Risultato della ricerca: chimica vanni tola

Il pensiero di Adriano Olivetti per il superamento della crisi della Sardegna

img_4771Adriano Olivetti 1 Nei giorni 27 e 28 ottobre prossimo si terrà a Cagliari un importante Convegno sulla figura di Adriano Olivetti – intitolato “Adriano Olivetti e la Sardegna – Attualità di una prospettiva umanistica” – che ne riproporrà a tutto tondo il pensiero, soffermandosi specificamente su “teorie e pratiche di comunità”, che lo caratterizzano e informarono la sua prassi politica, purtroppo interrottasi con la sua morte improvvisa e prematura, impedendone una diffusione nel paese. Olivetti trovò felice corrispondenza del suo pensiero anche in Sardegna,
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- Foto: Archivi Fondazione Sardinia e Fondazione Adriano Olivetti
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dove strinse fecondi rapporti di collaborazione culturale e politica con il Partito Sardo d’Azione e con diversi esponenti della cultura operanti in Sardegna, come appunto Antonio Cossu, sul quale è incentrato il saggio del prof. Duilio Caocci. In particolare l’esperienza di Olivetti in Sardegna sarà approfondita nella ricerca degli elementi utili per proporre oggi una possibile alternativa all’attuale modello sociale, politico, culturale, nonché istituzionale, o, perlomeno, migliorare la situazione di crisi che attraversa la nostra Regione. Oltre l’autonomia verso un federalismo solidale? Il Convegno è organizzato dalla Fondazione Sardinia, dall’Università di Cagliari, dalla Pontificia Facoltà Teologica, con il patrocinio della Fondazione Adriano Olivetti. Aladinpensiero e il manifesto sardo assicurano la funzione di media partner della manifestazione. Proprio in questa veste, assumiamo l’impegno di pubblicizzare al massimo la meritoria iniziativa, prima, durante e successivamente. In questo contesto rilanciamo qui (e rilanceremo nei prossimi giorni/mesi) materiali di approfondimento a cura della Fondazione Sardinia, tratti dal suo sito web. Non ripetiamo quanto ben spiegato nelle premesse.
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Antonio Cossu, uno scrittore olivettiano in Sardegna
di Duilio Caocci su Fondazione Sardinia.

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Antonio Cossu, uno scrittore olivettiano in Sardegna
di Duilio Caocci su Fondazione Sardinia.

“Il primo contatto tra Antonio Cossu e Adriano Olivetti è decisivo”. Questo importante saggio di Duilio Caocci – professore ordinario di letteratura italiana presso l’Università di Cagliari – sull’intellettuale lussurgese Antonio Cossu (nella foto) rappresenta la ripresa delle tematiche “comunitarie” poste dal pensiero e dall’azione di Adriano Olivetti ed il loro importante passaggio in Sardegna a partire dagli anni Cinquanta dello scorso secolo. Un discorso che continueremo.

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All’interno della cosiddetta letteratura olivettiana, porzione minima e però importante della letteratura industriale, Antonio Cossu – per la quantità e per la qualità delle opere schiettamente olivettiane – dovrebbe occupare una posizione di primo piano. Se si conviene su una definizione ampia (1), ovvero sul fatto che con l’aggettivo derivato dal cognome del grande industriale si possa definire un gruppo ampio ed eterogeneo di prodotti letterari – poesie, saggi, romanzi, diari – che si ispirano alle idee di Adriano Olivetti (o evocano l’ingegnere, o rappresentano la vita nelle fabbriche di Ivrea e Pozzuoli, oppure ancora discutono i grandi temi dell’illuminato imprenditore), allora l’intera produzione dello scrittore sardo di cui vorremmo ora scrivere rientrerebbe pienamente in questo campo molto popolato. Anche quando – come accade nella più gran parte dell’opera – Antonio Cossu non parla affatto di fabbriche. Anzi, proprio perché riflette sul futuro dell’isola senza industria, in una fase storica in cui, dopo il fecondo dibattito sulle ragioni dell’autonomia, si pianifica l’attuazione dell’articolo 13 dello Statuto, quello che afferma che lo Stato col concorso della Regione dispone un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale dell’Isola. Tale ‘rinascita’, secondo un’idea di sviluppo condivisa nel clima politico degli anni Cinquanta e Sessanta, doveva prevedere una radicale trasformazione delle dinamiche sociali e un rapido passaggio dall’economia rurale a quella industriale.

Tra i quattro romanzi di Cossu – I figli di Pietro Paolo, Il riscatto, Mannigos de memoria, Il sogno svanito – la Sardegna evoluta in senso industriale compare solo nel Sogno svanito, perché lo scrittore quando si dispone a fare letteratura non è tanto interessato al lavoro nella catena di montaggio, ma a questioni che riguardano più direttamente la sua terra: la modernizzazione dei processi economici in campo agropastorale in relazione al miglioramento della qualità di vita delle comunità, il perfezionamento dei rapporti di potere tra centri decisionali e periferie. Tutti nodi che Cossu aveva imparato a considerare con attenzione dalle letture dei filosofi personalisti francesi prima e da Adriano Olivetti poi.

Il primo contatto tra Antonio Cossu e Adriano Olivetti è precoce e decisivo. Risale al tempo immediatamente successivo alla Laurea conseguita presso la Statale di Milano2 e fu favorito da Diego Are (Santu Lussurgiu, 1914-2000), un intellettuale compaesano di Cossu che aveva fondato nella capitale il Movimento internazionale di unione e fraternità3 e si era presto avvicinato al Movimento Comunità. Nel 1954 si tiene a Roma un convegno organizzato dal Movimento di Are e dalla sede romana del Movimento Comunità, intitolato Abolire la miseria. Per un fronte di riforme e di lotta popolare contro il bisogno. È in quel contesto che Antonio Cossu, allora ventisettenne, viene reclutato dall’ingegnere per una collaborazione con il settimanale «La via del Piemonte» allora diretto da Geno Pampaloni4 e pubblicato a Ivrea dalle Edizioni di Comunità. A partire da quel momento il giovane lussurgese diventa protagonista di un grande progetto politico e culturale e ha la possibilità di lavorare accanto a una schiera di intellettuali composita e valorosa.
Nel settembre 1955 appare su «Comunità» (a. XI, n. 32) un racconto ibrido di Cossu, Sardegna a passo di carro e di cavallo, di quelli che si posizionano sulle zone di confine tra generi: reportage giornalistico, riflessione sociale e racconto finzionale, collocabile perciò tra quei non pochi scritti letterari olivettiani «che camuffano il rapporto tra narrativa e sociologia sotto la falsariga di una letteratura a carattere documentario perché oscillano tra scrittura d’invenzione e di testimonianza»5.

Il protagonista racconta in prima persona l’esperienza di un viaggio compiuto con suo padre in un’ampia area tra i paesi dell’oristanese, sino a Macomer, insistendo sulle condizioni arretrate del territorio e su una lentezza – quella appunto del carro – incompatibile con la modernità dei mezzi di trasporto a motore. Le descrizioni si accreditano come ‘oggettive’ per lo stile asciutto che caratterizza l’intera narrazione e per il corredo di fotografie scattate dall’autore al fine di documentare con maggiore evidenza i fenomeni tipici di un ritardo economico e culturale dell’Isola rispetto allo sviluppo frenetico di altre aree d’Italia. Ma le finalità documentarie del reportage non bastavano a Cossu neppure in quella fase di esordio e di formazione. Esse dovevano considerarsi – secondo un modello che l’autore aveva appreso dai personalisti francesi e che si era rafforzato e ‘aggiornato’ nel contatto con Adriano Olivetti e con l’ambiente olivettiano – un passo preliminare, una presa di coscienza e di conoscenza delle condizioni di una comunità, cui avrebbe necessariamente fatto seguito il momento dell’individuazione delle responsabilità prima e quello dell’azione individuale e collettiva poi, assieme all’impegno per la rimozione dei problemi. Il viaggio consente al protagonista di descrivere una serie di caratteristiche del paesaggio fisico e socio-antropologico di una parte della Sardegna e di esaltare la vocazione peculiare, l’irriducibile specificità di ciascuna comunità. È questo un modo di presentare l’Isola molto diverso rispetto a quello praticato da molta pubblicistica politica e da altrettanta produzione letteraria: qui la ‘frammentazione’ e la differenza sono considerate un valore e un punto di partenza per il riscatto collettivo; nelle negoziazioni tra Stato e Regione e nel dibattito politico interno, a pochissimi anni (sette per la precisione) dalla promulgazione dello Statuto Speciale per la Sardegna (26 febbraio 1948) e in un momento di grande entusiasmo per i poderosi investimenti promessi dallo Stato per la Rinascita, si preferiva confezionare discorsi identitari che puntavano sui tratti comuni più che su quelli divisivi.

A Cossu e all’intero gruppo di cui faceva parte interessava invece mostrare come si sviluppano nel tempo lungo le relazioni tra un paese e quello vicino. Il cosiddetto ‘campanilismo’, cioè il municipalismo, il provincialismo, è certamente un sentimento negativo se porta il cittadino alla chiusura nel piccolo spazio e al disprezzo per l’altro, ma nell’ottica personalistica e olivettiana il paese è il luogo in cui inizia la promozione dell’individuo a ‘persona’ capace di agire verso il prossimo e con il prossimo, a vantaggio di collettività sempre più ampie. Bisognava dunque senza timore restituire valore alle caratteristiche di ogni individuo, famiglia, quartiere, paese, regione e fare in modo che tale valore si aprisse verso lo spazio esterno. È per questa ragione che il racconto passa da Milis, paese di commercianti scialacquatori e pigri, a Macomer, cittadina industriosa, ricca di bestiame di qualità e capace di produrre ricchezza con i suoi caseifici e con la lavorazione della lana e attraversa la superba Ghilarza fino alla Cuglieri spagnolesca e esterofila. In quell’arcipelago ben delimitato di paesi ben delimitato era necessario anzitutto – secondo la prospettiva di Cossu – compiere un’indagine seria e capace di mettere in evidenza vizi e virtù di ciascuna comunità e di restituire la giusta dignità a ogni campanile. Con la giusta coscienza identitaria, si sarebbe dovuto incentivare e favorire il moto solidale di un paese verso l’altro, per il progresso dell’intera area.

Il campanile, o meglio, la campana è proprio il simbolo che salda istituzionalmente la più olivettiana delle imprese di Antonio Cossu al Movimento Comunità: la fondazione del «Montiferru. Periodico della Comunità del Montiferru». A partire dal primo numero – il numero unico provvisorio in attesa di registrazione del 20 febbraio 1955 – il periodico assume il logo della campana con il cartiglio su cui è incisa la locuzione humana civilitas, un’immagine che Leonardo Sinisgalli aveva trovato tra alcune carte cinquecentesche e che Giovanni Pintori6 aveva ridisegnato come logo per le Edizioni di Comunità e per la rivista «Comunità»7.

Si tratta dunque di un progetto che si inscrive all’interno del reticolo di pubblicazioni promosse dalle Edizioni di Comunità e che rappresenta uno degli ideologemi personalisti di Adriano Olivetti, il quale spiegherà così le ragioni di quell’invocazione umanistica e le finalità che tengono insieme, come un tutto omogeneo, le molte attività industriali e culturali:

Noi guardiamo all’uomo, sappiamo che nessuno sforzo sarà valido e durerà nel tempo se non saprà educare ed elevare l’animo umano, che tutto sarà inutile se il tesoro insostituibile della cultura, luce dell’intelletto e lume dell’intelligenza, non sarà dato ad ognuno con estrema abbondanza e con amorosa sollecitudine8.

