Risultato della ricerca: contabilità dei posti di lavoro
Verso il Convegno su Adriano Olivetti e la Sardegna – Documentazione
Verso il Convegno di Cagliari del 27 e 28 ottobre 2023. ADRIANO OLIVETTI E LA SARDEGNA, quando il comunitarismo incontrò il sardismo.
di Salvatore Cubeddu, sul sito della Fondazione Sardinia.
La storia del rapporto tra Adriano Olivetti e il partito sardo nelle elezioni politiche del 1958. Il racconto dell’intellettuale lussurgese Antonio Cossu inviato da Ivrea in Sardegna. Il testo dell’accordo elettorale tra Adriano Olivetti e Titino Melis, segretario del PSd’A(z) (i due nelle foto). Il programma politico-economico-culturale (stralcio). Le elezioni politiche del 1958 in Sardegna.
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Che succede a Gaza? Una tragedia. Che fare?
Dalla volontaria di Gazzella a Gaza: Gaza 9.10.2023
Nel corso della notte l’esercito israeliano ha lanciato una serie di attacchi massicci contro i sobborghi di Shujaiyya, Beit Lahya e Rafah e secondo fonti israeliane finora sono state sganciate oltre 100 tonnellate di bombe
Il rafforzamento del sostegno militare a Israele annunciato dal Pentagono che lavorerà per assicurare che Israele abbia “quello di cui ha bisogno per difendersi”, per il movimento di resistenza islamico a Gaza, equivale a “partecipare all’aggressione contro il nostro popolo”. Un inquietante scenario!
Anche oggi le strade di Gaza sono vuote e frettolosi palestinesi, vanno a fare rifornimento di generi alimentari. Ed è quello che faremo anche noi. Stamattina A. andrà a fare la scorta perché non sappiamo come evolverà la situazione e i negozi intorno a noi stanno svuotando gli scaffali. Le scuole dell’UNRWA sono oramai affollate, in ogni aula dalle 20 – 22 persone. Sono migliaia le famiglie che hanno dovuto abbandonare le loro case. Io e A., fatta eccezione per una veloce uscita per acquisto di generi alimentari e una visita di A. alla moglie e dai due figli, la più piccola ha 6 mesi, per il resto della giornata siamo chiusi nella struttura. La situazione è difficile e non sappiamo cosa ci aspetta nei prossimi giorni.
I giornali riportano che le sirene antiaereo suonano a Tel Aviv, negli insediamenti e a Gerusalemme. La gente si precipita nei rifugi. Nessun giornalista riporta che a Gaza le bombe non vengono annunciate, le senti quando colpiscono le case. A volte un messaggio telefonico informa che la tua casa sarà bombardata, ma se non l’ abbandoni velocemente rischi di restare sotto le bombe. È quello che è successo ieri ad una famiglia di Beit Hanun, 12 persone della stessa famiglia morte sotto le macerie della loro casa.
Il Ministero della Salute di Gaza ha aggiornato alle 10pm del 8.10.2023 i dati: 436 martiri di cui 91 bambini e 61 donne, 2.271 feriti di cui 224 bambini e 151 donne. In Cisgiordania ieri si contavano 8 martiri di cui un bambino e 70 feriti. Le vittime in Israele sono oltre 700 e 2.500 feriti.
Hamas ha dichiarato di avere fatto 150 prigionieri e che parte di questi, pare, siano deceduti sotto i bombardamenti israeliani.
Israele ha dichiarato di voler lanciare una vasta operazione via terra contro Hamas nelle prossime 24-48 ore e Netanyhau ha aggiunto “ridurremo in macerie i luoghi di Hamas” e ai civili dice “andatevene da lì adesso perché agiremo ovunque con tutte le nostre forze”. E dove possono andare i palestinesi di Gaza che da 17 anni vivono sotto assedio e sono per il 70% già profughi dal 1948!
Alla luce della complessa situazione è necessario che il governo italiano e il parlamento europeo prendano posizione a favore della legalità internazionale, perché non si tratta di manifestare pro Hamas e per i palestinesi. La questione palestinese è molto altro!
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Una densa riflessione del giornalista israeliano Levy che ricostruisce il contesto e le cause senza i quali non è possibile spiegare gli atroci fatti di questi giorni:
Gideon Levy: “Israele punisce i palestinesi dal 1948, senza fermarsi un attimo”
Dietro tutto quello che è successo, l’arroganza israeliana. Pensavamo che ci fosse permesso fare qualsiasi cosa, che non avremmo mai pagato un prezzo o saremmo stati puniti per questo.
Continuiamo senza confusione. Arrestiamo, uccidiamo, maltrattiamo, derubiamo, proteggiamo i coloni massacrati, visitiamo la Tomba di Giuseppe, la Tomba di Otniel e l’Altare di Yeshua, tutto nei territori palestinesi, e ovviamente visitiamo il Monte del Tempio – più di 5.000 ebrei sul trono.
Spariamo a persone innocenti, caviamo loro gli occhi e spacchiamo loro la faccia, li deportiamo, confischiamo le loro terre, li saccheggiamo, li rapiamo dai loro letti, effettuiamo la pulizia etnica, continuiamo anche l’irragionevole blocco di Gaza, e tutto andrà bene.
Costruiamo un’enorme barriera attorno alla Striscia, la sua struttura sotterranea costa tre miliardi di shekel e siamo al sicuro. Ci affidiamo ai geni dell’Unità 8200 e agli agenti dello Shin Bet che sanno tutto e ci avviseranno al momento opportuno.
Stiamo spostando metà dell’esercito dall’enclave di Gaza all’enclave di Huwara solo per garantire le celebrazioni del trono dei coloni, e tutto andrà bene, sia a Huwara che a Erez.
Poi si scopre che un primitivo, antico bulldozer può sfondare anche gli ostacoli più complessi e costosi del mondo con relativa facilità, quando c’è un grande incentivo a farlo.
Guarda, questo ostacolo arrogante può essere superato da biciclette e motociclette, nonostante tutti i miliardi spesi per questo, e nonostante tutti i famosi esperti e imprenditori che hanno guadagnato un sacco di soldi.
Pensavamo di poter continuare il controllo dittatoriale di Gaza, gettando qua e là briciole di favore sotto forma di qualche migliaio di permessi di lavoro in Israele – questa è una goccia nell’oceano, anch’essa sempre condizionata ad un comportamento corretto – e in al ritorno, mantenetelo come la loro prigione.
Facciamo la pace con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti – e i nostri cuori dimenticano i palestinesi, così che possano essere spazzati via, come molti israeliani avrebbero voluto.
Continuiamo a detenere migliaia di prigionieri palestinesi, compresi quelli detenuti senza processo, la maggior parte dei quali prigionieri politici, e non accettiamo di discutere il loro rilascio anche dopo decenni di prigione.
Diciamo loro che solo con la forza i loro prigionieri possono ottenere la libertà.
Pensavamo che avremmo continuato con arroganza a respingere ogni tentativo di soluzione politica, semplicemente perché non ci conveniva impegnarci in essa, e sicuramente tutto sarebbe continuato così per sempre.
E ancora una volta si è rivelato non essere così. Diverse centinaia di militanti palestinesi hanno sfondato la recinzione e hanno invaso Israele in un modo che nessun israeliano avrebbe potuto immaginare.
Alcune centinaia di combattenti palestinesi hanno dimostrato che è impossibile imprigionare due milioni di persone per sempre, senza pagare un prezzo elevato. Proprio come ieri il vecchio bulldozer palestinese fumante ha demolito il muro, il più avanzato di tutti i muri e le recinzioni, ha anche strappato di dosso il mantello dell’arroganza e dell’indifferenza israeliana.
Ha demolito anche l’idea che sia sufficiente attaccare Gaza di tanto in tanto con droni suicidi e vendere questi droni a mezzo mondo per mantenere la sicurezza.
Ieri Israele ha visto immagini che non aveva mai visto in vita sua: veicoli militari palestinesi che pattugliavano le sue città e ciclisti provenienti da Gaza che entravano dai suoi cancelli.
Queste immagini dovrebbero strappare il velo dell’arroganza. I palestinesi di Gaza hanno deciso che sono disposti a pagare qualsiasi cosa per un assaggio di libertà. C’è qualche speranza per questo? NO. Israele imparerà la lezione? NO.
Ieri già parlavano di spazzare via interi quartieri di Gaza, di occupare la Striscia di Gaza e di punire Gaza “come non è mai stata punita prima”. Ma Israele punisce Gaza dal 1948, senza fermarsi un attimo.
75 anni di abusi e il peggio l’attende adesso. Le minacce di “appiattire Gaza” dimostrano solo una cosa: che non abbiamo imparato nulla. L’arroganza è destinata a durare, anche se Israele ha ancora una volta pagato un prezzo elevato.
Benjamin Netanyahu ha una responsabilità molto pesante per quanto accaduto e deve pagarne il prezzo, ma la questione non è iniziata con lui e non finirà dopo la sua partenza.
