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Europa, Europa

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Europa, Europa: dove vai?
Alfonso Gianni
La costruzione di un sistema di guerra nella Ue

Ora se nel mondo c’è una cosa che conviene affrontare con esitazione – ma che dico, che bisogna in tutti i modi evitare, scongiurare, tenere lontana – di sicuro è la guerra: non c’è iniziativa più empia e dannosa, più largamente rovinosa, più persistente e tenace, più squallida e nell’insieme più indegna di un uomo, per non dire di un cristiano. Invece – chi lo crederebbe? – oggi si entra in guerra di qua, di là, dappertutto, con estrema leggerezza, per le ragioni più futili; e la condotta di guerra è caratterizzata da un’estrema crudeltà e barbarie.
Erasmo da Rotterdam

Sono trascorsi cinque secoli abbondanti da quando le parole del grande intellettuale olandese, poste in esergo, uscirono a stampa dai torchi di Aldo Manuzio. Se può esserci ancora qualche dubbio sulla validità delle teorie sul progresso più o meno lineare della civiltà umana, la loro falsificazione trova conferma nei terribili avvenimenti di questi ultimi mesi. La guerra continua, si incancrenisce e si allarga. I vari pezzetti della guerra mondiale descritta da papa Francesco, si congiungono tra loro in un mostruoso puzzle. Da ultimo Israele conduce un attacco “mirato” contro il consolato iraniano a Damasco, uccidendo comandanti dei “guardiani della rivoluzione”; l’Iran riempie il cielo di droni e missili; aerei statunitensi, francesi e britannici, unitamente a quelli israeliani, si alzano in volo per abbatterli. Nel contempo la guerra “dimenticata” in Sudan assomma un bilancio di 12mila morti e oltre sette milioni di sfollati. Ogni appello alla moderazione, per non dire alla trattativa e alla pace, viene immediatamente travolto, per quanto sia alto lo scranno dal quale è stato rivolto.
L’anonima sentenza latina, Si vis pacem para bellum, che ingenuamente consideravamo ormai persino impensabile, esce con sempre maggiore frequenza dalla bocca dei leader europei. Fra questi non poteva mancare Giorgia Meloni che ha voluto fare sfoggio di cultura, pronunciandola nel febbraio del 2022, pochi giorni dopo l’invasione russa dell’Ucraina, davanti ad una platea di conservatori riuniti in Florida per l’annuale Conservative Political Action Conference (Cpac), per poi ripeterla in altre più recenti occasioni nella veste di Presidente del Consiglio. La stessa frase, per quanto abusata, è stata utilizzata dall’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrel, nel commentare il documento conclusivo emerso dal Consiglio europeo del 21-22 marzo. E non si può certo dire che si sia trattato di un uso improprio.
Per quanto trita e ritrita la vecchia sentenza è in grado di fare da sintesi di quanto si è detto e deciso in quella riunione, che può ben dirsi essere propria di un Consiglio di guerra. Una riunione, cui seguirà quella di metà aprile dedicata ai temi dell’economia, che è solo un passaggio dentro una escalation di decisioni e comportamenti che conducono l’Europa in un’unica direzione: la guerra. Il passaggio da una “guerra grande” – come l’ha denominata Limes -, da una guerra “allargata” – come l’ha definita Alberto Negri guardando al teatro mediorientale – dalla più volte citata guerra mondiale a pezzetti secondo la celebre definizione di papa Francesco, ad una guerra globale vera e propria, tale da non escludere l’uso di armi nucleari, non è più solo una distopia.

Le conclusioni del Consiglio europeo
Quanto deciso nel recente Consiglio europeo non basta. Lo ha detto con chiarezza il premier polacco Donald Tusk, uscito vincitore dalle elezioni dello scorso ottobre, che in una intervista rilasciata a diversi quotidiani europei, fra cui un quotidiano italiano, avverte che la guerra è “alle porte”, che per la prima volta dal 1945 non è più un concetto del passato ma è un fatto “reale”, che dunque “dobbiamo abituarci mentalmente all’arrivo di una nuova era. L’era prebellica.” Rispetto alla quale però la Ue non è ancora pronta e quindi bisognerebbe fare di più, anche rispetto alle decisioni del Consiglio europeo di marzo.
Eppure quelle decisioni non sono lievi. Basta scorrere il documento conclusivo per accorgersene, al di là di qualche espressione retorica o fumosa, che appare proprio per questo inquietante per quello che può nascondere e per quello che ci aspetta. Per quanto riguarda il fronte russo-ucraino il testo non fa il pur minimo accenno alla possibilità di cessare il fuoco, di aprire una trattativa, di muoversi in una direzione di pace. Quest’ultimo termine non compare mai, se non con un significato completamente stravolto, si potrebbe dire, con ironico cinismo. Infatti il Consiglio europeo chiede di lavorare all’ottavo pacchetto di sostegno per l’Ucraina nell’ambito dello strumento europeo per la pace. Invita a prendere in considerazione la possibilità di “destinare a beneficio dell’Ucraina, compresa la possibilità di finanziare il sostegno militare, le entrate straordinarie derivanti dai beni russi bloccati”, quindi superando i dubbi sollevati anche da commentatori mainstream sul rischio che un simile atto porti un indesiderato scompiglio nelle “regole” che tutelano il mercato e il movimento dei capitali. Spinge per un rafforzamento ed una piena attuazione delle sanzioni alla Russia, anche colpendo paesi terzi che ne facilitano l’elusione. Pur nella impossibilità di impedirlo totalmente – rendendosi conto della complessità e dell’intreccio degli interessi economici in gioco – il documento raccomanda di limitare “al massimo” l’accesso della Russia “a prodotti e tecnologie sensibili che hanno rilevanza nel campo di battaglia”. Ribadisce la richiesta agli Stati membri di aumentare la spesa militare. Prospetta apertamente l’utilizzo della Banca europea per gli investimenti per fornire risorse e strumentazione finanziaria al fine di supportare l’ingente aumento delle spese belliche.
Come si vede le previsioni e gli strumenti di intervento economico si concentrano sulle spese militari. Con un facile, quanto terribile, scambio di consonanti, i famosi Eurobond, di cui si era tanto parlato, si tramutano di colpo in Eurobomb. E’ l’intero sistema delle imprese europee che deve rispondere alle nuove esigenze belliche. Lo chiariscono in particolare tre punti importanti sottolineati dal documento conclusivo. Il primo riguarda l’incentivazione della “ulteriore integrazione del mercato europeo della difesa in tutta l’Unione, agevolando l’accesso alle catene di approvvigionamento della difesa, in particolare per le Pmi e le società a media capitalizzazione, riducendo la burocrazia”. Il secondo punto riguarda la necessità di “garantire che la regolamentazione dell’Ue non costituisca un ostacolo allo sviluppo dell’industria della difesa”. Il terzo invita a “investire nella manodopera qualificata per fare fronte alle prevalenti carenze di manodopera e di competenze nell’industria della difesa”. Quindi via tutti i rimanenti lacci e lacciuoli ed ogni regolamentazione d’impaccio al fare presto se non subito. Il tutto – si preoccupano di precisare gli estensori del documento – deve risultare “complementare alla Nato, che rimane il fondamento della difesa collettiva per i suoi membri”

Come era considerata nel mondo la Ue
La puntualizzazione è tutt’altro che rituale, anche perché la costruzione di un simile sistema di guerra europeo mal si acconcia con la definizione un po’ riduttiva di Wolfgang Streeck per cui l’Ue sarebbe semplicemente “un ausiliario economico della Nato”. Appare più convincente dal punto di vista dell’analisi dinamica delle forze in campo la conclusione cui perviene Lucio Caracciolo e cioè che il ruolo della Nato e quello della Ue tendono negli ultimi anni a sovrapporsi, come risulta ancora più evidente in relazione al conflitto russo-ucraino. L’una prepara il terreno per l’avanzata dell’altra e viceversa. Anche se lascia un po’ straniti l’idea che Caracciolo ha recentemente avanzato, quella di “un’intesa bilaterale speciale fra Italia e Stati Uniti” al fine di tenere il nostro paese “sopra la linea di galleggiamento durante la Guerra Grande e prefigurare equilibri meno instabili nell’immediato dopoguerra”. Una idea che lo stesso autorevole direttore di Limes definisce “controintuitiva” e rispetto alla quale sollecita egli stesso “critiche e controproposte”. Ma prima è forse opportuno fare qualche passo indietro.
Certamente la guerra russo-ucraina non ha solo risuscitato la Nato da una condizione che aveva autorizzato Macron a stilare un affrettato certificato di morte cerebrale, ma ha messo in moto un’accelerazione dell’armamento europeo ad ogni livello. Tuttavia sarebbe sbagliato cogliere solo la tempistica di quest’ultima vigorosa corsa alle armi e non vederne i passaggi precedenti, pur se più lenti nel loro svolgersi, nel corso dei quali l’Ue è riuscita persino ad abbattere l’immagine che si era fatta nel mondo. Anche se si trattava di un’immagine più dettata da un forte wishful thinking che da una rigorosa analisi del processo di costruzione dell’Unione europea.
Per un non breve periodo in America latina molti vedevano nell’Europa la proiezione dei propri desideri di costruire l’utopia bolivariana, dove contrasti e confini sarebbero stati superati da intese politiche ed economiche nel nome del Sud del mondo. Se ne ha prova leggendo, in un recente libro, le parole dell’ex presidente uruguayano José “Pepe” Mujica, che manifesta il suo stupore e il suo spavento per l’impotenza dell’Europa di fronte al conflitto russo-ucraino: “Quello che più mi spaventa è l’impotenza dell’Europa, che è diventata un polo senza alcun potere decisionale autonomo. È incredibile. Ovviamente, la pace in Europa avrebbe dovuto includere la Russia e non segregarla, e invece quello che hanno fatto è stato spingerla dall’altra parte, la stanno regalando alla Cina. Da un punto di vista geopolitico, sono dei salami [ride], dei salami… Sì. Sono sbalordito dal declino politico dell’Europa, al punto da guardare con «nostalgia», tra virgolette, ai vecchi conservatori europei, che almeno vedevano un po’ più lungo e avevano un po’ più di dignità. Proprio come De Gaulle, il quale pensava che l’Europa dovesse arrivare fino agli Urali e intuì che un processo di pace doveva inevitabilmente includere anche la Russia all’interno dell’Europa. La stupida rottura da parte della Nato del Patto di Varsavia fu un passo privo della benché minima lungimiranza politica. Penso anche che, dietro tutto questo, vi sia una sorta di duello in cui gli Stati Uniti temono di perdere la supremazia a favore della Cina.”

Le radici del processo di militarizzazione europeo
E’ bene quindi non dimenticare che l’attuale fase di intensa militarizzazione della Ue che stiamo attraversando in questo sciagurato presente, affonda le sue radici in alcune tappe fondamentali che hanno determinato la costituzione materiale dell’unità europea. Una buona e non trascurabile parte del prolisso Trattato di Maastricht del 1992 è costituita dalla cosiddetta nuova Politica estera di sicurezza comune (Pesc). Una manciata di anni dopo, il Trattato di Amsterdam istituì il ruolo di Alto rappresentante per la Pesc. Il primo a ricoprire tale carica fu Javier Solana, che la condusse per dieci anni fino al 2009, dopo essere stato Segretario generale della Nato tra il 1995 e il 1999, incarnando così la fluidità delle cariche apicali fra Ue e Nato.
Il vero banco di prova delle effettive capacità della Ue di intervenire sullo scenario internazionale per mettere in atto quei principi e quei valori di pace, libertà, giustizia e democrazia così enfaticamente richiamati nei suoi atti costitutivi e ancor più nelle dichiarazioni dei suoi massimi esponenti, furono senz’altro le tragiche vicende dei Balcani a cavallo del secolo. E fu un disastro. Le parole di Perry Anderson esprimono un giudizio tanto severo quanto giusto e inequivocabile: “Beneficiaria della Pax americana piuttosto che progenitrice della stessa, l’Unione ha affrontato la sua prima prova come vero e proprio custode della pace in Europa dopo la guerra fredda. Fallì miseramente, non impedendo ma alimentando la guerra nei Balcani, poiché la Germania appoggiò la secessione slovena dalla Jugoslavia, il colpo che innescò i successivi conflitti omicidi che la Ue, trascinata sulla scia di Helmut Kohl, si dimostrò incapace di moderare o di far cessare. Ancora una volta non è stata Bruxelles, ma Washington a decidere finalmente il destino della regione. Anche l’allargamento dell’Unione agli ex paesi del Patto di Varsavia, la sua grande conquista storica, ha seguito le orme degli Stati Uniti, la loro inclusione nella Nato prima del loro ingresso nella Ue”

I bombardamenti sulla Serbia
Infatti l’intervento aereo contro la Serbia costituì una rottura delle già fragili regole che in qualche modo caratterizzavano l’ordine mondiale di allora. A tal punto che un fine giurista come Luigi Ferrajoli poteva mettere in fila tutte le violazioni che venivano commesse nei confronti di Costituzioni, Trattati, Carte costitutive, Convenzioni, fino a profilare una sorta di colpo di stato internazionale: “Innanzitutto la violazione della Costituzione italiana che all’articolo 11 bandisce la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali e all’articolo 78 richiede che la guerra (di difesa) sia deliberata dalle Camere. In secondo luogo la violazione della Carta dell’Onu, che non solo vieta la guerra ma prescrive ‘mezzi pacifici’ volti ‘a conseguire la composizione e la soluzione delle controversie internazionali, a cominciare dal negoziato ad oltranza … In terzo luogo la violazione del trattato istitutivo della Nato, che configura l’alleanza come esclusivamente difensiva e vincolata alla carta dell’Onu … In quarto luogo [la violazione] dello statuto della Corte penale internazionale … Infine le violazioni delle convenzioni di Ginevra, in base alle quali sono crimini di guerra i bombardamenti delle popolazioni civili”.
Tutto ciò, è bene ribadirlo, non sarebbe potuto avvenire senza la direzione diretta, non solo supervisione, da parte degli Usa. Come ha giustamente sottolineato Domenico Gallo “Il retroterra dell’attacco dell’Alleanza atlantica alla Serbia, scattato il 24 marzo 1999, era costituito dal nuovo ruolo strategico militare che gli Stati Uniti avevano concepito per la Nato dopo la fine della Guerra fredda”.
Per quanto riguarda il nostro paese il via libera all’utilizzo delle basi italiane per il decollo dei bombardieri, venne offerto dal governo D’Alema. L’insieme dell’operazione venne guidata da Francesco Cossiga che riteneva che la sinistra, quella rappresentata allora dai Ds, avrebbe fatto cose che neppure la destra avrebbe potuto compiere senza provocare e attirarsi contro, se non una sollevazione popolare, certamente una lunga e forte contrapposizione nelle istituzioni e soprattutto nelle piazze. Lo dice esplicitamente Carlo Scognamiglio, allora ministro della Difesa, in una dichiarazione a un quotidiano, in polemica con James Rubin, ex portavoce di Madeleine Albright : “A Rubin sfugge che in Italia avevamo dovuto cambiare governo proprio per fronteggiare gli impegni politico-militari che si delineavano … Prodi ad ottobre aveva espresso una disponibilità di massima all’uso delle basi italiane, ma per la presenza di Rifondazione nella sua maggioranza non avrebbe potuto impegnarsi in azioni militari. Per questo il senatore Cossiga ed io ritenemmo che occorreva un accordo chiaro con l’on. D’Alema” e l’accordo in sintesi si articolava in due parti: “la prima era il rispetto dell’impegno per l’euro […] la seconda era il vincolo di lealtà alla Nato: l’Italia avrebbe dovuto fare esattamente ciò che la Nato avrebbe deciso di fare”. E così fu.
La guerra dei Balcani convinse le elite europee che era necessario imprimere una nuova svolta nel campo della difesa comune, naturalmente senza uscire dal quadro della sudditanza nei confronti della Nato e degli Usa. Così nel 2004 nasce L’Agenzia europea per la difesa (Aed), attualmente presieduta da Josep Borrel con sede a Bruxelles, il cui compito è quello di permettere ai 27 Stati membri dell’Ue di sviluppare le loro risorse militari, di stabilire accordi anche con paesi extra Ue (come è avvenuto per Norvegia, Serbia, Svizzera e Ucraina), avendo concluso un accordo amministrativo con il dipartimento della Difesa degli Stati Uniti che prevede una maggiore cooperazione transatlantica nel campo della difesa in settori specifici, compreso lo scambio di informazioni. [segue]

Verso il 25 aprile. L’Italia è una repubblica democratica antifascista

img_6801Ecco il testo integrale del monologo di Antonio Scurati sul 25 aprile che lo scrittore avrebbe dovuto portare a “Che sarà” e censurato dalla Rai.

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Da leggere, rileggere, studiare e, soprattutto, condividere in ogni modo e con ogni mezzo, fare arrivare lontano, alla faccia di questa destra miserabile e neofascista che crede di poter cancellare la Storia.
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“Giacomo Matteotti fu assassinato da sicari fascisti il 10 di giugno del 1924.
Lo attesero sotto casa in cinque, tutti squadristi venuti da Milano, professionisti della violenza assoldati dai più stretti collaboratori di Benito Mussolini. L’onorevole Matteotti, il segretario del Partito Socialista Unitario, l’ultimo che in Parlamento ancora si opponeva a viso aperto alla dittatura fascista, fu sequestrato in pieno centro di Roma, in pieno giorno, alla luce del sole. Si batté fino all’ultimo, come lottato aveva per tutta la vita. Lo pugnalarono a morte, poi ne scempiarono il cadavere. Lo piegarono su se stesso per poterlo ficcare dentro una fossa scavata malamente con una lima da fabbro.

Mussolini fu immediatamente informato. Oltre che del delitto, si macchiò dell’infamia di giurare alla vedova che avrebbe fatto tutto il possibile per riportarle il marito. Mentre giurava, il Duce del fascismo teneva i documenti insanguinati della vittima nel cassetto della sua scrivania.
In questa nostra falsa primavera, però, non si commemora soltanto l’omicidio politico di Matteotti; si commemorano anche le stragi nazifasciste perpetrate dalle SS tedesche, con la complicità e la collaborazione dei fascisti italiani, nel 1944.

Fosse Ardeatine, Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto. Sono soltanto alcuni dei luoghi nei quali i demoniaci alleati di Mussolini massacrarono a sangue freddo migliaia di inermi civili italiani. Tra di essi centinaia di bambini e perfino di infanti. Molti furono addirittura arsi vivi, alcuni decapitati.
Queste due concomitanti ricorrenze luttuose – primavera del ’24, primavera del ’44 – proclamano che il fascismo è stato lungo tutta la sua esistenza storica – non soltanto alla fine o occasionalmente – un irredimibile fenomeno di sistematica violenza politica omicida e stragista.

Lo riconosceranno, una buona volta, gli eredi di quella storia?
Tutto, purtroppo, lascia pensare che non sarà così. Il gruppo dirigente post-fascista, vinte le elezioni nell’ottobre del 2022, aveva davanti a sé due strade: ripudiare il suo passato neo-fascista oppure cercare di riscrivere la storia. Ha indubbiamente imboccato la seconda via.
Dopo aver evitato l’argomento in campagna elettorale, la Presidente del Consiglio, quando costretta ad affrontarlo dagli anniversari storici, si è pervicacemente attenuta alla linea ideologica della sua cultura neofascista di provenienza: ha preso le distanze dalle efferatezze indifendibili perpetrate dal regime (la persecuzione degli ebrei) senza mai ripudiare nel suo insieme l’esperienza fascista, ha scaricato sui soli nazisti le stragi compiute con la complicità dei fascisti repubblichini, infine ha disconosciuto il ruolo fondamentale della Resistenza nella rinascita italiana (fino al punto di non nominare mai la parola “antifascismo” in occasione del 25 aprile 2023).

Mentre vi parlo, siamo di nuovo alla vigilia dell’anniversario della Liberazione dal nazifascismo. La parola che la Presidente del Consiglio si rifiutò di pronunciare palpiterà ancora sulle labbra riconoscenti di tutti i sinceri democratici, siano essi di sinistra, di centro o di destra.
Finché quella parola, Antifascismo, non sarà pronunciata da chi ci governa, lo spettro del fascismo continuerà a infestare la casa della democrazia img_6803
Europa, Europa: dove vai?
Alfonso Gianni
La costruzione di un sistema di guerra nella Ue

Ora se nel mondo c’è una cosa che conviene affrontare con esitazione – ma che dico, che bisogna in tutti i modi evitare, scongiurare, tenere lontana – di sicuro è la guerra: non c’è iniziativa più empia e dannosa, più largamente rovinosa, più persistente e tenace, più squallida e nell’insieme più indegna di un uomo, per non dire di un cristiano. Invece – chi lo crederebbe? – oggi si entra in guerra di qua, di là, dappertutto, con estrema leggerezza, per le ragioni più futili; e la condotta di guerra è caratterizzata da un’estrema crudeltà e barbarie.
Erasmo da Rotterdam

Sono trascorsi cinque secoli abbondanti da quando le parole del grande intellettuale olandese, poste in esergo, uscirono a stampa dai torchi di Aldo Manuzio. Se può esserci ancora qualche dubbio sulla validità delle teorie sul progresso più o meno lineare della civiltà umana, la loro falsificazione trova conferma nei terribili avvenimenti di questi ultimi mesi. La guerra continua, si incancrenisce e si allarga. I vari pezzetti della guerra mondiale descritta da papa Francesco, si congiungono tra loro in un mostruoso puzzle. Da ultimo Israele conduce un attacco “mirato” contro il consolato iraniano a Damasco, uccidendo comandanti dei “guardiani della rivoluzione”; l’Iran riempie il cielo di droni e missili; aerei statunitensi, francesi e britannici, unitamente a quelli israeliani, si alzano in volo per abbatterli. Nel contempo la guerra “dimenticata” in Sudan assomma un bilancio di 12mila morti e oltre sette milioni di sfollati. Ogni appello alla moderazione, per non dire alla trattativa e alla pace, viene immediatamente travolto, per quanto sia alto lo scranno dal quale è stato rivolto.
L’anonima sentenza latina, Si vis pacem para bellum, che ingenuamente consideravamo ormai persino impensabile, esce con sempre maggiore frequenza dalla bocca dei leader europei. Fra questi non poteva mancare Giorgia Meloni che ha voluto fare sfoggio di cultura, pronunciandola nel febbraio del 2022, pochi giorni dopo l’invasione russa dell’Ucraina, davanti ad una platea di conservatori riuniti in Florida per l’annuale Conservative Political Action Conference (Cpac), per poi ripeterla in altre più recenti occasioni nella veste di Presidente del Consiglio. La stessa frase, per quanto abusata, è stata utilizzata dall’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrel, nel commentare il documento conclusivo emerso dal Consiglio europeo del 21-22 marzo. E non si può certo dire che si sia trattato di un uso improprio.
Per quanto trita e ritrita la vecchia sentenza è in grado di fare da sintesi di quanto si è detto e deciso in quella riunione, che può ben dirsi essere propria di un Consiglio di guerra. Una riunione, cui seguirà quella di metà aprile dedicata ai temi dell’economia, che è solo un passaggio dentro una escalation di decisioni e comportamenti che conducono l’Europa in un’unica direzione: la guerra. Il passaggio da una “guerra grande” – come l’ha denominata Limes -, da una guerra “allargata” – come l’ha definita Alberto Negri guardando al teatro mediorientale – dalla più volte citata guerra mondiale a pezzetti secondo la celebre definizione di papa Francesco, ad una guerra globale vera e propria, tale da non escludere l’uso di armi nucleari, non è più solo una distopia.