Con la sua rivista Antonio Cossu intendeva portare nel suo paese le buone pratiche che si sperimentavano a Ivrea. Si trattava di favorire la costruzione di una comunità vera e solidale in un piccolo paese periferico, Santu Lussurgiu, ma evitando che la stessa si concepisse irrelata, autosufficiente. È infatti a un’area antropologicamente omogenea che si rivolge la testata, il Montiferru appunto, una sub-regione della Sardegna centro-occidentale caratterizzata da un’economia prevalentemente agro-pastorale. Il primo editoriale di Cossu, intitolato Oltre il campanilismo, colloca l’intera operazione tra due tendenze insidiose della modernità politica, il centralismo e l’individualismo, e chiarisce il senso dell’impegno coesivo e solidaristico in chiave federalista. Se la stampa e la politica ignorano e sottovalutano gli interessi dei piccoli paesi, è necessario avere una rivista che ne accolga e amplifichi le istanze, al fine di dotare le piccole patrie comunali di una forza contrattuale maggiore nei confronti delle istituzioni centrali. A supporto degli argomenti esposti, Cossu chiude l’editoriale con la citazione di un brano tratto da un libro di Luigi Einaudi e con un Appello del Consiglio dei Comuni d’Europa. Il brano di Einaudi – che avrebbe terminato il suo mandato da Presidente della Repubblica nel maggio di quello stesso anno 1955 – è particolarmente incisivo per il modo in cui connette il tema del federalismo a quello della libertà:

Federalismo è il contrario di assoggettamento dei vari stati e delle varie regioni ad un unico centro. Il pericolo del concentramento della cultura in un solo luogo si ha negli stati altamente accentrati, dove la vita fluisce da un solo centro politico verso la periferia, dall’alto verso il basso. Ma federazione vuol dire invece liberazione degli stati dalle funzioni accentratrici.9

La questione del rapporto tra il centro del potere e le periferie è – come dicevamo – una costante olivettiana nella rivista, sino all’ultimo numero del luglio-settembre 1957, dove Antonio Cossu presenta un intervento intitolato La Regione e i comuni, per dare conto della terza edizione del Convegno Sardegna d’oggi tenutosi nell’agosto del medesimo anno. La questione del decentramento si pone in relazione al compimento dell’Autonomia regionale e alla pianificazione della rinascita della Sardegna garantita dall’articolo 13 dello Statuto. Per una vera rinascita – sostiene Cossu – occorre creare un reticolo di comuni dotati di sufficiente autonomia, ma saldati l’uno all’altro dagli interessi condivisi e da un progetto più grande, di respiro almeno regionale.

Non si può tuttavia pensare di giungere a un impegno corale di tante comunità verso il bene comune se non si agisce correttamente sui presupposti di ogni relazione, cioè sulla formazione dei singoli cittadini, per fare in modo che ogni individuo acquisti la dignità e la consapevolezza di persona. A questo tema è dedicato il fascicolo che raccoglie i numeri 7-8-9 dell’ottobre-novembre-dicembre 1955. Più precisamente il tema centrale del fascicolo è quello dell’istruzione nella scuola e l’epigrafe viene da Manlio Rossi Doria, politico ed economista di primissimo piano:
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I racconti di Gianni Loy. Di Gulp, di campeggi alpini, di impegni sociali, culturali, politici. E di spensieratezza giovanile.

4fc549cb-7e42-4f5d-987a-86a6f332d2a6Su aladinpensiero ******* Anche su Giornalia.

Racconti. Di Gulp, di campeggi alpini e di altre storie.

17c5b1c5-e2cf-47ad-b4ff-3e20f4926387INCURSIONE IN VAL DI FASSA (Agosto 1969)​.
di Gianni Loy.
Formidabili quegli anni, avrebbe detto Mario (Capanna), ma basterebbe far riferimento anche a un solo anno, il 1969, per esempio, o a una sua porzione, anche piccola.
Il 1969 è stato un anno lungo e intenso. Nel voltarmi indietro, stento a credere che tante cose possano essere successe in pochi mesi. Eppure così è stato. La storia è breve, meno di 10 giorni: una scappatina in quattro, con nonchalance, nel mese di agosto. Per poterla comprendere, tuttavia, occorrono alcune premesse relative al contesto. [segue]

In salute, giusta, sostenibile. L’Italia che vogliamo

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Sbilanciamoci, 18 Aprile 2020 | Sezione: Apertura, Società
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Dopo la pandemia l’Italia non sarà più come prima. Tocca a noi progettare la ricostruzione. In questi “10 punti”, 42 studiosi ed esponenti della società civile aprono la discussione sulle risposte alla crisi e il futuro del Paese: 10 punti per un percorso comune di proposte e pratiche di cambiamento.

Dopo la pandemia di coronavirus l’Italia non sarà più come prima. L’economia arretra, la società si frammenta, la politica fatica a pensare al futuro. Tocca a noi tutti progettare la ricostruzione di un paese migliore, di un’Italia in salute, giusta e sostenibile. Proponiamo un percorso che individui dieci punti fermi, sulla base delle elaborazioni già presenti tra esperti e organizzazioni sociali. A partire da questi si possono sviluppare le linee guida da un lato per le misure d’emergenza immediata, e dall’altro, in una prospettiva più ampia, per i comportamenti delle imprese, le iniziative della società civile, le politiche future.

I dieci punti fermi che proponiamo sono:
1. la ricostruzione di un sistema produttivo di qualità con un nuovo intervento pubblico
2. un’economia sostenibile sul piano ambientale
3. la tutela del lavoro, la riduzione della precarietà, la garanzia di un reddito minimo
4. la centralità del sistema di welfare e dei servizi pubblici universali
5. la centralità del servizio sanitario nazionale pubblico
6. la tutela del territorio e una casa per tutti
7. la riduzione delle disuguaglianze economiche e sociali
8. la riduzione delle disuguaglianze che colpiscono le donne e il riconoscimento del lavoro di cura
9. la giustizia nell’imposizione fiscale
10. un quadro europeo e internazionale coerente con un’economia e una società giusta.

Il percorso che proponiamo è la formazione di un gruppo di lavoro di esperti che sviluppi i dieci punti fermi in proposte concrete – ambiziose ma realizzabili – di interventi economici, cambiamenti sociali, riforme politiche e istituzionali. E la formazione allo stesso tempo di un’alleanza tra organizzazioni sociali, sindacati, campagne della società civile, comunità ed enti locali, forze politiche che condividono questa prospettiva e si impegnano a realizzare i cambiamenti proposti.

Introduzione

La pandemia di coronavirus ha creato una situazione di emergenza che riguarda le nostre vite, il lavoro, l’economia, la società. Nel primo mese ha causato 14mila morti in Italia. Metà dell’umanità è chiusa in casa. Ha imposto pesanti limitazioni sociali e sacrifici economici ai cittadini. Ha aggravato oltre misura il carico di lavoro del personale della sanità, provocando molte vittime. Ha costretto il governo – in Italia come altrove – a prendere misure straordinarie per tutelare la salute e limitare le conseguenze economiche e sociali: tra spesa pubblica diretta per sussidi e garanzie sui prestiti alle imprese siamo arrivati all’ordine di grandezza di un quarto del Pil italiano. Molti hanno paragonato la crisi attuale a una situazione di “guerra”, che richiede una mobilitazione di risorse economiche ed energie sociali senza precedenti. La risposta all’emergenza ha tuttavia stimolato una nuova solidarietà, il senso di comunità, la speranza di poter realizzare i cambiamenti necessari.

Oggi, nel mezzo dell’emergenza, è necessario utilizzare queste risorse sociali e gli strumenti messi in campo dalle politiche non solo per affrontare le esigenze immediate, ma anche per progettare come possiamo ricostruire l’economia e la società italiana dopo la pandemia. Quale Italia vogliamo?

Innanzi tutto un’Italia in salute, capace di garantire a tutti condizioni di vita adeguate, capace di prevenire le malattie e curare le patologie sociali, capace di restare uno dei paesi con la più alta speranza di vita del mondo.

Poi, un’Italia giusta. Di fronte a una pandemia che può colpire tutti, e che chiama tutti a cambiare le proprie vite, l’esigenza di giustizia deve tornare a prevalere dopo decenni in cui le disuguaglianze si sono allargate, i profitti sono cresciuti a danno dei salari, i guadagni della finanza, concentrati tra i più ricchi, sono stati elevatissimi.

Infine, un’Italia sostenibile. Sono molti i legami tra l’insostenibilità ambientale del nostro modello di sviluppo e il peggioramento delle condizioni di rischio e di salute. Il cambiamento climatico è alla radice di molti dei disastri “naturali” e degli “eventi estremi” che hanno colpito il paese. Solo un’Italia sostenibile dal punto di vista ambientale, protagonista nel contrasto a livello mondiale al cambiamento climatico, può prevenire nuove gravi emergenze di origine ambientale.

In questa cornice è necessario ribadire la necessità di un rafforzamento della nostra democrazia, attraverso la partecipazione dei cittadini e il corretto funzionamento delle istituzioni. È questo il modo migliore per combattere i rischi di restrizione dei diritti, autoritarismo e nazionalismo che attraversano il nostro paese.

La crisi economica e sociale e le misure già introdotte fanno emergere alcuni punti fermi da cui partire; individuiamo qui dieci punti che possono definire la traiettoria per l’Italia da ricostruire dopo la pandemia, in un’Europa capace di cambiare rotta. Dieci punti fermi su cui costruire un percorso di approfondimento – con l’impegno di un gruppo di lavoro di esperti – per arrivare a proposte e linee guida per le attuali misure d’emergenza, per i comportamenti delle imprese, per le iniziative della società civile, per le politiche future. Dieci punti fermi su cui costruire un’alleanza tra organizzazioni sociali, sindacati, movimenti e campagne della società civile, comunità ed enti locali, forze politiche che condividono questa prospettiva e si impegnano a realizzare i cambiamenti proposti. I dieci punti fermi sono qui delineati in modo preliminare; dovranno essere precisati con un lavoro comune.

1. La ricostruzione di un sistema produttivo di qualità con un nuovo intervento pubblico

L’emergenza ci ha fatto pensare alle attività “essenziali” e a quelle di cui si può fare a meno. I beni alimentari, le produzioni sanitarie e i servizi pubblici da un lato; le grandi navi al centro del contagio, la produzione di armi, il calcio in tv tutte le sere dall’altro. È una riflessione da cui partire nel progettare la ricostruzione dell’economia del paese. Non può essere “il mercato” – com’è stato in passato – a stabilire che cosa produrre sulla base dei profitti ottenibili. Il che cosa e come produrre deve emergere da una visione del bene comune, da scelte sociali e politiche che definiscano un modello di sviluppo di qualità, con attività ad alto contenuto di conoscenza e tecnologia, alta qualità del lavoro, e piena sostenibilità ambientale. Dopo vent’anni di recessione e ristagno dell’economia italiana, un nuovo sviluppo ha bisogno del ritorno all’“economia mista” del dopoguerra, con un forte intervento pubblico nella produzione, nelle tecnologie, nell’organizzazione dei mercati, orientando in modo preciso le scelte delle imprese attraverso le politiche della ricerca, industriali, del lavoro, ambientali.