Ora dobbiamo piangere amaramente per le vittime israeliane. Ma dobbiamo piangere anche per Gaza. Gaza, la cui popolazione è composta principalmente da rifugiati creati da Israele; Gaza, che non ha conosciuto un solo giorno di pace.
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[La documentazione che precede è stata tratta dai post del
nostro amico palestinese Fawzi, presidente dell’Associazione Sardegna Palestina, nella chat del Comitato Casa del quartiere Is Mirrionis].
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Israele critica il card. Pizzaballa
Attacco contro Israele: Ambasciata Israele presso Santa Sede risponde ai patriarchi di Gerusalemme
Un commento
di Franco Meloni
Hamas ha aggredito Israele usando una violenza spietata, causando moltissime vittime senza distinzione tra militari e civili. La contabilità dei morti è in continuo aumento. Mentre scriviamo da parte israeliana se ne contano oltre un migliaio. Da parte palestinese un po’ meno, ma con le rappresaglie e la controffensiva israeliana presto il conto sarà pareggiato e superato. Se, come è nelle dichiarazioni del governo Netanyahu, Israele per annientare Hamas annienterà un enorme numero di palestinesi tra gli oltre due milioni che abitano la striscia di Gaza, che conta com’è noto la più alta densità abitativa del mondo. Il responsabile numero uno di questa situazione è Netanyahu capo del governo sostenuto da una coalizione di destra. Le responsabilità di Hamas? Tremende. Non mi sentirei mai e poi mai di giustificare Hamas, ma bisogna chiederci come mai la stragrande maggioranza dei palestinesi sono oggi con Hamas. Insomma Hamas si è intestato la rappresentanza dell’intero popolo palestinese. È come se una persona angariata e violentata quotidianamente da un carnefice accettasse la protezione di un delinquente, che per un momento sapesse rendere pan per focaccia a detto carnefice. Per un momento, s’intende, di cui godere per il compimento della “vendetta riparatrice”, per poi tornare alla situazione di partenza o addiritura peggiore. In questo momento nessuno è in grado di evitare il baratro, fatto di distruzione e di morti. Solo una possibile quanto difficile azione diplomatica congiunta delle potenze mondiali (USA, Cina, Europa, in primis, insieme con i paesi arabi moderati, la Russia, la Turchia, i paesi emergenti (India, Brasile, …) e quanti altri nella misura del possibile, potranno fermare il conflitto e avviare una nuova inedita situazione. Jonathan Safran Foer, accreditato intellettuale statunitense di madre ebrea, auspicava che in questa nuova situazione non ci fossero più ne Hamas ne gli attuali politici al governo di Israele. La prospettiva? La coesistenza pacifica di due Stati: Israele e Palestina, che insieme fiorissero a nuova vita. Cosa potevano dire di più il card. Pizzaballa e gli altri Patriarchi della Terra Santa? Non hanno di certo praticato una “immorale ambiguità”, semplicemente si sono ispirati al Vangelo, in questa fase storica decisamente incomprensibile ed estraneo a chi reputa la guerra come unica soluzione dei problemi. Noi siamo con il card. Pizzaballa e gli alti Patriarchi: resistere, resistere, resistere alla rassegnazione al peggio. La lunga notte passerà.
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Oggi venerdì 20 dicembre 2019
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————————————–Opinioni,Commenti e La debole proposta del ministro Boccia
20 Dicembre 2019.
- Massimo Villone su Democraziaoggi.[…]
Riflessioni,Appuntamenti di oggi—————————————
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Oggi venerdì 20 dicembre la presentazione del Dossier 2019 “Tutela del creato e della pace tra l’urgenza dell’educare e del lavoro”
Trasformare il mondo per salvarlo. Agenda Onu 2030 sullo sviluppo sostenibile. Verso il Convegno di Cagliari del 29 novembre 2019
[Verso il Convegno di Cagliari di venerdì 29 novembre 2019] Trasformare il nostro mondo: l’Agenda Onu 2030 per lo Sviluppo Sostenibile approvata il 25 settembre 2015, dall’Assemblea generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite.
Preambolo Quest’Agenda è un programma d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità. Essa persegue inoltre il rafforzamento della pace universale in una maggiore libertà. Riconosciamo che sradicare la povertà in tutte le sue forme e dimensioni, inclusa la povertà estrema, è la più grande sfida globale ed un requisito indispensabile per lo sviluppo sostenibile. Tutti i paesi e tutte le parti in causa, agendo in associazione collaborativa, implementeranno questo programma. Siamo decisi a liberare la razza umana dalla tirannia della povertà e vogliamo curare e salvaguardare il nostro pianeta. Siamo determinati a fare i passi audaci e trasformativi che sono urgentemente necessari per portare il mondo sulla strada della sostenibilità e della resilienza. (…)
Persone Siamo determinati a porre fine alla povertà e alla fame, in tutte le loro forme e dimensioni, e ad assicurare che tutti gli esseri umani possano realizzare il proprio potenziale con dignità ed uguaglianza in un ambiente sano.
Pianeta Siamo determinati a proteggere il pianeta dal degradazione, attraverso un consumo ed una produzione consapevoli, gestendo le sue risorse naturali in maniera sostenibile e adottando misure urgenti riguardo il cambiamento climatico, in modo che esso possa soddisfare i bisogni delle generazioni presenti e di quelle future. Prosperità Siamo determinati ad assicurare che tutti gli esseri umani possano godere di vite prosperose e soddisfacenti e che il progresso economico, sociale e tecnologico avvenga in armonia con la natura. Pace Siamo determinati a promuovere società pacifiche, giuste ed inclusive che siano libere dalla paura e dalla violenza. Non ci può essere sviluppo sostenibile senza pace, né la pace senza sviluppo sostenibile. Collaborazione Siamo determinati a mobilitare i mezzi necessari per implementare questa Agenda attraverso una Collaborazione Globale per lo sviluppo Sostenibile, basata su uno spirito di rafforzata solidarietà globale, concentrato in particolare sui bisogni dei più poveri e dei più vulnerabili e con la partecipazione di tutti i paesi, di tutte le parti in causa e di tutte le persone.
Occorre rimarcare il carattere fortemente innovativo dell’Agenda, nella misura in cui si basa su un chiaro giudizio sull’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo (in particolare di quello egemone capitalistico neo liberista), non solo sul piano ambientale, ma anche su quello economico e sociale. Si afferma pertanto una visione integrata delle diverse dimensioni dello sviluppo. Tutti i Paesi – senza distinzioni tra Paesi sviluppati, emergenti e in via di sviluppo, anche se evidentemente le problematiche possono essere diverse a seconda del posizionamento socio-economico – devono impegnarsi a definire una propria strategia di sviluppo sostenibile che consenta di raggiungere gli SDGs entro il 2030. Rispetto a tali parametri, ciascun Paese viene valutato periodicamente sui risultati conseguiti all’interno di un processo coordinato dall’Onu e dagli Stati nazionali, auspicabilmente sostenuto dalle opinioni pubbliche nazionali e internazionali. L’attuazione dell’Agenda richiede pertanto un forte coinvolgimento di tutte le componenti della società, dalle imprese alle pubbliche amministrazioni, dalla società civile, al volontariato e alle entità del terzo settore, dalle università e centri di ricerca agli operatori dell’informazione e della cultura.
Valutazione risultati
Per l’Italia i check-up annuali sono curati (a partire dal 2016) dall’ASviS, ultimo relativo al 2019 è stato presentato il 4 ottobre 2019. [segue]
E’ la “partecipazione” la chiave per combattere gli squilibri territoriali, soprattutto per superare o almeno attenuare le disuguaglianze sociali
Gli aspetti negativi degli squilibri tra i territori subregionali
di Gianfranco Sabattini
Aurelio Bruzzo, docente di Politica economica presso l’Università degli studi di Ferrara, ha pubblicato di recente, a cura del Dipartimento di Economia e management della stessa Università, il “Quaderno DEM, n. 6/2019”, dal titolo “Situazione socio-economica e politica di coesione in Emilia-Romagna a fine 2018”. L’autore, utilizzando documenti ufficiali sugli esiti delle misure adottate dall’Amministrazione regionale dell’Emilia-Romagna, nell’ambito della politica di coesione sociale dell’Unione Europea, analizza i valori assunti dalle principali variabili socio-economiche nel contesto dell’area (in anticipo di due anni rispetto alla fine del periodo di programmazione 2014-2020 della succitata politica di coesione).
A parte i risultati, di per sé importanti (sui quali vale la pena di riflettere), che Bruzzo ha ottenuto con la sua analisi, il lavoro è rilevante anche perché può essere assunto a “metro e misura” dei ritardi che non permettono alla Sardegna, da settant’anni impegnata a promuovere un processo omogeneo di crescita e di sviluppo di tutta l’area regionale, di fare altrettanto; ovvero, di non condurre un’analisi socio-economica come quella compiuta da Bruzzo, per la mancanza della documentazione tecnica della quale la Regione Sardegna avrebbe dovuto e potuto da tempo dotarsi.