Le conclusioni del Consiglio europeo
Quanto deciso nel recente Consiglio europeo non basta. Lo ha detto con chiarezza il premier polacco Donald Tusk, uscito vincitore dalle elezioni dello scorso ottobre, che in una intervista rilasciata a diversi quotidiani europei, fra cui un quotidiano italiano, avverte che la guerra è “alle porte”, che per la prima volta dal 1945 non è più un concetto del passato ma è un fatto “reale”, che dunque “dobbiamo abituarci mentalmente all’arrivo di una nuova era. L’era prebellica.” Rispetto alla quale però la Ue non è ancora pronta e quindi bisognerebbe fare di più, anche rispetto alle decisioni del Consiglio europeo di marzo.
Eppure quelle decisioni non sono lievi. Basta scorrere il documento conclusivo per accorgersene, al di là di qualche espressione retorica o fumosa, che appare proprio per questo inquietante per quello che può nascondere e per quello che ci aspetta. Per quanto riguarda il fronte russo-ucraino il testo non fa il pur minimo accenno alla possibilità di cessare il fuoco, di aprire una trattativa, di muoversi in una direzione di pace. Quest’ultimo termine non compare mai, se non con un significato completamente stravolto, si potrebbe dire, con ironico cinismo. Infatti il Consiglio europeo chiede di lavorare all’ottavo pacchetto di sostegno per l’Ucraina nell’ambito dello strumento europeo per la pace. Invita a prendere in considerazione la possibilità di “destinare a beneficio dell’Ucraina, compresa la possibilità di finanziare il sostegno militare, le entrate straordinarie derivanti dai beni russi bloccati”, quindi superando i dubbi sollevati anche da commentatori mainstream sul rischio che un simile atto porti un indesiderato scompiglio nelle “regole” che tutelano il mercato e il movimento dei capitali. Spinge per un rafforzamento ed una piena attuazione delle sanzioni alla Russia, anche colpendo paesi terzi che ne facilitano l’elusione. Pur nella impossibilità di impedirlo totalmente – rendendosi conto della complessità e dell’intreccio degli interessi economici in gioco – il documento raccomanda di limitare “al massimo” l’accesso della Russia “a prodotti e tecnologie sensibili che hanno rilevanza nel campo di battaglia”. Ribadisce la richiesta agli Stati membri di aumentare la spesa militare. Prospetta apertamente l’utilizzo della Banca europea per gli investimenti per fornire risorse e strumentazione finanziaria al fine di supportare l’ingente aumento delle spese belliche.
Come si vede le previsioni e gli strumenti di intervento economico si concentrano sulle spese militari. Con un facile, quanto terribile, scambio di consonanti, i famosi Eurobond, di cui si era tanto parlato, si tramutano di colpo in Eurobomb. E’ l’intero sistema delle imprese europee che deve rispondere alle nuove esigenze belliche. Lo chiariscono in particolare tre punti importanti sottolineati dal documento conclusivo. Il primo riguarda l’incentivazione della “ulteriore integrazione del mercato europeo della difesa in tutta l’Unione, agevolando l’accesso alle catene di approvvigionamento della difesa, in particolare per le Pmi e le società a media capitalizzazione, riducendo la burocrazia”. Il secondo punto riguarda la necessità di “garantire che la regolamentazione dell’Ue non costituisca un ostacolo allo sviluppo dell’industria della difesa”. Il terzo invita a “investire nella manodopera qualificata per fare fronte alle prevalenti carenze di manodopera e di competenze nell’industria della difesa”. Quindi via tutti i rimanenti lacci e lacciuoli ed ogni regolamentazione d’impaccio al fare presto se non subito. Il tutto – si preoccupano di precisare gli estensori del documento – deve risultare “complementare alla Nato, che rimane il fondamento della difesa collettiva per i suoi membri”

Come era considerata nel mondo la Ue
La puntualizzazione è tutt’altro che rituale, anche perché la costruzione di un simile sistema di guerra europeo mal si acconcia con la definizione un po’ riduttiva di Wolfgang Streeck per cui l’Ue sarebbe semplicemente “un ausiliario economico della Nato”. Appare più convincente dal punto di vista dell’analisi dinamica delle forze in campo la conclusione cui perviene Lucio Caracciolo e cioè che il ruolo della Nato e quello della Ue tendono negli ultimi anni a sovrapporsi, come risulta ancora più evidente in relazione al conflitto russo-ucraino. L’una prepara il terreno per l’avanzata dell’altra e viceversa. Anche se lascia un po’ straniti l’idea che Caracciolo ha recentemente avanzato, quella di “un’intesa bilaterale speciale fra Italia e Stati Uniti” al fine di tenere il nostro paese “sopra la linea di galleggiamento durante la Guerra Grande e prefigurare equilibri meno instabili nell’immediato dopoguerra”. Una idea che lo stesso autorevole direttore di Limes definisce “controintuitiva” e rispetto alla quale sollecita egli stesso “critiche e controproposte”. Ma prima è forse opportuno fare qualche passo indietro.
Certamente la guerra russo-ucraina non ha solo risuscitato la Nato da una condizione che aveva autorizzato Macron a stilare un affrettato certificato di morte cerebrale, ma ha messo in moto un’accelerazione dell’armamento europeo ad ogni livello. Tuttavia sarebbe sbagliato cogliere solo la tempistica di quest’ultima vigorosa corsa alle armi e non vederne i passaggi precedenti, pur se più lenti nel loro svolgersi, nel corso dei quali l’Ue è riuscita persino ad abbattere l’immagine che si era fatta nel mondo. Anche se si trattava di un’immagine più dettata da un forte wishful thinking che da una rigorosa analisi del processo di costruzione dell’Unione europea.
Per un non breve periodo in America latina molti vedevano nell’Europa la proiezione dei propri desideri di costruire l’utopia bolivariana, dove contrasti e confini sarebbero stati superati da intese politiche ed economiche nel nome del Sud del mondo. Se ne ha prova leggendo, in un recente libro, le parole dell’ex presidente uruguayano José “Pepe” Mujica, che manifesta il suo stupore e il suo spavento per l’impotenza dell’Europa di fronte al conflitto russo-ucraino: “Quello che più mi spaventa è l’impotenza dell’Europa, che è diventata un polo senza alcun potere decisionale autonomo. È incredibile. Ovviamente, la pace in Europa avrebbe dovuto includere la Russia e non segregarla, e invece quello che hanno fatto è stato spingerla dall’altra parte, la stanno regalando alla Cina. Da un punto di vista geopolitico, sono dei salami [ride], dei salami… Sì. Sono sbalordito dal declino politico dell’Europa, al punto da guardare con «nostalgia», tra virgolette, ai vecchi conservatori europei, che almeno vedevano un po’ più lungo e avevano un po’ più di dignità. Proprio come De Gaulle, il quale pensava che l’Europa dovesse arrivare fino agli Urali e intuì che un processo di pace doveva inevitabilmente includere anche la Russia all’interno dell’Europa. La stupida rottura da parte della Nato del Patto di Varsavia fu un passo privo della benché minima lungimiranza politica. Penso anche che, dietro tutto questo, vi sia una sorta di duello in cui gli Stati Uniti temono di perdere la supremazia a favore della Cina.”

Le radici del processo di militarizzazione europeo
E’ bene quindi non dimenticare che l’attuale fase di intensa militarizzazione della Ue che stiamo attraversando in questo sciagurato presente, affonda le sue radici in alcune tappe fondamentali che hanno determinato la costituzione materiale dell’unità europea. Una buona e non trascurabile parte del prolisso Trattato di Maastricht del 1992 è costituita dalla cosiddetta nuova Politica estera di sicurezza comune (Pesc). Una manciata di anni dopo, il Trattato di Amsterdam istituì il ruolo di Alto rappresentante per la Pesc. Il primo a ricoprire tale carica fu Javier Solana, che la condusse per dieci anni fino al 2009, dopo essere stato Segretario generale della Nato tra il 1995 e il 1999, incarnando così la fluidità delle cariche apicali fra Ue e Nato.
Il vero banco di prova delle effettive capacità della Ue di intervenire sullo scenario internazionale per mettere in atto quei principi e quei valori di pace, libertà, giustizia e democrazia così enfaticamente richiamati nei suoi atti costitutivi e ancor più nelle dichiarazioni dei suoi massimi esponenti, furono senz’altro le tragiche vicende dei Balcani a cavallo del secolo. E fu un disastro. Le parole di Perry Anderson esprimono un giudizio tanto severo quanto giusto e inequivocabile: “Beneficiaria della Pax americana piuttosto che progenitrice della stessa, l’Unione ha affrontato la sua prima prova come vero e proprio custode della pace in Europa dopo la guerra fredda. Fallì miseramente, non impedendo ma alimentando la guerra nei Balcani, poiché la Germania appoggiò la secessione slovena dalla Jugoslavia, il colpo che innescò i successivi conflitti omicidi che la Ue, trascinata sulla scia di Helmut Kohl, si dimostrò incapace di moderare o di far cessare. Ancora una volta non è stata Bruxelles, ma Washington a decidere finalmente il destino della regione. Anche l’allargamento dell’Unione agli ex paesi del Patto di Varsavia, la sua grande conquista storica, ha seguito le orme degli Stati Uniti, la loro inclusione nella Nato prima del loro ingresso nella Ue”

I bombardamenti sulla Serbia
Infatti l’intervento aereo contro la Serbia costituì una rottura delle già fragili regole che in qualche modo caratterizzavano l’ordine mondiale di allora. A tal punto che un fine giurista come Luigi Ferrajoli poteva mettere in fila tutte le violazioni che venivano commesse nei confronti di Costituzioni, Trattati, Carte costitutive, Convenzioni, fino a profilare una sorta di colpo di stato internazionale: “Innanzitutto la violazione della Costituzione italiana che all’articolo 11 bandisce la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali e all’articolo 78 richiede che la guerra (di difesa) sia deliberata dalle Camere. In secondo luogo la violazione della Carta dell’Onu, che non solo vieta la guerra ma prescrive ‘mezzi pacifici’ volti ‘a conseguire la composizione e la soluzione delle controversie internazionali, a cominciare dal negoziato ad oltranza … In terzo luogo la violazione del trattato istitutivo della Nato, che configura l’alleanza come esclusivamente difensiva e vincolata alla carta dell’Onu … In quarto luogo [la violazione] dello statuto della Corte penale internazionale … Infine le violazioni delle convenzioni di Ginevra, in base alle quali sono crimini di guerra i bombardamenti delle popolazioni civili”.
Tutto ciò, è bene ribadirlo, non sarebbe potuto avvenire senza la direzione diretta, non solo supervisione, da parte degli Usa. Come ha giustamente sottolineato Domenico Gallo “Il retroterra dell’attacco dell’Alleanza atlantica alla Serbia, scattato il 24 marzo 1999, era costituito dal nuovo ruolo strategico militare che gli Stati Uniti avevano concepito per la Nato dopo la fine della Guerra fredda”.
Per quanto riguarda il nostro paese il via libera all’utilizzo delle basi italiane per il decollo dei bombardieri, venne offerto dal governo D’Alema. L’insieme dell’operazione venne guidata da Francesco Cossiga che riteneva che la sinistra, quella rappresentata allora dai Ds, avrebbe fatto cose che neppure la destra avrebbe potuto compiere senza provocare e attirarsi contro, se non una sollevazione popolare, certamente una lunga e forte contrapposizione nelle istituzioni e soprattutto nelle piazze. Lo dice esplicitamente Carlo Scognamiglio, allora ministro della Difesa, in una dichiarazione a un quotidiano, in polemica con James Rubin, ex portavoce di Madeleine Albright : “A Rubin sfugge che in Italia avevamo dovuto cambiare governo proprio per fronteggiare gli impegni politico-militari che si delineavano … Prodi ad ottobre aveva espresso una disponibilità di massima all’uso delle basi italiane, ma per la presenza di Rifondazione nella sua maggioranza non avrebbe potuto impegnarsi in azioni militari. Per questo il senatore Cossiga ed io ritenemmo che occorreva un accordo chiaro con l’on. D’Alema” e l’accordo in sintesi si articolava in due parti: “la prima era il rispetto dell’impegno per l’euro […] la seconda era il vincolo di lealtà alla Nato: l’Italia avrebbe dovuto fare esattamente ciò che la Nato avrebbe deciso di fare”. E così fu.
La guerra dei Balcani convinse le elite europee che era necessario imprimere una nuova svolta nel campo della difesa comune, naturalmente senza uscire dal quadro della sudditanza nei confronti della Nato e degli Usa. Così nel 2004 nasce L’Agenzia europea per la difesa (Aed), attualmente presieduta da Josep Borrel con sede a Bruxelles, il cui compito è quello di permettere ai 27 Stati membri dell’Ue di sviluppare le loro risorse militari, di stabilire accordi anche con paesi extra Ue (come è avvenuto per Norvegia, Serbia, Svizzera e Ucraina), avendo concluso un accordo amministrativo con il dipartimento della Difesa degli Stati Uniti che prevede una maggiore cooperazione transatlantica nel campo della difesa in settori specifici, compreso lo scambio di informazioni. [segue]

Che succede? Elezioni e oltre.

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PD, ANALISI DI UNA RINCORSA. ANGELA E IL LUPO.
24 Settembre 2022 su C3dem.
Gianfranco Brunelli, “I cattolici ripartano da Dio” (intervista all’Avvenire). RUSSIA/UCRAINA: Il consigliere di Putin, Suslov: “Preparatevi al 2023. Altre armi dall’Ovest dopo i referendum e sarà guerra mondiale” (intervista al Corriere della sera). Francesco Battistini, “I soldati alle spalle, la scheda aperta, le lavatrici in premio: l’imbroglio del voto per divenire ‘russi’” (Corriere). Rosalba Castelletti, “Putin sempre più solo, il suo vicerè gli dice no, silenzio ostile dal premier” (Repubblica). “Il dossier dell’Onu sulle atrocità del conflitto” (Messaggero). Ferdinando Nelli Feroci, “Né a Kiev né a Mosca conviene più trattare” (intervista a Il Riformista). ELEZIONI: Antonio Polito, “La forza del partito o il carisma del capo” (Corriere). Francesco Verderami, “La campagna elettorale e i tanti errori da matita blu” (Corriere). Giovanni Orsina, “L’Italia apatica che non voterà” (La Stampa). Claudio Cerasa, “Il guaio di un’Italia guidata dai complottasti” (Foglio). Emanuele Felice, “Lo stile Orban delle destre minaccia la democrazia” (Domani). Andrea Bonanni, “Ursula e il lupo” (Repubblica). Marcello Sorgi, “Pd, analisi di una rincorsa” (La Stampa). Federico Geremicca, “La fine del campo largo e l’identità da ritrovare” (La Stampa). Carlo Carbone, “Capire meglio l’astensionismo per cercare di ridurlo” (Sole 24 ore). INOLTRE: Marco Bentivogli, “Che pena vedere la povertà ridotta a bacino elettorale” (intervista a Il Dubbio). Francesco Giavazzi, “Quali modifiche per il Pnrr” (Repubblica). Aurelio Miracolo, “Dov’è finita la democrazia nei partiti?” (Rivista il Mulino).
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ELEZIONI, LA CEI: “IMPEGNO DI CIASCUNO”. LE SCELTE DI PUTIN
22 Settembre 2022 su C3dem
Il messaggio della Cei per il voto, “L’impegno di ciascuno per il Paese” (Avvenire). LE SCELTE DI PUTIN: Stefano Silvestri, “Lo Zar le prova tutte. Combatte la battaglia della sua vita” (intervista a Il Riformista). Vittorio E. Parsi, “Non cedere al ricatto può fermarlo prima del baratro” (Messaggero). Nathalie Tocci, “L’ultimo azzardo di un dittatore” (La Stampa). Ugo Tramballi, “Il mondo a un passo dal conflitto nucleare” (Sole 24 ore). Monica Guerzoni, “Draghi e l’intesa con il leader: ‘Russia indebolirà, faticherà a reagire’” (Corriere della sera). David Carretta, “La calma della Ue” (Foglio). Francis Fukuyama intervistato da Federico Fubini: “E’ la rivincita delle democrazie liberali. Con Putin perde il modello autoritario” (Corriere). Danilo Taino, “Come si fa sentire l’influenza della Cina” (Corriere). Guido Santevecchi, “L’appello di Pechino: serve una tregua e il ritorno al dialogo” (Corriere). Giuliano Ferrara, “In difesa del miracolo ucraino contro l’autocrate borioso di Mosca” (Foglio). Ampi stralci del discorso di Putin del 21 settembre: “Il mondo capovolto di Putin” (Foglio). Ampi stralci del discorso di Biden del 21 settembre: “Abbiamo scelto la libertà” (Foglio). Mario Giro, “Non basta dire ‘Non lo fare’. Dobbiamo fermare la guerra” (Domani). Francesco Vignarca, “Regna la guerra e la società civile traccia strade di pace” (Manifesto). ELEZIONI: Marcello Sorgi, “Se il Cremlino manda in crisi i nostri partiti” (La Stampa). Stefano Folli, “Dipende dal Sud il destino di Pd e 5s” (Repubblica). Fabrizio Mastrofini, “Meloni cerca sponde nella Santa Sede ma citofona all’indirizzo sbagliato” (Il Riformista). “Mezzogiorno. Pro memoria per il governo che verrà” (Fondazione Merita). ——————-
PUTIN IN TRINCEA. LEGA E FDI ALZANO IL TIRO. CATTOLICI E POLITICA
21 Settembre 2022 su C3dem.
Rosalba Castelletti, “Mosca prepara l’annessione: referendum in quattro regioni” (Repubblica). Gianluca De Feo, “Lo Zar sotto scacco e lo spettro nucleare” (Repubblica). Lorenzo Cremonesi, “Russificazione e minaccia nucleare. Cosa può succedere” (Corriere della sera). La lucida analisi di Stefano Stefanini, “Il Cremlino in trincea” (La Stampa). Il discorso di Mario Draghi all’Assemblea generale dell’Onu: “Da Putin un’altra violazione del diritto internazionale. Restiamo uniti al fianco dell’Ucraina” (La Stampa). Giuseppe Sarcina, “La condanna di Onu, Usa e Ue: Referendum farsa, non lo riconosceremo” (Corriere). David Carretta, “L’iniziativa europea all’Onu” (Foglio). L’analisi di Diego Fabbri, intervistato dall’Osservatore Romano: “Equilibri destinati a cambiare“. Ivan Yakovina, “Lo Zar è più isolato e teme di perdere sul campo. Adesso prova a chiudere” (intervista al Corriere). Giovanni Pigni, “E in Russia ora i giovani cercano di fuggire” (La Stampa). Intanto Stefano Zamagni prova a ragionare di pace: “Sette passi per una pace giusta e duratura (non solo) in Ucraina” (Avvenire). AVERE “VISIONE”: Henry Kissinger, “Il mondo ha bisogno di leader con la visione del premier italiano” (Repubblica). ELEZIONI: Roberto D’Alimonte, “M5S al Sud, la variabile che potrebbe frenare la corsa del centrodestra” (Sole 24 ore). Enrico Letta, “Governa chi vince, anche se è la Meloni” (intervista a Il Giornale). Francesco Bei, “Due estremismi in competizione” (Repubblica). Gianfranco Pasquino, “Il modello Orbàn sarà la bussola del futuro governo di centrodestra” (Domani). Salvatore Bragantini, “Sull’Europa Giorgia Meloni non può dare rassicurazioni” (Domani). Luca Ricolfi, “La posta in gioco per il Pd” (Repubblica). Mattia Feltri, “Generazione di fenomeni” (Domani). Claudio Cerasa, “I consigli elettorali di Draghi” (Foglio). Ignazio Cipolletta, “L’elettore povero che vota a destra va contro i suoi interessi” (Domani). CATTOLICI E POLITICA: Angelo Picariello, “Cattolici irrilevanti? La lunga marcia inizia dopo il 25 settembre” (Avvenire). Renato Balduzzi, “Cattolicesimo democratico. Il ‘documento dei 50’ base di un nuovo impegno” (lettera a Avvenire).
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EVAPORAZIONE DELLA POLITICA E BISOGNO DI RICOSTRUIRE I LEGAMI SOCIALI
20 Settembre 2022 su C3dem.
Matteo Zuppi, “Seguiamo l’esempio dei padri costituenti, distanti ma uniti nel ricostruire il Paese” (La Stampa). Andrea Riccardi, “I cattolici e la politica: la che ‘crea cultura’” (Corriere della sera). Gennaro Di Biase, “Dal vescovo di Napoli, Battaglia, monito ai politici: ’Umiltà al servizio di tutti’” (Mattino). Massimo Recalcati, “L’evaporazione della politica” (Repubblica). Marco Damilano, “I cinquant’anni in cui si è svuotata l’Italia” (Domani). Marco Tarchi, “L’onda nera non è solo il frutto di nostalgie autoritarie” (Domani). Piero Ignazi, “La vera sfida resta quella tra il rosso e il nero” (Domani). Gaetano Azzariti, “Presidenzialismo, è in pericolo il futuro della Costituzione” (Manifesto). Maurizio Ferrera, “Il valore della via europea” (Corriere della sera). Francesco M. Cataluccio, “Le parole dei nazionalisti” (Foglio). INOLTRE: Giuliano Ferrara, “I funerali della regina, l’esclusione di Putin e la potenza di un gesto” (Foglio). Michele Salvati, “Premesse per una riforma del sistema politico italiano” (rivista il Mulino). Stefano Allievi, Guido Barbujanni, Silvia Ferrari, “La lunga marcia dell’umanità. Con le migrazioni spiegano chi siamo diventati” (La Stampa).
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L’ORRORE DI IZYUM. NOTE DI GEOPOLITICA
20 Settembre 2022 su C3dem.
Sabato Angeri, “Nell’orrore a cielo aperto di Izyum” (Manifesto). Antonella Scott, “La Russia prepara il ritorno a un’economia primitiva” (Sole 24 ore). Marta Ottaviani, “Il post che fa tremare il Cremlino” (Avvenire). Greta Previtera, “Noi 70 deputati contro lo Zar. Vogliamo le sue dimissioni” (Corriere). Vittorio E. Parsi, “Le mosse di Putin e il momento della fermezza” (Messaggero). Tommaso Ciriaco, “La bussola di Draghi: sostegno all’Ucraina fino al ritiro dei Russi” (Repubblica). GEOPOLITICA: Rosalba Castelletti, “Separatismi e scontri sui confini. L’ex URSS è di nuovo una polveriera” (Repubblica). Stefano Stefanini, “A Samarcanda vince la Cina” (La Stampa). Romano Prodi, “La sponda cinese che manca alla Russia” (Messaggero). Francesca Sforza, “L’avvertimento di Modi a Putin: troppe crisi, stop alla guerra” (La Stampa) Alessandro Penati, “Stati Uniti, Europa, Cina: tre spettri aleggiano sull’economia del mondo” (Domani). Rita Fatiguso, “Cina alla conquista dell’America latina” (Sole 24 ore). L’ONU: Luca Sebastiani, “Il ruolo dell’Onu nei teatri di crisi negli ultimi trent’anni” (Scenari). Pasquale Annicchino, “L’Anticristo al Palazzo di vetro e l’Apocalisse dei diritti umani” (Scenari). Marco Pedrazzi, “Tutti i peccati originali del Consiglio di sicurezza” (Scenari).
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PRODI: SE L’ITALIA SEGUIRA’ ORBAN, L’EUROPA CI EMARGINERA’
19 Settembre 2022 su C3dem.
Mauro Magatti, “Amore, famiglia, sesso: sfide anche per la politica” (Corriere). Paolo Di Paolo, “Come parlare di politica tra i banchi di scuola” (La Stampa). Mario Delpini, arcivescovo di Milano, “Cittadini, non clienti. Contro la crisi è inutile la beneficienza” (intervista a Il Giornale). ELEZIONI: Romano Prodi, “Se l’Italia seguirà Orban l’Europa ci emarginerà” (intervista a Repubblica). Vladimiro Zagrebelsky, “L’Ungheria di Orban: voto, democrazia e diritti violati” (La Stampa). Carmelo Caruso, “Letta: ‘E’ la nostra Brexit. Vinciamo noi’” (Foglio). Ezio Mauro, “Cosa ci aspetta se vince la destra” (Repubblica). Roberto Gressi, “La corsa dei leader. I punti di forza e di debolezza” (Corriere della sera). Cesare Zapperi, “Il patto in sei punti firmato dalla Lega a Pontida” (Corriere). Stefano Folli, “La rissa Conte-Renzi è un segnale al Pd” (Repubblica). Raffaella Marino, “Dodici domande (e risposte) a Carlo Calenda” (Qn). Roberto Napoletano, “La grande coalizione che può salvare l’Italia” (Il Quotidiano). Paolo Griseri, “Meglio morire democristiani” (Repubblica). ELEZIONI E MEZZOGIORNO: Dario Di Vico, “Toh, le autonomie e le alleanze ballano” (Corriere della sera). Mauro Calise, “Tre modelli di leadership al Sud” (Mattino). Enrico Letta, “Lavoro al Mezzogiorno. Basta assistenzialismo” (intervista al Mattino). DOPO L’INTERVISTA DEL PAPA AL “MATTINO” (vedi qui): Gaetano Manfredi, sindaco di Napoli: “Da Francesco un monito: serve la politica dei fatti” (intervista al Mattino). Massimo Adinolfi, “Il senso da recuperare della ‘misura umana’” (Mattino). QUESTIONI: Daniele Checchi, “Se i partiti nascondono la loro idea di scuola” (lavoce.info). Tommaso Monacelli, “Abbiamo proprio bisogno della flat tax?” (lavoce.info).
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ITALIA, RISCHIO AUTORITARISMO.
18 Settembre 2022
Francesco, intervistato dal Mattino di Napoli: “Sud e Napoli: qui la storia può cambiare rotta”. Marzio Breda, “Mattarella: un patto nazionale per la scuola” (Corriere). Sabino Cassese, “Governo e Camere, l’equilibrio perduto dei poteri” (Corriere della sera). MARCHE: Luca Mercalli, “La tragedia marchigiana è solo l’inizio di una fase” (Il Fatto). Enzo Pranzini, “Viviamo in pianure alluvionate, dobbiamo arretrare” (Manifesto). Giovanni Legnini, “L’Italia è paralizzata, serve un vero piano contro i rischi” (intervista a Repubblica). IL PERICOLO DELLE AUTOCRAZIE: Rino Formica, “Autoritarismo: la bolletta più cara per l’Italia del dopo voto” (Domani). Sergio Fabbrini, “Centrodestra al test della lotta alle autocrazie” (Sole 24 ore). Massimo Giannini, “Le strane idee dei ‘patrioti’ sulle democrazie occidentali” (La Stampa). Andrea Bonanni, “La Ue e le bugie di Meloni” (Repubblica). Marta Dassù, “Il vero interesse nazionale” (Repubblica). MARIO DRAGHI E IL VOTO: Lina Palmerini, “Le sfide che Draghi lascia ai prossimi vincitori” (Sole 24 ore). Marcello Sorgi, “L’ultimo affondo di Supermario” (La Stampa). Giovanna Faggionato, “Draghi mette in sicurezza l’autunno di Giorgia Meloni” (Domani). Simone Canettieri, “Il premier e il voto” (Foglio). Stefano Feltri, “L’agenda Draghi è limitare i danni di Salvini e la Lega” (Domani). Federico Capurso, “La destra all’attacco di Draghi” (La Stampa). Marco Travaglio, “Draghi non esiste” (Il Fatto). PD-M5S: Daniela Preziosi, “Il film sul divorzio Pd-M5s, tratto da una storia tragicamente vera” (Domani). Andrea Orlando, “Il campo largo tornerà” (intervista al Corriere del Mezzogiorno). PD: Carlo Trigilia, “La lezione della Svezia che il Pd non ha capito” (Domani). MELONI, LA CHIESA E LA 194: Iacopo Scaramuzzi, “Meloni incontra il card. Sarah, e cerca sponda tra i tradizionalisti” (Repubblica). Eugenia Roccella, “C’è una benevola aspettativa della chiesa per Giorgia” (intervista a Repubblica). Maria Novella De Luca, “FdI all’attacco della 194, ma in Italia aborti crollati” (Repubblica). Luigi Manconi, “Orban, Meloni e la democrazia dei sensi di colpa” (La Stampa).
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coordinamento-dcostCondividiamo il documento dell’Anpi, occorre convincere a partecipare al voto, come del resto chiedono anche altri appelli. Non votare è un errore che consegna a chi partecipa un potere maggiore. Questo non va dimenticato ora che le destre si sentono forti, puntano a vincere e cercheranno in ogni modo di mobilitare i loro elettori.
Queste elezioni decideranno della qualità futura della democrazia del nostro paese.
Purtroppo la pessima legge elettorale in vigore non è stata cambiata, malgrado sia stata giudicata la peggiore.
Chi dichiara di avere come primo obiettivo il contrastare le destre, a partire dal PD, non è riuscito o non ha voluto utilizzare al meglio i meccanismi elettorali in vigore per evitare di fare regali alle destre. Al punto che un fronte compatto delle destre, che punta a conquistare il potere per decidere sul futuro dell’Italia, si confronta con una divaricazione tra i soggetti politici che dovrebbero contrastarlo.
A nulla sono serviti gli appelli a contrastare le destre.
Dopo il 25 settembre le destre punteranno a modificare la Costituzione cambiando la sostanza della democrazia italiana. Presidenzialismo, autonomia regionale differenziata, minacce all’indipendenza della magistratura dalla politica sono i punti essenziali di questo attacco all’assetto istituzionale definito dalla nostra Costituzione, nata dalla Resistenza.
Preoccupa in particolare che i grandi problemi sociali e del lavoro, aggravati dalle conseguenze della crisi energetica e dell’ambiente, della guerra in corso e in peggioramento, dai rischi per il futuro dell’occupazione e della qualità del lavoro e delle retribuzioni, dalla crescita della povertà, anziché essere affrontati e risolti possano precipitare per politiche del tutto sbagliate e socialmente divaricanti, che finirebbero con lo spaccare ancora di più il paese tra settori sociali, tra aree territoriali, tra generazioni.
Tutto questo è aggravato dai rischi di un serio pericolo per la pace nel mondo, provocato dalla crisi Ucraina, e da una ripresa della rincorsa agli armamenti, mentre la crisi climatica è relegata in secondo piano malgrado tutto ne confermi la sua drammaticità, a partire dall’alluvione nelle Marche. Il risultato elettorale deciderà le scelte politiche future e questo nell’immediato richiede di contribuire a fermare le destre.
Dopo il voto sarà necessario prendere nuove iniziative forti e unitarie per una legge elettorale, scegliendo una rappresentanza su base proporzionale e consegnando agli elettori la decisione reale su chi deve essere eletto, per cambiare il titolo V della Costituzione contro la rottura dell’unità nazionale, per garantire l’indipendenza della magistratura dai nuovi attacchi alla sua autonomia, per attuare pienamente la Costituzione sul piano sociale e dei diritti delle persone, per garantire il rispetto dell’articolo 11 della Costituzione costruendo un movimento unitario per fermare la guerra in Ucraina puntando ad una conferenza internazionale per la pace e scongiurare l’olocausto nucleare.
La Presidenza nazionale del Cdc