L’azione pubblica nell’economia deve appoggiarsi su una pubblica amministrazione rinnovata, efficace, capace di operare per l’interesse pubblico. Occorre riordinare la presenza dello Stato nelle grandi imprese italiane in un gruppo industriale pubblico. Serve una Banca pubblica d’investimento che rinnovi e estenda la Cassa Depositi e Prestiti. Serve una rinnovata azione pubblica che ridimensioni, controlli e regoli la finanza privata. Serve una radicale trasformazione del ruolo del CIPE. Serve un’Agenzia nazionale per l’industria e il lavoro che intervenga per far ripartire le imprese messe in ginocchio dalla crisi e ne rilanci le produzioni. Serve un’Agenzia per la ricerca e sviluppo, l’innovazione, gli investimenti in nuove tecnologie. Serve un’Agenzia pubblica che indirizzi le produzioni legate al sistema sanitario del paese. Serve un soggetto economico pubblico che guidi la transizione verso la sostenibilità ambientale. Nuove imprese possono nascere con capitali privati e partecipazioni pubbliche iniziali. La domanda pubblica può essere utilizzata per stimolare innovazioni e investimenti.

Dalla politica di questi anni fondata sul sostegno indiscriminato alle imprese, attraverso facilitazioni e incentivi fiscali, bisogna passare al sostegno selettivo e mirato di produzioni e attività economiche strategiche e utili al paese: infrastrutture materiali e sociali, attività ad alta intensità di conoscenza, innovazione e lavoro qualificato. Al posto delle politiche “orizzontali” che lasciavano fare al mercato, l’impegno pubblico per la ricostruzione dell’economia potrebbe concentrarsi in tre aree: la sostenibilità ambientale, le attività per la salute e il welfare, le tecnologie digitali. I primi due ambiti sono discussi nei punti successivi. Le tecnologie digitali hanno applicazioni in tutta l’economia: il web, l’informatica, il software, le comunicazioni, le apparecchiature elettroniche, i servizi digitali pubblici e privati. Qui l’Italia ha perso grandi capacità produttive e si è abituata a importare quasi tutto dall’estero; si devono ricostruire le competenze necessarie per uno sviluppo di qualità e occorre garantire a tutti gli italiani un servizio universale di banda larga minima.

All’opposto, ci sono produzioni da ridimensionare e riconvertire, utilizzando gli stessi strumenti di politica industriale: innanzi tutto l’industria delle armi, che non producono sicurezza, ma nuovi conflitti, poi le produzioni ambientalmente insostenibili (punto 2) e le attività e i servizi di più bassa qualità sociale.

Ci sono grandi imprese in difficoltà da anni – come Ilva e Alitalia – per cui è essenziale un intervento diretto dello stato per realizzare le necessarie riconversioni e mantenere le attività economiche. L’estensione del “golden power” del governo a diversi settori produttivi essenziali per l’economia italiana è un passo significativo per proteggere l’industria nazionale di fronte ai rischi di acquisti da parte di imprese straniere. Occorre però una programmazione più ampia con le imprese; vanno sviluppati accordi di lungo periodo con gruppi di imprese italiane e con le multinazionali che producono in Italia, offrendo i benefici di queste politiche e della domanda pubblica in cambio di piani precisi di produzione, garanzie contro la delocalizzazione all’estero delle produzioni, mantenimento della sede nel nostro paese e pagamento delle tasse in Italia, reinvestimento dei profitti, ricerca, occupazione qualificata.

Per favorire il miglioramento tecnologico delle produzioni italiane è necessario un massiccio investimento nella scuola, nella ricerca pubblica e nell’università, ritornando ai livelli di spesa e personale di dieci anni fa e favorendo il ritorno dei ricercatori italiani emigrati all’estero. Nella pubblica amministrazione e nelle imprese occorre aumentare le competenze e le capacità innovative, spingendo le aziende sulla via della ricerca e delle nuove tecnologie.

Nel ricostruire la base produttiva del paese è essenziale rovesciare la divergenza tra poche aree dinamiche – in Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Piemonte –, un Centro-nord che ristagna o declina e un Mezzogiorno abbandonato a se stesso. La riduzione dei divari, nelle capacità produttive prima ancora che nei redditi, tra le regioni italiane dev’essere un obiettivo prioritario della nuova politica industriale.

L’eliminazione dei divari tra i territori del nostro paese è lo strumento più efficace per combattere mafie e criminalità organizzata. È inoltre necessaria la tracciabilità ai fini antimafia dei pagamenti legati ai fondi pubblici per l’emergenza.

Un ritorno all’intervento pubblico non è privo di difficoltà e rischi. Serve una nuova generazione di politiche che evitino di cadere negli errori passati: la collusione tra potere economico e politico, la corruzione e il clientelismo, la mancanza di trasparenza e di controllo democratico. Servono una politica e una pubblica amministrazione con alte competenze, capacità di organizzare le risorse del paese e dare risposte ai bisogni. Per cominciare, è necessario ripristinare regole sul meccanismo delle “porte girevoli”, e rompere così la pratica del passaggio continuo di manager e banchieri a responsabilità pubbliche e di politici a responsabilità aziendali, una fonte di collusione e corruzione; passaggi di questo tipo possono essere possibili solo dopo almeno cinque anni di interruzione degli incarichi precedenti.

Per assicurare la coerenza delle politiche realizzate è necessario prevedere meccanismi di valutazione – trasparenti e partecipativi – degli impatti a breve e lungo termine degli strumenti messi in campo.

Accanto all’esigenza di un nuovo modello di crescita economica, c’è bisogno di cambiare il metro di misura che abbiamo. Vanno sviluppate misure efficaci del benessere e della sostenibilità, a partire dal BES (il Benessere Equo e Sostenibile documentato dall’Istat) per poter valutare i progressi del paese verso un nuovo sviluppo.

2. Un’economia sostenibile sul piano ambientale

L’economia del dopo-emergenza dovrà essere basata su prodotti, servizi, processi e modelli organizzativi capaci di utilizzare meno energia, risorse naturali e territorio e di avere effetti minori sugli ecosistemi e sul clima. Il blocco della produzione legata alla pandemia ha portato a ridurre le emissioni di CO2; la ripresa dell’economia deve mantenere le emissioni sotto le soglie necessarie per evitare il cambiamento climatico.

La prospettiva del Green New Deal, aperta anche dalla Commissione europea, deve diventare un aspetto chiave delle politiche di cambiamento, con una visione d’insieme e grandi risorse. Occorrono però obiettivi precisi e misure concrete. Per l’energia si può fissare l’obiettivo del 100% di elettricità prodotta da fonti rinnovabili entro il 2050 e prendere misure che aumentino radicalmente l’efficienza energetica di abitazioni, uffici, motori, elettrodomestici, eccetera.

Per le auto, si può fissare l’obiettivo di eliminare la produzione di motori a combustione interna entro il 2030. Per i trasporti delle persone si deve passare dal modello dell’auto privata individuale alla mobilità integrata sostenibile, sviluppando forme alternative di mobilità, il trasporto pubblico locale e i servizi ferroviari sulla media e corta distanza, dove si concentra l’80% dell’utenza. Per il trasporto merci si devono ridimensionare le reti della logistica e scoraggiare il trasporto merci di lunga distanza su gomma. Entrambi i progetti richiedono grandi programmi di investimenti pubblici, centrati sulle “piccole opere”.

Occorre ridimensionare le posizioni di rendita, in particolare dei monopoli che controllano le reti elettriche e energetiche, che rappresentano un ostacolo alla conversione energetica. Bisogna puntare sull’agricoltura biologica – con produzioni sostenibili e di piccola scala – sulla chimica verde, su una cantieristica che sviluppi il trasporto merci via mare al posto del turismo su enormi navi da crociera che hanno un gravissimo impatto ambientale. L’intero ciclo di vita delle merci va riorganizzato sulla base dell’“economia circolare”, avvicinandosi all’obiettivo di “rifiuti zero”, favorendo il recupero e riuso dei materiali, moltiplicando gli impianti di riciclaggio al posto di inceneritori e discariche.

Gli interventi in tutti questi ambiti potrebbero essere coordinati da un’Agenzia per la sostenibilità, un soggetto economico pubblico che dia coerenza a strategie e investimenti, promuova la ricerca e l’innovazione ambientale, organizzi la domanda pubblica, orienti l’azione delle imprese private, facendo delle produzioni sostenibili un punto di forza dell’economia del paese.

Occorre un’eliminazione progressiva dei quasi 20 miliardi di sussidi pubblici che vanno ogni anno ad attività che danneggiano l’ambiente, in particolare i combustibili fossili. A parità di imposizione fiscale complessiva, occorre spostare il carico fiscale verso un ampio uso di tasse ambientali; in questo modo si possono “correggere” i prezzi dei beni e spingere produttori e consumatori a comportamenti più sostenibili. Il principio di sostenibilità deve diventare un criterio pervasivo in tutte le scelte individuali e collettive.
[segue]

Oggi venerdì 14 giugno 2019

democraziaoggisardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413filippo-figari-sardegna-industre-2 senza-titolo1
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Ricorso elettorale contro l’imbroglio delle adesioni “tecniche”: i ricorrenti perdono, ma è solo il primo tempo, il secondo si gioca a Roma, davanti al Consiglio di Stato, ed è lì che si vince o si perde
14 Giugno 2019
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
Respinto il primo ricorso contro la legge elettorale sarda. L’avv. Antonio Gaia ed altri avevano denunciato la violazione dell’art. 21, il quale prevede che le liste dei candidati, per ogni circoscrizione, debbano essere sottoscritte da un certo numero di elettori. Precisamente:
a) da non meno di 500 e non più di 1.000 elettori iscritti nelle […]

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Due semplici ragioni per sostenere Francesca Ghirra sindaco di Cagliari
Di Giovanni Maria Bellu – 14/06/2019 su Il Risveglio della Sardegna.
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Perché il mondo dell’indipendentismo e dell’autodeterminazione dovrebbe scegliere Francesca Ghirra.
di Roberto Loddo su fb
La Regione Autonoma della Sardegna è ufficialmente entrata a far parte dell’internazionale dell’intolleranza. [...]