Avvalendosi dello stato di attuazione del Programma Operativo Regionale FEST dell’Emilia-Romagna alla fine del 2018, Bruzzo compie una valutazione dei risultati che si stanno profilando a seguito della politica di coesione, con l’obiettivo di “sollecitare l’attenzione da parte sia degli studiosi, che dei policy maker” sugli effetti di tale politica a livello locale; obiettivo, questo, solitamente “trascurato e sottovalutato”, nonostante che dalla maggior coesione sociale realizzata a livello locale, attraverso gli investimenti infrastrutturali e produttivi previsti dall’attuazione dei POR regionali, dipenda “il conseguimento di un più elevato livello di sviluppo socio-economico”, non solo delle singole regioni, ma anche dell’intera area economica nazionale alla quale esse appartengono.
Al riguardo è bene ricordare che il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR) è uno dei principali strumenti finanziari della politica regionale dell’Unione europea, il cui scopo è quello di rafforzare la coesione economica, sociale e territoriale, per ridurre il divario fra le regioni più avanzate e quelle in ritardo sulla via dello sviluppo. L’impiego del fondo si inserisce quindi all’interno della politica di coesione comunitaria, con l’obiettivo fondamentale di supportare e promuovere il processo di integrazione economica del Vecchio Continente. A tal fine, la politica di coesione europea, col concorso nel finanziamento delle misure adottate di ogni Stato membro, si propone di perseguire la creazione di posti di lavoro, il miglioramento della competitività tra le imprese, la crescita economica, lo sviluppo sostenibile e il “miglioramento della qualità della vita dei cittadini in tutte le regioni e le città dell’Unione europea”. Il miglioramento-sviluppo delle qualità della vita è dunque stabilito a livello regionale, e solo indirettamente a livello locale.
Bruzzo ha condotto la sua analisi, non a livello regionale, ma locale, considerando in particolare la Provincia di Ferrara, in quanto rappresentante “la porzione del territorio regionale notoriamente meno sviluppata”; in quanto tale, sarebbe stato logico attendersi una particolare attenzione verso di essa da parte dell’Amministrazione regionale, mediante una più consistente destinazione di risorse, in considerazione della specifica finalità assegnata alla politica di coesione dal Trattato sul funzionamento dell’UE, “di perseguire un più ‘armonioso’ livello di sviluppo economico all’interno del territorio europeo”.
Sulla base dell’analisi dei dati risultanti dalla documentazione disponibile, Bruzzo ha accertato che l’attuazione della politica di coesione in Emilia-Romagna è stata “del tutto ottimale” e che il periodo di programmazione 2014-2020 potrà concludersi, per la Regione, “entro la scadenza prevista, senza imbattersi nelle difficoltà sofferte da buona parte delle altre Amministrazioni regionali”. Stando infatti alle informazioni diffuse dall’Agenzia per la Coesione Territoriale (un ente pubblico, vigilato direttamente dal Presidente del Consiglio dei Ministri, che ha l’obiettivo di sostenere, promuovere ed accompagnare programmi e progetti per lo sviluppo e la coesione territoriale), le altre Amministrazioni regionali alla fine del 2018 apparivano in ritardo rispetto all’Emilia-Romagna, al punto che alcune di esse risultavano impossibilitate “ad assumere in tempo utile tutti gli impegni previsti dai rispettivi Programmi”.
Però, la valutazione dell’azione della Regione Emilia-Romagna può essere considerata positiva solo per quanto riguarda l’attuazione della politica di coesione sociale dallo stretto punto di vista degli obblighi operativi; non altrettanto può dirsi nei confronti dell’impatto socio-economico manifestatosi concretamente sull’intero territorio regionale, considerato questo nella sue articolazioni territoriali. A livello territoriale, i dati disponibili, hanno consentito di rilevare come, dal punto di vista di molte grandezze socio-economiche, la provincia di Ferrara sia stata penalizzata sul piano demografico e, più specificatamente, su quello della popolazione residente: a partire dal 2010, tale provincia ha invertito il suo precedente trend crescente, facendo presumere che esso, in assenza di adeguate contromisure di medio e lungo periodo, sia destinato a proseguire; dal 2013, l’occupazione è stata caratterizzata da un andamento tendenzialmente negativo, mentre ancora più preoccupante sono risultati il livello e l’andamento della disoccupazione, mantenutasi su posizioni più elevate rispetto a quelli regionali; infine, se si considera l’aggregato maggiormente rappresentativo circa il livello di sviluppo economico di un’area territoriale, il valore aggiunto pro-capite nella Provincia di Ferrara ha assunto, alla fine del periodo 2014-2020, valori inferiori rispetto alla media nazionale e ancor più rispetto a quella regionale
Le cause di tutti questi aspetti, a parere di Bruzzo, sono sicuramente situate in buona parte all’interno del territorio ferrarese, che risulta tradizionalmente arretrato da molti punti di vista, non solo da quello economico; esse, però, ricadono anche all’esterno, in considerazione del fatto che la crescita e lo sviluppo della provincia di Ferrara, dipendono, oltre che dalle sue relazioni economiche con le altre regioni italiane, anche da quelle con le restanti province emiliano-romagnole. Sulla posizione economico-sociale di maggior debolezza della Provincia di Ferrara, rispetto alle altre province della regione di appartenenza, avrebbe dovuto intervenie con maggiore oculatezza la politica di coesione sociale co-finanziata dall’Unione Europea, che ha come obiettivo “il conseguimento di uno sviluppo equilibrato e bilanciato sia tra le varie regioni ed aree urbane europee sia al loro interno, al fine di evitare in tal modo il permanere nel lungo periodo di porzioni di territorio in condizioni di arretratezza socio-economica”.
La conoscenza del modo in cui sono avvenute le erogazioni effettuate a livello territoriale, quale quella offerta dall’accesso al “portale web”, coordinato dal “Dipartimento per le Politiche di Coesione” della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha consentito di accertare come le risorse stanziate, distinte per ambiti tematici, sono state distribuite a livello locale; nel caso della Regione Emilia-Romagna, le erogazioni in attuazione della politica di coesione della Comunità Europea, secondo il programma 2014-2020, sono state caratterizzate da una loro maggiore concentrazione nell’area del capoluogo (quelle godute dalla Provincia di Bologna sono risultate maggiori del 40% rispetto a quelle destinate alla Provincia di Ferrara).
Appare evidente, secondo Bruzzo, che la politica di coesione sociale attuata in Emilia-Romagna (e, generalizzando, in tutte le regioni caratterizzate da diffusa arretratezza economica), invece di favorire “il riequilibrio intra-regionale che dovrebbe essere uno dei primari obiettivi di tale politica”, ha incrementato la forza attrattiva dei centri regionali privilegiati, a causa della concentrazione territoriale delle erogazioni. Le risultanze empiriche evidenziano infatti che la distribuzione territoriale degli investimenti effettuati nella Regione Emilia-Romagna è avvenuta a scapito delle aree periferiche, dando luogo ad un processo di sviluppo regionale squilibrato, sorretto da una logica di “causazione circolare cumulativa” negativa.
La conseguenza di ciò sarà che, a causa di questa logica, le iniziali differenze territoriali, in termini di crescita economica e di sviluppo sociale, saranno destinate ad accentuarsi, con il pericolo (spesso reale come, ad esempio, sta a dimostrare l’esperienza della Sardegna, afflitta dal fenomeno dello spopolamento dei comuni delle zone periferiche) che, lasciando le disuguaglianze territoriali incontrastate, si finisca – afferma Bruzzo – per modificare la struttura produttiva, demografica ed urbanistico-territoriale delle regioni; da aree regionali “tendenzialmente policentriche” (in cui i vari centri urbani possono stabilire tra loro un valido rapporto di complementarietà per la promozione di un processo di crescita e sviluppo condiviso) si passerà ad aree regionali dove prevarranno solo alcuni centri dominanti (o, al limite, solo uno), lasciando a quelli periferici, nel migliore dei casi, un ruolo marginale, e nel peggiore, una sicura estinzione.
Per evitare il consolidarsi degli esiti della logica di causazione circolare cumulativa negativa, sarebbe importante, sottolinea Bruzzo, cercare di approfondire, attraverso un approccio interdisciplinare, quali sono le cause che danno luogo agli esiti produttivi, demografici ed urbanistico-territoriale indesiderati a livello locale. E’ questo un tema da sempre dibattuto, ma mai affrontato razionalmente; l’approccio interdisciplinare evocato da Bruzzo, implicherebbe che le regioni arretrate (ma, in generale, tutte, indipendentemente dal loro livello di sviluppo) si dotassero di una “matrice di contabilità sociale”. Ciò al fine di acquisire informazioni utili per la predisposizione di “modelli” di politica di sviluppo regionale che tengano conto del modo in cui si distribuisce il prodotto sociale a livello locale, a seguito dell’attuazione degli interventi attuativi della politica di coesione, considerando tale distribuzione come causa ed effetto dei processi di formazione del prodotto sociale.
