’argilla, l’uomo fu fatto a immagine di Dio.

Il cristianesimo, in particolare quello occidentale, è la religione antropocentrica per eccellenza. Nel II secolo d.C. Tertulliano e Sant’Ireneo di Lione affermarono che, nel plasmare Adamo, Dio aveva prefigurato l’immagine del Cristo incarnato, il secondo Adamo. A somiglianza di Dio, l’uomo trascende la natura. Il cristianesimo, in contrasto con l’antico paganesimo e le religioni orientali (fatta forse eccezione del zoroastrismo) non solo stabilì il dualismo uomo-natura, ma affermò essere volontà di Dio che l’uomo sfrutti la natura a proprio beneficio.

Nella pratica tutto questo non fu senza conseguenze. Nell’antichità ogni albero, ogni sorgente, ogni corso d’acqua, ogni collina avevano il proprio genius loci, lo spirito custode. L’uomo poteva entrare in contatto con questi spiriti che erano, tuttavia, diversi da lui nell’aspetto; centauri, fauni e sirene sono l’esempio di tale ambivalenza. Prima di tagliare un albero, scavare una montagna o sbarrare un ruscello, era necessario placare lo spirito custode di quel luogo e fare sì che restasse pacifico. La distruzione dell’animismo pagano, operata dal cristianesimo, rese possibile lo sfruttamento della natura senza tenere conto dei sentimenti degli elementi naturali.

È stato detto che la Chiesa sostituì l’animismo con il culto dei santi. Questo è vero, ma il culto dei santi è funzionalmente diverso dall’animismo. Il santo non risiede negli elementi naturali, può avere propri santuari particolari, ma la sua sede è nei cieli. Un santo, inoltre, è un uomo e a lui ci si può rivolgere secondo modalità umane. Oltre ai santi, il cristianesimo aveva angeli e demoni ereditati dall’ebraismo e forse, in parte, dallo zoroastrismo, ma angeli e demoni avevano le stesse caratteristiche dei santi. Gli spiriti che vivevano negli elementi naturali e che avevano protetto la natura dell’uomo, scomparvero. Si confermò in tal modo il monopolio dell’uomo sul mondo e le antiche proibizioni sullo sfruttamento della natura si sgretolarono.

Quando, come in questa sede, si parla in termini generali, è opportuno fare alcune precisazioni. Il cristianesimo è una fede religiosa complessa che ha conseguenze diverse in contesti diversi. Quanto ho detto si riferisce all’Occidente medievale dove la tecnologia fece passi da gigante; nell’Oriente greco, di grande civiltà e profondamente cristiano, dopo la fine del VII secolo, epoca in cui fu inventato il ‘fuoco greco’, non si è più verificato alcun progresso tecnologico. La chiave per comprendere le ragioni di tale contrasto va ricercata nel diverso tipo di devozione e di pensiero delle Chiese greche e latine, come è riscontrato negli studi di teologia comparata. I greci credevano che il peccato era un male morale e la salvezza era assicurata dalla buona condotta. La teologia orientale era di tipo razionale, la teologia occidentale volontaristica. Il santo greco è un contemplativo, il santo occidentale un uomo d’azione. È indubbio, quindi, che l’Occidente fosse terreno fertile per un cristianesimo che implicava la conquista della natura.

C’è un altro aspetto del dogma della creazione, fondamento della fede cristiana, che aiuta a comprendere la crisi ecologia attuale. Secondo la rivelazione, Dio fece dono all’uomo della Bibbia, il Libro delle Scritture. Ma poiché Dio ha creato la natura, anche la natura rivela il pensiero di Dio. Gli studi religiosi sulla natura per una migliore conoscenza di Dio vanno sotto il nome di teologia naturale. Nella Chiesa primitiva orientale, la natura era concepita essenzialmente come un sistema simbolico attraverso il quale Dio parlava agli uomini: la formica era un sermone diretto agli oziosi, le fiamme ardenti simboleggiavano l’aspirazione dell’anima. La visione della natura era di tipo artistico più che scientifico e, nonostante che a Bisanzio fossero conservati e copiati numerosi antichi testi scientifici greci, l’ambiente non era idoneo allo sviluppo scientifico come noi lo concepiamo.