21 /9 /2022
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Giovedì 11 agosto 2022

Estate 2022: siamo in pausa, ma aperti e attivi per le urgenze!
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——————Opinioni, Commenti e Riflessioni————————————-—————————————
d8073722-db1b-4d56-b111-7c2cdddd0e11Elezioni. Le analisi non tengono conto del fatto che per via consuetudinaria in Italia la forma di governo è mutata, non è più parlamentare. Il capo dello stato forma i governi sentendo Usa, Ue e Nato
11 Agosto 2022
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
Se cambia la forma di governo, le analisi fatte su un presupposto che non c’è più sono sfasate. Cosa significa dire che, se la Meloni prende un voto in più, è presidente del Consiglio? Niente, perché il capo del governo lo nomina Mattarella senza tener conto dell’esito elettorale, se non nella parte che risponde […]
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[Dal sito Fondazione Sardinia] COMUNITARISMO versus MERITOCRAZIA, due filosofie contrapposte della società, intervista al sociolgo MICHAEL J. SANDEL, di Carlo Bordoni
OLIVETTI, INSIEME AL FILOSOFO FRANCESE JACQUES MARITAIN, FURONO FRA I FONDATORI DI QUEL SOCIALISMO UTOPISTICO DA CUI HA ORIGINE IL COMUNITARISMO.

L’idea del merito è profondamente radicata nella nostra cultura, La religione calvinista ne ha fatto un dettato morale, dove la salvezza eterna non dipende dalla grazia, ma dal frutto del proprio impegno. Max Weber ne ha dimostrato la ricaduta nel mondo degli affari nella sua opera più famosa, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo. II merito è diventato così il verbo indiscusso della civiltà occidentale, ma è anche il più potente generatore delle disuguaglianze.
[segue]

L’ORIGINE DELLA GUERRA E LA LEZIONE DI BERLINGUER

44620070-bf82-4277-ba2b-0a9a7ade5e3eL’ORIGINE DELLA GUERRA E LA LEZIONE DI ENRICO BERLINGUER
cost-terra-logo 27 APRILE 2022 / COSTITUENTE TERRA / DISIMPARARE L’ARTE DELLA GUERRA /
Alle radici del movimento d’ispirazione socialistica c’è la critica del modello capitalistico. E rinunciarvi significa rinunciare alla propria missione. Ma Enrico
Berlinguer
pensava a un altro modo di interpretare quella funzione critica

di Aldo Tortorella*

La guerra al centro dell’Europa con la brutale aggressione russa all’Ucraina, fuori da ogni diritto internazionale quali che fossero i motivi dichiarati per giustificarla, ha segnato l’inizio di quest’anno nel quale ci preparavamo a ricordare il centenario della nascita di Enrico Berlinguer non solo per motivi affettivi, ma per riflettere sul suo pensiero e sul secolo che è trascorso. Non più il secolo breve di Hobsbawm (tra la prima guerra mondiale e l’89) ma quello che arriva fino a noi e che viene mostrando ciò che scompare e ciò che rimane o ritorna.

Come è possibile che la guerra sia tornata in Europa sin da quando fu bombardata Belgrado dalla Nato per strappare alla Serbia il Kosovo? E perché continuano le guerre più o meno (apparentemente) concluse nel Medio e Vicino Oriente o in Libia a pochi chilometri dalle coste siciliane? Da dove viene il nazionalismo che dilaga nel mondo? Perché si è tanto estesa la tendenza che viene chiamata “populismo”? E come è possibile che dopo le catastrofi generate da fascismo e nazismo quelle idee siano tornate a fare proseliti e a costruire organizzazioni? E, mentre scrivo questo articolo, ci si chiede angosciosamente come sia nato e che cosa provocherà questo nuovo incubo della guerra russo-ucraina in atto. È un mondo tutto all’opposto della vita di Berlinguer, cioè della sua originale visione di un bisogno e di un ideale di pace, di liberazione umana, di giustizia sociale che percorse il Novecento: un ideale che fu il motivo conduttore e l’oggetto della contesa planetaria nel secolo breve.

Il “socialismo in un Paese solo”, con l’appello alla sua difesa, aveva in parte stravolto ma non aveva soppresso l’ideale internazionalista, quello espresso nel canto che fu comune ai comunisti e ai socialdemocratici novecenteschi dopo che i proletari, anziché unirsi, erano stati indotti a spararsi dalle opposte trincee. Quando, dopo lo stalinismo, dopo Krusciov, dopo il breznevismo e dopo la guerra scatenata e perduta dai sovietici in Afghanistan, venne la speranza, con Gorbaciov, di una radicale riforma democratica del sistema sovietico, la potenza economicamente e politicamente vincente, gli Stati Uniti, volle sopprimere quella speranza, favorendo la grande rapina privatistica dei burocrati, promuovendo e proteggendo il potere di un proprio seguace, quale era Eltsin, affermatosi al potere bombardando il Parlamento liberamente eletto. E sottovalutando la inevitabile rinascita del nazionalismo di una Russia convertita al capitalismo più selvaggio e umiliata oltre misura.

In Italia quella che ho chiamato la originale visione cui era approdato Berlinguer del bisogno e dell’ideale di liberazione sociale – la visione combattuta dai sovietici e dai partiti legati a loro che prese il nome di “eurocomunismo” e divenne poi la possibile traccia di una nuova sinistra – fu tacitamente sepolta con lui dopo la sua morte precoce da gran parte dei suoi compagni che, poi, pensarono fosse necessario cancellare il loro medesimo partito. Il quale si chiamava “comunista” come tanti nel mondo, ma non era assimilabile ai suoi omonimi, eppure scomparve come tanti altri e come l’Unione Sovietica. Per tutto ciò Berlinguer fu definito uno sconfitto, un fallito o, nel migliore dei casi, un sognatore d’illusioni. Ora noi possiamo vedere il seguito della storia dopo la vittoria mondiale, alla fine del secolo scorso, del modello economico capitalistico, pur in difformi versioni politiche e istituzionali.

Il 1922 della nascita di Enrico è l’anno stesso che vide il primo affermarsi al potere del fascismo italiano. Un anno prima si era costituito, nel solco tracciato dalla Rivoluzione russa, il Partito comunista come Sezione italiana della Terza Internazionale, dapprima secondo l’orientamento di Bordiga, poi ripensato da Gramsci, e trasformato da Togliatti nel PCI alla fine della seconda guerra mondiale. A quest’ultima versione Enrico Berlinguer, come molti della sua generazione, si iscrisse e rimase legato per tutta la vita. La versione di Togliatti, come si sa o si dovrebbe sapere, pensava le idee di trasformazione sociale come indispensabili all’inveramento della democrazia e all’avanzamento della nazione: la “via italiana” era la scelta per la democraticità (come dato nazionale, però) e il legame con l’Unione Sovietica una sorta di garanzia di fedeltà alle idee internazionaliste. Era il tempo in cui alla guerra cruenta – promossa, condotta con crimini orrendi (come la Shoah) e infine perduta dai nazisti e dai fascisti e vinta dal fronte antifascista – seguì mezzo secolo di guerra fredda che aveva come posta lo scacco delle idee che avevano motivato la Rivoluzione russa. Dentro questa contesa Berlinguer visse per quarant’anni come precoce dirigente e poi capo del partito cui si era votato. E così come aveva abbracciato da giovane, anche contro la classe sociale cui apparteneva per nascita, le idee di liberazione sociale e umana, pensandole incarnate nello Stato che aveva dato un contributo decisivo alla sconfitta dei nazisti e dei fascisti, in egual modo ne avvertì la mistificazione da parte di coloro – la dirigenza sovietica – che avrebbero dovuto trarne ispirazione per riformare la creatura ereditata da una storia fatta da eroismi e sacrifici inauditi insieme ad atrocità impensabili poi denunciate da uno di loro, Krusciov.

Tuttavia, e fu questa la vera rottura dentro il suo partito ben prima dell’89, opposte erano le idee sul significato del fallimento, sempre più evidente, della esperienza sovietica e cioè della fine, da Berlinguer medesimo proclamata, della “spinta propulsiva” delle esperienze nate a seguito della Rivoluzione d’ottobre. La parte maggioritaria del gruppo dirigente del Pci, come si vide poi, aveva maturato la convinzione che bisognasse aderire senza riserve alla realtà data e dunque rompere totalmente con il proprio passato (cui i più giovani erano ovviamente del tutto estranei) per quanto coraggiosa fosse stata la storia dei comunisti italiani nella ricerca di una propria strada distinta, e alla fine opposta, rispetto a quella sovietica. A partire da Gramsci (la famosa lettera del 1926 sullo scontro interno al partito bolscevico: «…voi state distruggendo l’opera vostra…») e dal suo ripensamento del marxismo. Al contrario dei liquidatori, Berlinguer citava Mitterrand («tagliare le proprie radici pensando di fiorire meglio può essere solo il gesto di un idiota») per dire che non si poteva e non si doveva rinunciare alle proprie ragioni originarie e sostanziali.

Alle radici del movimento d’ispirazione socialistica c’è la critica del modello capitalistico: rinunciarvi significa rinunciare alla propria missione. Ma insieme pensava a un altro modo di interpretare quella funzione critica. Innanzitutto con il rinnovamento dei contenuti fondamentali, data l’usura e il crollo di molta parte dell’edificio antico. Non solo quello costruito nell’ultima parte del XIX secolo nel tempo del capitalismo industriale trionfante, il tempo degli imperi e delle colonie messi a soqquadro dalla prima guerra mondiale e dalla Rivoluzione russa. Ciò che crollava era anche la semplificazione estrema – sino alla negazione di ogni funzione dell’iniziativa degli individui – dell’idea di superare la proprietà privata dei mezzi di produzione e di scambio trasformandola in proprietà statale cioè burocratica (con i burocrati sovietici che ne diventeranno padroni).

E veniva avanti un’altra trasformazione del modo di essere del modello capitalistico da tempo divenuto finanziario (e diffuso: dai fondi pensione, alle public company, alla mobilitazione del risparmio nei fondi azionari e obbligazionari più o meno pieni di qualcosa o di nulla, eccetera) e già allora impegnato a usare a proprio vantaggio gli effetti della rivoluzione tecnologica e informatica pur senza rinunciare alle più antiche forme di sfruttamento del lavoro salariato o presunto autonomo. Una giungla nuova del capitale e del lavoro, accompagnata da nuove forme di dominio sulle menti. Riorientare l’aspirazione a una società volta a realizzare la “libertà di ciascuno e di tutti” pareva un’opera controcorrente non solo improba ma velleitaria e perdente. L’alternativa a questa fatica, però, consisteva nel rendersi subalterni senza riserve alla potenza vincitrice e alla sua visione dell’ordine mondiale a dominanza americana. E significava acconsentire al rovesciamento della parola riformismo originariamente nata con finalità sociali e socialistiche, e ora stravolta per indicare l’opposto. La parola riformismo stava diventando e diventerà sempre di più (da ciò verranno anche i trattati di Maastricht per l’Unione europea) l’affermazione del privatismo come norma assoluta della proprietà e dell’attività di produzione e di scambio. L’adesione al modello dato e la rinuncia a ogni funzione critica, sino all’ubriacatura neoliberista, sembrava cosa ovvia e venne assunta da ogni parte dei movimenti d’ispirazione socialista e democratica (si ricordino Tony Blair e Bill Clinton).

Ma la vittoria del capitale nella lotta di classe (ben dichiarata dal supermiliardario Buffet) non poteva sopprimere le contraddizioni economiche e sociali costitutive del sistema – con le conseguenze note del disastro ambientale con pandemia e della crescita di diseguaglianze paurose. La globalizzazione del mercato dei capitali alla ricerca, secondo la propria natura, del massimo profitto, se giovava ai Paesi a basso prezzo del lavoro e arricchiva a dismisura i finanzieri, penalizzava nei Paesi ricchi i lavoratori abbandonati dalle sinistre divenute amministratrici del sistema ed esperte, non solo in Italia, dei tagli allo Stato sociale, massima creatura del movimento socialistico novecentesco (ivi compreso il PCI). Venivano di conseguenza la rinascita del nazionalismo (negli Stati Uniti e in tanti Paesi del mondo) e l’affermazione del populismo, entro cui trovava posto la ripresa di pulsioni e argomentazioni di tipo fascistico. Ad aggravare la condizione dell’insicurezza nelle società del benessere e nei rapporti internazionali fu la stupidità dei vincitori: nel caso, il sistema militare industriale oltre che gran parte del potere statale, repubblicano o democratico, degli Stati Uniti. Convinti tutti, a dichiarata imitazione dell’Impero romano, della funzione determinante della forza militare – unitamente al monopolio informativo – per l’esercizio del dominio e incapaci di pensare a una egemonia condivisa con altri. Da ciò la tacita insofferenza per il processo di unificazione europea (fino all’inclinazione per la Brexit) e l’umiliazione della Russia, sconfitta nella guerra fredda, circondata di basi militari, combattuta in Serbia e poi in Libia e in Siria in aiuto alle velleità neocoloniali francesi – e con decine di migliaia di morti e milioni di profughi che premono alle porte dell’Europa.

Una umiliazione spinta sino al rinnegamento degli impegni assunti per non infilare nella Nato tutti i Paesi ex sovietici e sino alla volontà di smembrarne le alleanze più naturali e storicamente intime come nel caso dell’Ucraina. Aveva pienamente ragione l’ex Cancelliere socialdemocratico tedesco Helmut Schmidt (capo della destra del suo partito e fiero anticomunista) a sentire aria di 1914, cioè di guerra, quando nel 2014 ci fu il colpo di Stato in Ucraina per instaurare un regime antirusso e Putin attuò l’annessione della Crimea alla Russia. Schmidt iniziò la sua intervista (doveva essere una delle ultime, fu pubblicata da La Repubblica ed è ancora in rete) dicendo: «Fino ai primi anni Novanta nessuno dubitava che l’Ucraina e la Crimea fossero russe». Dello stesso parere fu Michel Rocard, della medesima tendenza socialista iper moderata ed ex Presidente del Consiglio francese. Olaf Scholz era nel giusto quando disse, per poi dimenticarlo, che la sicurezza europea andrebbe costruita «con la Russia e non contro la Russia». Tutto ciò non scarica Putin dalle responsabilità di un’aggressione a un Paese che egli stesso vuole proclamare come fratello volendolo suddito, ma fa capire quale follia sia stata e sia quella di concepire la Nato in funzione offensiva dentro e fuori dell’Europa al contrario della presunta natura difensiva. E quanta ipocrisia si celi dietro la presunta difesa della integrità territoriale degli Stati, quando proprio la Nato aggredì la Serbia per fare del Kosovo, culla originaria della Chiesa ortodossa serba e della Serbia stessa, una base militare USA, ora la maggiore nel Sud Europa. E per dare il potere a una banda ora sotto processo davanti alla Corte europea per crimini contro l’umanità, spaccio di stupefacenti e delitti vari.

Il mondo umano appare adesso un luogo assai poco raccomandabile, tra guerra guerreggiata e crisi climatica, tra rinascita dei nazionalismi e pericoli di ritorni autoritari, tra ascesa dei violenti e diffusione della violenza – ivi compresa quella, la più vigliacca, contro le donne. Tuttavia, ciò non significa una sterile nostalgia del passato: la guerra fredda non fu un tempo raccomandabile. Ma spinge a capire che la condizione attuale è figlia di una cattiva politica, di una sbagliata lettura di quella vittoria. La speranza di un mondo di pace e di benessere posta nel trionfo del modello capitalistico era assurda e sbagliata. Al culmine della sua espansione il modello capitalistico ha mostrato la impossibilità di continuare sulla sua strada che minaccia la sopravvivenza stessa della specie. E la concezione di un rapporto tra gli uomini fondato sulla forza produce guerra infinita.

Il movimento comunista era stato sconfitto in Russia per i suoi tragici errori. Non scomparivano, però, come avvertì anche un papa fieramente anticomunista come Wojtyla, i motivi e le ragioni per cui quel movimento era nato. Ed è venuto a ricordarlo un papa nuovo, quali che siano i limiti determinati dalla sua funzione. La speranza non è morta. Non ricordo mobilitazioni giovanili autonome così vaste come quelle contro il disastro ambientale, cui fanno eco in Italia anche nuove e valide mobilitazioni studentesche. Il nuovo femminismo, che parve d’élite, e sembrò in declino, vede una diffusione inedita. Il movimento per la pace nel mondo ha più ragioni che mai per riprendere e riprende fortemente. Episodi di lotta difensiva contro licenziamenti e bassi salari seppure sporadici segnalano una nuova presa di coscienza. E in Paesi come la Cina, da cui è venuto un duro dumping salariale, si è costretti a migliorare la condizione dei lavoratori.

In Italia, il governo detto di unità nazionale conosce, come fu nel passato, la contraddizione tra interessi diversi e volge, diversamente dalla supposizione secondo cui la pandemia avrebbe significato una sorta di rigenerazione automatica, verso una ripetizione del passato pur se obbligatoriamente addolcita da promesse ecologiche e tecnologiche ora interrotte dalla guerra ma già prima non indicative di un autentico mutamento di rotta. Può essere che la visione dell’ultimo Berlinguer fosse troppo avanzata per i suoi tempi, ma si dimostra ancora oggi come l’unica alternativa percorribile ai disastri del presente. Il dialogo tra diversi per la pace (allora si trattava di sgombrare i missili russi e americani dall’Europa centrale e dall’Italia), il bisogno per la sinistra di mantenere una aggiornata visione critica del modello capitalistico, il dovere di rimanere fedeli alle proprie premesse ideali e morali, l’obbligo di stare sempre a fianco dei lavoratori e degli ultimi, la comprensione dell’esigenza, rivelata dal nuovo femminismo, di contrastare il maschile come valore dominante e di riconoscere (e promuovere) l’autorità femminile, il bisogno di volgere le nuove conquiste tecnologiche e scientifiche alla promozione umana. Non mi fa velo l’affetto nel dire che l’idea di considerare Berlinguer uno sconfitto o un illuso era e rimane un fazioso errore. I suoi “pensieri lunghi” non sono mai stati tanto attuali.

Aldo Tortorella

* Da “Critica marxista”, 7 Aprile 2022
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Anpi

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DOCUMENTO PER IL XVII CONGRESSO
NAZIONALE DELL’ANPI APPROVATO DAL
COMITATO NAZIONALE IL 7 MAGGIO 2021

Carla Nespolo ha tracciato una strada, quella del rapporto unitario, del confronto con le altre forze democratiche, della stretta relazione col mondo dell’associazionismo, che intendiamo continuare a perseguire a maggior ragione nella situazione di straordinaria emergenza in cui ci troviamo. Ma ciò che di più profondo ci ha consegnato è la propensione a guardare sempre oltre, a osservare con spirito critico e senso di responsabilità il mondo e il Paese che stanno cambiando, ad ascoltare le opinioni degli altri come un possibile contributo alle nostre, e – assieme – a tenere saldissime le radici dell’Anpi nella concreta esperienza storica della Resistenza e in quell’insieme di valori che sta a noi attualizzare in ogni momento di ogni presente.