Il successo riscosso dal sistema di contabilità sociale nelle sue applicazioni ai Paesi sottosviluppati è da attribuirsi principalmente alla sua caratteristica di utilizzare, nelle decisioni assunte, i dati puramente economici in combinazione con informazioni di carattere sociale. Ma non basta, per contrastare le disuguaglianze sub-regionali, occorrerebbe anche che le regioni decentrassero il processo decisionale, realizzando le condizioni compatibili con la partecipazione delle popolazioni locali alla determinazione degli investimenti destinati alle infrastrutture e ai comparti produttivi che maggiormente possono contribuire alla valorizzazione della risorse locali.
Solo in questo modo la crescita e lo sviluppo territoriale possono diventare la condizione necessaria e sufficiente per assicurare una coesione sociale diffusa nell’intero territorio delle singole regioni; quindi, permettere che gli esiti della maggior coesione sociale siano distribuiti in modo da evitare il permanere e l’approfondimento delle disuguaglianze territoriali e di quelle sociali esistenti.
Tra l’altro, una più larga partecipazione dal basso nella determinazione degli interventi servirebbe, come sottolinea Bruzzo, a recidere la correlazione spesso esistente tra le decisioni di distribuzione territoriale degli investimenti e i “processi socio-politici”, che nell’esperienza delle politiche regionali di sviluppo risultano spesso connessi alla formazione delle disuguaglianze; è noto come i processi socio-politici nelle regioni arretrate siano all’origine dell’”affievolimento” del ruolo e della funzione degli imprenditori, i quali, partecipando all’attuazione della politica di sviluppo delle regioni, hanno spesso privilegiato di svolgere il ruolo di “imprenditore da trasferimento di risorse pubbliche”, piuttosto che quello di “imprenditore da re-investimento”. Anche per la rimozione di queste collusioni improprie, la partecipazione dal basso nella determinazione della politica regionale di crescita e di sviluppo può risultare strumentale rispetto al contenimento delle disuguaglianze territoriali.
Il viaggio del Dollaro che produce ricchezze e povertà
Il dollaro base dell’interconnessione globale delle economie nazionali
di Gianfranco Sabattini
Dopo la crisi del 2007/2008, la scienza economica ha perso gran parte della sua credibilità; ciò perché gli economisti sarebbero stati incapaci di prevedere quanto stava per sopraggiungere e non sarebbero stati all’altezza di suggerire strategie utili a porvi rimedio. Per capire i processi attraverso i quali gli esiti della crisi si sono diffusi per gran parte del mondo, occorre tener presente che il “veicolo” è stato la moneta base degli scambi internazionali, il dollaro; a ragione, molti ritengono che, al pari della “circolazione sanguigna”, questa particolare valuta trasporti le “sostanze nutritive”, il potere d’acquisto, del quale si nutre il mercato globale degli scambi.
Il cattivo funzionamento del processo attraverso il quale tale potere si forma e si distribuisce, infatti, è la causa principale delle crisi, che ricorrentemente colpiscono il sistema degli scambi internazionali, i cui effetti negativi sono tanto più gravi, quanto maggiore è il grado di interconnessione delle economie nazionali all’interno del mercato globale.
La globalizzazione, se ha reso il mondo più piccolo, lo ha reso però, contemporaneamente, più complesso; ciò perché, come sottolinea Dharshini David, giornalista economica della “BBC News”, in “Il mondo in un dollaro”, il mercato globale, nel quale si sostanzia la globalizzazione, è un contesto al cui interno “una parola detta da un banchiere di Washington o Berlino può portare alla fame i pensionati greci, o un giovane a lasciare la famiglia per attraversare a piedi l’Africa subsahariana in cerca di una vita migliore”; la “contrazione” economica del mondo, realizzata dalla globalizzazione, esprime una “forza impersonale” che procura vantaggi ad alcuni, a danno di altri, e alla quale è impossibile sottrarsi.
Prescindendo della distribuzione dei suoi effetti distributivi, la globalizzazione può essere pensata come l’economia-mondo, espressa da “tutte le transazioni, le interazioni, gli acquisti e gli accordi che riconosciamo come scambi”; le forze espresse da questa economia globale sono determinate dalle azioni degli individui sparsi per il mondo, nella veste di lavoratori, consumatori, risparmiatori, imprenditori e speculatori; comunque sia – afferma la giornalista – “una cosa è certa: siamo tutti soggetti a queste forze e, indipendentemente dalla nostra capacità di controllarle, è importante sapere come funzionano e come si ripercuotano sulla nostre vite”.
Quando si acquista qualcosa in un punto qualsiasi del globo, ma fuori dagli Stati Uniti d’America, non si paga l’oggetto acquistato in dollari, sebbene il dollaro, come si è detto, rappresenti il supporto monetario degli scambi in ogni parte del mondo. Per questo fatto, si potrebbe essere indotti a pensare, sbagliando, che il dollaro sia solo una delle tante valute esistenti; ma non è così. Il dollaro, infatti, sottolinea la Dharshini David, non “è una valuta come tante”; esso non è solo la valuta emessa da uno dei Paesi più potenti del mondo, e sicuramente il più potente sul piano economico; è anche il “volto” dell’importanza economica dell’America e dei suoi interessi sparsi per ogni dove: avere “un dollaro, o non averlo, può determinare come vivono le persone dall’altra parte del mondo”.
L’importanza assunta dal dollaro non è recente, ma risale ai tempi della “Dichiarazione di indipendenza” degli Stati Uniti; con la “diplomazia del dollaro”, infatti, gli Stati Uniti hanno potuto estendere la loro influenza sui Paesi dell’America Latina ed avere accesso ai loro mercati. Questa particolare forma di diplomazia è stata estesa anche fuori dal continente americano, sino a consentir agli USA di assumere una posizione mondiale dominante al termine del secondo conflitto mondiale. Dopo il 1945, infatti, il dollaro è diventato la valuta di riserva del mondo, trasformandosi nello strumento più importante e affidabile nella ricostruzione post-bellica dell’economia internazionale, prima, e nella costruzione dell’economia globale, poi.
La globalizzazione, infatti, è stata realizzata sulla base della circolazione internazionale del dollaro, considerato lo strumento fiduciario col quale era “possibile collegare le persone” e garantire la stabilità finanziaria globale. In altre parole, la globalizzazione si è affermata in quanto è stato possibile trasformate il dollaro nel “linguaggio finanziario che sostiene le nostre vite, indipendentemente dalle banconote e dalle monete che usiamo ogni giorno” [...] In breve, potremmo vedere nel dollaro l’agente della globalizzazione” che connette tra loro, non solo i singoli individui, ma anche i singole Stati ai quali essi appartengono. Anche la Russia e la Cina, i principali antagonisti e competitori degli USA, usano il dollaro: molti cittadini della prima preferiscono il dollaro al rublo, mentre la seconda investe gran parte del valore dei suoi surplus commerciali in titoli del debito pubblico americano, mostrando di avere molta più fiducia nel dollaro che in ogni altra valuta.
L’ascesa della potenza del dollaro, sino all’apoteosi a metà del XX secolo, riflette l’attuale ordine mondiale monetario; un ordine che, seppur caratterizzato da un ridimensionamento dell’originario potere della valuta statunitense rispetto all’immediato dopoguerra, continua ad essere fondato sulla valuta del Paese a “stelle e strisce”, perché ritenuta affidabile e garante della stabilità; affidabilità e garanzia che il dollaro ha continuato ad assicurare all’economia mondiale anche dopo lo scoppio della crisi del 2007/2008, come dimostra il fatto che esso abbia continuato ad essere il denaro che “lubrifica” gli ingranaggi dell’economia mondiale e il collante che impedisce il crollo dei traffici internazionali. Ciò può essere dimostrato – come fa Dharshini David – immaginando il “viaggio intorno al mondo” di una banconota da un dollaro, spesa, ad esempio, nell’acquisto in un negozio americano di una radio prodotta in Cina.
La Cina, notoriamente, negli ultimi decenni, è stata protagonista di un processo di crescita sostenuta dall’impiego di tecniche di produzione low-cost, che le hanno consentito di accumulare crescenti avanzi commerciali, in parte investiti nei bond del debito pubblico americano e, in parte, utilizzati per acquistare il carburante per l’alimentazione del motore che sorregge il proprio sviluppo.