Nell’Occidente latino, nei primi anni del XIII secolo, la teologia naturale prese una diversa strada. Cessò di rappresentare la spiegazione dei simboli fisici della parola di Dio per trasformarsi nel tentativo di comprendere la Sua mente scoprendo il modo in cui la Sua creazione opera: l’arcobaleno non era più semplice il simbolo di speranza inviato a Noé dopo il diluvio. Ruggero Grossatesta, Ruggero Bacone e Teodorico di Freiberg produssero raffinati studi ottici sull’arcobaleno, ma sempre con intendimenti di tipo religioso. Dal XIII secolo in poi, fino a comprendere Leibniz e Newton, tutti i maggiori scienziati spiegarono le ragioni dei propri studi in termini religiosi. E se Galileo non fosse stato così esperto in questioni teologiche sarebbe sicuramente andato incontro a guai minori, perché nel suo caso i teologi professionisti si risentirono per la sua ingerenza nel loro campo. Sembra che Newton si considerasse più un teologo che uno scienziato e solo alla fine del XVIII secolo fu possibile agli scienziati approfondire i loro studi prescindendo dall’ipotesi dell’esistenza di Dio.

Quando gli uomini spiegano perché stanno facendo ciò che intendono fare, lo storico ha spesso difficoltà a giudicare se le ragioni da loro date siano reali oppure siano ragioni considerate culturalmente accettabili. Tuttavia, il fatto che durante i secoli in cui si andò affermando la scienza occidentale, tutti gli scienziati affermarono che loro compito e premio era “pensare i pensieri di Dio in conseguenza di Lui” ci induce a credere che queste fossero le motivazioni reali. Se così è, allora la moderna scienza occidentale è nata dalla matrice teologica cristiana e ha ricevuto impulso dalla devozione religiosa, modellata dal dogma giudaico-cristiano della creazione.

Una diversa visione cristiana

A quanto sembra ci stiamo avviando verso conclusioni sgradite a molti cristiani. Poiché scienza e tecnologia sono parole del nostro vocabolario molto apprezzate, è probabile che siano in molti a rallegrarsi nel sapere che, primo, dal punto di vista storico la scienza moderna è un’estrapolazione della teologia naturale e, secondo, che la moderna tecnologia può essere spiegata, almeno in parte, come la realizzazione occidentale e volontaristica del dogma cristiano della trascendenza dell’uomo sulla natura e del suo diritto a dominarla. Ma, come abbiamo detto, circa un secolo fa scienza e tecnica, fino ad allora separate, si sono unite per offrire all’umanità un potere che, a giudicare dalle conseguenze, è ormai fuori controllo. Se le cose stanno così, il cristianesimo deve assumersi il peso di questa responsabilità.

Personalmente dubito che le ripercussioni ambientali possano essere evitate semplicemente ricorrendo in maggiore misura a scienza e tecnica. La scienza e la tecnologia si sono sviluppate sulla base della concezione cristiana del rapporto uomo-natura, concezione condivisa non solo dai cristiani e dai neocristiani, ma anche da coloro che si considerano post cristiani. Nonostante Copernico, tutto il cosmo ruota ancora intorno al nostro minuscolo globo e, nonostante Darwin, gli uomini non si sentono parte della natura. Siamo superiori, la disprezziamo e vogliamo usarla a nostra discrezione. Il nuovo governatore della California, come me uomo credente ma meno turbato di quanto io sia, si è espresso secondo la tradizione religiosa affermando, a quanto si dice, che “se uno ha visto una sequoia, le ha viste tutte”. Per un cristiano un albero non è che un accidente fisico, il concetto di bosco sacro è estraneo al cristianesimo e all’etica occidentale. Per quasi due millenni i missionari cristiani hanno distrutto i boschi sacri considerati pagani perché presuppongono uno spirito della natura.

Il modo in cui ci comportiamo nei confronti dell’ambiente è conseguente alla nostra concezione del rapporto uomo-natura. Un ricorso maggiore alla scienza e alla tecnologia non ci salverà dell’attuale crisi ecologica se non troviamo una nuova religione o non ripensiamo l’antica. I beatniks, i rivoluzionari dei nostri gironi, dimostrano di aver compreso il problema quando si dicono vicini al buddismo zen che concepisce il rapporto uomo-natura in modo opposto al cristianesimo. La religione zen, tuttavia, è profondamente condizionata dalla storia orientale, come il cristianesimo lo è da quella occidentale, e io dubito che possa rappresentare una strada per noi percorribile.