CAMBIARE L’ITALIA

Siamo nel pieno di una tragedia mondiale a causa della pandemia e della gigantesca crisi economica e sociale da questa determinata. Da ciò derivano la gravità, l’eccezionalità, l’incertezza del tempo che viviamo. Ma proprio perché crescono la sfiducia, lo scoramento e perfino in tanti casi la disperazione, tanto più occorre promuovere un’idea di cambiamento e così diffondere un messaggio di speranza e di fiducia. Questo è il tempo di una visione del futuro, la visione di un Paese che ritrova le sue radici e dà vita ad una svolta storica.
In Italia, le emergenze attuali, della salute e del lavoro, si aggiungono a tanti ritardi e problemi antichi, di una economia in difficoltà da oltre dieci anni, di un Paese che produce meno ricchezza e poi la distribuisce in modo ineguale e ingiusto, in cui il potere pubblico è insidiato da poteri criminali, che troppi giovani abbandonano perché all’estero trovano migliori condizioni di lavoro e di prospettive personali. Se sono a rischio le condizioni economiche e sociali, è l’intero sistema che si trova in discussione, e si produce una situazione critica per la stessa tenuta della democrazia italiana. La crisi può nascere dalla prolungata difficoltà di reagire, di mantenere le promesse di uguaglianza e giustizia scritte nella Costituzione. Ecco perché vi è bisogno di una risposta straordinaria, che può venire solo, da una piena partecipazione democratica, da un impegno diretto delle forze migliori della società, costruendo una larga unità popolare, dando vita ad una vera e propria nuova fase della lotta democratica e antifascista.
Questo è il senso concreto ed attuale che l’Anpi attribuisce alla storia e tradizione antifascista che rappresenta e per queste ragioni l’Anpi ha avanzato la proposta di una grande alleanza per la persona, il lavoro, la società. La stagione congressuale dell’Anpi mette a tema ‒ in stretto dialogo con la società e la politica ‒ il Paese, la forza della democrazia, un ruolo ed un orizzonte nuovo dello Stato. La piena realizzazione della Costituzione, assumendo l’art. 3 come timone di tutta la rotta da percorrere, è la condizione culturale, ideale, politica nel senso più alto del termine, per il non breve impegno di ricostruzione del Paese su basi più avanzate e solidali. E’ un contributo all’unità del Paese, per superare ritardi storici e disuguaglianze accresciute, per ricostruire un clima di fiducia.
Il nostro Congresso ridisegna così la funzione dell’Anpi nel contesto di una nuova fase storica per l’Italia. L’Anpi delle partigiane e dei partigiani nata nel 1944 si è arricchita diventando, nel 2006, l’Anpi aperta agli antifascisti: oggi definisce la sua natura nazionale e popolare nel vivo del cambiamento indispensabile al Paese, guardando con impegno rinnovato alle giovani generazioni e delle donne, come forze portatrici di rinnovamento e in grado di suscitare nuove energie democratiche. Non una nuova Anpi, ma un’Anpi rinnovata, un’associazione che promuove impegno e nuove forze, che realizza uno spazio pubblico antifascista e repubblicano, parte fondamentale e determinante della più ampia area di associazioni resistenziali.
Da queste premesse deriva la necessità che tutta la fase congressuale sia intrecciata alla costruzione di una vasta rete di relazioni da parte di ogni struttura dell’Anpi che, nella sua autonomia, dialoga con l’associazionismo, il volontariato laico e di ispirazione religiosa, il mondo delle culture, dell’informazione, della scienza, del lavoro in generale, delle istituzioni e delle forze democratiche, oltre che – e in primo luogo – con le altre associazioni resistenziali.
Libertà, eguaglianza, democrazia, solidarietà, pace: sono questi i pilastri valoriali della Resistenza, successivamente incarnati nella Costituzione. E sono perciò anche gli ideali fondamentali dell’Anpi. Ideali che hanno una portata universale, in quanto forniti di uno straordinario carattere espansivo, ma che vanno storicamente declinati in luoghi e tempi determinati. La loro piena realizzazione infatti tende ad essere un orizzonte verso cui muoversi sempre, piuttosto che una realtà compiuta una volta per tutte. Si tratta, appunto, di idee la cui funzione è di essere guida permanente, di dare senso, significato e traguardo alle azioni che vengono condotte.
Tali valori e ideali sono oggi di fatto messi in discussione in modi diversi, e in Paesi e territori diversi. Le libertà spesso sono negate o ridotte: le “libertà di” (per esempio di opinione, di circolazione, di stampa), – peraltro spesso limitate e condizionate ‒ di rado si coniugano con le “libertà da” (per esempio dal bisogno, dallo sfruttamento, dalla fame); l’uguaglianza sembra una chimera, anche perché si accentuano le disuguaglianze; la democrazia viene esplicitamente conculcata, oppure dimezzata, oppure ancora ridotta al pur
necessario diritto di voto. E mentre si affievolisce la partecipazione popolare, in tanti regimi parlamentari la rappresentanza è sacrificata sull’altare di una astratta governabilità; la solidarietà viene incrinata o semplicemente negata, e si tenta di contrapporre situazioni di povertà a situazioni di maggiore povertà e disagio; alla volontà ‒ sempre sostenuta a parole ‒ di garantire una pace globale e duratura si sostituisce nei fatti una macabra normalità della guerra come presunta forma legittima di soluzione delle controversie internazionali.
Eppure nel mondo e nel nostro Paese esistono forze diffuse e operanti che difendono tali valori e ideali perché in essi si riconoscono, e perché sono consapevoli che nessuna prospettiva di cambiamento positivo è possibile a prescindere dalla loro attuazione. Sono forze eterogenee e variamente diffuse, organizzate e non, attente a temi diversi, che vanno dal lavoro alla pace, dalla difesa dell’ambiente alla lotta per la democrazia alla liberazione del proprio Paese.
Veniamo da una lunga storia, quella dell’antifascismo, della dignità e della emancipazione, iniziata durante il regime fascista, proseguita nella Resistenza, continuata nelle lotte per la democrazia e l’attuazione della Costituzione.
Per memoria attiva intendiamo appunto la capacità di trasferire tale eredità nell’azione civile e sociale, politica nell’accezione più larga ed alta della parola, in modo che essa non si limiti alla custodia del passato, ma diventi stella polare del presente e forza propulsiva per il futuro. Dalla memoria attiva della Resistenza, evento fondativo della Repubblica democratica, dobbiamo attingere l’energia e la determinazione necessarie a fronteggiare ogni circostanza sfavorevole, la fiducia nella possibilità di cambiare le cose attraverso l’unità e la partecipazione, lo stimolo alla politica perché riprenda appieno la missione indicata dalla Costituzione, cioè la capacità di progettare e governare il futuro del Paese.

PRIMA PARTE – IL MONDO VISTO DALL’ANPI

Ci sono almeno tre fattori di portata globale che non semplicemente incidono sulle singole situazioni nazionali ma cambiano il modo di pensare della politica, delle culture, delle società. Siamo nella situazione che viene definita di cambio del paradigma: la scala degli avvenimenti è di tale ampiezza, le scelte indispensabili sono di tale grandezza e complessità che il nostro modo di pensare al presente, al futuro, allo sviluppo dell’umanità deve cambiare radicalmente e basarsi su criteri e metodi del tutto nuovi.
Il primo fattore è il cambiamento climatico: il riscaldamento del pianeta procede in modo accelerato, produce devastanti fenomeni atmosferici, determina fenomeni enormi di desertificazione, di riduzione delle masse umide, di mutamento degli equilibri termici degli oceani, di scioglimento dei ghiacci polari e continentali, tanto da minacciare la scomparsa non solo di
aree costiere ma di grandi metropoli di rilievo planetario.
Il secondo fattore è la crisi degli strumenti ‒ che segue alla crisi delle volontà – di governo sovranazionale. L’ONU è da tempo bloccata in una difficoltà di azione, non presente in numerosi punti di tensione ed anche di conflitto armato in Africa, Medio oriente, Asia, in netto deficit di autorevolezza. Il confronto tra grandi potenze, Paesi e soggetti sovranazionali regionali avviene
al di fuori dell’Onu ed anche delle altre Agenzie sovranazionali.
Il terzo fattore è la rivoluzione tecnologica digitale, ampiamente in corso, che ha cambiato e cambierà modalità di lavoro, organizzazione sociale, abitudini, costumi; che incide profondamente sulla formazione del senso comune e lo farà in modo sempre più ampio; che condizionerà i rapporti globali per la stretta connessione con i temi della sicurezza, economica e militare.
Tre fattori estremamente diversi ma per i quali occorre un cambiamento netto di prospettiva, che ciascun Paese può e deve contribuire a determinare.
E il primo cambiamento deve essere la consapevolezza che nessuno si salva da solo: c’è bisogno di un impegno enorme, che richiede grandi sforzi e straordinarie risorse. Il cambiamento climatico ci dice che la politica non può intervenire sulla natura: che, al contrario, la natura decide come deve essere la politica e cosa essa deve fare. La pandemia ha amplificato ulteriormente questo profondo mutamento. Il modello di sviluppo che si è affermato sul pianeta, senza differenze di regime politico, è un modello dissipativo e distruttivo dell’equilibrio tra attività dell’uomo e natura. I rapporti tra i Paesi, in secondo luogo, non si “aggiustano” per forzature progressive ma solo tornando a determinare insieme nuovi strumenti e nuovi obiettivi di coesistenza ed anche competizione, comunque pacifica. E va ripreso con urgenza il tema del superamento degli armamenti nucleari, la cui esistenza si giustifica sempre meno. La rivoluzione digitale inciderà fortemente sullo sviluppo dei singoli Paesi, le cui economie sono attraversate da veloci e intensi processi di trasformazione: occorre operare affinché i dati siano considerati un bene comune, e perché il digitale diventi lo strumento per politiche industriali e sociali non dissipative e sostenibili.

Cambiare il Paese: dalla crisi alla rinascita
È in corso una depressione che colpisce la vita quotidiana dell’intera comunità nazionale, dall’industria ai servizi al commercio alle più disparate forme di lavoro dipendente e di lavoro autonomo, mentre cresce l’esercito degli invisibili e si allarga il differenziale fra nord e sud del Paese.
La crisi è piombata su di una penisola già fortemente segnata dalle iniquità sociali, dal divario economico, dagli squilibri territoriali e dalle contraddizioni insanabili generati da un modello di sviluppo che si è dimostrato incapace di garantire un progresso armonico perché si è fondato sulla abolizione di una ragionevole regolazione e controllo dello Stato sul mercato, sul dominio del privato sul pubblico, sull’esaltazione del concetto di individuo e sulla riduzione e penalizzazione del ruolo della cittadinanza.
Il fallimento di questo modello di sviluppo non riguarda perciò solo la dimensione economica, ma ogni aspetto della vita sociale e culturale del Paese. Da tempo assistiamo ad un progressivo affievolirsi della socialità, ad una caduta verticale della partecipazione popolare, al diffondersi di sentimenti di smarrimento, di paura e di rancore. Il dramma della pandemia ha fatto precipitare la situazione, aggravando la solitudine sociale e creando un’angoscia esistenziale causata dall’incertezza, se non dall’impossibilità di programmare in alcun modo il proprio futuro e persino il proprio presente.
In questo scenario la politica ha dimostrato tratti di larga inadeguatezza, aderendo in modo subalterno alla cultura del neoliberismo, spesso negando legittimazione a qualsiasi indirizzo alternativo di politica economico-sociale, abdicando alla sua vocazione di servizio e al compito di proporre progetti, orizzonti, visioni, ripiegando sulla amministrazione del quotidiano e spesso contaminandosi col malaffare e con l’illegalità. L’attuale sistema dei partiti ha progressivamente smarrito la sua funzione, propria dei primi decenni della repubblica, di cerniera fra società e Stato, rinunciando alla rappresentanza politica degli interessi sociali e arroccandosi nelle istituzioni. Le istituzioni stesse, svuotate della linfa vitale del sistema dei partiti, non più organicamente connesso alla società reale, hanno perso funzionalità, prestigio ed autorevolezza.
Entro questo quadro, in un periodo di tempo relativamente breve, sono cresciute e si sono spesso affermate spinte che chiamiamo populiste,
caratterizzate dal disprezzo delle istituzioni, del sistema dei partiti, dei corpi intermedi. Si è aperta così una falla nella diga democratica. Nel malfunzionamento generale del sistema-Paese sono cresciute spinte eterogenee, con forti propensioni demagogiche e autoritarie, che hanno prodotto un radicale cambiamento degli equilibri elettorali.
La crisi si manifesta anche nel sistema istituzionale. L’immagine del Parlamento è profondamente compromessa da un meccanismo elettorale per cui la gran parte dei parlamentari è nominata, e dunque scarsamente rappresentativa ma anche ‒ in alcuni casi ‒ di discutibile qualità, nonché dalla frequenza degli scandali che coinvolgono esponenti delle istituzioni, a ogni livello. Il taglio del numero dei parlamentari, che inciderà negativamente sull’attività delle Camere, è l’ennesima conferma di una deriva pericolosa, che può mettere in discussione le radici della repubblica.
La pandemia ha drammaticamente messo a nudo la debolezza e l’ambiguità della riforma del Titolo V della Costituzione, com’è dimostrato dalle
violentissime polemiche fra presidenti di Regioni e governo e fra gli stessi presidenti di Regione. Due grandi problemi sono emersi con tutta evidenza.
In primo luogo, l’incongruità di un sistema istituzionale in cui, mentre a livello nazionale vige, sia pur profondamente depauperato, il modello parlamentaristico, a livello regionale si è affermato di fatto un regime presidenziale, peraltro con ben pochi contrappesi. In secondo luogo, si è via via passati da una forma di regionalismo solidale ad una teoria del primato del più forte; l’autonomia appare sempre meno compatibile con il principio costituzionale della repubblica una e indivisibile, fondata sull’espansione della democrazia e della partecipazione dei cittadini, e sempre più un elemento di costante tensione, generata dall’egoismo localistico e dalla competizione
di mercato. A maggior ragione risulta improponibile qualsiasi proposta di autonomia differenziata: al di là di ogni buona intenzione, essa diventa un ulteriore fattore di separazione e ‒ per alcuni aspetti ‒ di frantumazione del Paese. In particolare, verrebbe ulteriormente drammatizzata la condizione del Mezzogiorno, già oggi per molti aspetti allo stremo.
La pandemia, con la conseguente crisi economica, è esplosa come una bomba su un tessuto già profondamente segnato e indebolito, facendo venire al pettine difficoltà e punti di crisi presenti da anni o addirittura da decenni.
Per citarne alcuni: il lavoro, declassato da tempo nella gerarchia dei valori sociali, con un gigantesco arretramento dei salari, dei diritti e della sicurezza dei lavoratori, a testimonianza di un vero e proprio travisamento dello spirito e della lettera della Costituzione a cominciare dal suo fondamento (art.1), e per effetto di un quadro legislativo caratterizzato dalle modifiche peggiorative apportate allo Statuto dei lavoratori e dalla simmetrica mancanza di aggiornamenti legati alle novità nell’organizzazione del lavoro, mentre giace da tre anni in parlamento la proposta di iniziativa popolare della CGIL per una nuova Carta dei diritti del lavoro. Il fenomeno migratorio, per il quale non c’è ancora una chiara politica di accoglienza, di solidarietà e soprattutto di integrazione, anche a causa dei ritardi e delle chiusure da parte dell’UE o di alcuni Paesi membri. La sanità, che, messa alla prova terribile dalla pandemia, ha rivelato i danni determinati dal progressivo ridimensionamento del Servizio sanitario nazionale a vantaggio di un modello privatistico che si è dimostrato fallimentare nel fronteggiare l’emergenza. La scuola, che vive una lunga, grave stagione di crisi perché ha perso gran parte del suo prestigio sociale (di cui fa le spese soprattutto il corpo docente), ha smarrito la sua missione fondamentale, che consiste nella formazione del cittadino. La giustizia, su cui pesano soprattutto i tempi lunghissimi dei processi e gli scandali che ne colpiscono profondamente la credibilità. La legalità, messa quotidianamente in discussione dalla criminalità organizzata e dalle organizzazioni mafiose che coprono oramai il territorio nazionale e che rivelano talvolta collegamenti perversi con la politica. L’informazione, la cui concentrazione in mano a editori “non puri” mette di fatto in discussione il pluralismo delle idee, ed esalta la faziosità. Il fisco, che da un lato non riesce a sanare la piaga dell’evasione e dell’elusione e dall’altro non ottempera più a criteri di progressività e di equa distribuzione degli oneri.
Questo groviglio di problemi si intreccia con problemi storici e permanenti: il persistere e l’aggravarsi della questione meridionale, tara storica che data dai tempi e dai modi dell’unità nazionale, e che si è accentuata da alcuni decenni a causa del costante aumento del differenziale produttivo, economico e sociale fra nord e sud del Paese; la diffusione di vecchie e nuove povertà e di
forme sempre più larghe di esclusione e marginalizzazione sociale, che hanno oramai posto all’ordine del giorno il tema dell’abbandono e del degrado di ogni periferia; una drammatica condizione delle nuove generazioni, private di diritti e di prospettive, di lavoro e di luoghi di socialità, costrette in gran parte a vivere alla giornata, alternando disoccupazione ad attività saltuarie, dequalificate, mal remunerate e spesso pericolose.
L’Italia versa perciò in uno stato di crisi organica, che si verifica allorché in un Paese un intero sistema sociale, politico e economico si trova in un stadio di instabilità così forte da mettere in discussione la sua tenuta e la credibilità stessa delle istituzioni. Quando il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere insorgono pericoli di cesarismo, si profila cioè il rischio di regimi in cui un individuo assume il potere in modo autocratico, sostituendo la partecipazione democratica e la rappresentanza con la delega diretta e plebiscitaria.
Tutto ciò pone all’ordine del giorno la difesa, la tenuta e il rilancio della democrazia, anzi, propriamente, della democrazia costituzionale.
Si parla in generale, ed anche per il nostro Paese, di crisi delle democrazie liberali. In realtà tale definizione per l’Italia è riduttiva e per così dire propagandistica. La democrazia disegnata dalla Costituzione infatti è rappresentativa, perché il popolo elegge i suoi rappresentanti; parlamentare, perché ha al centro del sistema istituzionale il parlamento; partecipata, perché presuppone ed evoca, in forme diverse, la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Certo, la nostra democrazia ha tratti liberali, ma ‒ contestualmente ‒ anche imprescindibili tratti sociali, che nascono dagli ideali di libertà ed eguaglianza coltivati in molteplici forme nella Resistenza e sostenuti nei decenni successivi dalle lotte sociali che hanno contribuito in modo determinante al progresso economico, morale e culturale del nostro Paese. Da tempo questi ultimi tratti sono stati messi progressivamente in secondo piano, con la conseguente crescita di contraddizioni e squilibri e con l’aumento esponenziale del tasso di diseguaglianza. I punti di crisi della democrazia italiana corrispondono prevalentemente alla parziale realizzazione del carattere sociale della democrazia costituzionale.
In questi vuoti si innestano le propensioni e le azioni eversive dell’estrema destra italiana: neofascisti, neonazisti e razzisti intervengono sempre più spesso nelle ferite sociali, dalla povertà alle contraddizioni fra poveri e più poveri (acuite anche dal fenomeno migratorio), dal disagio giovanile al declassamento rapidissimo di ampie fasce di ceti medi e medio-bassi. Le iniziative, spesso di natura squadristica, della “galassia nera” sono peraltro alimentate dalla propaganda incessante delle centrali della paura e dell’odio che operano nella politica, nei media, nei social network, e che hanno dato vita a un diffuso senso comune popolare. L’esito è che, mentre negli anni ‘70 la base sociale delle forze di estrema destra si concentrava simbolicamente in piazza San Babila a Milano o ai Parioli a Roma, oggi si trova nelle periferie.
Alla caduta del secondo governo Conte, provocata dal disimpegno di una forza politica della sua stessa maggioranza, hanno fatto seguito una fase di grave incertezza e la nascita del nuovo governo, in un tumultuoso rimescolamento del sistema politico. Nello scenario del tutto inedito cui siamo di fronte, rimane fermo l’obiettivo dell’Anpi di rivendicare la piena attuazione della Costituzione e una chiara azione di sostegno ad ogni concreta iniziativa
giuridica di contrasto ai fascismi e ai razzismi, che sono l’ospite inquietante
della democrazia italiana in crisi e che vanno combattuti anche sul terreno
sociale e culturale.
Si tratta di una battaglia non certo facile, ma che può essere vinta grazie
alla presenza nel nostro Paese di una vastissima area democratica di popolo,
eterogenea, più o meno organizzata in formazioni sociali, di ispirazione laica
o con convincimenti religiosi, che esprime diverse opzioni politiche ma che si ritrova saldamente unita sui principi della democrazia e sugli ideali dell’antifascismo, e che negli ultimi anni si è attivata pubblicamente decine,
centinaia di volte, in modi diversi, ad attestare una presenza, una fiducia, una
speranza. A questa mobilitazione di massa si sono aggiunte le prese di posizione
di personalità del mondo della cultura, dello spettacolo, dell’informazione, del lavoro. L’elemento portante di questo movimento carsico ma costante di partecipazione democratica è stato l’associazionismo, sia nelle espressioni più
stabili e organizzate a livello nazionale (Arci, Acli, Libera, Cgil, Cisl, Uil), sia in forme nuove, come le Sardine, sia in una miriade di esperienze particolari e locali: un movimento che ha visto sempre la presenza attiva dell’Anpi e delle altre associazioni resistenziali. Un forte impulso a tale movimento è venuto dalle ultime encicliche e dal convegno economico di Assisi (Economy of Francesco). L’incontro fra una rinnovata concezione religiosa del mondo e della vita e la visione laica dell’associazionismo sta contribuendo in modo essenziale a dar forza all’obiettivo della costruzione di una società diversa, che abbia a fondamento la centralità della persona umana, cioè un nuovo
umanesimo. Che è poi, in ultima analisi, l’architrave della Costituzione.
Da questo punto di vista non si possono dimenticare due immagini di straordinaria potenza simbolica in piena pandemia: il Papa da solo in piazza
San Pietro il 28 marzo 2020, il Presidente della Repubblica da solo davanti al
Monumento al Milite Ignoto il 25 aprile 2020.

Noi Europei: per una più forte unità politica dell’UE
Il sistema istituzionale dell’Unione Europea non è un sistema pienamente
parlamentare, ed è parte di un complesso meccanismo che rende la
democrazia europea ancora incompiuta. Tale meccanismo merita di essere
profondamente rivisitato in direzione del conferimento di più ampi poteri al
parlamento. È auspicabile che la Conferenza sul futuro dell’Europa produca
il risultato di estendere la partecipazione dei cittadini e di rafforzare la loro reale rappresentanza all’interno delle istituzioni europee.
Com’è noto, un capitolo fondamentale nella storia dell’idea di Europa è stato scritto a Ventotene. L’Europa immaginata da Colorni, Spinelli, Rossi, Hirschmann, si ispirava ai principi di libertà, di democrazia, di eguaglianza
sociale (per mettere fine alle “colossali fortune di pochi” e alla “miseria delle grandi masse”), prima coltivati dagli antifascisti italiani nella clandestinità, poi sbocciati nella Resistenza; un’Europa dei popoli e della solidarietà. Ancora oggi, ottant’anni dopo, il manifesto di Ventotene è un potente antidoto contro i nazionalpopulismi e i sovranismi, e continua a indicarci la prospettiva di una unione continentale come avanzamento ‒ e, per alcuni aspetti, compimento ‒ della rivoluzione democratica che ha sconfitto il nazifascismo.
L’Europa è perciò il luogo dove oggi l’antifascismo può realizzare una delle
sue missioni fondamentali. Sapendo coniugare lo sviluppo con i diritti individuali e collettivi, l’Europa è stata nel dopoguerra la culla del Welfare, e può perciò proporsi come riferimento per altre aree del mondo. Eppure, a
causa della crisi delle democrazie occidentali, in tanti Paesi della UE germina e cresce il virus del nazionalismo, spesso mescolato al razzismo e al nazifascismo: lo stesso virus che portò il mondo alla catastrofe nel 900. Il populismo ha assunto specifici caratteri nazionali, violando, come nel caso della Polonia e dell’Ungheria, alcuni capisaldi del Trattato dell’Unione Europea: ci riferiamo alla tutela della dignità della persona, ai valori della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, allo Stato di diritto e al rispetto dei diritti umani.
Spinte centrifughe e revisioniste di varia natura, provenienti prevalentemente
da alcuni Paesi dell’est, hanno indebolito l’Unione e rischiano di mettere in discussione la sua matrice antifascista; basti pensare alla Risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019 “sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa”, che ha riscritto la storia delle origini della
seconda guerra mondiale attribuendo una notevole responsabilità all’Unione
Sovietica e sminuendo di fatto le colpe del nazifascismo, peraltro in palese
contrasto con lo spirito della Risoluzione del Parlamento europeo del 25 ottobre 2018 “sull’aumento della violenza neofascista in Europa”.
Un’analoga distanza dai principi dello Stato di diritto si verifica in Paesi
europei non UE come l’Ucraina, profondamente inquinata da presenze filonaziste, e la Bielorussia, governata da un regime dispotico e violento.
L’UE, per di più, è da poco uscita da una lunga stagione di politica economica,
aperta dalla crisi del 2007-2008 e improntata alla cosiddetta austerità, che
ha avuto drammatiche conseguenze sociali in vari Paesi, compresa l’Italia, e
risultati catastrofici per la Grecia. Tale politica è stata una delle cause essenziali della caduta di fiducia nell’UE, della crisi della democrazia, del repentino affermarsi dei nazionalpopulismi.
Il cambio di rotta determinato dal dramma della pandemia ha segnato una
discontinuità profonda e positiva che può preludere ad un radicale cambio di
passo, come lasciano intravedere le opzioni relative alla green economy e, più in generale, la maggiore attenzione ai temi dell’ambiente. Eppure rimane
inconfutabile una strutturale debolezza politica e sociale dell’Unione,
dovuta alla mancanza di politiche comuni su temi fondamentali – politica
estera, emigrazione, fisco, lavoro – e all’indebolimento della fiducia dei
popoli nei confronti dell’organismo sovranazionale. Di converso la Brexit, se ha rappresentato traumaticamente un punto di crisi dell’Unione, ha altresì rafforzato la tenuta dell’Unione stessa davanti al pericolo della disgregazione.
In ogni caso l’UE non si mostra ancora pienamente all’altezza della sfida
globale, per la persistenza di piccoli e grandi egoismi nazionali, per i riflessi politici della teoria economica del neoliberismo (da tempo applicata di
fatto in modo esclusivo, seppure con diverse articolazioni, dall’insieme della
UE), per i condizionamenti postumi della Guerra fredda. Va segnalato in proposito il tormentato rapporto con la Russia. Alle giuste critiche per i limiti e le distorsioni del sistema politico di questo Paese e per l’opacità di eventi, situazioni ed episodi imputabili a decisioni del governo russo, si aggiunge spesso nei confronti della Russia un sovraccarico di polemiche e di scontri di carattere geopolitico, che innalzano la tensione in modo preoccupante. Il mondo che ci attende richiede un assetto multipolare, il superamento di ogni residuo di eurocentrismo e al contempo il rafforzamento dell’UE sotto tutti i punti di vista, affinché il vecchio continente, unito, regga la sfida delle grandi potenze politiche ed economiche in occidente e in oriente, a cominciare da Stati Uniti e Cina, senza per questo rinunciare alla cooperazione, al negoziato e a ogni altro strumento che garantisca la pacifica convivenza, il progresso economico e sociale, l’autodeterminazione dei popoli.
È bene che l’Europa abbia confermato il suo sistema di alleanze internazionali e i suoi rapporti transatlantici; ma tale sistema va collocato nel contesto del mondo attuale, in cui la mission difensiva della Nato nei confronti dei Paesi dell’est è venuta ovviamente meno, ma non è chiaro quale sia la nuova funzione ‒ e tantomeno il significato della natura esclusivamente difensiva ‒ dell’alleanza militare. Anche per questo deve essere messa all’ordine del giorno la costruzione di un autonomo sistema di sicurezza europeo.
Inquieta in questo scenario la proliferazione di gruppi e organizzazioni che si
richiamano al fascismo, al nazismo e al razzismo, e che interessa soprattutto
i Paesi dell’est. Sarebbe un gravissimo errore sottovalutare o tollerare questa
evidente realtà, che costituisce una minaccia permanente per la democrazia
e la libertà. Occorre perciò una piena riaffermazione dell’antifascismo come
architrave della costruzione europea e un profondo rafforzamento della
dimensione continentale dell’antifascismo organizzato.
L’Unione Europea, in conclusione, non è altro argomento, estraneo alla
situazione nazionale; essa rappresenta una dimensione decisiva della battaglia
politica, sociale e culturale, e deve diventare il teatro principale della nuova
fase della lotta democratica e antifascista nello spirito, nelle mutate condizioni storiche del nuovo secolo e del nuovo mondo, del Manifesto di Ventotene.