Una delle fonti di approvvigionamento di petrolio della Cina è la Nigeria, Paese africano produttore; il dollaro ipotetico acquisito dalla Cina con l’esportazione della radio venduta ad un consumatore americano viene dunque trasferito in Nigeria, Paese arretrato, anche se ricco di risorse naturali, e sovrappopolato. Per procurarsi le derrate alimentari necessarie per assicurare l’alimentazione agli oltre 190 milioni di abitanti, il Paese africano si rivolge all’India esportatrice di riso ed i dollari da questa “incassati” non rimunerano solo il lavoro dei contadini produttori di riso, ma vendono utilizzati, come accade alla Cina, per importare petrolio dall’Iraq, al fine di sostenere il suo crescente sviluppo fondato sulla produzione ed esportazione di tecnologie e di operatori informatici e di dotarsi delle infrastrutture necessarie.
Da queste prime triangolazioni commerciali appare chiaro come, alla loro base vi sia, da un lato, l’”oro nero”, e dall’altro lato, il dollaro, come unità di misura delle merci scambiate e intermediario degli scambi; per tutti i Paesi sin qui considerati, il petrolio è essenziale per la loro sopravvivenza, ma risulta essenziale anche per la supremazia del dollaro all’interno di un ordine globale che, almeno per il momento, ha il proprio epicentro nel Medio Oriente e, in particolare, nell’Arabia Saudita. Si tratta di un epicentro che racchiude Paesi tutti interessati, più o meno, al controllo delle riserve della materia prima che “fa girare il mondo” e, per questo motivo, i Paesi mediorientali sono uno contro l’altro armati, costantemente esposti al rischio di guerre locali. Tale stato di cose non è privo di conseguenze per il “viaggio del dollaro intorno al mondo”.
Un’area geografica, costituita da Paesi costantemente esposti al rischio di dover affrontare una guerra, ha bisogno di armi; a fornire queste ultime è la Russia, specializzata prevalentemente in tale tipo di produzione che alimenta le esportazioni nei Paesi mediorientali e nel resto del mondo, consentendo ad essa (la Russia), non solo di realizzare una possibile ”integrazione nell’economia mondiale per rivendicare un potere economico pari a quello politico”, ma anche per rimediare, con le importazioni, a ciò che la propria economia in difficoltà non le consente di disporre. Per la Russia, la vendita di armi, sebbene si tratti di un’operazione “discutibile”, costituisce pur sempre una fonte di entrate che, nella logica della contabilità economica nazionale, costituisce un flusso di risorse molto proficuo, oltre che sul piano politico, anche su quello economico. Il valore di tali risorse in entrata non è espresso in rubli, ma in dollari, i cui gestori, gli oligarchi che controllano le esportazioni di armi, per lo più depositano, per ragioni economiche, politiche e personali, presso accreditate banche dei Paesi occidentali.
Il dollaro in viaggio per il mondo, quindi, dopo essere arrivato in Russia dai Paesi acquirenti di armi, si diffonde per diverse destinazioni estere. La Germania è una delle destinazioni tra le più attrattive dei dollari russi; proprio per questo, non casualmente, il Paese più ricco e potente dell’Europa è stato il più restio ad approvare le sanzioni occidentali applicate alla Russia dopo l’annessione dell’Ucraina, trattandosi del Paese fornitore di gran parte delle materie prime energetiche delle quali la Germania ha bisogno per i suoi consumi civili e produttivi. Ma anche il Regno Unito, dopo la crisi globale del 2007/2008 e soprattutto dopo la Brexit, è diventato un luogo ancora più sicuro, nel quale il dollaro russo ha potuto essere proficuamente depositato, per finanziare convenienti investimenti immobiliari e profittevoli operazioni finanziarie.
Malgrado la Brexit, grazie al “passporting” (il diritto delle società di servizi finanziari operanti nell’Unione Europea di poter condurre attività transfrontaliere in qualsiasi Stato membro dell’Unione senza dover sottostare al rilascio di specifiche autorizzazioni), il Regno Unito si è confermato il custode mondiale del dollaro, per via del fatto che ha continuato ad essere lo “snodo centrale” delle finanza mondiale per l’accesso ai mercati finanziari europei delle banche americane ed asiatiche. Sotto forma di rendimento reso dai dollari investiti nei bond del debito pubblico dei Paesi europei gravati da un alto debito pubblico consolidato, il dollaro termina il suo “viaggio intorno al mondo”, rientrando nel Paese che lo ha emesso.
In conclusione, tornando a casa – afferma Dharshini David – il dollaro ha compiuto il suo giro intorno al mondo “passando elettronicamente da una banca all’altra, ha distribuito redditi, oliato gli ingranaggi del commercio e della prosperità e consolidato i rapporti di forza tra gli Stati”; in questo processo circolatorio, ogni anno migliaia di miliardi di dollari lasciano l’America, ma altre migliaia di miliardi vi arrivano. Non tutti gli Stati e non tutti i ceti produttivi in essi operanti fruiscono in termini di equità distributiva della creazione della ricchezza resa possibile dalla circolazione del dollaro intorno al mondo.
Negli ultimi anni è cresciuto il convincimento che la globalizzazione, sorretta dal dollaro, abbia supportato un modus operandi del capitalismo, che ha concorso a favorire, nonostante l’enorme crescita della ricchezza prodotta, la sua disuguale distribuzione tra tutti gli Stati e tra tutti i ceti sociali coinvolti. Una delle conseguenze di tale stato di cose è stata la crisi della Grande Recessione del 2007/2008. Con il suo superamento, osserva la Dharshini David, i posti di lavoro potranno anche tornare a crescere, ma meno di quelli che saranno necessari per il pieno impiego delle forze lavorative disponibili; ciò a causa della maggior produttività totale dei fattori dovuta all’introduzione nei processi produttivi dei risultati della ricerca scientifica e tecnologica. Se, per un verso, la produttività continuerà a rappresentare il presupposto per aumentare la crescita, per un altro verso essa si trasformerà nel problema maggiore col quale saranno chiamati a “fare i conti” sia gli economisti che i governi.
Alcuni osservatori sono del parere che l’origine delle ricorrenti crisi del capitalismo globalizzato sia, non solo il dominio esercitato dal dollaro nel finanziamento del libero svolgimento dei traffici mondiali, ma anche l’ideologia produttivistica che lo sorregge, che fa del continuo aumento della produttività il presupposto della crescita senza limiti della ricchezza mondiale, che viene però inegualmente distribuita. Ma la crescita maldistribuita tra gli Stati e tra i ceti sociali partecipanti al processo che la origina possiede in sé un meccanismo intrinseco equitativo, che costringerà obtorto collo economisti e governi a porre rimedio alle implicazioni negative della crescente produttività sul piano della ineguale distribuzione dei suoi risultati.
A dimostrare la necessità del rimedio può essere utile ricordare l’esperimento mentale sugli esiti negativi della concentrazione della ricchezza, formulato già nel XIX secolo, in “Progresso e libertà”, dall’economista americano Henry George. Se il progresso scientifico e tecnologico indotto dalla competitività internazionale continuerà a determinare l’espulsione definitiva di quote della forza lavoro dalle attività produttive e l’aumento delle disuguaglianze distributive, allora è possibile pensare ad un momento in corrispondenza del quale la produzione potrà essere ottenuta azzerando totalmente l’occupazione. In tal modo, i titolari delle attività produttive potranno appropriarsi del valore dell’intera produzione, conseguita senza l’impiego di alcun lavoratore. A questo punto, la produzione, rimanendo invenduta, mancherebbe di tradursi in ricchezza reale, riducendo il sistema sociale a vivere all’interno di un’economia funzionante in regime di uno stato stazionario regressivo.
Questo limite, afferma George, al quale conducono “le invenzioni economizzanti il lavoro può sembrare molto remoto perfino impossibile a raggiungersi; ma è un punto verso cui tende sempre più fortemente il progresso delle invenzioni”. Si tratta, perciò, di un limite da tenere nella debita considerazione, pena la possibilità che il capitalismo si “infili” realmente nel tunnel di una crisi irreversibile.
Ricordando Paolo De Magistris
A L’Unione Sarda e in Consiglio comunale celebrata la memoria di Paolo De Magistris, il sindaco che fu… un uomo “qualunque” posto controvoglia sul moggio sociale
di Gianfranco Murtas su Fondazione Sardinia.
Nella sala “Giorgio Pisano” de L’Unione Sarda dapprima (sabato 16 giugno), in cattedrale per una messa di suffragio (giovedì 21), infine nell’aula consiliare del municipio (martedì 26) il nome e la personalità complessa e cara di Paolo De Magistris hanno campeggiato riportando all’attualità la sua colta e delicata umanità, il suo profilo morale, la sapienza amministrativa, quel tanto di cultura non soltanto civica, ma prima di tutto civica, ch’egli recò con sé e condivise però, con impagabile generosità, con i cagliaritani attraverso molti suoi libri ed innumerevoli conferenze.
[segue]
Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile
Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile
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Goal e Target: obiettivi e traguardi per il 2030
Ecco l’elenco dei 17 Sustainable Development Goals (SDGs) e dei 169 Targets che li sostanziano, approvati dalle Nazioni Unite per i prossimi 15 anni.
Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals – SDGs)
Goal 1: Porre fine ad ogni forma di povertà nel mondo
Goal 2: Porre fine alla fame, raggiungere la sicurezza alimentare, migliorare la nutrizione e promuovere un’agricoltura sostenibile
Goal 3: Assicurare la salute e il benessere per tutti e per tutte le età
Goal 4: Fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti
Goal 5: Raggiungere l’uguaglianza di genere, per l’empowerment di tutte le donne e le ragazze
Goal 6: Garantire a tutti la disponibilità e la gestione sostenibile dell’acqua e delle strutture igienico sanitarie
Goal 7: Assicurare a tutti l’accesso a sistemi di energia economici, affidabili, sostenibili e moderni
Goal 8: Incentivare una crescita economica, duratura, inclusiva e sostenibile, un’occupazione piena e produttiva ed un lavoro dignitoso per tutti
Goal 9: Costruire una infrastruttura resiliente e promuovere l’innovazione ed una industrializzazione equa, responsabile e sostenibile
Goal 10: Ridurre le disuguaglianze all’interno e fra le Nazioni
Goal 11: Rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, duraturi e sostenibili
Goal 12: Garantire modelli sostenibili di produzione e di consumo
Goal 13: Adottare misure urgenti per combattere i cambiamenti climatici e le sue conseguenze
Goal 14: Conservare e utilizzare in modo durevole gli oceani, i mari e le risorse marine per uno sviluppo sostenibile
Goal 15: Proteggere, ripristinare e favorire un uso sostenibile dell’ecosistema terrestre, gestire sostenibilmente le foreste, contrastare la desertificazione, arrestare e far retrocedere il degrado del terreno, e fermare la perdita di diversità biologica
Goal 16: Promuovere società pacifiche e più inclusive per uno sviluppo sostenibile; offrire l’accesso alla giustizia per tutti e creare organismi efficaci, responsabili e inclusivi a tutti i livelli
Goal 17: Rafforzare i mezzi di attuazione e rinnovare il partenariato mondiale per lo sviluppo sostenibile
DIBATTITO. LavoroCheFare? «Dove sta scritto che l’unica attività di produzione, cioè di creazione di valore, è quella rivolta al mercato?»
Famiglia e lavoro: è tutto da rifare. In azienda e a casa
di Stefano Zamagni*
Verso le Settimane Sociali dei cattolici. Non sono i figli a impedire la genitorialità, ma il modo arcaico e incivile in cui continua a essere gestito il personale.
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Un tema che la 48° Settimana Sociale di Cagliari (26-29 ottobre) non potrà non affrontare è quello del rapporto tra lavoro e famiglia. Per secoli i termini famiglia e lavoro hanno rappresentato le due facce della stessa medaglia. L’attività produttiva, sia quella dei campi sia quella delle botteghe artigianali, ruotava attorno alla famiglia, tanto che tra moglie e marito si realizzava un’autentica intercambiabilità di funzioni sia pure con ruoli diversi. L’avvento della Rivoluzione industriale muta radicalmente il quadro, introducendo per la prima volta quel principio di separazione tra luoghi di vita familiare e luoghi di vita lavorativa che rimarrà sostanzialmente immutato per oltre due secoli. Nefasta la conseguenza che è scaturita dall’accettazione supina di tale principio. Essa ha a che vedere con una particolare applicazione della logica della divisione del lavoro quale venne applicata entro la manifattura. Tale logica esige che ognuno si specializzi in quella mansione nella quale gode di un vantaggio comparato rispetto ad altri, così che la produttività del sistema possa risultare massimizzata. Ebbene, una tale logica, una volta trasferita dalla fabbrica alla famiglia, porta al risultato che la moglie ‘si specializza’ nello svolgimento dei lavori domestici (perché dimostra di avere un vantaggio comparato rispetto al marito) e il marito ‘si specializza’ nel lavoro extradomestico. La specializzazione delle funzioni finisce così con il vanificare il principio di complementarità tra uomo e donna.
Non solo, ma l’accoglimento del principio di separazione ha finito con l’avvalorare l’idea secondo cui la famiglia sarebbe il luogo del consumo, mentre l’impresa quello della produzione. Ancor’oggi i nostri sistemi di contabilità nazionale rappresentano la famiglia come un ente che consuma quanto altri hanno concorso a produrre. Eppure, non v’è chi non veda come questa rappresentazione sia profondamente falsa.
È bensì vero, infatti, che la famiglia non produce merci, ma dove sta scritto che l’unica attività di produzione, cioè di creazione di valore, è quella rivolta al mercato? Si badi che è proprio da questa nefasta concettualizzazione che è derivata l’implicazione per cui la decisione dei coniugi di generare figli viene assimilata a quella di acquisto di un bene durevole o di un bene di lusso – col risultato che il sistema fiscale ‘non vede’ i figli in quanto tali. La buona notizia dell’oggi è che con il passaggio dalla società industriale a quella postindustriale, tale visione del mondo è entrata irrimediabilmente in crisi. Il superamento del sistema tayloristico, da un lato, e i movimenti emancipatori delle donne, dall’altro, hanno riportato al centro del dibattito, in forme affatto nuove, la vexata quaestio del work-life balance.
Ma quale è stata, finora, la via battuta per raccogliere le nuove sfide? Quella delle politiche di conciliazione tra vita familiare e vita lavorativa. Si tratta di un’espressione infelice. Il termine conciliazione, infatti, postula l’esistenza di un conflitto, quanto meno potenziale, tra questi due fondamentali ambiti di vita. Ritengo invece che non vi siano ragioni di principio che possano far parlare di due polarità tra cui è necessario stabilire pratiche conciliative, perché se è vero che quello del lavoro è anche un tempo di vita, del pari vero è che la vita familiare include una specifica attività lavorativa, anche se questa non transita per il mercato. Si tratta dunque, per un verso, di andare oltre una concezione puramente strumentalista del lavoro, secondo cui quest’ultimo sarebbe solo pena e alienazione e, per l’altro verso, di smetterla di concepire la famiglia come luogo di solo consumo e non anche un soggetto produttivo per eccellenza, generatore soprattutto di quei beni immateriali (fiducia, reciprocità, beni relazionali, dono come gratuità) senza i quali una società non sarebbe capace di futuro. È il dualismo famiglia-lavoro ad aver veicolato l’idea che le politiche di conciliazione, di cui tanto si va parlando anche nel nostro paese da ormai diversi anni, dovrebbero limitarsi a mirare, da un lato, a migliorare la produttività delle imprese e, dall’altro, ad accelerare il processo verso la piena liberazione della donna dalla segregazione occupazionale.
Ecco perché al termine conciliazione va preferito – come papa Benedetto XVI bene ha chiarito – quello di armonizzazione responsabile. Nel greco antico, armonia era l’intercapedine che occorreva frapporre fra due corpi metallici perché, sfregandosi, non producessero attrito e quindi scintille pericolose. Duplice, allora, il fine da attribuire alle politiche di armonizzazione tra famiglia e lavoro di mercato: superare la diffusa femminilizzazione della questione conciliativa a favore di un approccio reciprocitario tra famiglia e lavoro, per un verso; provocare un ripensamento radicale circa il modo in cui avviene l’organizzazione del lavoro nell’impresa di oggi, per l’altro verso. Per dirla in altri termini, non è condivisibile la posizione di chi ritiene che i molteplici strumenti di conciliazione finora messi in pratica (congedi parentali; lavoro part-time; asili nido; banche delle ore; flessibilità degli orari; programmi di ‘buon rientro’ in azienda; mentoring, etc.) debbano essere pensati unicamente per consentire soprattutto alla donna che ha figli di adattarsi al meglio alle esigenze dell’impresa e tutto ciò al fine ultimo di accrescere il tasso di partecipazione femminile al mercato del lavoro. Al contrario, le politiche di armonizzazione devono essere declinate a livello di coppia, perché la famiglia non è un affare solo femminile. L’educazione dei figli esige infatti in egual misura il carisma paterno e materno. D’altro canto, il rapporto equilibrato di coppia è essenziale se si vuole garantire la stabilità del legame matrimoniale. Insomma, se l’obiettivo è quello di accrescere il reddito monetario della famiglia attraverso l’inserimento lavorativo della donna, ma un tale obiettivo, di per sé sacrosanto, viene perseguito in modo da peggiorare la qualità della vita intrafamiliare soprattutto per quanto attiene la dimensione relazionale e quella spirituale, occorre dire chiaramente che non è questa la prospettiva di sguardo dalla quale ci si deve lasciare guidare nel policy-making.