Per salvare la nostra Casa, la Terra! Un’alleanza per il clima, la Terra e la giustizia sociale

coordinamento-democraziaPubblichiamo il documento Laudato Si’, risultato di un lavoro a molte voci, su iniziativa della Casa della carità di Milano. Un lavoro aperto perché è possibile tuttora avanzare suggerimenti, proposte e perché le varie posizioni non sono giustapposte, ma convivono l’una a fianco dell’altra e come ricorda Maria Agostina Cabiddu non c’è un prendere o lasciare di tutto il documento.
- Il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, che ce lo ha inviato, sottolinea di essere interessato a questo lavoro, in cui tanti si sono impegnati come singoli e come associazioni.
- Questo documento è presentato da brevi scritti di Raniero La Valle e di Maria Agostina Cabiddu, entrambi componenti del direttivo nazionale del Cdc, che hanno partecipato al lavoro di costruzione del documento.
- La Valle in particolare pone un problema politico fondamentale: trovare le modalità per attuare politiche che non sono realizzabili senza un salto di qualità di strumenti e di iniziative.
- Può sembrare un’utopia. In realtà le utopie sono necessarie per individuare percorsi nuovi, per avere una nuova stella polare istituzionale e politica. Basta ricordare che per regolare I rapporti tra i mercati nazionali è stata costruita una struttura sovranazionale come il WTO, come del resto ne sono state costruite altre.
- Oppure sono stati ipotizzati trattati tra grandi aree del mondo per regolare i commerci, come quello tra Europa e Canada.
- Perché mai i mercati debbono potere proporre e attuare discutibili proposte di regolazione, che arrivano a mettere sullo stesso piano gli Stati e le multinazionali, mentre se si tratta di cambiare in profondità il sistema economico, le sue relazioni, i suoi obiettivi tutto questo viene liquidato come una utopia ?
- In fondo il milione di giovani e ragazze che ha manifestato per il clima e l’ambiente in tutto il mondo, proseguendo l’impegno e il protagonismo proposto da Greta Thumberg pone esattamente il problema della svolta politica ed istituzionale di cui c’è bisogno.
- La Valle con la consueta lucidità pone il problema, ipotizza delle soluzioni. La soluzione concreta dipenderà da tutti noi e quindi è bene che se ne discuta.

Per La Presidenza di CdC
Alfiero Grandi
28/5/2019
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logo-laudato_sii_homeDOCUMENTI UTILI

- La Valle – presentazione.pdf

- Cabiddu – Commento.pdf

- Un’alleanza per il clima, la Terra e la giustizia sociale 13 maggio 2019.pdf

Ricordando don Paolo De Magistris

paolo-de-magistri-sindaco-di-caRicordando don Paolo De Magistris (Cagliari, 4 gennaio 1925 – Cagliari, 21 giugno 1998) a vent’anni dalla morte. Commemorazione del Consiglio Comunale di Cagliari, Aula consiliare, martedì 26 giugno 2018.
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Intervento di Franco Meloni

Sono stato consigliere comunale della consigliatura 1980-1985 (VIII) del Comune di Cagliari. All’esordio avevo dunque precisamente 30 anni.
Di don Paolo De Magistris (che aveva 25 anni più di me) ho molti bei ricordi. Innanzi tutto: don Paolo. Così lo chiamavano tutti ed io volentieri mi adeguai perché Lui aveva diritto a un titolo che lo distinguesse, l’altro era Signor Sindaco, per antonomasia come per Ottone Baccaredda. A Lui mi legava un singolare rapporto di rispetto e di affetto: singolare, essendo io all’epoca politicamente distante dalle sue posizioni politiche-partitiche (lui democristiano convinto, io appartenente a un partito di estrema sinistra, Democrazia proletaria, poi denominatosi Democrazia proletaria sarda), ma ambedue cattolici (lui profondamente religioso e praticante assiduo, io molto, molto meno) e, sicuramente, anche per questa comune matrice, spesso sostanzialmente convergenti quanto a sensibilità sociale. Per Lui anche eredità del padre Mondino, il medico dei poveri, il medico della mia famiglia (Diceva mia madre, che lo aveva come medico di famiglia – e che lo considerava Santo – che quando si mostrava rattristata di non poterlo compensare per le sue prestazioni professionali per la nostra famiglia, numerosa e povera, il dottor De Magistris, rispondeva “No ti preocupis Mariuccia. Faimì un’Ave Maria e bai cun Deus”). Ma torniamo a Paolo. Sono stato sempre totalmente convinto della sua personale onestà e ammiratore della sua capacità di abnegazione come uomo al servizio delle Istituzioni e della cittadinanza. Mi affascinava poi la sua profonda cultura e la capacità di dimostrarla, senza spocchia e con quell’umiltà che tuttavia non ne celava il possesso e lo spessore.
Del mio rapporto politico e umano con don Paolo ricorderò tra i tanti episodi che hanno affollato la mia mente nel preparare questo intervento, solo alcuni. Qualcosa in più, ma non molto, lascio scritto nella nota che ho consegnato al Presidente del Consiglio Comunale Guido Portoghese e al Sindaco di Cagliari Massimo Zedda, che qui colgo l’occasione di ringraziare per questo invito, unitamente al ringraziamento alla famiglia di don Paolo e specialmente al figlio Luigi.
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Dunque i Ricordi
Il primo da consiglieri comunali, ambedue soldati semplici (periodo 1980-1984);
il secondo (con una breve aggiunta) quando Lui tornò ad essere Sindaco, a fine consigliatura nel 1984;
il terzo quando Lui aveva abbandonato l’amministrazione e la politica, dopo gli anni 90.

Cito tutto, sul filo della memoria, essendomi però premurato di verificare i riscontri temporali e quindi l’attendibilità effettuale degli episodi ricordati.
[segue]

Ripensare la Sardegna. Un Nuovo Piano di Rinascita della Sardegna Possibile e Auspicabile

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di Roberto Mirasola

Ultimamente gli impegni politici mi portano spesso fuori Cagliari consentendomi un riscontro sempre più preciso delle ripercussioni nel territorio che ha avuto l’istituzione della città metropolitana con l’approvazione della Legge Regionale 2/2016 con la quale si è proceduto al riordino del sistema delle autonomie locali in Sardegna. La città metropolitana di Cagliari ha un senso se riuscirà a svolgere un ruolo guida al servizio dell’isola, se riuscirà ad essere motore per lo sviluppo economico di tutti, se riuscirà a redistribuire nel territorio le molte risorse che riceve sia dall’U.E. sia dal governo centrale. Questo del resto era previsto nella relazione introduttiva alla legge.
Il timore è che invece tutto sia incentrato nella sola città madre ovvero Cagliari. Queste stesse preoccupazioni hanno fatto si che durante il percorso legislativo che l’ha istituita si creassero polemiche dannose che hanno trovato il culmine nella localizzazione della sede dell’Ats a Sassari. Riforme di questo genere devono essere quanto mai condivise e devono unire e non dividere.
Il problema se vogliamo non riguarda la sola novità della città metropolitana ma l’intera riforma degli enti locali. Riforma incentrata sull’esigenza minima di razionalizzare la spesa senza preoccuparsi di dare un’adeguata risposta alle esigenze dei territori, perché non si è voluto tener conto delle differenze. Pensate alla provincia del Sud Sardegna con capoluogo a Carbonia ma che si estende fino all’Ogliastra (fagocitata dalla provincia di Nuoro). Si è pensato di aumentare gli enti senza curarsi delle conseguenze, con il rischio di un ulteriore spopolamento delle zone interne a vantaggio delle aree urbane più sviluppate e verso i centri costieri. Rischio rafforzato e purtroppo confermato dalla Legge sull’urbanistica.
Le riforme istituzionali dovrebbero essere incentrate in un’ottica di sviluppo locale oggi totalmente assente. L’altro giorno ho osservato con grande attenzione i dati sulla disoccupazione in Sardegna che ha ricavato Salvatore Multinu dalla lettura dei dati ISTAT. Così mentre il Sistema Informativo del Lavoro sostiene che l’occupazione su base annua aumenta del 3% i dati ricavati dall’Istat ci dicono che i disoccupati sono aumentati dal 2006 al 2016 del 6,6%. Certo lo stesso Sistema Informativo spiega che l’analisi di questi dati può indurre in errore travisando la realtà. A questo punto noi spostiamo la nostra visuale e chiediamoci come mai tra il 2007 e il 2016 ben 21.746 sardi sono emigrati all’estero e nel solo 2016 le persone che hanno lasciato l’isola sono ben 3.370. Se consideriamo che partono generalmente i laureati e i diplomati allora ci dobbiamo chiedere quale futuro può avere questa terra se molti tra i suoi figli migliori vanno via.
Dico queste cose perché i temi istituzionali e quelli dello sviluppo sono strettamente connessi e quando parliamo di sviluppo dobbiamo chiederci se è il caso di continuare con un sistema industriale completamente estraneo al contesto Sardo basato sulle importazioni più che sulle esportazioni, con industrie come la chimica, la petrolchimica, la produzione dell’alluminio che hanno portato disoccupazione e miseria lasciando tra l’altro l’ambiente circostante fortemente compromesso avendolo inquinato, oppure voltare pagina e puntare sulle energie rinnovabili, l’agroalimentare, l’economia del mare, il turismo e il rilancio della nostra agricoltura.
Concludo con una riflessione. Noi abbiamo bisogno di una Regione snella capace di decentrare funzioni alla periferia per stimolare la capacità a risolvere i problemi locali, che le consenta di concentrarsi maggiormente in un rapporto alla pari con lo Stato Centrale, perché non è pensabile che da una parte lo Stato declini le sue responsabilità e faccia sparire dalla Costituzione il tema delle isole e del mezzogiorno e dall’altra faccia onore all’impegno previsto dallo Statuto sardo che all’art.13 recita: lo Stato col concorso della Regione dispone un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale dell’isola. Forse è proprio dalla rivendicazione di un Nuovo Piano di Rinascita che occorre ripartire, unificando su questo grande obbiettivo i movimenti e i partiti che li sostengono e rappresentano.
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lampadadialadmicromicro133Recente dibattito su ipotesi di Nuovo Piano di Rinascita della Sardegna: Vanni Tola su Aladinews.

Un nuovo Piano di Rinascita della Sardegna è possibile? Sì con la forza dell’impegno e della speranza dei Sardi, contro la rassegnazione e la disperazione

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di Vanni Tola.