Il mondo in cui viviamo
L’Europa e l’Italia nel nuovo mondo. Ma è davvero nuovo? Lascia sconcertati
la vicenda dei vaccini, la cui ricerca è stata finanziata dai poteri pubblici, ma
la cui produzione e commercializzazione è stata affidata alle multinazionali
del farmaco, che hanno agito in base alle leggi del mercato e non in base al
bisogno sociale. Tutti sanno chi è il presidente degli Stati Uniti, della Russia,
della Cina, ma ben pochi sanno chi è l’amministratore delegato di Microsoft, Amazon, JPMorgan Chase. Eppure il giro d’affari di molte multinazionali sovente supera persino il PIL di tanti Paesi. In un mondo davvero nuovo dovrebbero essere messi a tema il controllo pubblico dell’economia e della finanza, un codice di vincoli e di regole per un sistema produttivo privato che opera al di fuori ed al di sopra di ogni legislazione nazionale. In sostanza, la politica deve tornare al posto di comando.
Certo, non c’è più l’inquietante figura del presidente Trump, ma l’onda lunga del “trumpismo” non si è esaurita e continua a ispirare nazionalismi e protezionismi: in America del Sud con l’incredibile presidenza di Bolsonaro, in Europa con una forte e articolata presenza nazionalpopulista, ed in Asia, per esempio col governo di Narendra Modi in India, mentre nel Myanmar l’opposizione al colpo di stato da parte di un larghissimo movimento popolare che chiede il ripristino della democrazia viene represso in modo sanguinoso.
Negli States è alla prova il nuovo presidente Biden, che propone una visione
del mondo senz’altro diversa da quella di Trump e che ha segnato già punti
a suo favore (a partire dal rientro del suo Paese negli accordi di Parigi per la
difesa dell’ambiente), ma che apre anche inquietanti interrogativi sul possibile
ricorso alla forza militare come mezzo di risoluzione delle controversie con
altri Paesi, come confermato dal raid in Siria del febbraio 2021. La sfida più
grande a cui Biden è atteso è quella della pace e della guerra: ci aspetta una
nuova guerra fredda o finalmente una coesistenza pacifica fondata sulla non ingerenza negli affari interni di altri Stati e sul diritto all’autodeterminazione dei popoli? Anche da questo punto di vista il Medio Oriente rimane una cartina di tornasole, perché chiama in causa le endemiche ingerenze politiche e militari dell’occidente, la condizione di popoli senza Stati come i palestinesi e i curdi, il ruolo di potenze regionali come Turchia, Israele, Arabia Saudita, Iran, Egitto. Si protrae il conflitto israelo-palestinese, la cui unica, equa e ragionevole composizione non può che consistere nella formula “due popoli due Stati”; dura la sanguinosa repressione del governo turco nei confronti del popolo curdo; crescono le tensioni fra Paesi a maggioranza sunnita e Paesi a maggioranza sciita; rimane il rebus libico, dopo che lo Stato è stato di fatto dissolto dall’aggressione militare della Nato del 2011, e si è aperto un calvario di guerre tribali che hanno trasformato la Libia in un teatro di scontri per procura di Stati terzi ingolositi soprattutto dalla ricchezza petrolifera del territorio, nel terreno di una complessa partita politica e diplomatica da cui l’Italia è stata finora sostanzialmente assente.
Da tempo in America Latina è in corso un confronto di dimensioni continentali fra una politica che si prefigge una effettiva indipendenza dagli Stati Uniti d’America, e una politica che si richiama alla dottrina Monroe, e dunque tende a imporre la supremazia degli Stati Uniti nel continente americano. Intanto permane l’embargo commerciale, economico e finanziario degli Stati Uniti contro Cuba, iniziato nel 1962 e ultimo retaggio della guerra fredda. È ora di cancellarlo. Le questioni legate al rispetto delle libertà, della democrazia e dei diritti umani nei Paesi dell’America Latina, alle volte reali, altre volte pretestuose, sovente sollevate per denunciare l’illegittimità di questo o quel governo, si possono affrontare esclusivamente a partire dal rispetto dell’autonomia nazionale e dell’autodeterminazione. La teoria dell’esportazione della democrazia ha già determinato catastrofici effetti in Medio Oriente, laddove, viceversa, nei confronti di regimi in cui libertà, democrazia e diritti umani sono parole vuote, come le petromonarchie, si resta inerti e si stabiliscono in qualche caso, come l’Arabia saudita, addirittura rapporti preferenziali. Seppur in ritardo, bene ha fatto il governo italiano a sospendere le commesse commerciali verso la monarchia saudita. Queste contraddizioni chiamano in causa il progressivo svuotamento di poteri e di legittimità dell’Onu e degli organismi internazionali che ne sono espressione.
Le Nazioni Unite devono recuperare il ruolo di garanti del diritto internazionale e del sistema di sicurezza collettiva, prevenendo o sanando i conflitti, tutelando il principio di non ingerenza, richiamando gli Stati membri al rispetto dei diritti umani.

In questo nuovo mondo c’è un generale indebolimento delle democrazie.
Questo vale per le democrazie cosiddette illiberali, in cui, pur in presenza di elezioni, si nega di fatto la divisione dei poteri e si tende ad asservire il potere legislativo e quello giudiziario all’esecutivo, a conculcare i diritti e
le libertà civili, ma vale anche, sia pur in modo diverso, per le democrazie
rappresentative, svuotate di effettiva partecipazione popolare e con una crisi dei partiti, in particolare dei partiti “storici”, sempre più marcata, sia pur in forme diverse a seconda degli Stati. Colpisce la pressoché totale
scomparsa dell’accezione di “democrazia sociale”, cioè di una democrazia che,
salvaguardando le conquiste del liberalismo, vada oltre, affinché le libertà e i diritti declamati siano effettivamente praticati.
In questo scenario si collocano i grandi temi della contemporaneità, a
cominciare dal fenomeno dell’ondata migratoria, che mostra la distanza
abissale fra le dichiarazioni e i comportamenti in materia di democrazia e
di diritti umani. A fronte di un evento di proporzioni eccezionali, prevale
un atteggiamento di ripulsa e di arroccamento, i cui effetti sono visibili dal
Messico al Mediterraneo alla rotta balcanica, con conseguenze catastrofiche
anche a causa della mancanza di un ordine internazionale e della debolezza e
contraddittorietà delle politiche dell’UE. Ma risposte parcellizzate, confuse e
dunque insufficienti vengono date anche ad altri problemi capitali della fase
attuale, dalla fame nel mondo alla catastrofe annunciata del riscaldamento
globale, dalla piaga del terrorismo islamico agli effetti globali della rivoluzione digitale. Per questo democrazia, nuovo umanesimo, sviluppo sostenibile, pace costituiscono le fondamenta della politica che l’umanità di oggi, e specialmente le nuove generazioni, chiedono a gran voce.

SECONDA PARTE – L’ANPI E LA SFIDA DEL PRESENTE

Noi
Come si colloca l’Anpi in questo mondo e in questo nostro Paese, l’uno e l’altro così cambiati? In primo luogo si colloca attivamente, perché l’Anpi non è la custode di un’antica reliquia, ma un soggetto che fa tesoro della memoria per intervenire nel presente e per disegnare il futuro. Non a caso lo Statuto recita fra l’altro, a proposito della missione dell’Associazione: “battersi affinché i princìpi informatori della Guerra di Liberazione divengano elementi
essenziali nella formazione delle giovani generazioni”; “concorrere alla piena
attuazione, nelle leggi e nel costume, della Costituzione Italiana, frutto della
Guerra di Liberazione, in assoluta fedeltà allo spirito che ne ha dettato gli
articoli”. In queste parole c’è la sostanza dell’idea di “memoria attiva” che
ispira l’associazione, e che consiste nel rendere vivo e operante il sistema di
valori incarnato nella Resistenza e dichiarato nella Costituzione.
L’idea di memoria attiva è la base del “fare politica” dell’Anpi, ossia di
un impegno civile e sociale che, oltre a essere un diritto, è un dovere di
cittadinanza. Chi fa coincidere con la sfera dei partiti il perimetro dei
soggetti di qualsiasi iniziativa che attenga alla politica, rivela una concezione profondamente antidemocratica e ignora la funzione essenziale della
partecipazione nell’impianto costituzionale della democrazia italiana.
L’Anpi, peraltro, ha nella sua storia momenti di forte presenza sul terreno
della politica: così fu nel 1953 nell’opposizione alla cosiddetta “legge truffa”, nel 1960 per impedire il congresso del Msi a Genova e per contrastare il governo Tambroni, negli anni 70 e 80 per fermare la strategia della tensione prima e il terrorismo poi. Recentemente ‒ nel 2006, nel 2016, nel 2020 ‒ l’Anpi ha fatto sentire le sua voce nei referendum costituzionali.
L’Associazione è perciò un attore del dibattito pubblico, pronto anche alla
mobilitazione di piazza laddove sussistano gravi pericoli per la democrazia e
il suo assetto costituzionale.
L’Anpi, in sostanza, come tutte le formazioni sociali, è un soggetto politico,
ma mentre tutti i partiti sono soggetti politici, non tutti i soggetti politici sono partiti. L’Anpi non era, non è e non sarà mai un partito, né può essere oggetto di alcuna speculazione partitica, perché la sua forza morale, ideale e pratica deriva dalla sua natura di “associazione che unisce”, che non è portatrice di una ideologia specifica, che è di parte sì, ma della parte della Costituzione.
Questo non vuol dire rifiutare i partiti o diffidarne pregiudizialmente; vuol dire invece avere a mente i diversi ruoli delle comunità organizzate che strutturano e danno anima al funzionamento della democrazia italiana.
Da tutto ciò deriva la legittimità ed anche l’urgenza, in questa fase drammatica, di una capacità di critica e di proposta, sempre in riferimento a grandi questioni di carattere costituzionale, istituzionale, politico, sociale.

L’impegno dell’Anpi oggi
La grande alleanza democratica e antifascista
Proprio perché portatrice di una visione laica e libera della cittadinanza
attiva, l’Anpi ha avanzato la proposta della grande alleanza democratica e
antifascista per la persona, il lavoro e la socialità, raccogliendo un’adesione
ampia di movimenti, associazioni, sindacati, forze politiche, ed in primo
luogo di associazioni partigiane. Il respiro di tale proposta infatti richiede
innanzitutto il concorso di tutte le associazioni nate dalla comune esperienza
della Resistenza. Tali associazioni si sono divise e articolate in ragione di uno scenario politico da tempo scomparso, e va perciò avviato un percorso che
prenda atto del superamento delle antiche divisioni nella prospettiva di una
sempre maggiore vicinanza e di una auspicabile ricomposizione.
La proposta è di un’alleanza che riproponga nel dramma presente la centralità
dei valori della solidarietà e della prossimità, due parole chiave, ma sappia
anche guardare al futuro, affinché nell’Italia del dopo Covid non si assista
alla restaurazione dei modelli economici e valoriali del recente passato, ma
si imbocchi la strada del cambiamento. O ci sarà una svolta vera, oppure il
domani riproporrà in forma ancora più grave il dramma della diseguaglianza.
Si tratta dunque di un’alleanza per la Costituzione.
Tale proposta nasce dalla estrema gravità della situazione del Paese, dall’urgenza di una risposta unitaria come unica risposta storicamente e logicamente possibile, dalla necessità di non giocare più soltanto di rimessa,
criticando o contestando questo o quel fenomeno di deriva della democrazia,
ma viceversa di andare all’attacco, svolgendo un ruolo positivo e propositivo.
In sostanza, questo è il momento di una piena assunzione di responsabilità
nazionale e generale, a maggior ragione di fronte alla mancanza di soggetti
partitici in grado di svolgere un’analoga funzione di “levatrice” di una nuova
fase della lotta democratica e antifascista.
Questa scelta dell’Anpi è pienamente coerente con le sue radici, anzi per qualche aspetto è dovuta, perché rinvia, in ultima analisi, alla logica unitaria del Cln e allo slancio di solidarietà del Paese nell’immediato dopoguerra, prima
dell’avvio della guerra fredda, cioè alla fase di ricostruzione dell’Italia distrutta da un regime dittatoriale e dalla guerra. Inoltre, esalta il carattere autonomo e unitario dell’Associazione. I due aggettivi non sono in contraddizione, perché il primo esclude qualsiasi rapporto di dipendenza, il secondo esclude qualsiasi propensione alla chiusura e all’autosufficienza. Oggi non c’è stata una guerra e la dittatura fascista è fuori dalla storia presente: ci sono però un Paese da ricostruire, una fiducia da suscitare, un futuro che deve essere nelle mani dei cittadini.
La proposta di grande alleanza serve in primo luogo a stabilire un clima nuovo, di dialogo, di partecipazione, di condivisione, di ascolto, fra forze politiche, forze sociali, istituzioni, ma anche fra persone, perché è vero, come ha affermato Papa Francesco, che “nessuno si salva da solo”. È inoltre un luogo ove esporre analisi e formulare proposte di indirizzo, opzioni di
priorità, gerarchie di valori condivisi. L’obiettivo dell’alleanza non è quello di sostituirsi al legislatore, ma di stimolarlo e di contribuire alla ricostruzione di un rapporto virtuoso fra la società e il sistema istituzionale. La modalità di tale alleanza non si può definire con un accordo a tavolino; l’alleanza deve manifestarsi in un costante processo unitario e realizzarsi attraverso le tante forme possibili che essa può assumere sull’intero territorio nazionale, in considerazione delle specifiche caratteristiche della storia locale. È dal territorio che possono nascere esperienze, proposte, iniziative. I territori sono le officine dell’alleanza.
Ma i territori sono anche per alcuni aspetti l’obiettivo dell’alleanza. A fronte
degli estesi ed evidenti fenomeni di disgregazione, occorre ricostruire i legami
sociali attraverso una crescente partecipazione, una mobilitazione generale
dei cittadini organizzati, per costruire una nuova cultura della cittadinanza.
Questo comporta per l’Anpi una vasta proiezione nella società civile, un
dialogo ed uno scambio continui con la molteplicità dei soggetti sociali.

La nostra anima e le radici
La nostra anima è la memoria delle radici. Essa si incarna in forma simbolica
e rituale nella mole delle celebrazioni, a cominciare dalla più grande e
significativa: il 25 aprile. Tale data viene ricordata con la dovuta solennità
nella grande maggioranza dei comuni italiani; ma c’è ancora una zona grigia in
cui, anche a causa delle scelte di diverse giunte di destra, non viene festeggiata la Liberazione. È compito di tutte le strutture Anpi impegnarsi affinché in ogni comune il 25 aprile venga degnamente commemorato. Ma assieme a
questa e ad altre date importanti (come il 2 giugno, festa della Repubblica),
l’Anpi è impegnata a coltivare la memoria delle radici in molte altre forme,
come l’onore alle lapidi o l’istallazione delle “pietre d’inciampo”. Per
converso, l’Anpi deve impegnarsi su tutto il territorio nazionale a contrastare
la pericolosissima deriva per cui in alcune realtà si erigono piccoli o grandi
monumenti a personalità del regime fascista o compromesse col fascismo.
Il fronte su cui si sta manifestando una vera e proprio offensiva dell’estrema
destra riguarda la toponomastica, con l’intitolazione di piazze, vie, giardini a fascisti scomparsi. A questa indecente opera di riabilitazione del fascismo
noi dobbiamo contrapporre la valorizzazione delle figure della Resistenza di
maggiore rilievo locale, con particolare riferimento alle centinaia e centinaia
di donne – partigiane, staffette o semplici donne del popolo – seviziate e
uccise dai nazifascisti, a cominciare da quelle insignite di Medaglia d’Oro.
In tale contesto va ricordato il prezioso lavoro, svolto per conto dell’Anpi
nazionale con la collaborazione di tanti comitati provinciali e di tante sezioni
e col sostegno dello Spi-Cgil, da Laura Gnocchi e Gad Lerner, che hanno
raccolto centinaia di video-interviste a partigiane e partigiani. Al volume «Noi
partigiani», pubblicato lo scorso anno, segue la costituzione di un “memoriale
virtuale” in cui sono raccolte tutte le testimonianze. Sarà poi utile un serio
contributo dell’ANPI anche all’approfondimento del tema che si potrebbe
definire “la Resistenza e il futuro”, per cogliere le attese, le speranze, gli intenti
e i progetti di quanti parteciparono in qualsiasi forma alla Resistenza. Tale
approfondimento potrà recare un contributo saliente anche a collegare talune
esperienze della Resistenza (per esempio, le Repubbliche partigiane) ai lavori
(ed ai risultati) della assemblea Costituente, per la formazione dell’attuale
Carta Costituzionale, recando un ulteriore contributo alla memoria, non
solo come conoscenza e ricordo, ma anche come riflessione e valorizzazione
dei contenuti, delle attese e delle speranze della Resistenza.
In ultima analisi la “memoria” dell’Anpi, e cioè la conoscenza, il ricordo,
la valorizzazione del passato e la sua elaborazione critica, a partire dalla
complessa esperienza della Resistenza e della Liberazione, dalla Consulta
nazionale istituita dopo la fine della guerra per portare il Paese alle elezioni
politiche, dai lavori dell’Assemblea Costituente ed infine dall’approvazione
della Costituzione, rappresenta un patrimonio irrinunciabile per affrontare
in modo critico, positivo e propositivo il presente ed il futuro. Siamo davanti
ad una dilagante e generalizzata riscrittura della storia, e a una vera e propria
delegittimazione della ricerca storica, da parte di centri di potere politico e
istituzionale della destra. È urgente perciò dar vita a una nuova narrazione
che faccia della verità storica uno strumento potente di impegno civile e di
cambiamento sociale.

L’antifascismo e l’antirazzismo oggi
Tutta la vigenza congressuale, dal 2016 ad oggi, è stata costellata di iniziative
antifasciste e antirazziste da parte dell’Anpi, nella maggioranza dei casi
unitamente ad altre forze sociali. Dobbiamo essere sempre in prima fila nella
denuncia dell’attività squadristica in ogni sua forma, dei tentativi revisionistici
che si sono moltiplicati negli ultimi anni con l’evidente disegno di ridare
legittimità storica e politica al ventennio, di ogni manifestazione di razzismo, di
discriminazione e di antisemitismo. L’antisemitismo è vivo e vegeto in Europa
e si manifesta con frequenza sempre più preoccupante. È essenziale avere a
mente che qualsiasi riferimento diretto o indiretto al fascismo è in conflitto
con lo spirito della Costituzione e con la natura democratica della repubblica.
Oggi la suggestione fascista non è più limitata ad un gruppo di nostalgici, ma
è condivisa da una parte significativa, pur se non maggioritaria, della pubblica
opinione, ed è assecondata dai gruppi dirigenti dei partiti più vicini al punto
di vista nazionalpopulista, che hanno in gran parte sdoganato il fascismo
legittimandone storia, teorie, idee, costumi, luoghi comuni. L’egemonia della
cultura antifascista passa in primo luogo dalla sconfitta di questi fenomeni.
Negli ultimi anni i punti più alti dell’impegno antifascista dell’Anpi sono
stati la grandiosa manifestazione “Mai più fascismi, mai più razzismi”, da noi
promossa insieme con un vasto arco di forze e tenutasi a Roma il 24 febbraio
2018; la raccolta unitaria di firme su scala nazionale per la messa fuorilegge
delle organizzazioni fasciste e razziste; l’esposto presentato alla Procura della
Repubblica di Roma contro Casa Pound; la lunga campagna di denuncia
della “Galassia nera” sul web lanciata da «Patria indipendente» e ripresa in
vari modi da istituzioni e media; la vasta attività di ricerca storico-giuridica
sulla legislazione antifascista e antirazzista compiuta dall’Anpi nazionale.
Analogamente, la battaglia antirazzista ha avuto carattere permanente e
continuativo su diversi fronti: i migranti, i rom, gli ebrei, gli afroamericani. Un
punto particolarmente alto di impegno è avvenuto a partire dal luglio 2020,
dopo l’omicidio negli States di George Floyd. Assieme, la critica al razzismo
si è realizzata con diverse riflessioni e approfondimenti, in particolare sulle
pagine di «Patria indipendente». È stato messo a fuoco il nesso strettissimo
fra contrasto a fascismi e razzismi e piena attuazione della Costituzione; il
carattere antifascista della Carta fondamentale non si riduce infatti alla pur
essenziale XII Disposizione finale, ma ispira ogni sua parte perché disegna uno
Stato, una società ed un insieme di regole esattamente opposti all’ideologia
fascista e razzista.
La memoria del passato avviene sempre nel presente. Da questo punto di
vista la Resistenza, la guerra, il dopoguerra, la Costituente, la Costituzione
sono temi straordinariamente attuali e oggetto di ricerca storica tutt’altro
che conclusa. L’Anpi ha dato in questi anni un importante contributo alla
conoscenza della Resistenza come fenomeno nazionale (valorizzando il
ruolo del Mezzogiorno e dei meridionali) e come laboratorio istituzionale (le
repubbliche partigiane). Eppure stiamo assistendo a un’offensiva revisionista
senza precedenti, tesa a screditare il movimento partigiano e l’intera lotta
di Liberazione; valga a esempio la ricorrente e stucchevole polemica sulle
foibe. Anche su questo terreno l’Anpi ha risposto non solo contestando un
presunto negazionismo, peraltro mai esistito, ma analizzando il drammatico
fenomeno nel più ampio contesto delle vicende del confine orientale, dal
fascismo di confine all’invasione della Jugoslavia. Questi fronti di ricerca
devono rimanere aperti, e devono essere approfonditi aspetti finora non
sufficientemente studiati: le atrocità commesse dai nazifascisti nei confronti
delle partigiane, delle staffette e in generale delle donne; il ruolo specifico dei ragazzi e dei ragazzini nella Resistenza; il suggestivo e inesplorato argomento del paesaggio partigiano; la “resistenza passiva” degli Internati Militari Italiani.
In ogni attività di ricerca sarà ovviamente necessario coinvolgere gli Istituti
Storici, con particolare riferimento all’Istituto Nazionale “Ferruccio Parri”.

La nostra lotta è la Costituzione
Negli ultimi anni la nostra Carta costituzionale è stata sottoposta a numerosi
tentativi di revisione da noi respinti, in particolare nel 2006 e nel 2016. Nostro compito è, come sempre, concorrere alla sua difesa ed alla sua attuazione. Ma non solo. L’Anpi da tempo è impegnata a favorire la conoscenza, non solo nella lettera ma nello spirito, della Costituzione, nella consapevolezza che essa contiene anche criteri di interpretazione di processi di lunga durata. La conoscenza della Carta fondamentale e la conseguente necessità di difenderla e di applicarne integralmente i princìpi sono da anni un aspetto centrale della nostra attività, a diversi livelli: dalla collaborazione con il Ministero dell’Istruzione, che va potenziata, all’impegno nei referendum costituzionali, all’approfondimento del versante culturale dell’antifascismo attraverso diverse pubblicazioni e seminari. Questo impegno deve incrementarsi e generalizzarsi sul territorio nazionale. Anche per questi aspetti sarà opportuno promuovere la massima collaborazione con le altre associazioni partigiane e resistenziali.