È noto che non v’è scelta imprenditoriale che non influenzi la famiglia (si pensi alle politiche dei prezzi e dei salari; agli investimenti; alle scelte localizzative degli impianti; alla pubblicità), né viceversa v’è alcuna problematica della famiglia che non abbia ricadute sull’impresa. Ne discende che non è accettabile la distinzione tra ‘lavoro come spazio non familiare’ e ‘famiglia come spazio del non lavoro’. E pertanto che non è accettabile una logica meramente ‘ripartitiva’. Ecco perché l’approccio da privilegiare è quello che nelle condizioni storiche attuali cerca di combinare, facendole marciare insieme, le esigenze della vita familiare e quelle dell’organizzazione del lavoro, così da esaltare le potenzialità di entrambi gli ambiti di vita. Il che comporta che sia l’impresa sia la famiglia devono cambiare in qualche modo e misura il loro modus agendi. La prima, nel senso di andare oltre l’ormai obsoleto modello di organizzazione taylorista. (Già la Gaudium et Spes – 1964, n.67 – aveva anticipato: «Occorre dunque adattare tutto il processo produttivo alle esigenze della persona e delle sue forme di vita». E non viceversa). La seconda, nel senso di superare quel modello di conduzione familiare con rigidi ruoli specializzati, fondato sul principio del vantaggio comparato.
La famiglia è in armonia, e quindi luogo di felicità, quando la differenza dei generi diventa occasione di arricchimento reciproco e non giustificazione di discriminazioni di varia natura. La donna che desidera diventare madre e che intende conservare il proprio lavoro extradomestico sa bene che non sono i figli a impedire il suo avanzamento di carriera, quanto piuttosto il modo arcaico e incivile in cui continuano ad essere gestiti nelle imprese i cicli di carriera del personale. Nel concreto, si tratta di passare dal gender mainstreaming – improvvidamente accolto nel Trattato di Amsterdam del 1997 – al family mainstreaming, secondo cui è alle relazioni intrafamiliari che si deve prestare attenzione nel momento in cui si pone mano agli interventi legislativi in materia di lavoro. È veramente preoccupante che coloro che con competenza e onestà intellettuale si occupano di disoccupazione, sottoccupazione, Neet ecc., raramente riescono a percepire che la questione lavoro e la questione famiglia non possono non essere affrontate in modo congiunto – se si vuol far presa sulla realtà. Ho motivo di ritenere che dalla prossima Settimana Sociale giungerà un pensiero forte e una proposta articolata in tale direzione.
*da Avvenire.it di giovedì 27 luglio 2017, ripreso da Vita e da Aladinews.
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Nella foto di testa (abbinamento arbitrario): Giacomo Balla, Forze di paesaggio + giardino n. 2, 1917, olio su tela. © Giacomo Balla, by SIAE 2015
in giro con la lampada di aladin… sui fondi europei
- Paci: “Da Ue 2,7 miliardi. Programmiamo bene, spendiamo meglio”.
Repetita iuvant - Creare nuovo lavoro. I fondi europei a questo devono prioritariamente servire. Ma ci sono alcuni ostacoli da rimuovere. Franco Meloni su Aladinews del 19 agosto 2014
in giro con la lampada di aladin…
- Con l’Europa non siamo squadra - Le occasioni che non sfruttiamo. Paolo Savona su L’Unione Sarda.
- L’URTO DEL PENSIERO. Tre gradini per il baratro. Paolo Ercolani, su il manifesto.
- Nave-Sardegna senza rotta con l’uomo solo al comando. Oriana Putzolu, su Sardinews.
- L’Ue, il Pil, Bertold Brecht e il formaggio del pastore. Gianfranco Bottazzi, su Sardinews
Creare nuovo lavoro. I fondi europei a questo devono prioritariamente servire. Ma ci sono alcuni ostacoli da rimuovere
di Franco Meloni
Non possiamo che associarci con convinzione al “grido di dolore” di Pietro Borrotzu e Mario Medde, lanciato come associazione “Carta di Zuri”. Ancora una volta denunciano l’insostenibile situazione della Sardegna rappresentata, dati alla mano (che rinviamo alla lettura del documento) in un “quadro di impoverimento complessivo, di forte disoccupazione e precarietà, di deficit formativo”. Una risposta prioritaria e obbligata è costituita da adeguati investimenti “nel lavoro, nelle competenze, nella formazione e istruzione e in tutta la filiera della conoscenza”. Dunque è tempo di attuare politiche attive del lavoro e della formazione “per sostenere una nuova fase dello sviluppo e per ridurre in tempi rapidi la disoccupazione e la povertà; in primo luogo quella derivante dalla disoccupazione giovanile”. A questo riguardo Borrotzu e Medde sostengono che “la gran parte dei Fondi europei deve essere destinata in via prioritaria a questi obiettivi”. E non vedono particolari ostacoli per fare ciò: “La Regione è in grado, se lo vuole, di garantire efficienza, efficacia e tempestività. La politica è in grado, se lo vuole, di garantire una burocrazia al servizio del lavoro e dello sviluppo. La buona politica dunque è la prima condizione per invertire il senso di marcia, promuovere la crescita e il lavoro, incentivare la ” vita buona”. Proponiamo dunque che le risorse dei fondi europei 2014-2020 vengano spese in tempi rapidi nelle competenze e nella conoscenza, in un piano per il lavoro che consenta a migliaia di giovani di impegnarsi in attività di valorizzazione, risanamento e tutela dell’ambiente e dei beni culturali, archeologici e identitari della Sardegna, in programmi di intervento sociale a favore delle famiglie, degli anziani e dei non autosufficienti”. Il documento continua con una serie di ulteriori raccomandazioni di carattere strutturale. Citiamo la necessità di “politiche di settore e territoriali in grado di rafforzare le imprese, riducendo o eliminando le diseconomie esterne al processo produttivo (energia, trasporti, assetti idrici, servizi alle imprese e lacci e lacciuoli della pubblica amministrazione), intervenendo anche come Regione sull’eccessivo carico fiscale e tariffario, avviando una strategia di livello regionale sul credito e sul rapporto con il sistema bancario. (…)”. Tutte questioni di enorme importanza che vanno affrontate in un approccio complessivo alla situazione sarda. Ma, in questa sede, se volete un po’ riduttivamente, vogliamo soffermarci su una sola questione evidenziata da Borrotzu e Medda, precisamente l’utilizzo dei fondi europei in via maggioritaria e prioritaria per sostenere il lavoro e la formazione dei sardi, a partire dai giovani, ma senza fermarsi ad essi. Delimitando il campo vogliamo essere ancor più mirati, a costo quindi di perdere in complessità, ma con la convinzione di fare ragionamenti utili e concreti. Innanzitutto crediamo che occorra disporre di maggiori informazioni sull’utilizzo dei fondi europei e di più efficaci strumenti di monitoraggio della loro spendita in relazione all’obbiettivo occupazionale e formativo. Per quanto riguarda l’occupazione occorre disporre di una precisa contabilità dei posti di lavoro (o, più genericamente, di tutte le opportunità lavorative) che possono generare l’utilizzo dei fondi. Al riguardo per economia di discorso mi permetto citare un mio precedente intervento su Aladinews, laddove, partendo dalla considerazione che la gran parte dei fondi che verranno stanziati nei prossimi mesi/anni in funzione anticrisi saranno pubblici e affidati alle pubbliche amministrazioni, auspicavo che sulla base degli impegni assunti, i relativi programmi e progetti avessero tutti ben evidenziati insieme alle risorse dedicate e ai tempi di attuazione, l’elenco dei posti di lavoro che attendibilmente genereranno. Soprattutto di questo abbiamo bisogno, perchè la crescita deve essere sinonimo di lavoro, di mantenimento e aumento dei posti di lavoro. E allora, vorremmo che ogni pubblica amministrazione rendesse conto dei programmi e progetti che gestisce o gestirà, dando conto di questa contabilità, in fase di previsione e di effettiva attuazione di detti programmi/progetti. Facciamo un esempio, tanto per capirci: ogni Ente locale, ogni Camera di Commercio, ogni Università, ogni… titolare di progetti finanziati dallo Stato piuttosto che dall’Unione Europea o da altre fonti, dovrà fornire l’elenco dei posti di lavoro (o comunque delle occasioni di lavoro, in tutte le tipologie) che l’attuazione del programma/progetto affidato andrà a generare. Questi dati dovranno essere resi pubblici e sottoposti a periodici monitoraggi, di cui come è ovvio dovranno farsi carico in primo luogo le Organizzazioni sindacali. E i media devono fare la loro parte!