sardegnaUN NUOVO PIANO DI RINASCITA PER LA SARDEGNA, ENDOGENO E AUTOCENTRATO

Parlare delle prospettive di lavoro e occupazione in Sardegna è possibile a condizione che si acquisiscano alcuni elementi fondamentali per rilevare la situazione attuale. Ne indicherei almeno due. Un’analisi puntuale delle caratteristiche del mancato sviluppo, dell’errata ipotesi di sviluppo che ha governato gli anni dei Piani di Rinascita. Una ricognizione accurata e non idealista delle reali potenzialità produttive e quindi occupazionali della nostra isola e in rapporto con il contesto economico e sociale della parte di mondo nella quale operiamo e con la quale dobbiamo confrontarci. Sintetizzando e rimandando, per brevità espositiva, ai numerosi e validi studi relativi agli anni della Rinascita mancata, direi che c’è un punto comune dal quale partire. Il modello di sviluppo prospettato dai Piani di Rinascita, per certi versi interno alle scelte per il contrasto del ritardo di sviluppo del meridione e quindi con elementi comuni rispetto ad altre aree geografiche dell’Italia, si è rivelato fallimentare per quanto concerneva l’incremento dell’occupazione e una migliore valorizzazione delle poche risorse isolane. Il sogno dell’industria di base (principalmente petrolchimica) concentrata nei “poli industriali”, che avrebbe dovuto generare intorno a se uno sviluppo industriale indotto e una complessiva crescita dell’economia regionale, non ha soddisfatto tali aspettative. Ha anzi concorso a drenare ingenti risorse finanziarie destinate alla Sardegna e a generare profitti che non sono stati reinvestiti nell’isola. Dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul banditismo in poi si è sviluppato un grande dibattito sulle cause del fallimento della politica della rinascita e sul fallimento dell’ipotesi di sviluppo industriale scelta dalla classe politica regionale e nazionale per la Sardegna. Tale riflessione deve costituire il punto di partenza di una nuova ipotesi di sviluppo che concentri l’attenzione e l’impiego delle risorse finanziarie nella direzione della valorizzazione delle risorse locali, prime fra tutte l’agro-pastorizia, l’industria alimentare e quella turistica. Ipotesi di sviluppo appunto, solo ipotesi, non sempre suffragate da validi studi di settore, spesso orientate a soddisfare i desideri di un immaginario collettivo piuttosto che rispondenti alle prospettive di sviluppo effettive che tali comparti produttivi sembravano indicare. Sono gli anni che mi piace definire “delle centralità ”. Una schiera infinita di analisti e tecnici di settore, per qualche decennio, non hanno fatto altro che indicare modelli di sviluppo che traessero origine dalla centralità del proprio comparto di appartenenza. E’ noto, mi si perdoni la battuta, che un cerchio, inteso come figura geometrica, ha un centro, uno solo, non si discute. In Sardegna invece si sono sprecati convegni, studi di settore, si sono scritti libri per dimostrare, di volta in volta, la centralità dell’agricoltura e della pastorizia, la centralità del turismo, la centralità della pesca, la centralità dei trasporti e via dicendo fino alla centralità della produzione di energia alternativa o della chimica verde. Tutte centralità descritte come potenzialmente in grado di innescare meccanismi di sviluppo dell’economia isolana con interessanti ricadute in termini di sviluppo, occupazione e benessere. Quando ci si è resi conto che è difficile immaginare un cerchio con molti centri si è passati alla fase degli abbinamenti tra comparti “centrali”. Sviluppare l’agricoltura per incrementare anche il turismo, sviluppare il comparto agro alimentare per creare una industria agro-alimentare in grado di trasformare i nostri prodotti e via dicendo. Va da se che ciascuna dichiarazione di centralità di un comparto celava la implicita richiesta di orientare i finanziamenti disponibili principalmente a quel comparto piuttosto che agli altri. Una triste e inconcludente lista di desideri. Nella realtà non si è andati oltre le corrette indicazioni per una ipotesi di sviluppo dell’isola che ponga al centro la valorizzazione delle risorse locali con riferimento ai nuovi contesti di politiche e scambi commerciali internazionali. Domandiamoci allora quali fattori, quali elementi hanno impedito lo sviluppo economico e socio culturale dell’isola. Cerchiamo di comprendere se la crisi occupazionale e dell’apparato industriale sardo debba essere esclusivamente attribuita a fattori congiunturali propri del contesto di crisi internazionale o alla oggettiva incapacità della politica regionale di orientare e gestire tali fantasiosi e mai realizzati proponimenti. C’è un’unica risposta da fare crescere la Sardegna e con essa l’occupazione dei Sardi, un nuovo Piano di Rinascita che un gruppo minoritario di intellettuali ha più volte indicato nei decenni passati proponendo e immaginando un Piano di sviluppo “endogeno e autocentrato”. Endogeno nel senso che deve trarre origine dalla valorizzazione delle risorse locali (quelle vere) e delle capacità di sviluppo del sistema Sardegna. Autocentrato nel senso che la sua realizzazione non dovrà rispondere a interessi di altri centri di potere che non siano quelli esistenti e operanti in Sardegna sotto un reale governo della Giunta Regionale. I vecchi Piani di Rinascita sono stati funzionali a una idea di sviluppo che ruotava intorno alla diffusione di un modello di crescita che poneva al centro lo sviluppo dei poli petrolchimici per la chimica di base, prospettando una miracolosa “discesa a valle” delle produzioni con la creazione di un indotto mai nato nell’isola.
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Mostri

bayer-logoAGRICOLTURA: ACCORDO FRA BAYER E MONSANTO. NASCE IL COLOSSO DEL FARMING MONDIALE.

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di Vanni Tola

La notizia era nell’aria. Si sapeva da qualche tempo che la multinazionale farmaceutica tedesca Bayer pensava di acquisire la Monsanto, il colosso mondiale della produzione di sementi e pesticidi. L’annuncio ufficiale dell’avvenuta fusione è arrivato insieme ai primi dati sull’operazione. Intanto i costi. Per impadronirsi della multinazionale americana Monsanto la Bayer sosterrà un costo di circa 66 miliardi di dollari. Un’operazione di grandi proporzioni che unisce due attività produttive molto differenti ma anche complementari. La Monsanto metterà a disposizione la propria consolidata leadership nella produzione di sementi e pesticidi e la piattaforma Climate Corporation (società recentemente acquisita da Monsanto che si occupa del miglioramento delle produzioni agricole attraverso un più efficiente utilizzo dei dati). La Bayer, dal suo canto, renderà disponibile la propria linea produttiva di Bayer Crop Protection per colture in tutte le aree geografiche di maggiore rilevanza al mondo. Insieme, le aziende avranno capacità innovative di primo piano e piattaforme tecnologiche molto evolute che nei piani a medio e lungo termine della Bayer dovranno accelerare l’innovazione dell’agricoltura fornendo ai propri clienti soluzioni potenziate per i problemi della produzione agricola e prodotti ottimizzati basati progetti analitici agronomici innovativi da supportare con le applicazioni di Digital Farming. La fusione dei due colossi, da sempre oggetto di denunce e azioni di contrasto delle organizzazioni che difendono la tutela dell’ambiente, darà vita ad un gruppo industriale con un fatturato di 67 miliardi di dollari l’anno. In questo modo Bayer aumenterà il fatturato derivante dal comparto agricolo dall’attuale 22 al 40 per cento. Una questione importante che ci interessa direttamente. Come si è arrivati alla stipulazione di quest’accordo? Quali sono gli antefatti che lo hanno reso possibile? Quali i rischi per l’agricoltura mondiale? L’interesse della Bayer per la Monsanto si è manifestato in concomitanza con le indecisioni e le incertezze manifestate dall’Unione Europea riguardanti la questione del glifosato, uno degli erbicidi più diffusi al mondo, e conferma molti dei timori manifestati da più parti contro la stipulazione del trattato TTIP che vive adesso un momento di crisi, (molti parlano ormai apertamente di fallimento delle trattative in corso tra i paesi contraenti). L’Unione vive una fase di forte pressione relativamente appunto all’atteso rinnovo del permesso di consentire l’uso dell’erbicida glifosato, che poi altro non è che una delle tante questioni aperte nella più generale trattativa sul Parternariato transatlantico sul commercio e gli investimenti (ovvero il TTIP). Discussioni e decisioni non di poco conto che potrebbero decidere cosa coltiveremo e mangeremo nei prossimi decenni. E’ in discussione infatti la possibilità di abbassare gli standard di qualità e sicurezza che fino ad ora hanno protetto l’ambiente e la salute dei cittadini europei introducendo pratiche molto più funzionali alle politiche e alle pratiche delle multinazionali del comparto primario e della chimica. Il pericolo rappresentato dalla fusione tra la Bayer e la Monsanto deriva appunto dal fatto che attraverso tale unione si va creando un monopolio potenzialmente in grado di intervenire negativamente a favore della riduzione sugli standard di protezione ambientale, di salute pubblica e di qualità delle produzioni agricole certificate in Italia e in Europa. Tempi cupi anche per l’agricoltura mondiale. Attualmente il settore agrochimico mondiale vale circa 85 miliardi di euro ed è controllato da poche imprese internazionali che tendono, con altre concentrazioni che stanno per realizzarsi, a diventare sempre più un ristretto oligopolio. Si parla, infatti, anche di possibili fusioni tra Syngenta-Chemchina e Dow Chemical-DuPont. L’unione Bayer – Monsanto, che si completerà entro il 2017, creerà al gruppo numero uno al mondo, che da solo controllerà il 24 per cento del mercato dei pesticidi e il 29 per cento di quello delle sementi. Quali potrebbero essere le probabili conseguenze di questa gigantesca operazione di concentrazione dei grandi gruppi agro-farmaceutici, è facilmente intuibile. Una delle principali è, senza dubbio, l’aumento dei prezzi, sia per i produttori sia per i consumatori, al quale si accompagnerà il calo dell’offerta e quindi anche della biodiversità. Come pure è probabile un maggiore impegno della tedesca Bayer nel comparto delle produzioni Ogm puntando sulla scomparsa del logo Monsanto diventato ormai un punto di riferimento importante degli oppositori agli organismi geneticamente modificati. Sia ben chiaro che qualora ciò accadesse scomparirebbe o sarebbe ridimensionato soltanto il marchio Monsanto, ma non di certo gli Ogm che rimarrebbero con tutte le loro contraddizioni.
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Quale sviluppo per la Sardegna?

pigliaru-si-fa-cdarico-181x300Tola3-2nov14sedia di VannitolaLa sedia
di Vanni Tola
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Chimica verde – Proviamo a parlarne senza pregiudizi?