Una nuova statualità democratica e antifascista
La questione generale strategicamente più importante riguarda la natura, i compiti e le funzioni dello Stato italiano; è questa la ragione che porta l’Anpi a proporre alcune linee guida di riforma.
Il disastro della pandemia, il conseguente crollo di tante attività produttive,
commerciali e di servizio, lo scenario di crisi organica in cui versa il Paese
possono e devono essere affrontati dallo Stato, cioè dall’insieme delle
istituzioni che governano il territorio e rappresentano il popolo, all’altezza
delle contraddizioni del nostro tempo. Assistiamo all’anomalo sviluppo di poteri economici e finanziari svincolati da ogni controllo democratico, di fatto concorrenti con i poteri dello Stato, alle volte in grado persino di condizionare tali poteri. Oggi lo Stato italiano, in quanto ancora segnato dalle contraddizioni del passato, è sì parte della soluzione, ma anche del problema, e diviene perciò terreno di lotta politica finalizzata a un suo profondo cambiamento. È giunto il momento di manifestare un nuovo patriottismo
costituzionale, che postula una rigenerazione in senso pratico ed etico della politica.
Già nel 2016, il 22 marzo, il Presidente nazionale dell’Anpi, Carlo Smuraglia,
e la Presidente dell’Istituto Alcide Cervi, Albertina Soliani, consegnarono
al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, un ampio documento contenente proposte operative “Per uno Stato pienamente antifascista”.
Nel documento, assieme alla denuncia dei ritardi e dei limiti di uno Stato
che non si è ancora del tutto uniformato alla natura antifascista della
Costituzione e della Repubblica, si suggeriva una serie di provvedimenti in
materia di legislazione, giustizia, scuola, autonomie, e si affermava la necessità appunto di “un forte patriottismo costituzionale, come base di una corretta convivenza civile”.
In verità le istituzioni di questo Paese non sono mai diventate pienamente
“antifasciste”, come vorrebbe la Costituzione; e ciò perché non sono stati
fatti fino in fondo i conti col fascismo, non si è insegnato sul serio che cosa
è stato veramente il fascismo, si è tenuto un comportamento lassista nei
confronti di atteggiamenti e azioni inaccettabili e pericolosi, non solo nella
società, ma anche nelle istituzioni. Basti pensare ai fatti accaduti a Genova del luglio 2001 durante il G8 e ai comportamenti della polizia, qualificati dalla Corte Europea dei diritti come “ torture”.
Su quali temi si deve impegnare oggi l’Anpi? E per quali proposte? Senza
pretendere di dettare l’agenda del governo e del parlamento, e di surrogare
i partiti nella formulazione di un programma politico generale, ci limitiamo
di seguito a riassumere il punto di vista dell’Associazione su alcune questioni
che hanno particolare rilevanza nel discorso pubblico e che appaiono cruciali
per il futuro della democrazia repubblicana e del nostro Paese.
Anche a partire dalle richieste del documento del 2016, peraltro sostanzialmente
inevase, è opportuno mettere a punto un’idea di Stato che coniughi la sua
necessaria modernizzazione con l’attuazione del disposto costituzionale e con
un profondo arricchimento della natura della democrazia italiana, a partire
dal dettato del secondo comma dell’art. 3 della Costituzione: “E` compito
della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che,
limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Sono perciò i diritti incomprimibili a dover essere garantiti dal bilancio dello Stato, e non l’equilibrio di bilancio a condizionare la loro piena soddisfazione, come già osservato anche dalla Corte Costituzionale. Il principio del pareggio di bilancio (art.81 Cost. nuova formulazione) non può e non deve insomma pregiudicare la tutela dei diritti sociali, essi pure costituzionalmente garantiti.
Occorre, allora, riaffermare lo statuto costituzionale dei diritti sociali contro le tendenze alla loro decostituzionalizzazione, per rivalutare in concreto il principio di solidarietà collettiva, pilastro fondante della nostra democrazia, e la conseguente esigenza di protezione dei soggetti deboli.
Tutto ciò rinvia al carattere sociale della democrazia italiana, in gran parte
inattuato, e pone allo Stato urgenze e doveri finora spesso disattesi.
Lo scopo è dar vita ad una democrazia che si organizza, sia attraverso una
riforma del sistema politico coerente con l’art. 49 (“Tutti i cittadini hanno
diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo
democratico a determinare la politica nazionale”), che comporta anche
l’osservanza di regole di democrazia interna ai partiti, sia attraverso altre forme di partecipazione popolare.

Parlamento, Regioni, enti locali
Il Parlamento deve tornare ad essere specchio del Paese, esaltando la
sua funzione di rappresentanza e riconquistando centralità. Va perciò
contrastata l’allarmante tendenza a dar vita ad una sorta di presidenzialismo
“di fatto”.
Le Regioni non possono essere poteri separati e conflittuali, ma istituzioni
democratiche che valorizzano il territorio di competenza, che operano in
concerto col governo nazionale e in cui va esaltato il ruolo del consiglio
regionale in quanto massima espressione della rappresentanza politica: a
esso deve essere restituita la prerogativa di eleggere il presidente, il cui potere non può non essere bilanciato da opportuni contrappesi. L’Italia risente di decenni di propaganda di secessione delle Regioni ricche e, successivamente, di un federalismo sempre presentato in antitesi e in competizione con lo
Stato unitario. Viceversa, occorre ritornare allo spirito costituzionale per determinare un corretto rapporto fra poteri dello Stato, Regioni e comunità
locali. Lo Stato unitario va ancora pienamente compiuto, superando
differenze e diffidenze che datano dal Risorgimento. Il regionalismo deve
ritrovare il nesso fra la sua specificità territoriale e l’anima solidaristica che fa la Repubblica una e indivisibile. L’Italia è il Paese dei mille Comuni,
cioè di una diffusione di comunità locali con specifiche identità, che vanno
valorizzate e che costituiscono un ineliminabile patrimonio storico, civile,
culturale di carattere nazionale.

Lo Stato, le imprese e i lavoratori
Bisogna accantonare una visione dello Stato come notaio dello sviluppo
e come pagatore in ultima istanza della crisi delle imprese; lo Stato
dev’essere viceversa soggetto regolatore dell’economia, come si legge fra
l’altro negli artt. 41, 42, 43 della Costituzione, che stabiliscono la funzione
sociale dell’impresa, le libertà e i vincoli della proprietà privata, il ruolo
del legislatore nella programmazione dello sviluppo. In particolare, va
finalmente e fermamente attuata la norma costituzionale prevista nel
comma 2 dell’art. 41, che recita “La legge determina i programmi e i
controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa
essere indirizzata e coordinata a fini sociali”, e che segue al primo comma,
dove si legge che “L’iniziativa privata è libera. Non può svolgersi in contrasto
con l’utilità sociale”.
Assieme, occorre operare per una radicale trasformazione della cultura
d’impresa privata, superando il mero utilitarismo competitivo che ha caratterizzato gli ultimi quarant’anni come corollario del pensiero
neoliberista, e recuperando le migliori tradizioni della borghesia
imprenditoriale italiana, dal “contratto della montagna” a Adriano Olivetti.
Si tratta di una battaglia fondamentale anche se difficile, perché occorre
misurarsi con una tradizione profondamente arretrata di settori importanti
della piccola e grande impresa nazionale, troppe volte legati alla rendita
più che all’innovazione, abituati ad uno “Stato minimo” cui però rivolgere
sempre richieste di sostegni, incentivi, contribuzioni.

La questione demografica
L’Italia è in piena crisi demografica: stiamo diventando un Paese a sempre
più elevata età media. La politica demografica richiede ampie riforme: servizi
sociali e di sostegno per le famiglie, progetti educativi fin dalla prima infanzia e riforma dei cicli formativi, contrasto all’abbandono scolastico, rilancio della economia e della produzione di beni e servizi di qualità, interventi per la coesione sociale, superamento delle condizioni di lavoro precario e povero.
Vasto programma, si dirà: ma soltanto il conseguimento di questi obiettivi
riuscirà a cambiare concretamente le condizioni che rendono il futuro una
enorme e minacciosa incognita. Serve una organica e lungimirante visione
d’assieme: infatti si progetta una famiglia, si decide per una genitorialità
consapevole se il Paese si incammina su una strada positiva, aperta al futuro,
di grande innovazione, rassicurante perché comporta una grande, generale
assunzione di responsabilità. Non abbiamo una tradizione e nemmeno una
esperienza in questo campo: abbiamo però la consapevolezza della gravità della
situazione e pensiamo sia una delle priorità per una Italia che guarda avanti.

I beni comuni
Quale soggetto, se non lo Stato nella sua più vasta accezione o – se si vuole
– la Repubblica si deve prendere cura dei beni comuni? Diversi anni fa si
è affermato che “la locuzione ‘beni comuni’ allude non tanto a certi beni,
quanto (soprattutto) a un intero assetto istituzionale che, affermandosi tra il
pubblico e il privato, aspira a costruire un rinnovato circuito democratico: un
pubblico non statalistico e un privato liberato dall’individualismo possessivo”.
Parlare di beni comuni, in sostanza, vuol dire proporre un modello di Stato
democratico che tuteli la fruizione di risorse e servizi essenziali da parte
dell’intera comunità. L’esempio dell’acqua è il più comune ed evidente.
Quello del vaccino è il più attuale. Una nuova statualità e – va aggiunto – una
nuova visione dell’Europa, non possono non misurarsi su questo tema.

Il mondo digitale
Appare riduttivo parlare del digitale solo come un aspetto della organizzazione
della produzione. Siamo di fronte a una innovazione della portata del vapore
o della elettricità, a una forza produttiva nel senso pieno e integrale del
termine, perché tende ad organizzare e a far evolvere in modi nuovi i processi
sociali, conoscitivi, relazionali. Al centro di questa rivoluzione tecnologica
c’è un fattore determinante: i dati. La questione della proprietà dei dati
diventa la questione fondamentale, perché intorno ad essa si intrecciano
tutti gli altri aspetti, relativi all’economia, al controllo sociale, alla tutela della personalità, alla libertà intesa come autodeterminazione [libera e
consapevole]. L’acquisizione, il processamento e l’utilizzazione dei dati può
prefigurare scenari da “grande fratello” orwelliano, ma apre anche prospettive
avanzatissime di progresso individuale e collettivo. La UE è all’avanguardia
nelle misure di tutela della privacy ma è ancora un nano tecnologico, e deve
orientarsi a diventare un protagonista di taglia globale, come il suo livello
scientifico e tecnologico rendono possibile. Al tempo stesso deve sviluppare
una grande iniziativa perché i dati siano considerati e trattati come un bene
comune. La proprietà e il trattamento dei dati è la nuova frontiera delle
battaglie di libertà, per le attuali e per le prossime generazioni.

Lo stato sociale
Va ridisegnato lo stato sociale, cioè l’insieme delle politiche pubbliche tramite
cui si assicurano adeguati livelli di protezione ai cittadini o alla parte di
cittadinanza più in difficoltà.

Il sistema tributario
Va garantita la piena attuazione dell’art. 53 della Costituzione; va cioè
confermato che la tassazione deve essere informata a rigidi criteri di
progressività, e va condotta una lotta senza quartiere contro l’evasione e
l’elusione, anche con l’assunzione di provvedimenti rigorosi nei confronti
delle aziende con sede fiscale all’estero.

L’immigrazione
I temi dell’immigrazione sono di fatto, quanto meno in parte, nell’agenda
di lavoro dell’Anpi. A ciò siamo chiamati dall’art. 2 della Costituzione, che
recita: “La Repubblica (…) richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Pur avendo promosso
numerosissime iniziative di solidarietà e di prossimità nei confronti di varie
comunità di migranti, in particolare nei momenti più pesanti della pandemia,
abbiamo il dovere di occuparci anche del dramma degli sbarchi e dei naufragi,
denunciando innanzitutto le responsabilità morali di quanti hanno voluto
chiudere gli occhi di fronte al fenomeno, sollecitando politiche di accoglienza,
riaffermando gli inderogabili obblighi del soccorso in mare. Assieme, occorre
battersi per una politica alternativa ai respingimenti sul confine orientale, che creano un circolo vizioso tra Slovenia, Croazia e Bosnia, condannando decine di migliaia di migranti al lager. Ma l’attenzione al tema dev’essere più ampia,
perché esso riguarda il prossimo futuro del Paese, dove il calo delle nascite e
l’aumento dell’età media della popolazione diverranno fattori di fortissimo
squilibrio sociale, produttivo ed economico. Attraverso l’attivazione di
politiche di inclusione, è ragionevole supporre che l’afflusso di migranti e
la presenza di migranti di seconda generazione consentirà un riequilibrio
demografico assolutamente necessario. Il tema della immigrazione non
attiene perciò soltanto al pur necessario aspetto della solidarietà umana, ma
anche a quello del futuro della società italiana. Va affrontato di conseguenza
il problema della “alfabetizzazione” dei migranti, sia in senso proprio (la
conoscenza della lingua italiana) sia dal punto di vista civile (la conoscenza
della Costituzione e, per grandi linee, della storia stessa del nostro Paese).
Occorre su questo punto un intervento lungimirante delle istituzioni.

L’emigrazione
Per la prima volta dopo decenni il nostro Paese è protagonista di una
emigrazione costante e di natura profondamente diversa da quella che
storicamente ha caratterizzato e tormentato la nostra organizzazione sociale
e la vita di milioni di persone. E’ una emigrazione di giovani, spesso dotati
di alti livelli di formazione, che trovano in Europa (e non solo) un adeguato
riconoscimento delle loro qualità e capacità, personali e professionali, ma
anche di interi nuclei familiari che cercano all’estero quanto il Paese non è in
grado di offrire. Non sono i premi fiscali o gli sgravi contributivi gli strumenti adatti a fermare questa emorragia di energie giovanili e di competenze; al contrario, interventi di questa natura rischiano di distorcere modalità corrette e di lungo periodo di costruzione dei profili professionali. Occorre il rilancio dell’apparato produttivo italiano, una politica retributiva – nel settore privato quanto in quello pubblico – che riconosca le qualità professionali, la creazione di ambienti di lavoro, di ricerca, di formazione permanente, di mobilità intelligente, di parità tra uomo e donna; occorre un vero e proprio asse innovativo che trasformi un grande potenziale in una realtà al servizio del Paese, che a questi giovani è stato capace di fornire una formazione spesso altamente qualificata e che paradossalmente rinuncia ad avvalersene.

La sanità
La pandemia ha reso evidenti i limiti della sanità: il fallimento del modello
privatistico in una condizione di emergenza, la necessità di ricostruire al più
presto il tessuto della medicina territoriale e preventiva, esigono risposte
tempestive ed efficaci, che devono comprendere il superamento della
diseguaglianza territoriale nell’erogazione dei servizi sanitari e un rapporto
collaborativo fra Stato e Regioni. Colpisce ancora una volta la vitalità dello
“spirito della Resistenza”; fu infatti la partigiana Tina Anselmi, allora ministro della sanità, a promuovere nel 1978 il Servizio sanitario nazionale, che doveva essere caratterizzato da quattro principi: cioè, come ella stessa disse alla Camera, “globalità delle prestazioni, universalità dei destinatari, eguaglianza del trattamento, rispetto della dignità e della libertà della persona”.

La formazione civile
Va sostenuta attraverso un articolato programma di formazione la crescita di
una nuova coscienza civile, democratica e antifascista (diritti e doveri della
cittadinanza), magari prendendo spunto dagli esempi positivi (solidarietà,
prossimità, dedizione, sacrificio) registrati durante il corso della pandemia,
straordinario ed unico contenitore di esperienze, di successi, di fallimenti
da cui va tratto insegnamento. Il programma di formazione deve rivolgersi a
tutti, e riguardare in particolare la scuola, la magistratura, le forze dell’ordine.
Occorre investire fin dalla scuola nelle politiche di genere, educando alla
parità dei ruoli e insegnando a osservare il mondo anche con lo sguardo delle
donne. In sintesi, nello Stato va avviata una grande “riforma intellettuale e
morale” che ne esalti la natura democratica e antifascista.

La scuola
La scuola pubblica deve mantenere una funzione centrale nella nostra società, in quanto rappresenta una delle principali agenzie educative del Paese. Dopo un lungo periodo di politiche ispirate a una visione utilitaristica della cultura e a una concezione aziendalistica dell’organizzazione scolastica, va ribadito che la finalità della scuola consiste nel formare cittadini attivi e consapevoli, non produttori o consumatori.
L’ANPI sostiene e incoraggia la formazione riflessiva degli insegnanti, affinché siano in grado di suscitare l’interesse e la partecipazione degli studenti ai processi di trasmissione e di rielaborazione critica del sapere, di esaltare la loro autonomia intellettuale, di promuovere lo sviluppo di un atteggiamento cooperativo.
Le recenti disposizioni legislative, a cominciare da quelle relative all’insegnamento dell’educazione civica, unitamente all’accordo AnpiMiur, possono dare vita ad iniziative volte a favorire una migliore conoscenza della Costituzione. Si tratta di un eccellente punto di partenza per ulteriori avanzamenti sul piano della progettualità e della generalizzazione di buone pratiche locali.

La giustizia
Vi sono punti intoccabili della nostra Carta Costituzionale: in particolare i
principi fondamentali e il sistema di diritti e doveri dei cittadini definiti neisuoi primi 54 articoli. L’attuale sistema giudiziario si rivela insufficiente a renderli finalmente effettivi.
I ritardi strutturali nella pronuncia delle sentenze e nello svolgimento
dei processi mostrano il volto di un sistema poco efficiente, che sovente
frustra la legittima aspettativa ad un riconoscimento dei diritti in tempi
certi e ragionevoli. La situazione si è ulteriormente aggravata a causa dei
recenti scandali che hanno interessato l’ordine giudiziario. Tutto ciò
ha causato una crescente sfiducia nell’amministrazione della giustizia da parte della maggioranza dei cittadini. La riforma della giustizia
civile, penale, amministrativa, costituisce uno dei nodi fondamentali da
sciogliere perché la nostra democrazia possa dirsi più compiuta. Le tante
riforme processuali adottate negli ultimi decenni per sveltire i processi si
sono rivelate scorciatoie che non hanno ottenuto i risultati sperati. E’ stata
elusa la prima delle riforme necessarie, ovvero il potenziamento degli uffici
giudiziari, perennemente sotto organico, afflitto dalla drammatica carenza
di magistrati e di personale amministrativo. Alla giustizia va la percentuale
intollerabilmente esigua dell’uno virgola qualcosa per cento del bilancio
dello Stato, mentre la gran parte dell’arretrato, e non solo, è affidato al
lavoro di una magistratura onoraria precaria e senza diritti.
Nonostante questo quadro preoccupante, deve essere tributato un alto
riconoscimento al ruolo straordinario che la Magistratura ha svolto e continua
a svolgere nell’impegno contro l’eversione, contro i poteri occulti, contro la
corruzione economica e politica, contro i grandi poteri criminali delle mafie.
Tale riconoscimento deve tradursi nella ferma difesa dell’indipendenza e
della autonomia della Magistratura, che passa anche attraverso una rigorosa
riaffermazione della sua imparzialità, della ferma condanna di ogni possibile
inquinamento, oltre che attraverso uno specifico intervento ai fini della
formazione storico-politico-giuridica dei magistrati.
Un sistema giudiziario moderno è parte di una battaglia generale per una
società più giusta, per difendere i cittadini quando sono lesi nei loro diritti o quando entrano nelle aule giudiziarie, per lasciarci definitivamente alle spalle l’impianto di un codice penale – il codice Rocco – in vigore dal 1931; per superare definitivamente il problema dell’inumano sovraffollamento delle
carceri e della salvaguardia della dignità dei reclusi; per ottenere una profonda revisione delle norme punitive in materia di immigrazione e di manifestazioni politiche e sindacali contenute nei decreti sicurezza dell’ex Ministro dell’Interno; per dare effettività alla tutela dei meno abbienti con riforme che garantiscano a tutti la possibilità di concreto accesso alla Giustizia.

La difesa dell’ordine democratico
Lo Stato ha il compito specifico ed inalienabile della difesa dell’ordine
democratico e della sicurezza dei cittadini; tale compito cioè non può essere
demandato a privati o ad altri enti. Magistratura e forze dell’ordine devono
essere messe in condizione di garantire la sicurezza e ‒ in particolare ‒ di
contrastare efficacemente l’abnorme sviluppo della criminalità mafiosa.
Forze Armate
Un’attenzione specifica va rivolta alle nostre Forze Armate, il cui ordinamento,
come prescritto dall’art. 52, “si informa allo spirito democratico della
Repubblica”. È noto che da tempo si è passati dalla leva obbligatoria e di
massa al reclutamento professionale. Oggi tanta parte delle donne e degli
uomini che prestano servizio nelle varie armi sono impegnati in forme di
supporto nel contrasto alla pandemia: a tutti loro va il ringraziamento del
Paese. Non possiamo dimenticare però che l’attacco ai diritti del lavoro, che
investe il settore privato ma anche quello pubblico, non risparmia neppure
questa fondamentale struttura dello Stato. Perciò occorre garantire a tutti
gli effettivi delle Forze Armate, qualunque sia il grado rivestito, condizioni
di lavoro e di vita sicure e dignitose, al pari di quelle che dovrebbero essere
riconosciute a tutti i lavoratori.

Disciplina e onore
Un particolare rigore dev’essere esercitato nel far rispettare l’art. 54 Cost., che recita: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di
adempierle con disciplina ed onore”.
In sostanza, va avviato in modo rigoroso un processo di democratizzazione
integrale delle istituzioni.

Lo Stato e i rapporti internazionali
La storia degli ultimi decenni è stata caratterizzata, seppur in misura difforme
a livello globale, da una diminuzione dei poteri degli Stati nazionali rispetto ad altri organismi democratici di natura sovranazionale. Contemporaneamente,
tale “cessione di sovranità” non è significativamente avvenuta nelle grandi
potenze (Usa e Cina, per esempio). Si impone una riflessione sulle misure
da adottare per limitare e controllare i poteri multinazionali privati, oggi
essenzialmente liberi da vincoli e condizionamenti significativi in particolare
per quanto riguarda la tutela dei diritti dei lavoratori, ridotti di fatto alla loro mercé, da un lato; dall’altro, sull’ampiezza e sulle modalità dei trasferimenti di sovranità a poteri sovranazionali pubblici come l’UE, che appariranno tanto più legittimi quanto più l’UE metterà a valore la sua natura democratica, in sostanza quanto più sarà concretamente l’Europa dei popoli. Anche qui ci sentiamo di proporre un grande obiettivo per tutte le forze democratiche, la cultura e la scienza del nostro Paese: il controllo e lo smantellamento degli arsenali nucleari.

I giovani e le donne
L’Anpi mette al centro della sua attenzione il tema delle giovani generazioni e delle donne, che sono le categorie più deboli e di conseguenza le più colpite dalla crisi attuale nel mercato del lavoro. Ciò rappresenta un grave ostacolo allo sviluppo civile e sociale del Paese: una generazione condannata alla disoccupazione o a lavori dequalificati, un genere che mantiene ancora,
nonostante tanti avanzamenti, una condizione di subalternità.
Se è vero che la cultura largamente prevalente è quella delle classi dominanti,
va analizzata la cultura delle nuove generazioni, segnata dalla interruzione
della tradizionale trasmissione della memoria e dalla pressoché contestuale
affermazione, specialmente grazie alla rivoluzione tecnologica e alla
progressione geometrica dello sviluppo del web, di modi del tutto inediti di
comunicazione e di socializzazione, di nuovi stili di vita, di diversi linguaggi, cui corrisponde un pesantissimo ritardo formativo, inteso nella sua accezione più ampia. Pure da questa generazione nascerà la futura classe dirigente che, anche per effetto del blocco dell’ascensore sociale, sarà inesorabilmente condizionata dal ceto di provenienza. C’è il pesante rischio di un ritorno al passato, ad una rigida selezione di censo. Peraltro nei più giovani germogliano nuovi fermenti, in particolare sui temi della tutela ambientale e del riscaldamento globale.
L’approccio dell’Anpi deve escludere qualsiasi atteggiamento predicatorio
o paternalistico, come pure di inerte attesa che i giovani vadano all’Anpi.
È l’Anpi con le sue strutture, i suoi gruppi dirigenti, i suoi attivisti, che
deve andare verso i giovani con la massima capacità di ascolto e la massima
disponibilità. Il tema è vitale anche per il futuro dell’Associazione, la cui
età media è molto alta; l’Anpi ha bisogno di nuova linfa, di nuovi modi di
pensare, di una leva giovane che sia in più diretto contatto con le dinamiche
sociali, psicologiche ed anche esistenziali di un mondo che cambia. La nuova
linfa, lungi dal cambiare la natura dell’Associazione, ne rafforzerà le radici,
dal momento che i protagonisti della Resistenza furono prevalentemente
giovani, ragazzi e ragazzini.
La questione femminile è altro tema centrale per l’Anpi. Pur essendo
la maggioranza e pur avendo, dagli albori del voto del 2 giugno 1946,
raggiunto una serie di obiettivi di emancipazione civile e sociale, le donne
italiane vivono ancora in una condizione discriminata, e in più sono vittime
dell’imbarbarimento del nostro tempo; la violenza contro le donne è un
dramma mondiale e nazionale che conferma la carica di brutalità e di aggressività
diffusa nella pancia della società e alimentata da centrali mediatiche dell’odio
e della paura, da una spettacolarizzazione della violenza oramai abituale. In
Italia peraltro si moltiplicano circoli politici e culturali di stampo oscurantista
che auspicano una generale regressione dei diritti di parità.
Questa deriva va attivamente contrastata e va promossa, contestualmente, una valorizzazione di genere all’interno dell’Anpi. Peraltro, anche in questo caso l’insegnamento viene dalla Resistenza: basti pensare alle partigiane e alle staffette, e di conseguenza al contenuto liberatorio di quella esperienza storica per le donne.

Il lavoro e l’occupazione
La crisi del Paese è in gran parte crisi del lavoro e dell’occupazione, specialmente (ma non solo) a causa degli effetti indiretti della pandemia. Si stima in modo approssimativo, su scala mondiale, una perdita nel 2020 di 144 milioni di posti di lavoro. Il tema è propriamente sindacale e ‒ per altro verso ‒ politico; ma è possibile e del tutto legittima una iniziativa del più ampio mondo dell’associazionismo e in particolare dell’Anpi, in primo luogo affinché la Costituzione torni nei luoghi di lavoro e vengano riaffermati i diritti di libertà, il salario dignitoso, la dignità personale dei lavoratori, la sicurezza sul lavoro, purtroppo non ancora adeguatamente garantita.

L’ambiente e il riscaldamento globale
Il tema dell’ambiente e del riscaldamento globale dev’essere assunto dall’Anpi, nell’ambito e nei limiti delle sue competenze, come una delle attenzioni. Il rientro degli States fra i Paesi sottoscrittori degli accordi di Parigi è senz’altro positivo, ed è importante sottolineare il ruolo trainante dell’UE nel sostegno a tali accordi. Nella più ampia questione ambientale l’Italia conserva però un
ritardo dal punto della coscienza civile ed anche del ruolo delle istituzioni.
Basti pensare agli esiti territorialmente eterogenei della raccolta differenziata dei rifiuti. Da questo punto di vista è bene valorizzare la sensibilità delle giovanissime generazioni e contribuire a determinare punti di convergenza nelle istituzioni e con le istituzioni, in una più generale logica di alleanza democratica, sui tema della difesa ambientale.