Forse dovremmo meditare sulla più grande figura radicale del cristianesimo dopo quella di Cristo: San Francesco d’Assisi. Il miracolo più straordinario di san Francesco è di non essere finito sul rogo, come accadde a tanti dopo di lui. Francesco era un eretico e lo era al punto che un ministro generale dell’ordine francescano, san Bonaventura, eminente cristiano di grande perspicacia, tentò di occultare le prime testimonianze del movimento francescano. La chiave per comprendere Francesco è la sua fede nella virtù dell’umiltà, non la semplice umiltà individuale, ma l’umiltà dell’uomo come specie. Francesco tentò di spodestare l’uomo dal suo ruolo di monarca del creato e di instaurare la democrazia di tutte le creature di Dio. Con lui la formica non rappresenta più un’omelia per l’ozioso, e il fuoco non è più un simbolo dell’anima che aspira all’unione con Dio. Con Francesco essi sono sorella formica e fratello fuoco che, a loro modo, lodano il Signore, come nel suo lo loda fratello uomo.

È stato detto che Francesco predicava agli uccelli per biasimare gli uomini che non gli prestavano ascolto. Ma le testimonianze non dicono questo: egli esortava gli uccelli a lodare Dio e quelli presi da un’estasi spirituale battevano le ali e cinguettavano.

Spesso le leggende dei santi, in particolare santi irlandesi, parlano della loro dimestichezza con animali ma sempre, mi sembra, per dimostrare il loro dominio su quelle creature. Nel caso di Francesco non è così. La terra intorno a Gubbio era devastata da un lupo feroce e, come racconta la leggenda, san Francesco parlò al lupo e lo dissuase. Il lupo si pentì, morì in odore di santità e fu sepolto in terra consacrata. Quella che Steven Runciman chiama “la dottrina francescana dell’anima animale” venne in breve tempo cancellata. È possibile che la dottrina si ispirasse, consciamente o meno, alla teoria della reincarnazione, originaria dell’India e sostenuta dai catari, all’epoca molto numerosi in Italia e nel sud della Francia. È significativo che proprio in quel periodo, 1200 circa, accenni alla metempsicosi si ritrovino anche nell’ebraismo occidentale, in particolare nella Cabbala provenzale. Ma Francesco non credeva nella trasmigrazione delle anime o nel panteismo, la sua visione della natura e dell’uomo si basava su una sorta di panpsichismo di tutte le cose animate e inanimate, concepite a gloria del loro Creatore trascendente il quale, con un gesto di assoluta umiltà cosmica, si fece carne, giacque in una mangiatoia e morì sul patibolo.

Non è certo mia intenzione suggerire ai tanti americani preoccupati dell’attuale crisi ecologica di provare ad ammonire i lupi o a esortare gli uccelli. Intendo affermare che l’attuale e progressivo sfacelo ambientale è il prodotto di una tecnologia e di una scienza dinamiche che hanno avuto origine nell’Occidente medievale, contro le quali san Francesco si ribellò nel suo personalissimo modo. Da un punto di vista storico non possiamo comprendere quale sia stato il loro sviluppo, se prescindiamo dal peculiare atteggiamento nei confronti della natura che ha le sue radici nel dogma cristiano. Non ha alcuna importanza se la maggior parte delle persone non ritiene che tale atteggiamento sia da considerarsi cristiano, la nostra società è comunque improntata ai valori del cristianesimo che mai nessun altro principio è riuscito a sostituire. Ne consegue che la crisi ecologica continuerà ad aggravarsi se non respingeremo l’assioma cristiano che la natura esiste solo in funzione dell’uomo.

San Francesco, il più grande rivoluzionario spirituale nella storia dell’Occidente, suggerì una nuova visione cristiana del rapporto uomo-natura: sostituire il dominio illimitato dell’uomo con il concetto di uguaglianza di tutte le creature, uomo compreso. Il tentativo di Francesco è fallito. Ai nostri giorni scienza e tecnica sono sempre più caratterizzate dalla proterva ortodossia cristiana nei confronti della natura e non è da loro che ci possiamo attendere una soluzione alla crisi ecologica. Poiché le radici dei nostri problemi sono essenzialmente religiose, il rimedio deve essere religioso, qualunque definizione attribuiamo a tale termine. In altre parole dobbiamo giungere a un diverso modo di intendere la nostra natura e il nostro destino. Il sentimento profondamente religioso, ma eretico, dell’autonomia spirituale di tutte le creature espresso dai primi francescani, può indicarci una direzione. Propongo che Francesco sia considerato il patrono degli ecologisti.

[traduzione italiana di Silvia Lalia]

Oggi giovedì 12 settembre 2024

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12 Settembre 2024
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