Recentemente, mentre erano in corso a Roma incontri ad alto livello per esaminare il futuro della chimica italiana e dei progetti della chimica verde, due interventi sulla pagina “lettere e commenti “ del quotidiano La Nuova Sardegna ci consentono di ritornare sul tema della chimica verde del quale ci siamo ampiamente occupati nel nostro giornale. La probabile cessione della società Versalis da parte dell’Eni a una società d’affari poco interessata alla riconversione del petrolchimico di Porto Torres potrebbe rappresentare la fine del progetto Chimica Verde. Mobilitazione dei lavoratori chimici in tutta Italia e si riapre la discussione sul futuro della chimica. Parla Paola Pilisio del Comitato No Chimica Verde/No Inceneritore. “Bene abbiamo fatto a chiamarci No Chimica Verde/No Inceneritore e male fa ammetterlo ma avevamo ragione sia sulla chimica verde che sull’inceneritore. Che questo progetto fosse un’idea balzana, cancerogena e fallimentare, lo abbiamo detto all’indomani del protocollo d’intesa siglato a Roma nel Maggio 2011”. La farsa Matrìca e quello che conteneva è servita solo all’Eni per continuare a evitare le bonifiche. Il futuro di Portotorres non è nella chimica”. Ed ancora: “La chimica verde non è mai esistita nei programmi dell’Eni, cardi, mater-bio, tutta propaganda per i beoti, il vero progetto, di verde e di bio, non aveva neanche il nome. La centrale termoelettrica di Versalis è la stessa che avrebbe dovuto alimentare la centrale a biomasse di Matrìca, prima a Fok, derivato della lavorazione dell’etilene, residuo tossico e altamente cancerogeno contro il quale i nostri amministratori si sono battuti, ottenendo alla fine che fosse alimentato solo a Gpl. Gli stessi che alle nostre spalle e lo stesso giorno, il 17 gennaio del 2014 mentre obbligavano Matrìca all’uso esclusivo del Gpl per la centrale termoelettrica, rinominata in questo caso “caldaia di riserva”, davano parere favorevole al rilascio di un Aia ( Autorizzazione integrata ambientale) concessa dal Ministero dell’Ambiente che permette alla Versalis di bruciare 50.000 tonnellate di Fok e 90.000 di Btz l’anno per 7 anni, nella centrale termoelettrica. Ora, che la chiamino caldaia di riserva per Matrìca o centrale termoelettrica per Versalis, il punto non cambia perché l’impianto è lo stesso, cioè un inceneritore per rifiuti speciali tossico nocivi, che di verde non ha proprio niente. L’Eni sta facendo molti soldi bruciando a Portotorres, in maniera illegale, i residui altamente tossici della lavorazione dell’etilene”. Fin qui le posizioni del Comitato No Chimica Verde/No Inceneritore. A stretto giro di posta risponde, nella citata pagina della Nuova Sardegna, Marco Dettori, lavoratore chimico di Porto Torres, il quale entrando nel merito delle questione esposte dalla rappresentante del Comitato anti Chimica Verde afferma: “Il fatto più assurdo è che si confonda la centrale di riserva alla centrale a biomasse (che comunque non verrà costruita) con la centrale elettrica di Versalis, sostenendo che quest’ultima sia anche un inceneritore, il quale brucerebbe “residui speciali tossico nocivi”. Nel protocollo sulla chimica verde, la caldaia di riserva non equivale all’odierna centrale elettrica di Versalis; questo è riscontrabile dalle carte e dai progetti, depositati e resi pubblici. Le due centrali, a progetto, risultavano ben distinte ed avrebbero svolto compiti totalmente differenti, è utile precisare che la centrale a biomasse avrebbe dovuto bruciare solo ed esclusivamente gli scarti di produzione degli impianti di chimica verde (si parla di scarti vegetali). Il Fok, rispetto ai comuni oli combustibili, ha la caratteristica di non avere alcun contenuto di zolfo e di metalli pesanti, a differenza dei Btz ed Atz (basso e alto tenore di zolfo). Ora, considerando che il Fok sia il miglior olio combustibile in circolazione, che la centrale a biomasse non verrà costruita e di conseguenza neanche la caldaia di riserva, quel’è l’utilità di parlare di problemi che non esistono?” A parere dell’operaio chimico analisi quali quelle prodotte dal Comitato No Chimica Verde servono soltanto a gettare fango sulle politiche societarie che tendono alla dismissione di asset strategici della chimica nazionale. Si fa disinformazione e ci si comporta da incoerenti parlando di inquinamento e di tumori e ignorando o fingendo di ignorare che gran parte dei prodotti che oggi utilizziamo nella vita di tutti i giorni, nelle nostre auto ( olii, combustibili, parti meccaniche, componenti degli pneumatici, freni frizioni) vengono prodotti con la chimica tradizionale e i derivati del petrolio mentre potrebbero essere ottenuti con prodotti di origine vegetale, con residui biodegradabili e compostabili. “Noi lavoratori crediamo fermamente nel progetto della chimica verde e della chimica sostenibile. Siamo sicuri di possedere sul territorio un bagaglio di conoscenze tecniche e scientifiche invidiabili in tutto il mondo. Le produzioni di acido azelaico e pelargonico sono di eccelsa qualità e per questo motivo riteniamo indispensabile che vengano confermati gli investimenti sul progetto. La chimica verde è un’opportunità unica al mondo e sarebbe inaccettabile non proseguire su questo percorso di riconversione industriale”. Riusciremo mai in Sardegna ad analizzare problemi di fondamentale importanza per il futuro dell’isola evitando analisi fortemente condizionate da pregiudizi e posizioni estremizzate? O continueremo a rincorrere favole metropolitane. C’è ancora oggi chi pensa che qualcuno (brutto e cattivo) voglia seminare cardi da Macomer in su fino a Portotorres e canna comune da Portotorres a Cagliari per prodotti di bioraffineria. C’è chi pensa che la chimica e la biochimica, insieme alla bioingegneria rappresentino il male assoluto che l’Isola deve evitare a prescindere. C’è chi pensa che le energie alternative a quelle prodotte con petrolio e carbone siano sempre e comunque qualcosa di minaccioso e oscuro che produce soltanto operazioni di malaffare. Proviamo a riflettere sull’argomento senza pregiudizi, forse comprenderemo meglio ciò che ci accade intorno.

Veleni a Ottana e in tutta la Sardegna… un problema da scavare

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di Vanni Tola

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SCOPERTE DISCARICHE INTERRATE DI RIFIUTI INDUSTRIALI ALTAMENTE TOSSICI E INQUINANTI
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Ottana – Un blitz dei Carabinieri nella zona industriale ha portato alla luce discariche interrate contenenti materiali altamente tossici e inquinanti. L’operazione, condotta dai Carabinieri del Nucleo operativo di Ottana e del Nucleo operativo ecologico di Sassari, ha interessato alcuni terreni intorno all’area Pip (Piani per l’Insediamento Produttivo) nell’area industriale di Ottana e si è conclusa con la messa sotto sequestro delle aree oggetto dell’intervento. Seguiranno ulteriori accertamenti di natura tecnica, chimica e biologica per valutare l’entità del fenomeno, le cause e le responsabilità e per individuare i necessari interventi di bonifica del territorio. La vicinanza dell’area inquinata al paese e al fiume Tirso rende particolarmente allarmante la vicenda che accresce ulteriormente le preoccupazioni della popolazione Ottanese da tempo mobilitata per la tutela della salute pubblica e il recupero della integrità ambientale. Una vicenda, questa di Ottana, molto simile a quella verificatasi qualche anno fa nell’area di “Minciaredda” in prossimità del sito petrolchimico di Portotorres. Anche in quei luoghi, manager senza scrupoli e incuranti delle norme vigenti in materia di smaltimento dei rifiuti industriali, del buonsenso e della salute dalla popolazione, hanno prodotto una serie di “cimiteri” dei rifiuti che soltanto ora cominciano a vedere la luce. Il sospetto che aree inquinate analoghe a quelle individuate a Ottana e Portotorres siano molte di più di quanto finora scoperto è più che legittimo.

Chimica verde in Sardegna. Dal fallimento annunciato del progetto Matrìca l’ennesima “cattedrale nel deserto”? Le responsabilità di Eni

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sedia di VannitolaLa sedia
di Vanni Tola

Grandi manovre intorno al piano per la chimica verde – Il disimpegno dell’Eni con la cessione di Versalis. Mobilitazione operaia per la difesa dell’occupazione a Portotorres. Sciopero nazionale di otto ore il 20 Gennaio.

L’impianto di Matrìca per la trasformazione del vecchio polo petrolchimico di Portotorres in un moderno impianto per la chimica verde è ancora fresco di vernice e di recente inaugurazione quando si apprende che l’Eni, capofila del progetto, sta per cedere il 70 % del capitale della società Versalis – uno dei pilastri portanti del progetto Matrìca – Chimica Verde – a un fondo di investimenti internazionale. Operazione che, se realizzata, potrebbe significare la fine del progetto Matrìca, l’annullamento dei finanziamenti programmati, il mancato completamento degli impianti, il licenziamento per gli operai attualmente impiegati nello stabilimento di Portotorres. Il progetto di riconversione industriale del vecchio polo petrolchimico concordato nel non lontano giugno del 2011 per il quale sono stati finora investiti e spesi 200 milioni di euro, diventerebbe l’ennesima incompiuta nell’area industriale del nord Sardegna. A monte ci sarebbe la scelta di Eni, comune a molte altre multinazionali del settore petrolifero, di svincolarsi dal comparto per destinare le proprie risorse alle attività energetiche, alla produzione e distribuzione di energia. Ad essere messi in discussione quindi sarebbero l’insieme dei progetti per la riconversione e il rilancio della chimica nazionale, dei quali il progetto Matrìca è una componente, e neppure quella più importante. Una questione nazionale quindi che sta determinando la mobilitazione operaia anche in altre regioni. Cosa possa aver indotto il colosso chimico e rivedere cosi drasticamente i propri progetti per la chimica e quello per la chimica verde in Sardegna non è facile comprenderlo, siamo soltanto nel campo delle ipotesi. Sicuramente c’entra la congiuntura internazionale relativa al crollo del prezzo del petrolio che sta rivoluzionando le politiche energetiche ed il mercato internazionale del greggio e orientando le multinazionali del petrolio a rivedere le proprie strategie di investimento. Nel caso specifico del progetto Matrìca potrebbe aver avuto un ruolo anche il sostanziale fallimento di quella parte del progetto relativa al reperimento della materia prima in loco. Si ipotizzava la messa a coltura con il cardo di qualche migliaio di Ha di terreni incolti (senza nulla togliere alle aree già destinate ad altro utilizzo agricolo). In realtà a tutt’oggi non si è andati oltre i 550 Ha di messa a coltura di cardo (fonte Coldiretti) ed é noto che l’approvvigionamento di materia prima in aree lontane dall’impianto o mediante importazione non sarebbe assolutamente conveniente. Un fallimento nella comunicazione e nell’informazione ai lavoratori delle campagne sui quali sarebbe necessaria una maggiore riflessione. Ha certamente inciso la campagna allarmistica sul “pericolo” della monocoltura del cardo in merito alla quale sono state dette poche verità e molte sciocchezze fondate sostanzialmente su pregiudizi di una parte della nostra società. Non si è riusciti a far comprendere ai coltivatori che nessuno chiedeva loro di abbandonare i lavori agricoli tradizionali per sostituirli con la coltivazione del cardo. Nessuno lo ha mai ipotizzato. Si trattava invece di praticare, in aggiunta alle coltivazioni ordinarie, degli interventi colturali nei terreni incolti e nelle aree abbandonate per favorirne il recupero produttivo o fornire materia prima per l’impianto della chimica verde. Neppure le garanzie e gli incentivi finanziari che stavano alla base dell’accordo tra Matrìca e le organizzazioni agricole hanno scalfito luoghi comuni e modalità produttive consolidate e poco inclini a confrontarsi con il nuovo, con i cambiamenti di mentalità e di organizzazione produttiva. Ma anche tale considerazione non ci illumina più di tanto sulle cause che hanno indotto Eni e la sua creatura Matrìca all’abbandono del progetto chimica verde. Non dimentichiamo che si trattava di realizzare, su quello che rimaneva del vecchio petrolchimico un polo di rilevanza internazionale nella produzione di materie plastiche di origine vegetale contemporaneamente all’avvio delle bonifiche dell’intera area industriale e la promozione di nuovi insediamenti industriali per le seconde lavorazioni della materia prima che Matrìca avrebbe dovuto fornire. Un progetto di ampio respiro che non può certo essere accantonato dall’oggi al domani. Per dovere di cronaca pensiamo di dover dare conto anche di una ipotesi particolare sul voltafaccia dell’Eni che circola tra i vecchi lavoratori del petrolchimico, quegli operai che hanno vissuto l’intera esperienza petrolchimica del polo industriale. E’ soltanto una ipotesi tutta da verificare, forse anche un po’ fantasiosa, probabilmente dettata da una certa abitudine a “pensare male” dei potentati economici quali l’Eni. La riferiamo, cosi come l’abbiamo appresa. L’insediamento petrolchimico della Sir e delle sue consociate nell’area industriale di Portotorres ha determinato un inquinamento ambientale e dei territori dell’insediamento di dimensioni quasi incalcolabili. Studi scientifici accreditati parlano di livelli di inquinamento superiori perfino a quelli raggiunti a Taranto. Evidentemente si rende necessario un piano di bonifiche di grandi dimensioni e con costi elevatissimi nella speranza di poter ripristinare, almeno in parte, le condizioni ambientali dell’intero polo industriale. La questione delle bonifiche, o meglio degli enormi costi che una seria bonifica dell’area del petrolchimico comporterebbe, diventa centrale quindi non solo per la salute della popolazione e il recupero dell’integrità ambientale perduta ma anche, e soprattutto dal punto di vista dell’Eni, per gli ingenti capitali da investire. Nelle aree industriali dismesse l’intervento di bonifica deve essere integrale e comporta, come dicevamo, costi molto elevati. Nell’area della vecchia Sir, nel cuore dell’impianto petrolchimico che fu di Rovelli, una delle aree più inquinate in assoluto, non si parla di area dismessa e abbandonata bensì, grazie alla genialata dell’impianto per la chimica verde, di intervento di ristrutturazione industriale. Gli obblighi e i vincoli di bonifica, in questo caso sono molto inferiori. In pratica, afferma la citata “voce di popolo”, costruendo un nuovo impianto (Matrìca) sulle rovine del vecchio petrolchimico, l’Eni avrebbe evitato le costosissime operazioni di bonifica che sarebbe stato necessario affrontare nell’area. Il nuovo e scintillante impianto petrolchimico verde appena inaugurato avrebbe di fatto seppellito l’inglorioso passato del vecchio polo petrolchimico e, con esso, l’inquinamento straordinario ed eccezionale che l’area nasconderebbe. Certo per farlo Matrìca ha speso ben 200 milioni di euro, ma quanto sarebbe costata la bonifica integrale del sito? La cessione di Versalis affermano gli esperti, sarebbe più che sufficiente a far recuperare le somme investite e alla Sardegna resterebbe l’ennesima “cattedrale nel deserto” da gestire. Fantasie? Forse! Ma a costo di apparire ripetitivi non ci stancheremo mai di citare la solita frase attribuita a Giulio Andreotti: “a pensare male si commette peccato, ma spesso ci si azzecca”.