I saperi
Il tema della cultura è oggi centrale per l’Anpi e riguarda un ampio spettro di interessi: la ricerca, le arti, le scienze, il pensiero filosofico, le dottrine religiose, ed anche lo spettacolo, i costumi, le credenze. Si è superata l’antica distinzione fra “cultura alta” e cultura materiale, popolare, ed è nato col tempo un ceto intellettuale di massa. Da ciò l’importanza della formazione come strumento di trasmissione e di estensione dei saperi. Eppure su questo terreno le forze democratiche registrano un inquietante ritardo perché, a fronte di un’offensiva culturale delle destre che è profondamente penetrata nella società e che è diventata una vera e propria narrazione, spesso acostituzionale e qualche volta anticostituzionale, non c’è una risposta che vada oltre la replica, la contestazione, la rettifica, e fornisca invece un’altra visione, un’altra narrazione. L’Anpi in questi anni ha prodotto numerosi e meritori lavori in controtendenza, in particolare sul tema della Resistenza. Occorre proseguire su questa strada anche attraverso un rapporto diretto con i vari mondi dei saperi, a cominciare dalle università (con particolare riguardo agli storici), con le associazioni dei docenti, con i centri culturali.

L’informazione
Va ricordato che il tema dell’informazione costituisce parte integrante
di una rigenerazione democratica del Paese sotto vari punti di vista. La
concentrazione delle testate in mano ad editori non puri, cioè a grandi gruppi
finanziari e industriali, una concentrazione che presenta il mondo ad una sola
dimensione, da un solo punto di vista in politica interna ed estera; assieme,
i ripetuti tentativi di conculcare la libertà di stampa e persino la libertà dei
singoli giornalisti di scrivere liberamente; il caos più totale nell’informazione
via web e in particolare via social, luogo prescelto per ogni sorta di fake news
e per ogni aggressione mediatica, a fronte di una scarsa regolamentazione del
settore che, salvaguardando i diritti di libertà, riconosca e definisca le eventuali
fattispecie di reato, sono fattori che distorcono le dinamiche di formazione
dell’opinione pubblica e inquinano la stessa dialettica democratica.

La pace e il disarmo
L’impegno per la pace e il disarmo è un tratto permanente nella lunga storia
dell’Anpi. Tale impegno si misura con una fase di inquietante riarmo delle
potenze globali e regionali. Preoccupa la forte esposizione del nostro Paese
nella produzione e nel commercio di armamenti, sovente in direzione di Stati
direttamente o indirettamente impegnati in teatri di guerra. La presenza
costante dell’Anpi alla tradizionale Marcia della Pace di Assisi attesta questo
impegno.

Il Servizio civile
L’Anpi da alcuni anni ha accesso al Servizio Civile Universale con progetti
inerenti alla promozione della memoria della Resistenza, a partire dalla
catalogazione del materiale documentaristico presente negli archivi provinciali
e nazionali della nostra Associazione. Si tratta per le giovani generazioni di
un‘opportunità di approccio all’attivismo antifascista, e di incontro tra le
nostre istanze formative e un vasto mondo in cerca di orientamento e di
buone pratiche di partecipazione.

L’organizzazione
Dal Congresso Nazionale che abbiamo celebrato nel maggio del 2016,
l’Anpi è stata diretta da tre Presidenti: Carlo Smuraglia, Carla Nespolo,
Gianfranco Pagliarulo, fatto unico nella lunga storia dell’Associazione. Negli
ultimi anni l’attività dell’Anpi è stata condizionata dalle restrizioni imposte
dalla pandemia e dalla tragica malattia di Carla Nespolo. Nonostante questo, l’insieme dell’Associazione ha svolto un lavoro di straordinaria quantità e qualità, scandito da eventi nazionali del tutto peculiari: le grandi
manifestazioni antifasciste, la diffusa attività solidale delle Sezioni e dei
Comitati provinciali nei confronti delle persone in difficoltà a causa del Covid, il 25 aprile sui balconi e sui social, la rosa sulle tombe delle Costituenti il 2 giugno, la già menzionata campagna antirazzista sui social, i diversi convegni di carattere storico. Grazie a queste attività e alla forte presenza dell’Anpi nel dibattito pubblico, l’Associazione conta oggi circa 130 mila iscritti e gode, in sostanza, di buona salute. Va pure segnalato che tale andamento appare in controtendenza rispetto in particolare alle adesioni ai partiti, a conferma che alla crisi dell’attuale sistema politico corrisponde un relativo rafforzamento delle comunità di natura associativa.
Questo quadro, pur positivo per l’Anpi, deve essere di sprone per il superamento dei limiti ancora presenti. L’età media degli iscritti è elevata
e occorre di conseguenza, come già detto, una specifica attenzione ai
giovani, con l’obiettivo di dar vita a una nuova leva di antifascisti. Va
inoltre prestata una particolare attenzione alle donne. Ancora: dall’analisi
della composizione sociale dell’Anpi (e in specie dei suoi gruppi dirigenti)
emerge la necessità di promuovere una maggiore presenza di alcune
figure sociali e di cittadini residenti nell’Italia meridionale ove, per ovvie
ragioni storiche, l’Anpi è mediamente più debole. Analogamente, occorre
rinnovare i gruppi dirigenti con la promozione di giovani, di donne, di persone provenienti dal mondo dei lavori subordinati e dei servizi. In questa fase di rinnovamento, nella confusa situazione politica e sociale del Paese, vanno a maggior ragione rigorosamente osservate le regole statutarie e, assieme, va elevata la qualità del dibattito politico-culturale potenziando la formazione degli iscritti e dei dirigenti, valorizzando il pluralismo, contrastando in modo energico personalismi e provincialismi, evitando che il pur salutare confronto dialettico si sclerotizzi su posizioni pregiudiziali e contrapposte laddove è responsabilità di tutti, in primo luogo degli organismi dirigenti, pervenire sempre a una sintesi virtuosa e produttiva.
L’esperienza ha dimostrato l’utilità della nomina da parte del Comitato nazionale di un coordinatore per ognuna delle grandi aree geografiche
che corrispondono al Nord, al Centro e al Sud d’Italia, con l’incarico
di coadiuvare la Presidenza e la Segreteria nazionale nella gestione della
Associazione. È quindi opportuno confermare questa scelta.
Più complesso è il tema dei coordinamenti regionali, che hanno dato vita
in questi anni a esperienze eterogenee. Anche alla luce dello Statuto, che
prevede tre soli livelli territoriali di direzione (nazionale, provinciale, di
sezione), sembra preferibile delegare alle strutture provinciali di ciascuna
regione la facoltà di costituire, d’intesa con il Comitato nazionale, un
Coordinamento regionale composto da uno a tre rappresentanti designati
in egual misura da ciascun Comitato provinciale, con il compito primario
di rappresentare l’Associazione nei rapporti con le Istituzioni regionali e
di curare le relazioni con le organizzazioni sociali, sindacali, politiche e
culturali del medesimo livello.
Ove costituito, il Coordinamento regionale, salvo diversa determinazione del Comitato nazionale, ha sede nella città capoluogo della Regione, usufruisce della sede e dei servizi di quel Comitato provinciale ed elegge tra i suoi componenti un Coordinatore che coincide, in linea di massima, con la figura del presidente del Comitato provinciale del capoluogo.
Nelle realtà territoriali di maggior dimensione i Comitati provinciali possono promuovere dei Coordinamenti di Zona, che raggruppino al proprio interno più sezioni e che possono nominare, sempre d’intesa con il Comitato provinciale, una struttura di coordinamento e un coordinatore.
Vanno ulteriormente estese le esperienze di costruzione di autonome Sezioni ANPI sia nel territorio sia nei luoghi di lavoro e di studio.
Anche a questo fine è necessario che le sezioni con un numero rilevante
di iscritti si sdoppino, a maggior ragione se fra i tesserati vi sono gruppi di
lavoratori di un’azienda o di studenti o di personale scolastico.
Viene confermata la scelta di dar vita al coordinamento nazionale donne
perché, sebbene la Costituzione repubblicana stabilisca l’uguaglianza
formale fra i sessi, consuetudini sociali e culturali fanno da freno
all’attuazione di una reale parità fra uomini e donne. Si ravvisa al contempo
l’opportunità di rivedere la composizione dell’organismo, al fine di renderlo
maggiormente rappresentativo, e di riconsiderarne le dimensioni. Il coordinamento nazionale donne deve diventare strumento di lavoro agile e radicato nel contesto dell’attualità politica, presente ed attivo nella rete
delle associazioni che si occupano di tematiche di genere.
Rimane comunque la necessità, per il futuro del nostro Paese, di cambiare il
paradigma di approccio alla politica, stabilendo un riequilibrio degli sguardi
che consenta di individuare nuove strategie utili ad orientare verso politiche di autentica promozione della parità di genere e dell’inclusione, e innanzitutto a estirpare l’odioso fenomeno della violenza contro le donne.
Particolare attenzione va rivolta la tema della formazione interna,
verificando la possibilità di articolarla su un livello elementare e diffuso,
rivolto in particolare ai nuovi iscritti, su un livello medio, riservato ai
dirigenti provinciali, e su un livello più specialistico.
Un importante strumento politico di conoscenza e di orientamento è
l’anagrafe degli iscritti. Grazie all’anagrafe è infatti possibile “conoscere”
l’Anpi: la composizione sociale, l’età media e il genere dei tesserati, nonché
le dinamiche che ne conseguono. Oggi vi sono 65 Comitati provinciali
presenti in anagrafe per un totale di 90.000 iscritti registrati (su circa
130.000), a fronte di 26 Comitati provinciali per un totale di 25.000
iscritti del precedente congresso nazionale (maggio 2016). Si tratta di un
avanzamento fondamentale, sebbene l’allestimento dell’anagrafe sia un
adempimento ancora sottovalutato da parte di alcune realtà, e sebbene si
avverta il bisogno di curarne ulteriormente l’aggiornamento.
Il tema della comunicazione è oggi essenziale. Ai tre strumenti nazionali
già esistenti ed insostituibili – l’ufficio stampa, il sito www.anpi.it e il
periodico www.patriaindipendente.it – si è aggiunta una linea editoriale
anche con l’obiettivo di operare in sinergia con la formazione.
Sono inoltre attivi tre profili social, facebook, twitter e instagram, con un sempre più crescente numero di follower. Comitati provinciali e sezioni si stanno attrezzando per una comunicazione social efficace, e questo processo va intensificato per realizzare una rete antifascista in tutto il Paese.
Nella Federazione Internazionale Resistenti (FIR) l’Anpi è oggi rappresentata da un vicepresidente e da due membri dell’esecutivo. Tali presenze sono indispensabili al fine di un rinnovamento e di una maggiore capacità di intervento della Federazione. A questo proposito, è importante garantire un supporto continuo da parte degli organismi dirigenti nazionali
della nostra Associazione all’attività della FIR, che si mostra ancora troppo
limitata e discontinua, laddove sarebbero urgenti una intensificazione e un
coordinamento unitario dell’attività antifascista e antirazzista nell’intero
spazio europeo. Su proposta della delegazione italiana, è allo studio della
FIR la costituzione di una associazione collaterale molto più larga, che
comprenda associazioni con specifiche mission (sindacali, ambientaliste,
culturali, ecc.) ma impegnate sul terreno dell’antifascismo.

Le regole dell’Anpi
Qualsiasi comunità piccola o grande si organizza in base a un sistema di regole.
Le regole dell’Anpi sono fissate nello Statuto e nel Regolamento. Tali regole
vanno sempre interpretate in modo rigoroso, al fine di una migliore efficacia
dell’attività complessiva dell’Associazione. Tale esigenza vale a maggior
ragione oggi, davanti ad una forte offensiva delle destre estreme e all’insidiosa iniziativa culturale revisionista tesa a colpire la memoria e la funzione della Resistenza nella storia d’Italia.
I dati del tesseramento 2019 e i primi dati del 2020 confermano un forte
rafforzamento dell’Anpi. Contemporaneamente si realizza ogni anno un
notevole turn over sia degli iscritti sia anche di parte dei gruppi dirigenti;
tutto ciò rende urgente un piano di formazione ed assieme richiede una
grande attenzione per il rispetto delle regole, al fine di un’armonica crescita
dell’Associazione.
Va sottolineato che tutti gli incarichi, fino ai più importanti, sono a termine;
che, di pari passo con i processi formativi, vanno promosse nuove leve di
giovani dirigenti; che i gruppi dirigenti devono operare con spirito unitario,
al fine di assicurare la massima concordia nella vita interna dell’Associazione; che l’orientamento sulle questioni di carattere generale viene deciso dal
Comitato Nazionale, il quale (art. 5 dello Statuto) “provvede a controllare le attività dei Comitati provinciali”, “a risolvere eventuali vertenze in seno
all’Associazione”, “ad adottare tutti i provvedimenti necessari al buon
funzionamento dell’Associazione”.
Una particolare attenzione va prestata alle pagine dell’Associazione sui social.
La prudenza e il buon senso devono ispirare qualsiasi intervento affidato a
questi strumenti, evitando prese di posizione e commenti che contraddicano gli orientamenti dell’Anpi o che si prestino ad attacchi ‒ per quanto
strumentali ‒ da parte degli avversari politici, com’è avvenuto in qualche caso
in passato e continua, seppur raramente, ad avvenire. Da questo punto di vista è assolutamente necessario che i gruppi dirigenti locali controllino il dibattito sui social, e che chi segue le pagine Anpi dia prova di senso di responsabilità, distinguendo sempre fra le sue legittime ma personali opinioni e il punto di vista dell’Associazione. Analoga attenzione va prestata agli altri media ed in particolare alla stampa locale, evitando accuratamente di esternare le problematiche interne all’associazione. L’insieme di queste cautele rinvia al punto d) dell’art. 2 dello Statuto, che recita: “Tutelare l’onore e il nome partigiano contro ogni forma di vilipendio e di speculazione”.
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Il tormento dell’etica religiosa di fronte alla buona morte: un confronto necessario

cb110c7e-47cb-4d1d-87c9-a17cb3158262Lunedì 4 ottobre 2021 alla Fondazione di Sardegna in Via Salvatore da Horta 2 a Cagliari si è svolto un confronto pubblico dal titolo “il tormento dell’etica religiosa di fronte alla buona morte” organizzato dagli Amici sardi della cittadella di Assisi, dall’associazione Comunità la Collina e dalla Fondazione Anna Ruggiu Onlus in collaborazione con l’Assotziu Consumadoris Sardigna e con i tre media partner Aladin Pensiero, Giornalia e il manifesto sardo. Un confronto sull’opportunità dell’Eutanasia Legale coordinato dalla giornalista Susi Ronchi e con la partecipazione di Don Ettore Cannavera e Gianni Loy. Con il consenso dell’autore e in accordo con le tre testate giornalistiche online,“media partner” dell’iniziativa, Aladinpensiero, Giornalia, il manifesto sardo, pubblichiamo di seguito la prima relazione introduttiva al tema.
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Riflessioni sulla “buona morte”.
di Gianni Loy
Il significato dell’espressione, sia nella lingua originaria che in quella italiana, per quanto riguarda l’aspetto teleologico, è chiaro e inequivocabile: indica le azioni volte a porre fine alla vita di una persona allo scopo di evitargli sofferenze prolungate nel tempo o una lunga agonia.
Non altrettanto condivisa è la classificazione delle condotte che vengono considerate eutanasia. Si parla di eutanasia attiva quando la morte è diretta conseguenza dall’azione di un terzo, come la somministrazione di un farmaco da parte del medico, e di eutanasia passiva quando la morte costituisce l’effetto indiretto di un’azione o di un’omissione, come nel caso della sospensione di trattamento sanitario o dell’alimentazione artificiale.
Fattispecie a sé, sarebbe costituita dal suicidio assistito, (l’aiuto o l’assistenza al suicidio) nel quale è la persona che desidera morire a compiere l’atto che produce la morte grazie all’aiuto di una terza persona. Il caso classico è quello del medico, o di un familiare che, su richiesta dell’aspirante suicida, gli fornisce un farmaco idoneo a procurargli la morte, che sarà però il richiedente ad assumere.
Quanto alla classificazione delle condotte non vi è consenso neppure all’interno del Comitato Nazionale di Bioetica che, chiamato a pronunciarsi sulla questione dopo la nota sentenza della Corte Costituzionale, si è limitato a dar conto dell’esistenza di diverse opinioni al suo interno: alcuni hanno sostenuto che la distinzione tra eutanasia e suicidio assistito sarebbe speciosa, data la sostanziale equivalenza tra il fatto di aiutare una persona che vuole darsi e si dà la morte, e il fatto di essere autore della morte di questa persona; altri hanno ritenuto che, sia sotto il profilo filosofico che simbolico, consentire a una persona di darsi la morte non è identico a dare la morte a qualcuno a seguito della sua richiesta.
Il suicidio, da un punto di vista giuridico, non è oggetto di divieto da parte della legge. Tuttavia, – secondo interpretazione dello stesso Comitato di bioetica, non si ritiene esercizio di un diritto costituzionalmente garantito, ma viene inteso come una semplice facoltà̀ o un mero esercizio di una libertà di fatto. Lo sfavore dell’ordinamento si ricaverebbe, tra l’altro, dal fatto che la legge sanziona penalmente sia le condotte che incitano al suicidio, sia quelle che provocano, materialmente, la morte di una persona che chieda di porre fine alla propria vita.
L’art. 579 del codice penale punisce (con reclusione tra i 6 e i 15 anni) chi cagioni la morte di una persona con il consenso di lui ed un’altra norma (art. 580) punisce con pene variabili tra 1 e 12 anni chi determina altri al suicidio, ne rafforza il proposito, ovvero ne agevola, in qualsiasi modo, l’esecuzione.
Si tratta, per la verità, di norme estranee all’impianto costituzionale, introdotte dal Codice penale del 1930 precedentemente all’entrata in vigore della Carta Costituzionale. Norme, peraltro, già dichiarate parzialmente incostituzionali. La Corte costituzionale , (Sent. n. 242 del 22 novembre 2019), ha dichiarato incostituzionale l’art. 579 del c.p. nella parte in cui non esclude la punibilità di chi con le modalità di cui alla legge n. 219/2017 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) o con modalità equivalenti, agevoli l’esecuzione del proposito di suicidio che si sia autonomamente e liberamente formato, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputi intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente. La norma, è ritenuta in contrasto con gli art. 2, 13 e 32 Cost. che riconoscono i diritti inviolabili dell’individuo, la libertà personale ed il diritto alla salute.
Sulla base dei ragionamenti del Giudice costituzionale si può sospettare che anche l’art. 580, (oggetto del quesito referendario) potrebbe non superare un eventuale vaglio di costituzionalità ove la Corte venisse chiamata a pronunciarsi. La distinzione tra fornire il prodotto che procura la morte e somministrarlo, quanto a finalità ed effetti, è assai labile, almeno fuori dai confini di Bisanzio, posto che, in ogni caso si produce la morte della persona che, nel rispetto delle condizioni indicate dal Giudice costituzionale, lo richieda.
Del fatto che il suicidio costituisca una semplice facoltà e non un diritto, o una libertà di fatto, si può dubitare. Nel diritto alla vita, al pari di altri diritti costituzionalmente garantiti, è implicito anche il diritto a rinunciare all’esercizio di tale diritto. Il diritto ad iscriversi ad un sindacato, ad esempio, comprende in sé anche il diritto a non iscriversi. Il diritto alla riservatezza non proibisce di comunicare ad altri i dati che si ha diritto a mantenere riservati. Analogamente, il diritto alla vita non impone alla persona l’obbligo di restare in vita. Non le impedisce, in altri termini, di decidere di non esercitare quel diritto. Se così non fosse, dovremmo concepire non solo un diritto alla vita, ma, accanto ad esso, anche un obbligo a restare in vita. Ma possiamo davvero ipotizzare che l’ordinamento, in presenza dell’esplicita e consapevole volontà di una persona di rinunciare al proprio diritto alla vita, possa in qualche modo costringerlo a vivere?
L’art. 32 della Costituzione consente, ove sia la legge a disporlo, l’obbligo di sottoporre le persone a determinati trattamenti sanitari, anche contro la loro volontà; precisa, tuttavia, che la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. Personalmente, non credo che imporre di continuare a vivere ad un uomo o ad una donna che con piena coscienza e consapevolezza abbiano deciso di lasciarsi andare nelle braccia della loro “sorella morte” – tanto più se si tratta di una scelta dettata dall’urgenza di fuggire da un insopportabile dolore fisico e psichico – sia rispettoso della dignità umana. Un’interpretazione che ritenesse il contrario, sarebbe in contrasto, con quanto stabilito dal secondo comma dell’art. 32 della Costituzione in quanto andrebbe oltre i limiti imposti dal rispetto della persona umana.
Sia ben chiaro, nel nostro ordinamento, nella nostra cultura giuridica, non esiste alcun “diritto al suicidio”. La Repubblica, al contrario, è chiamata a promuovere e proteggere il diritto alla vita, e sono molti gli strumenti che può mettere in cmapo, a partire dal promuovere il benessere generale della società, garantire un’assistenza sanitaria generale e gratuita, ridurre gli incidenti sul lavoro, soccorrere i naufraghi, predisporre misure di tempestiva ed efficace terapia del dolore, offrire il sostegno psicologico alle persone che si trovino in grave difficoltò, garantire un’adeguata riabilitazione e rieducazione …
In Europa, secondo dati Eurostat, oltre un milione di persone muoiono ogni anno delle deficienza del sistema sanitario pubblico diverse migliaia a causa di errori della diagnosi e della cura. Per fortuna, in queste speciali classifiche, l’Italia risulta tra i paesi più virtuosi o, sarebbe meglio dire, meno deficitari.
Il fatto che l’ordinamento, in generale, non guardi con favore alla scelta di rinunciare alla propria vita non significa, tuttavia, né che possano adottarsi misure coercitive che impediscano alla persona di disporre della propria esistenza, e neppure che nelle ipotesi di patologie incurabili in presenza di sofferenze insopportabili, in ossequio al rispetto dei diritti fondamentali della persona, il sistema sanitario non possa prevedere forme di assistenza medica alla buona morte.
Concludo questi brevi riferimenti – di carattere prevalentemente giuridico – con riferimento al suicidio, perché dal punto di vista teleologico, anche quanto alle implicazioni di carattere morale, non vi è differenza tra le diverse modalità che provochino la morte di chi abbia deciso di togliersi la vita. Ciò che conta sono il desiderio e la cosciente volontà di porre fine alla propria vita. In definitiva, sotto il profilo etico, non fa differenza se tale finalità viene perseguita mediante la rinuncia alle cure, il suicidio o la buona morte medicalmente assistita. Altrettanto potrebbe dirsi per la persona che cooperi alla realizzazione dell’intento: sotto il profilo etico, poco importa se provoca la morte di una persona a seguito di un’omissione o di una condotta attiva. Ciò che conta è il rapporto tra la condotta e l’effetto desiderato. Sotto il profilo legale, invece, il mero aiuto al suicidio, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale, non costituisce più reato, mentre continua ad esserlo, in attesa dell’esito del referendum abrogativo, la condotta di chi provochi direttamene la morte, ad esempio con la somministrazione di un farmaco.
Vorrei far riferimento ad un recente avvenimento. Qualche settimana fa, in Spagna, una donna gravemente ammalata si è tolta la vita in una stanza d’albergo assumendo una dose di veleno. La donna era affetta, da anni, da una patologia cronica osteomuscolare incurabile, aggravata dall’intolleranza agli oppiacei. Ultimamente era sopravvenuto un cancro alla vescica “invasivo e di grado elevato”, secondo il referto medico. La donna, che auspicava una dolce morte, non appena entrata in vigore la legge che, in quel paese, consente la morte medicalmente assistita, aveva chiesto di poter essere ammessa. La richiesta era stata sottoposta alla struttura competente, ma non era andata a buon fine, inizialmente in quanto il medico incaricato si era dichiarato obiettore di coscienza.
Ma non è questo che interessa, piuttosto l’esito e le ragioni della donna che, qualche settimana prima accompagnata dal medico curante e dall’amica più cara, aveva rilasciato un’intervista a “El Pais” dichiarando quanto segue:
“La decisione l’ho già presa. Non credo di poter attendere che mi venga applicata la legge. Ho sempre affermato che non voglio vivere se non sono in grado di poter decidere sulla mia vita. Non sono in grado di cucire, non posso leggere. Non c’è niente che possa darmi speranza. Non si tratta di un capriccio. Il fatto è che tutta la mia vita consiste esclusivamente nel cercare di soffrire il meno possibile. E nonostante tale sforzo la mia sofferenza è intollerabile. Per questo penso che, al massimo, riuscirò a resistere sino ad ottobre, ma forse neppure riuscirò ad arrivarci”.
Il giornalista le chiede: “E nel caso non riuscisse ad essere ammessa al trattamento previsto dalla legge, ha cercato qualche alternativa per darsi la morte?*
“Si ho qualche alternativa, non piacevole, ma ce l’ho. Solo che, dal punto di vista psicologico, si tratta di una alternativa terribilmente violenta. È violento pensare Mi sto suicidando”. Io non lo voglio questo. Voglio solo che mi aiutino a smettere di soffrire. Niente di più”.
Cito questo, episodio, uno come tantissimi altri, tra i pochi che superano il riserbo e diventano di dominio pubblico, perché consente, di comprendere come il tema, l’unico tema in discussione, sia quello della vita, della morte e del diritto di decidere della propria esistenza: il resto riguarda gli aspetti tecnici, le modalità di esecuzione dell’intento, che possono andare dalla rinuncia alle cure ed all’alimentazione sino al suicidio.
Ho voluto introdurre nel discorso un caso concreto, anche perché risulti chiaro che la vita, la morte, le sofferenze, non esistono. Nella storia, nella realtà esistono uomini e donne che vivono, che soffrono, che muoiono. Le espressioni astratte che utilizziamo sono comprensibili e concepibili soltanto perché si verificano tali evenienze.
Come, proprio in questi giorni ci ha ricordato Björn Larsson, siamo in grado di intendere il “senso” attribuito alle parole ed alle espressioni, ma per sapere se esistono veramente dobbiamo rivolgerci alla scienza. La vita è sacra, inviolabile, è un valore supremo. Il principio lo intendiamo, riscuote consenso. Ma, nella realtà, davvero la vita è sacra protetta, rispettata? Ed in che modo?
Arriviamo al nodo. La decisione circa le regole che potrebbero disciplinare – se, quando e come – pratiche di buona morte, ha evidenti implicazioni etiche che interrogano la coscienza di ciascuno e quella collettiva.
Il fondamentale interrogativo, sul piano etico, consiste nel cercare una risposta, non ambigua, ad una elementare domanda: consentire la buona morte, è un bene o un male? Ciò, non significa, nonostante ogni apparenza, pronunciarsi su principi astratti, quali la sacralità della vita.
Il quesito, al quale il Parlamento italiano non ha voluto rispondere, nonostante il pressante invito della Corte Costituzionale, è un altro: se la comunità nella quale oggi storicamente viviamo ritenga eticamente accettabile consentire l’assistenza medica, la buona morte, alle persone gravemente sofferenti, senza speranza di guarigione delle quali sia stata accertata la cosciente e consapevole volontà di porre fine alle proprie sofferenze.
Ciò, non sulla base di precetti morali fondati su costruzioni metafisiche o di credo religiosi, ma alla luce di valori fondanti e condivisi, logicamente giustificati, di una comunità, laica. Quali il benessere collettivo, la ricerca della felicità, la solidarietà. Che tenga conto, evidentemente, degli effetti che le scelte personali possano provocare sul sistema di convivenza dell’intera comunità. L’etica laica, in ogni caso deve necessariamente trovare nell’immanenza, e non nel trascendente, la risposta ai propri interrogativi.
Non dobbiamo chiederci se la buona morte, astrattamente considerata, sia un bene o un male, ma se operi bene o male, per se stesso e per la comunità, la persona che decida di praticarla. Si tratta, conseguentemente, di un giudizio sulla persona che aiuta il richiedente a porre fine alle proprie sofferenze.
L’etica di cui parliamo, peraltro, è opinabile, in quanto ispirata a diverse concezioni filosofiche; ad esempio all’imperativo categorico kantiano che ipotizza una sorta di deontologia nel comportamento umano; oppure alle teorie utilitaristiche, secondo le quali le nostre azioni dovrebbero mirare alla massima felicità per il maggior numero di persone. In ogni caso, l’etica di cui parliamo non coincide con i precetti morali dettati da ideologie o religioni. Beninteso, è frequente che i valori “laici” e quelli derivanti dai precetti morali delle religioni possano coincidere, Ma non sempre. Alcune pratiche imposte da talune religioni, ad esempio, sono incompatibili con i diritti fondamentali universalmente riconosciuti.
In ogni caso non vi è alcun antagonismo tra l’etica laica che dovrà ispirare le scelte del legislatore in materia di buona morte ed i precetti morali delle religioni cristiane in materia di buona morte – peraltro non condivisi da tutte le professioni religiose – . Precetti morali che, anche quando non coincidenti con l’etica “laica” del legislatore, potranno sempre orientare liberamente le condotte dei propri adepti. Non solo, a quanti eventualmente professino un credo distinto da quello dell’etica “laica”, in casi come questo, viene di norma riconosciuto il diritto di non uniformarsi al precetto civile, cioè di astenersi dalle pratiche che non condividono, attraverso lo strumento dell’obiezione di coscienza, come opportunamente richiamato anche dalla citata sentenza della Corte Costituzionale.
Nel caso concreto, – perché non si dimentichi, neppure per un momento, che non è della morte che ragioniamo, bensì delle persone che, in determinate circostanze, desiderano la propria morte o si danno la morte – si può aggiungere che a tutte le professioni religiose, vien in ogni caso garantita – ci mancherebbe altro – ogni assistenza spirituale volta ad aiutare il credente a non cedere alla tentazione di porre fine anticipatamente alla propria vita e ad affrontare con spirito orientato al trascendente le proprie sofferenze. Ma se un credente, uomo o donna, esercitando il libero arbitrio, continuasse a manifestare il proposito di porre fine alla sua vita, troverei paradossale che il suo desiderio non possa poi essere accolto perché il precetto morale della confessione religiosa che il proprio adepto non intende rispettare venisse recepito e fatto proprio dall’ordinamento giuridico dello Stato.
Aver certezze è bene, risulta sicuramente rassicurante, rassicurante. Ma coltivare dubbi è non meno salutare e utile, soprattutto in questo caso, visto che la vita e la morte, per tutti, possono essere segnate da svolgimenti imprevedibili e misteriosi.
Spesso siamo convinti, molti di noi- e lo proclamiamo con sicumera -, che in presenza di un determinato evento ci comporteremo in una determinata maniera. Ma è soltanto un’idea, un’astrazione. Finché resta un’idea … Tra quanti oggi giurerebbero che mai, in nessuna circostanza, ricorrerebbero alla buona morte, non pochi, di fronte ad una situazione non più immaginaria ma reale, sicuramente, potrebbero comportarsi in maniera differente. Ma è vero anche il contrario, cioè che tra quanti dichiarano che, in circostanze analoghe, sceglierebbero di anticipare la morte, molti, alla prova dei fatti opererebbero una diversa scelta rinunciando a tale proposito.
Vita e morte, disincrostate dell’astrazione, altro non sono che i nostri percorsi quotidiani Così terribili da considerare funesto persino il giorno della nascita – secondo il pastore errante di Leopardi – o così assurdi da potere essere paragonati – secondo Camus – alla fatica di Sisifo? O, per altro verso, esaltante esperienza di conoscenza e di appagamento, o alternarsi di gioia e di dolore? Una miriade interpretazioni che sfugge alla nostra conoscenza ed alla nostra esperienza futura. Cosa ne sappiamo, esercitando sana umiltà, del sentimento di chi, ormai sul ciglio del baratro, in presenza di insopportabili sofferenze, chiede di lasciarsi andare dolcemente? Abbiamo sufficienti motivi per giudicarlo e per impedirglielo? Senza contare che, il più delle volte, ciò significa semplicemente che lo costringiamo a realizzare lo stesso proposito in clandestinità o con maggiore sofferenza.
Non abbiamo ricette. Camus immagina che possa essere felice persino chi è destinato a spingere sassi lungo il pendio per tutta dal vita, senza alcuna speranza di fuggire dal supplizio. Umberto Eco afferma “Io ho il diritto di scegliere la mia morte per il bene degli altri”, e tanti altri, ciascuno secondo i propri principi.
Prendiamo atto di trovarci di fronte all’irrisolto mistero della vita e della morte. E visto che la vita, in un modo o nell’altro, la sperimentiamo, il mistero si concentra sulla nostra. La morte costituisce il nostro ultimo dubbio.
Il mistero. Io, ad esempio, in questo momento, immagino che se mi trovassi in condizioni di estrema ed insopportabile sofferenza, non solo chiederei di anticipare la fine con una buona morte, ma mi fingo persino che nel momento in cui mi comunicassero che all’indomani un medico mi accompagnerebbe dolcemente alla morte, proverei un grande senso di serenità, anzi di felicità.
Allo stesso tempo, sono certo e consapevole che, di fronte ad una situazione del genere, ne ho esperienza, potrei decidere diversamente, cioè scegliere di attendere, anche nel dolore, con altro spirito, la fine dei miei giorni.
Insomma, sappiamo così poco della vita da non poter essere certi neppure delle nostre azioni. Figuriamoci se possiamo dettare il comportamento di altre persone. Spero che né a me né ad altri venga confiscato il libero arbitrio.
Insomma chi siamo noi per giudicare? Impedire, per legge, una scelta altrui che non condividiamo è assai più di un giudizio.
Gianni Loy