Ecco. Per fare tutto ciò non occorrono molte risorse organizzative in aggiunta a quelle di cui la Regione già dispone, ma occorre attivare una metodologia di monitoraggio e controllo, in tutte le fasi della vita dei programmi/progetti: dalla ideazione, alla progettazione, all’esecuzione e alla valutazione. In argomento, consentitemi ora una considerazione per la comprensione della quale occorre usare qualche tecnicismo. Si tratta di questo: uno degli ostacoli alla creazione di nuove opportunità di posti o semplicemente di occasioni di lavoro attraverso i fondi europei è costituito dalle politiche di accapparramento di risorse da parte degli enti beneficiari (per la definizione di “beneficiari” si faccia riferimento all’apposito glossario dell’europrogettazione). Questi tendono a fare “improprie sinergie” con i fondi europei ai fini di risolvere propri problemi di bilancio. Comportamento legittimo, ma solo in certi limiti. E mi spiego. E’ legittimo rappresentare (e recuperare) una parte dei costi della struttura e del personale strutturato tra i “costi ammissibili” dei progetti, ma questo “recupero” non deve andare oltre un documentato ristoro dei costi sostenuti dagli Enti. Insomma non deve andare a discapito dell’assunzione (in tutte le forme consentite) di nuova forza lavoro. che costituisce uno degli obbiettivi più rilevanti dell’utilizzo dei fondi strutturali (in particolare FSE). Cè pertanto da stabilire opportuni limiti. Soprattutto c’è da esercitare precisi controlli da parte degli uffici regionali deputati alla governance degli interventi. Controlli che devono essere anche sanzionatori, della serie “O ti comporti correttamente, rispettando le direttive europee e non ostacolando gli investimenti in nuovo lavoro, o non puoi essere assegnatario di fondi”. Quanto detto qui comporta anche un adeguamento dei regolamenti regionali (Vademecum vari) e di quelli delle organizzazioni pubbliche che vogliono gestire programmi europei, ma, soprattutto, richiede diversi orientamenti e comportamenti dei vertici degli enti. Nel caso tali organizzazioni non vogliano o non possano adeguarsi occorre cambiare i gestori. Al riguardo vale quanto detto in altra occasione sulle ragioni della scarsa spendita dei fondi europei (e non solo): “una delle ragioni dell’incapacità di ideare e realizzare buoni programmi, sta nel fatto che richiedono adeguate professionalità. Spesso invece molti soggetti “beneficiari” ignorano la complessità dei progetti, banalizzano i problemi e combinano pasticci che rallentano tutto. Tra le iniziative da assumere senza dubbio l’organizzazione da parte della Regione di attività di informazione/formazione per i vertici delle amministrazioni pubbliche che vogliono attuare progetti europei. Sono loro infatti tra i maggiori responsabili del rallentamento della spesa, e, aggiungiamo, della mancata creazione di nuovo lavoro, specie quando insistono a voler fare cose non compatibili con quanto programmato e concordato con la Commissione europea.
Torneremo sulla questione.
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It’s the economy, stupid
di Raffaele Deidda*
Anno 1992. James Carville, lo stratega elettorale del partito democratico americano, lanciò lo slogan della vittoriosa campagna presidenziale di Bill Clinton contro George Bush padre: “It’s the economy, stupid”. Il senso era che solo i numeri sulla crescita e sull’occupazione avrebbero determinato l’esito delle elezioni. Con l’economia Usa in grave crisi e la disoccupazione a livelli elevatissimi, l’allora giovane governatore dell’Arkansas combinò le sue capacità oratorie con l’intuizione di Carville. Sconfisse George Bush padre e conquistò la Casa Bianca.
Anno 2014. “Un lungo viaggio nella Sardegna che vuole ripartire“. Slogan della giornata conclusiva della campagna elettorale dell’economista Francesco Pigliaru, candidato governatore del centrosinistra che, partito da Cagliari, attraversò l’isola in pullman, fino a Olbia. Fece molte soste per mostrare una Sardegna ferma per cinque anni e che sarebbe potuta finalmente ripartire con azioni concrete e buona amministrazione. Si era presentato al popolo del centrosinistra con lo slogan: “Cominciamo da domani” dopo cinque anni di disastri nei trasporti, strade, occupazione e in tutti i settori economici. Pigliaru sconfisse Ugo Cappellacci col 42,4% dei voti, contro il 39,6 dell’avversario.
Perché confrontare il moscerino Sardegna e il gigante USA? Perché il tema delle campagne elettorali di Clinton e di Pigliaru è stato lo stesso: l’economia. Clinton ha lasciato la carica con il più alto indice di gradimento mai ottenuto da un presidente dopo la seconda guerra mondiale. Di lui si ricorderà la riforma del welfare e lo “State Children’s Health Insurance Program”, che ha fornito assistenza sanitaria a milioni di bambini. Durante il suo mandato gli Stati Uniti hanno vissuto uno dei più lunghi periodi di pace e prosperità economica.
Francesco Pigliaru ha incentrato il suo programma su lavoro, valorizzazione di competenze e persone, società inclusiva, ambiente sostenibile, collegamenti efficienti, istituzioni di alta qualità. Temi riconducibili tutti all’economia e peculiari di un PD moderno. Premessa per annoverarlo, in caso di successo, fra i migliori presidenti della Regione. La sentenza sulla “vera gloria” sarà a fine legislatura ma qualche considerazione, dopo sei mesi di governo Pigliaru, è azzardabile partendo dai punti programmatici.
Lavoro? Non è colpa di Pigliaru se non c’è. A causa della crisi globale manca in gran parte del mondo e in Italia in particolare. Molto di più in Sardegna, ma questo non deve far desistere dal perseguire ogni occasione per crearlo. Quando il presidente parla però di valorizzazione delle competenze, si riferisce alla sistemazione nelle strutture politico-amministrative della Regione delle persone che provengono dall’apparato dei partiti della sua maggioranza? A prescindere dal requisito della competenza – concetto soggettivo, per carità!- che come un mantra ha risuonato nel corso della campagna elettorale.
Società inclusiva? Cosa s’intende? Quella basata sul rispetto reciproco e sulla solidarietà, che garantisce pari opportunità e un tenore di vita dignitoso per tutti e considera la diversità come un elemento di forza e non di divisione? Se di questo si tratta va bene, è la visione europea. Cosa ha fatto, finora, la giunta regionale in questa direzione?
Ambiente sostenibile? Cosa significa? Ci si augura non sia, aldilà degli slogans ad uso della pubblica opinione, l’adeguarsi alle decisioni del Governo centrale sui poligoni militari che in Sardegna occupano ben 5mila ettari, il 60% dell’intero Paese, assimilati alle aree industriali.
Collegamenti efficienti? Quelli definiti dagli assessori del turismo e dei trasporti, già consulente di Cappellacci, efficienti ed economici? Quelli che pochi mesi prima, col centrodestra al governo della Regione, erano per il centrosinistra inadeguati, cari, inefficienti?
Istituzioni di alta qualità? Se il riferimento è alla giunta regionale, in cui sono presenti sette professori universitari ordinari e cinque laureati, la qualità dell’istruzione è sicuramente alta. E’ altrettanto alta l’efficienza e l’efficacia della loro azione politico-amministrativa? Come già detto, la sentenza non potrà che essere postuma. Non sarà però necessario aspettare la fine della legislatura per valutare la fragilità delle politiche messe in campo per il rilancio dell’economia sarda malgrado la “folla” dei laureati in giunta. Gli effetti promessi ed attesi, specie quelli sulla crescita e sull’occupazione, non si vedono. Non si vedono inoltre visione e chiarezza, quelle in grado di riconfermare la validità di una squadra e di una coalizione di governo di cui la Sardegna ha necessità. Buon Ferragosto di riflessione .
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* By sardegnasoprattutto / 13 agosto 2014 / Economia & Lavoro
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Sullo stesso argomento: Aladinpensiero del 13 luglio 2014 “aurea merdiocritas”- E il lavoro?
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E il lavoro?
Partendo dalla considerazione che la gran parte dei fondi che verranno stanziati nei prossimi mesi/anni in funzione anticrisi saranno pubblici e affidati alle pubbliche amministrazioni, vorremmo che sulla base degli impegni assunti, i relativi programmi e progetti avessero tutti ben evidenziati insieme alle risorse dedicate e ai tempi di attuazione, l’elenco dei posti di lavoro che attendibilmente genereranno. Soprattutto di questo abbiamo bisogno, perchè la crescita deve essere sinonimo di lavoro, di crescita dei posti di lavoro. E allora, vorremmo che ogni pubblica amministrazione rendesse conto dei programmi e progetti che gestisce o gestirà, dando conto di questa contabilità, in fase di previsione e di effettiva attuazione di detti programmi/progetti. Facciamo un esempio, tanto per capirci: ogni Ente locale, ogni Camera di Commercio, ogni Università, ogni…. titolare di progetti finanziati dallo Stato piuttosto che dall’Unione Europea o da altre fonti, dovrà fornire l’elenco dei posti di lavoro (o comunque delle occasioni di lavoro, in tutte le tipologie) che l’attuazione del programma/progetto affidato andrà a generare. Questi dati dovranno essere resi pubblici e sottoposti a periodici monitoraggi, di cui come è ovvio dovranno farsi carico in primo luogo le Organizzazioni sindacali. E i media devono fare la loro parte!
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IN ARGOMENTO
L’Isola affonda, ora che si fa?
Attese, morti e indecenze. Anthony Muroni, su L’Unione Sarda.