Sinnai. Una comunità pastorale tra il secondo ed il terzo millennio

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ape-innovativaCome anticipato ieri pubblichiamo un saggio di Aldo Cappai su Sinnai, di cui è concittadino. Lo facciamo non solo per il pregio delle informazioni e analisi contenute, che hanno valore in sé e per le considerazioni che fa l’Autore nell’introduzione, ma anche per contribuire alla creazione della “città metropolitana di Cagliari”, che ha senso solo se realizzata con e per la valorizzazione di tutte le realtà che la dovranno comporre, della loro identità, della loro storia, del riconoscimento del ruolo e dell’importanza… nell’area vasta e in Sardegna (la macroarea Isola di Sardegna, come la chiama Aldo).
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Sinnai. Una comunità pastorale tra il secondo ed il terzo millennio
di Aldo Cappai
Caooai 1 Introduzione
Questo lavoro vuole essere un contributo personale alla ricerca su Sinnai e la sua realtà socio­economica e culturale, nell’ambito del filone di studi definiti microstoria, incentrati sull’analisi dell’evolversi dei processi storici nelle realtà comunitarie locali al di dentro della macroarea Isola di Sardegna.
La riflessione vuole evidenziare, in primis, come sino alla metà del secolo ventesimo i processi di sviluppo siano stati, nella comunità Sinnaese ed in
quelle delle altre realtà sarde agropastorali, con particolare riferimento a quelle dell’interno, essenzialmente caratterizzati da immobilismo, da stagnazioni o, meglio, da sedimentazioni millenarie. In questo contesto verrà focalizzato il ruolo sociale della figura economica dominante, il pastore sardo, il peculiare sviluppo della comunità sinnaese ed uno spaccato della vita sarda al 1863, appena due anni dopo l’unità d’Italia. Si tratterà, quindi, dei forti processi di crescita che hanno trasformato radicalmente la nostra comunità negli anni seguiti al secondo conflitto mondiale, ponendo infine le basi per stimolare un nuovo processo di riflessione su una società frutto della globalizzazione dei processi di produzione e di scambi sviluppatisi in maniera così veloce ed improvvisa da indurre un attento pensatore contemporaneo a vederla come vita liquida.
Per la stesura della relazione odierna mi sono state d’ausilio alcune pubblicazioni di nostri concittadini che ho trovato raccolte nei miei scaffali, ancora non riordinati.

- Figura 1 foto del menhir, pubblicata nel volume Sa festa de tunditroxi, commedia in lingua dardo di Don Giovanni Cadeddu. La pietra fitta è simbolo fallico e la V nella parte alta riandai alla sessualità femminile.

I millenni bui della società sarda
I Menhir rappresentano la divinità dei primi popoli che hanno vissuto in Sardegna: una divinità contenente in sé il principio dell’Essere, sia maschile che femminile. Sono simbolo di un periodo che, ab immemore, e sino alla prima metà del secolo scorso, ha caratterizzato la storia della nostra comunità nella sua sostanziale stabilità di mezzi di produzione, di attività economiche, di cultura e di rapporti sociali.
Tracce salienti e significative della rappresentazione della divinità per mezzo di elementi litici e lignei hanno caratterizzato anche le antiche civiltà del medio­oriente e quelle mediterranee che si basavano sulla caccia e sulla pastorizia, prima, e sulla agricoltura, poi.
Ma, mentre già da diversi secoli prima di Cristo il popolo ebraico viveva l’esperienza religiosa del monoteismo, in Sardegna il rapporto diretto tra elementi naturali e divinità perdura: ancora nella seconda metà del VI secolo dopo Cristo, il Papa Gregorio Magno definisce i Barbaricini come uomini, che «ut insensata animalia vivant, Deum verum nesciant, ligna et lapides adorent»[1] (vivono come animali privi di intelligenza, senza riconoscere il vero Dio ed anzi rappresentandolo nelle pietre e negli alberi).
Il dominio delle diverse civiltà che nei secoli hanno colonizzato le popolazioni sarde ha comportato, sostanzialmente, l’esclusione radicale delle stesse dai processi di sviluppo economico, politico, sociale e culturale: le attività produttive nei settori dell’allevamento, caratterizzati dalla pastorizia allo stato brado e transumante, quelle del settore agricolo, ancora retto da strumenti di produzione e tecniche colturali primitive, i diversi ed insopportabili prelievi imposti dai diversi dominatori accompagnati dall’assenza di adeguate vie di comunicazione e dalle ferree regole di ordine pubblico che costringevano le popolazioni ad una forzata immobilità, hanno comportato una solidificazione delle diverse realtà, specie culturali, i cui contenuti e valori venivano ancora elaborati, trasmessi e conservati in modo quasi esclusivamente orale.

cappai2Figura 2: Lazzaro Perra di Sinnai e il suo giogo di buoi con aratro in legno, 1920.
È il caso delle testimonianze musicali e poetiche che possiamo ritrovare nell’utilizzo, ancora oggi presente, delle launeddas, della poesia estemporanea, dei canti religiosi, delle pregadorias e delle filastrocche.
Le città vivevano una vita radicalmente isolata e impermeabile alla campagna che ad esse (ed ai diversi dominatori che vi si sono insediati), era asservita. Bisogna comunque ricordare che Sinnai rappresenta, per certi aspetti un’ eccezione (che merita di essere approfondita), dovuta alla permanenza o alla frequentazione nel tempo di diversi esponenti cittadini delle classi nobiliari e borghesi cagliaritane, per motivi legati al suo clima salubre (dovuto fondamentalmente alla presenza di acque salutari ed alla scarsa presenza delle zanzare, portatrici della malaria).

Uno spaccato dell’isola al 1863: la relazione del prefetto di Cagliari Carlo Torre al Ministro .
Uno spaccato dell’isola al 1863, si trova nella relazione del prefetto di Cagliari Carlo Torre al Ministro dell’Interno Ubaldino Peruzzi.
«La relazione trae spunto dalla ridotta leva sarda, a causa dell’alto numero di rivedibili e di “scartati”. Il Prefetto Torre, preciso funzionario, non si accontentava di indicare sommariamente le cifre e a descrivere per sommi capi le cause, ma tentò di spiegare i motivi della cattiva salute, di quel “penoso spettacolo sulla struttura e condizione fisiologica” dei giovani sardi. Di più, egli descrisse le generali condizioni degli abitanti dell’isola e i loro costumi “barbari”. Il suo punto di vista, in alcuni tratti, somiglia a quello di un colonizzatore: si chiedeva, infatti, se, come era uso degli antichi romani, non fosse auspicabile la deportazione di detenuti in Sardegna, che avrebbe comportato il doppio vantaggio di “purgar la penisola e rifornir l’isola” di un maggiore incremento demografico e di una più solida e robusta costituzione fisica. Anche il clima e il territorio venivano chiamati in causa: analogamente al caso dell’agro romano, si riteneva infatti che molte delle malattie a cui gli abitanti dell’isola erano esposti, dipendessero da elementi che la medicina, solo dopo molti decenni, avrebbe depennato come cause di malattie. Addirittura il prefetto riteneva che anche i fichi d’india fossero frutti “di provata malsania”».

Il prioritario interesse dello Stato Unitario alla leva militare
A seguito del commento sopra riportato e ritrovato nel sito del Ministero degli Interni alcuni anni fa, riprendo una selezione delle dirette considerazioni scritte dal Prefetto Torre:
«E per entrare in materia ( verifica iscritti alla leva militare), lo scrivente ha dunque l’onore di esporre a codesto Ministero che il totale degli iscritti ascendeva a N. 4282, e che la precisa metà di questi, computati i rivedibili (perché avviene, massime in Sardegna, che rade volte un rivedibile sia negli anni o nell’anno appresso trovato buono) sono stati riformati e trovati rivedibili al N. 2140. E per venire ai motivi delle riforme e rivedibilità, si desume dagli elenchi avuti che i riformati per difetto di statura ascendono al N. 878, ossia a poco meno di un quarto della somma totale degli Inscritti, che i riformati per malattie diverse salgono a N. 793, ossia a più che la quinta parte del totale, e che i rivedibili sono stati N. 649, ossia il nono del complesso».
cappai 3 Figura 3 foto di due panificatrici di Sinnai negli anni ’50. Tratta dall’archivio digitale della Regione Autonoma della Sardegna.

L’alimentazione dei Sardi
Tra le cause, il Prefetto Garibaldino ricorda tra l’altro che «il cibo, quello del basso popolo, che è la gran generalità, è piuttosto ferino che umano, perché, massime nei luoghi montuosi, in difetto di grani, perché anche non ne seminano, si nutrono in inverno con erbe crude e scondite, o con carni di pecora, capra o bue appena rosolate sulle bragie e ancora sanguinolenti, ed in estate vivono per intere settimane di semplici frutti, come fave verdi, fichi, pesche, uva, pere, prugne, ecc. e, quel che è peggio, inghiottiscono con barbara avidità una quantità enorme del frutto di un Cactus detto Fico d’India, e qui appellato Da Figu Morisca, frutto di provata malsania ma che è facile ad aversi per nulla, perché nasce e matura spontaneo per le colline e per le sponde dei campi. Da ciò diarree, dissenterie, coliche, febbri, e le madri che allattano e che porgono ai neonati una sostanza formata con simili perniciosi ingredienti, inoculano, senza avvedersene, nei loro bambini, per lo più la morte, e in quei pochi che sopravvivono innestano la cachessia, la denutrizione, il marasmo».
- segue -

Anno nuovo. Che nuovo anno sia!

bimbo con teschio
sedia di Vannitola
di Vanni Tola

Ecco l’anno nuovo. Bilanci e riflessioni.

Inizia un nuovo anno, tempo di bilanci e riflessioni, di programmi e di agende di lavoro per l’anno appena cominciato. Riflessioni solitamente standardizzate e scontate. Talvolta sembra di rileggere cose dette e ridette anche negli anni precedenti, programmi vecchi quanto inutili ai quali ormai pochi mostrano di credere. Proposte peraltro fortemente condizionate anche dalla perenne campagna elettorale in corso nel paese. C’è un argomento, tra i tanti sui quali di dovrebbe avviare una seria riflessione. Il mito della “naturalità”. Un tema abbastanza importante per individuare e comprendere i limiti dei programmi e delle forze politiche dell’area progressista che tanta influenza hanno, o meglio potrebbero avere, nell’attivare concreti processi di cambiamento della realtà socio economica del paese e della regione. Il mito della “naturalità” dei programmi e il peso che tale concetto sta avendo nella (non) definizione di azioni credibili e realizzabili è davvero consistente. Senza nulla concedere agli schematismi ideologici e partitici, talvolta devianti, penso si possa affermare con certezza che, dalla Rivoluzione Industriale in poi, la sinistra o, se preferite, l’area liberale e progressista dalla società, ha sempre perseguito il miglioramento delle condizioni di vita degli esseri umani contribuendo a diffondere i progressi scientifici e tecnologici che la scienza produceva e determinava. La conservazione, l’irrazionalità, la difesa aprioristica del conosciuto rispetto al nuovo che avanzava, erano tutti elementi del pensiero conservatore e di destra. Oggi l’area progressista percorre altre strade, sembra essersi rifugiata in un conservatorismo che si richiama a tradizione e natura, che è certamente molto rassicurante, ma altrettanto sicuramente non progressista. Oggi, l’atteggiamento di coloro che si definiscono di sinistra o comunque appartenenti all’area progressista, nei confronti di tutto ciò che è stato prodotto dalla ricerca scientifica e tecnologica, è fortemente condizionato da un pregiudiziale rifiuto in nome dalla “naturalità” dell’agire che raramente è accompagnato da considerazioni oggettive. Giusto per fare alcuni esempi basta pensare all’idea di chimica verde e alla biochimica viste con sospetto e ostilità ignorando che perseguono l’obiettivo (questo si naturalista) di sostituire produzioni derivanti da sostanze fossili (petrolio e carbone in primis) con altre prodotte con materie prime di origine vegetale, solitamente riciclabili biodegradabili e compostabili. Un indubbio vantaggio per l’ambiente e la natura. La bioingegneria, che tanta parte ha nella moderna produzione alimentare, farmacologica e in altri comparti produttivi, viene solitamente identificata con l’operato, certamente malavitoso, dei contraffattori e alteratori di prodotti piuttosto che con la ricerca di nuove e più organiche forme di produzione certamente riconducibili a un miglioramento della naturalità dei prodotti e delle condizioni di vita della gente. Per non parlare poi del rapporto con le nuove tecnologie relative alla produzione di energia utilizzando fonti energetiche alternative. Le centrali solari, ideate dal nobel per la fisica, l’italiano Carlo Rubbia, sono una realtà in molte parti del mondo, come le serre solari, gli impianti eolici, la geotermia, la produzione di energia dal riciclo di materiali di rifiuto, la ricerca di prodotti agricoli alternativi, (per esempio il cardo e la canna comune in Sardegna). Tutte attività considerate con sospetto e diffidenza per paure talvolta solo parzialmente fondate (operazioni puramente speculative della malavita, sfiducia nell’operato delle multinazionali della chimica) ma molto spesso per pregiudizi radicati verso tutto ciò che non si conosce o si conosce soltanto parzialmente. Non ne voglio fare una questione semantica ma è un dato oggettivo l’uso improprio che si fa di alcuni termini. Per esempio il termine “chimica” è solitamente e naturalmente associato a qualcosa di negativo dimenticando che grazie ai progressi della chimica e della bioingegneria oggi disponiamo di farmaci molto efficaci, di materiali più efficienti, di macchine migliori, di combustibili meno inquinanti che in passato. Per contro il termine “naturale”, al quale si riferisce gran parte degli appartenenti all’area cosiddetta progressista, non sempre è sinonimo di genuinità e buona qualità. Pensiamo ai prodotti di agricoltura biologica spesso dichiarati tali soltanto dallo stesso produttore ma non adeguatamente certificati, penso al vino o all’olio del contadino venduto nelle fiere con etichette approssimative e controlli igienico sanitari talvolta inesistenti, ai prodotti alimentari conservati e via dicendo. In Sardegna, in particolare, poi al mito della “naturalità”, si accompagna solitamente quello di “su connotu” , del noto, dell’agire come si faceva prima, nei tempi passati, con le modalità e le tecnologie povere dei nostri avi. Anche in questo caso ci troviamo di fronte fondamentalmente a un pregiudizio, romantico e poetico quanto i vuole, ma sempre un pregiudizio. Le condizioni di vita, nel passato, erano decisamente peggiori, si moriva di parto, c’era malnutrizione e elevata mortalità infantile, mancavano quasi totalmente medicine e vaccini che tanto hanno contribuito alla difesa della salute, i controlli sulla qualità degli alimenti erano pressoché inesistenti. Una condizione di vita non certo invidiabile. Il mito del ritorno al passato, alle buone pratiche di una volta è spesso diffuso soprattutto da chi gode oggi di una condizione sociale favorevole e consolidata e può permettersi di fare voli pindarici sulle ali della fantasia e del mito. Dovremmo rifletterci sopra. Il nostro giornale, da sempre aperto al confronto delle opinioni, certamente darà spazio alla discussione e all’approfondimento sul tema.
L’augurio che rivolgo alla Sardegna è che il nuovo anno induca i progressisti sardi a fare pace con la scienza, la ricerca e l’innovazione tecnologica. Auspico l’individuazione di linee guida per un programma di rinascita e sviluppo dell’isola realistico, che tenga conto delle reali potenzialità e risorse della regione e che individui interventi di adeguamento delle attività produttive alla realtà nella quale viviamo. Uno sviluppo e una crescita in sintonia con le caratteristiche del contesto economico e politico nel quale l’isola è collocata, in rapporto con i mercati internazionali, finalizzato a soddisfare le esigenze della popolazione, la conservazione dell’ambiente e la crescita socio-culturale del popolo sardo.
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Auguri Sardegna!
di Franco Meloni*

By sardegnasoprattutto/ 9 gennaio 2016/ Culture/

E’ tempo di auguri. Quali per la nostra Sardegna? Come a Natale si finge naturale bontà, a Gennaio si deve fingere un naturale ottimismo nell’immaginare il futuro. Ma l’ottimismo ha un senso, secondo Gramsci, solo se è rivolto alla volontà, che significa impegno derivante da una chiara consapevolezza della realtà.

Quale è la visione generale della posizione della Sardegna in un’Italia frammentata in una Europa che vede crescere le fughe dall’idea di Comunità che aveva fatto sperare, alla fine della seconda guerra mondiale, ideali di concordia nella pace?

Quello che regna ovunque è un senso di precarietà giustificato dalla violenza delle idee che si contrappongono, come ai tempi delle Crociate, con proclami e non con accurate e impegnative discussioni. E il sangue scorre. Personalmente auguro ai Sardi di riacquistare la consapevolezza di sè. Della coscienza di mantenere e difendere il patrimonio del quale spesso dimentichiamo di essere responsabili. Della certezza che solo la competenza può farci stare al passo di nazioni che privilegiano l’istruzione e la cultura. Millenni di storia ci guardano dall’alto delle torri nuragiche.

Abbiamo fuso metalli e creato arte con antichi saperi. Eravamo al centro di miti e abbiamo danzato con moltissimi Odissei. Abbiamo inventato poesie per sconfiggere l’ignoto e intrecciato tappeti che facevano percorrere arditi viaggi nella fantasia. Sotto olivi secolari abbiamo dettato codici di comportamento che ponevano regole. Abbiamo accordato i tempi dell’agricoltura secondo lo studio degli astri, e la sacralità della natura era rispettata.

Ora dobbiamo rivendicare il nostro ruolo di ponte tra culture nel Mediterraneo, e per farlo dobbiamo richiamare i nostri figli emigrati, e sconfiggere il pessimismo della ragione con costruttivi progetti di accoglienza e di pace in un’etica che ispiri la sostenibilità delle scelte. L’identità si rafforza solo con il confronto con chi viene da fuori. La decisione è facile: fare il contrario dei regimi sempre più antistoricamente fascisti che la vecchia e stanca Europa sta rigurgitando.

L’alternativa ci relega al ruolo subalterno che permetterà di trattare la nostra Isola, che ha il diritto di essere felice, come contenitore di rifiuti, non solo materiali e magari smaltibili in migliaia di anni. La nostra terra, nella più infausta conclusione, potrà essere un efficiente campo per raffinati giocatori di golf o violenti simulatori di guerre, tra esclusivi centri benessere che vedrebbero i Sardi come silenziosi servi. E magari, capovolgendo la sfera che ci conterrà, potrà cadere la neve anche ad Agosto. Abbiamo il dovere di pretendere di più. Auguri Sardegna!

*Fisico e Narratore
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Monte_Gonare wkITA DD’HAP’A NAI
di Fanny Cocco
Ita dd’hap’a nai a filla mia
Chi hat a teni bint’annus
In su Duamila.
Ita dd’hap’a nai
A pustis chi eus abbraxau
Padentis e cracchiris A pustis chi eus alluau

COSA LE DIRO’
Cosa dirò a mia figlia che avrà vent’anni nel Duemila.
Cosa le dirò
dopo che abbiamo bruciato
rovereti e boschi di ghiande
dopo che abbiamo avvelenato sorgenti e ruscelli

A filla mia dd’hap’a nai
A no si fai imboddicai Cument’a nos
Chi eus donau a fidu Su mundu nostru
A is luziferrus de sa chimica e de s’atomu. Nos si dd’eus donau Nos vittimas buginus e complicis.
A filla mia dd’hap’a

di non farsi lusingare come abbiamo fatto noi
che abbiamo venduto per niente
il nostro mondo
ai diavoli della chimica e dell’atomo Noi gliel’abbiamo dato
noi vittime carnefici e complici

Mizzas e arrius
A pustis chi eus accaddozzau Pranus e montis
A pustis chi eus struppiau
Costeras e marinas A pustis chi eus incravau
Matas e bestias.

dopo che abbiamo trasformato in letamai pianure e montagne dopo che abbiamo rovinato
coste e spiagge dopo che abbiamo messo in croce alberi e animali.

nai
Ca no est prus tempus De passienzia “Torrandi a pigai sa terra tua
E perdona a su tempus nostru
Chi t’hat lassau
In eredidari Muntronaxus e bombas”.

A mia figlia dirò
che non è più tempo di portare pazienza. “riprenditi la tua terra e perdona la nostra generazione
che ti ha lasciato
in eredità immondezzai e bombe”.

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* di Fanny Cocco, ITA DD’HAP’A NAI
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