Online il nuovo Rapporto EuroMemorandum 2021

euromemorandum
Online il nuovo Rapporto EuroMemorandum 2021

Su Sbilanciamoci! – 6 Aprile 2021 | Sezione: Apertura, Economia e finanza.
È online, scaricabile gratuitamente, la traduzione di Sbilanciamoci! del Rapporto EuroMemorandum 2021 “Un’agenda per la trasformazione socio-ecologica dell’Europa dopo la pandemia”: l’analisi della situazione economico-politica e le ricette per uscire dalla crisi Covid con un’Unione giusta e sostenibile.

Scarica il Rapporto EuroMemorandum 2021
Come ogni anno, anche nel 2021 Sbilanciamoci! propone al pubblico la traduzione, scaricabile gratuitamente, del Rapporto EuroMemorandum realizzato dall’EuroMemo Group, nutrita rete europea di economisti da sempre impegnata sul fronte dell’analisi e della proposta per imprimere all’Unione europea una svolta verso traguardi di giustizia economica e sociale e di sostenibilità ambientale. Il Rapporto EuroMemorandum 2021, intitolato “Un’agenda per la trasformazione socio-ecologica dell’Europa dopo la pandemia”, deriva come di consueto dai dibattiti e dalle relazioni presentate alla conferenza annuale (il “Workshop on Alternative Economic Policy in Europe”) organizzata dall’EuroMemo Group, la cui ventiseiesima edizione – a cui anche Sbilanciamoci! ha preso parte – si è tenuta online, causa Covid, dall’8 al 25 settembre 2020.

Al centro del Rapporto EuroMemorandum 2021, la pandemia e i suoi devastanti effetti sul tessuto sociale, economico e produttivo dei paesi europei, le politiche e le misure intraprese dalla Ue per farvi fronte, la necessità e l’urgenza di mettere in campo approcci e strumenti radicalmente alternativi che mettano al centro – nell’ottica di un ambizioso Patto Verde e per la Cura in Europa – il welfare e il diritto alla salute e all’assistenza, un modello di sviluppo capace di rispettare gli equilibri ecologici del pianeta, nuove relazioni politiche e diplomatiche sia nella Ue sia a livello globale improntate alla cooperazione e alla solidarietà. Qui di seguito riportiamo il testo dell’introduzione del Rapporto.

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I fallimenti del capitalismo neoliberista (che la pandemia ha mostrato ancora una volta)

La pandemia di Coronavirus ha provocato più di 400.000 morti in Europa nel 2020, ha aperto una grave crisi economica e ha tragicamente messo a nudo i gravi difetti del modello economico predominante, sia nell’Unione Europea che altrove. Il modello neoliberista dei passati decenni consisteva nella costruzione di un mercato integrato globalmente con regole armonizzate, a loro volta garantite da organizzazioni internazionali come l’Organizzazione mondiale del commercio. La crisi finanziaria globale, la crisi climatica, così come l’emergere del populismo autoritario su scala globale e, più recentemente, la pandemia di Covid-19, hanno reso chiarissimo che il capitalismo neoliberista è in profonda crisi.

Il commercio internazionale e gli investimenti hanno subìto un rallentamento dal 2009. Inoltre, l’attività economica internazionale, paradigmaticamente incarnata nelle catene globali del valore, è stata esposta a diversi tipi di shock, come evidenziato dal Covid-19. La quantità di tali shock è in aumento da anni e il loro impatto economico e sociale è diventato sempre più grave.[1] Se si considera il numero crescente di eventi climatici avversi (inondazioni, siccità, eccetera), crisi sanitarie, attacchi informatici e conflitti politici, è probabile che tanto la frequenza quanto l’ampiezza del rallentamento economico e produttivo siano destinate ad aumentare nel prossimo futuro.

Meno cooperazione internazionale, ma più integrazione europea?

A seguito della pandemia abbiamo assistito al ritorno dello Stato come agente economico di ultima istanza. Ciò ha prodotto risultati ambivalenti. In primo luogo, al fine di garantire la fornitura di beni essenziali, in particolare prodotti e forniture mediche e farmaceutiche, i governi di 90 paesi hanno scelto di imporre circa 230 restrizioni all’esportazione.[2] Tra questi sono inclusi i protagonisti del cosiddetto “ordine internazionale basato sulle regole” (“Rules-based International Order”), come la Commissione europea, la Germania e il Giappone. Analogamente, i paesi ricchi del centro capitalistico hanno ingaggiato una lotta per assicurarsi un accesso preferenziale ai vaccini sviluppati dai laboratori di ricerca e dalle aziende farmaceutiche, a discapito di un approccio coordinato che tenesse conto delle esigenze dei paesi della periferia.[3] La mancanza di solidarietà internazionale, almeno durante la prima fase della crisi Covid-19, ha costituito un elemento di grave problematicità; ma questo non dovrebbe sorprenderci dato che sono gli Stati nazionali ad avere la responsabilità primaria della gestione delle situazioni di crisi, mentre l’UE non dispone ancora di rilevanti competenze al riguardo. Il Covid-19 ha quindi avuto l’effetto iniziale di indebolire ulteriormente la cooperazione europea e internazionale.

In secondo luogo, i governi di tutta l’UE hanno introdotto ampi programmi fiscali per mitigare l’impatto economico e sociale della profonda contrazione economica dovuta al Covid-19. La sospensione delle regole fiscali e sugli aiuti di Stato da parte della Commissione europea, così come le ingenti iniezioni di liquidità della Banca Centrale Europea, hanno portato al varo di imponenti piani di spesa da parte dei singoli Stati membri. Le politiche di austerità degli ultimi dodici anni si sono rivelate al grande pubblico per quello che sono sempre state: dogmatiche e slegate da solidi ancoraggi teorici, dall’esperienza storica e soprattutto dal loro costo in termini umani e sociali. Inoltre, l’impatto economico marcatamente asimmetrico del Covid-19 tra gli Stati membri dell’UE, con paesi dell’Europa meridionale come Italia e Spagna colpiti più duramente rispetto a quelli che ruotano attorno all’orbita della Germania, ha portato a compiere un ulteriore passo, sebbene timido, verso l’integrazione economica, vale a dire la decisione di introdurre forme mutualistiche di debito europeo con il Next Generation EU Program. Il programma da 750 miliardi di euro comprende sia prestiti che sovvenzioni, queste ultime per un totale di 390 miliardi di euro. Pur trattandosi di una novità importante, non sappiamo se la portata di questa iniziativa e la velocità della sua attuazione saranno sufficienti a dare un contributo significativo alla ripresa dell’economia europea, né tantomeno a un processo di convergenza economica all’interno dell’Eurozona.

La crisi climatica e la necessità di una profonda trasformazione socio-ecologica

Sebbene un annunciato 30% dei fondi del Next Generation EU sarà destinato a finanziare investimenti verdi, nondimeno il Green Deal europeo (European Green Deal, d’ora in avanti EGD), progetto chiave della nuova Commissione guidata da Ursula von der Leyen, appare sotto pressione a causa della profonda crisi economica generata dalla pandemia. Le proposte per concretizzare programmi specifici nell’ambito dell’EGD sono state rinviate o indebolite. Nell’ottobre 2020, ad esempio, le posizioni concordate sia dal Consiglio che dal Parlamento europeo sugli orientamenti per la Politica agricola comune (PAC) per il periodo 2021-2027 sono state ampiamente criticate per la mancanza di ambizione in materia di obiettivi sulla protezione dell’ambiente e del clima.[4]

È fin troppo ovvio che i gruppi e gli interessi più forti stiano usando l’attuale crisi economica come pretesto per respingere non solo gli elementi più ambiziosi dell’EGD, ma anche le proposte più radicali di trasformazione socio-ecologica. Il processo decisionale nelle istituzioni europee è diventato via via più tortuoso, con l’emergere di nuovi paesi che oppongono il diritto di veto su argomenti specifici come i quattro “paesi frugali” (Austria, Danimarca, Paesi Bassi, Svezia, supportati dalla Finlandia) sulla politica fiscale, o come l’Ungheria e la Polonia sulla politica climatica, lo Stato di diritto e altri temi. Sfortunatamente, le discussioni sulla traiettoria futura dell’integrazione europea sono oggi più controverse che mai. Recenti – e importanti – eventi quali la Brexit, il cambiamento della linea di politica estera statunitense rispetto alla Cina o la diffusione della pandemia di Covid non sono stati finora in grado di cambiare la prospettiva strategica dei responsabili politici dell’UE, i quali appaiono capaci di fare solo lo stretto necessario per evitare il crollo dell’Eurozona o eventi di simile, disastrosa portata.

Durante l’autunno del 2020, la maggior parte dei paesi europei è stata attraversata da una seconda ondata di Covid-19, in conseguenza della quale il processo decisionale dell’UE ha avuto una nuova accelerazione. Sebbene sia impossibile prevedere quando la pandemia sarà definitivamente contenuta, deve essere nondimeno chiaro che, dati gli obiettivi climatici dell’UE, le decisioni di politica economica che saranno prese nel corso dei prossimi anni peseranno in modo decisivo sulla traiettoria dell’economia europea da qui alla fine del decennio. Saranno quindi, i prossimi, anni decisivi, sia se ci muoveremo verso la sostituzione dei nostri attuali modelli di produzione e consumo socialmente e ambientalmente insostenibili, sia se le forze dello status quo prevarranno, infliggendoci crisi sociali e ambientali sempre più intense.

Come già sottolineato nel Rapporto EuroMemorandum 2020, il Gruppo EuroMemo crede fermamente che sia fondamentale adottare un programma puntuale e radicale di trasformazione socio-ecologica al fine di realizzare la necessaria transizione verso un futuro sostenibile. Nel Rapporto di quest’anno, oltre a offrire una panoramica sulla situazione economica e politica corrente e una critica al Green Deal europeo e alla sua implementazione, ci concentriamo su una serie di ambiti che sono rimasti troppo spesso fuori dalle discussioni circa la trasformazione socio-ecologica, ma che meritano tuttavia grande attenzione: in primo luogo, la necessità di adottare una prospettiva femminista e di rimarcare l’importanza della riproduzione sociale e della cura all’interno di qualsiasi articolazione di una proposta progressista sul Green New Deal e la trasformazione socio-ecologica. In secondo luogo, alla luce dei nostri obiettivi e impegni sul fronte dell’ambiente e delle urgenze dettate dal Covid-19, serve un programma ambizioso per ricostruire la nostra economia produttiva.

In terzo luogo, la dimensione internazionale e la politica estera e di sicurezza dell’UE devono essere affrontate in modo molto più esplicito. Alla luce delle crescenti rivalità geopolitiche, in particolare tra gli Stati Uniti e la Cina, occorre contrastare con forza i piani volti a espandere le capacità militari dell’UE e la sua politica esterna di sicurezza – così come la sua politica commerciale – al fine di poter assumere un approccio ancora più aggressivo negli affari internazionali. L’UE deve al contrario basare la propria politica estera sui principi del peace-building, della mediazione dei conflitti e del disarmo, insieme a quelli di cooperazione e solidarietà internazionale.

Note

[1] Cfr., ad esempio, Swiss Re Institute (2020) “Natural catastrophes in times of economic accumulation and climate change”. Sigma No. 2/2020. Disponibile su: https://www.swissre.com/dam/jcr:85598d6e-b5b5-4d4b-971e-5fc9eee143fb/sigma-2-2020-en.pdf (accesso: 15 dicembre 2020).

[2] Si veda il sito del WTO: https://www.wto.org/ (30 agosto 2020).

[3] L’iniziativa Gavi COVAC con il supporto dell’Organizzazione mondiale della sanità, della Commissione europea e della Francia è un’eccezione, ma probabilmente troppo debole e sottofinanziata per fornire ai paesi meno sviluppati un accesso onnicomprensivo a una vaccinazione efficace, una volta disponibile. Per maggiori informazioni si veda www.gavi.org.

[4] Cfr. https://www.politico.eu/article/europes-green-ambitions-run-into-an-old-foe-farmers/

Scarica il Rapporto EuroMemorandum 2021
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L’indice del Rapporto EuroMemorandum 2020

Sommario
Introduzione
1. L’economia Europea nell’era della pandemiac di Coronavirus
2. Una prospettiva critica sul Gree Deal europeo
3. Un approccio femminista per un Patto Verde e per la Cura
4. Ricostruire l’economia europea: politica industriale, transizione ecologica e sistema sanitario
5. La dimensione internazionale della trasformazione socio-ecologica

Che succede?

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IL LOCKDOWN E LA LENTEZZA. LA BREXIT. IL NUOVO MONDO
28 Dicembre 2020 su C3dem.
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CONTE-RENZI, PARTITA IRRISOLTA. ROSARIO LIVATINO
28 Dicembre 2020 su C3dem.

Che succede?

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ECONOMIA
una recessione mondiale senza precedenti

di Roberta Carlini, su Rocca.

La pandemia dell’economia corre in parallelo all’infezione da Covid 19. Come questa, non conosce confini ma è influenzata dal territorio che trova. Se la caduta del prodotto globale è generalizzata, dalle macerie lasciate dal minuscolo virus emergono le differenze tra i vari modelli dell’economia e del suo governo; e se l’incertezza sul futuro è comune a tutti, ci sono alcuni elementi per prevedere quale modello potrà uscire meglio, o meno peggio, dalla grande distruzione del 2020. Cominciamo dai numeri. L’Ocse ha eletto il periodo aprile-giugno del 2020 a peggior trimestre della storia, economicamente parlando. Per l’area del G20 – ossia l’aggregato che riunisce i diciannove maggiori paesi industrializzati, più l’Unione europea, e rappresenta il 90 per cento del Pil mondiale – il secondo trimestre del 2020 ha portato a una riduzione del prodotto del 6,9%; un record, se si pensa che il primo trimestre del 2009, quando il mondo era al picco della crisi finanziaria che poi sarebbe diventata la Grande recessione, segnò «solo» un meno 1,6%. E i numeri di questa nostra primavera confinata sarebbero ancora peggiori se non ci fosse, a migliorare la media, l’andamento in controtendenza della Cina, che essendo passata per l’emergenza sanitaria prima nel secondo trimestre dell’anno vedeva già un recupero dell’11,5%. Senza i numeri cinesi, la perdita del resto del G20 supera il 10%. All’interno di questa media, crolli che vanno dal meno 25% dell’India al meno 13,8% della Francia al meno 12,8% dell’Italia. Gli Stati Uniti nel secondo trimestre hanno visto un calo del Pil del 9,1%, la Germania del 9,7%.
I numeri trimestrali hanno il difetto di risentire della «tempistica» del virus con le sue diverse ondate e lo sfasamento degli effetti da lockdown, ma hanno il pregio di essere certi. Mentre le previsioni su come chiuderà l’anno sono aleatorie, nell’incertezza sull’andamento dei contagi in autunno, e dunque sulla eventualità di ulteriori lockdown; sulle decisioni dei governi per contrastarlo; e anche su altri elementi non direttamente collegati al Covid 19 ma con rilevante impatto sulle dinamiche commerciali ed economiche, come il risultato del voto negli Stati Uniti. In ogni caso, alcune previsioni ci sono e purtroppo non raddrizzano molto il quadro. Prendiamo sempre quelle dell’Ocse: secondo l’organizzazione internazionale di Parigi, per l’intero G20 l’anno potrebbe chiudere a -4,1%, con l’Unione Europea nel suo insieme al meno 7,9%, gli Stati Uniti a meno 10,1%. Il Pil italiano, nella previsione dell’Ocse, scenderà del 10,5%.
Dunque una recessione mondiale, senza precedenti la sua ampiezza ma soprattutto per le sue caratteristiche: essendo stata innescata da una emergenza sanitaria, all’inizio c’è stato l’effetto della chiusura di intere attività economiche (una specie di “coma indotto” sull’economia per proteggere le popolazioni, uno choc che ha colpito simultaneamente l’offerta e la domanda, ossia le produzioni materiali e la disponibilità della gente a spendere), ed è quello che vediamo adesso nei numeri; ma subito dopo ci sarà – o forse è già in corso – l’effetto del cambiamento dei processi economici. Per esempio: la Cina, entrata e uscita prima dalla pandemia, riprende a crescere. Ma non è detto che questa crescita potrà trainare gli altri, visto che le catene del valore sono state spezzate e nel ricostruirle le varie industrie seguiranno sentieri diversi. Per chiarire: cambierà l’intera faccia della globalizzazione che trionfava negli anni Novanta del secolo scorso e già era stata messa a dura prova dal protezionismo di ritorno.

il ruolo dei governi
C’è poi un altro fattore che plasmerà l’economia del mondo post-Covid, ed è nel ruolo dei governi. Già nel primo impatto dello choc pandemico, la differenza tra i diversi sistemi si è mostrata con evidenza. Quelli più centrati sul mercato, soprattutto sulla flessibilità del mercato del lavoro, come Stati Uniti, Canada e Regno Unito, hanno visto le perdite più forti dal punto di vista occupazionale. Se si confrontano i numeri sul calo del Pil con quelli sulla riduzione dell’occupazione e sull’aumento della disoccupazione, c’è una sproporzione evidente.
La disoccupazione si è impennata negli Stati Uniti e in tutto il mondo anglosassone, laddove – sia pure in misura diversa – i Paesi dell’Unione Europea hanno goduto degli ammortizzatori sociali ereditati dal Novecento. Strumenti come la cassa integrazione in Italia e modelli simili che mantengono le persone all’interno della forza lavoro di un’impresa, anche quando il lavoro non c’è, hanno impedito grandi fluttuazioni. Come sappiamo per l’Italia, nonostante il loro allargamento (con la cassa in deroga per esempio) non hanno coperto tutti, e larghi settori – come i precari e i giovani alla ricerca del primo impiego – sono rimasti al gelo della crisi. Ma questa sarebbe stata ancora più profonda senza quegli strumenti, che non a caso in economia sono chiamati «stabilizzatori automatici». Questi hanno fatto salire la spesa pubblica ovunque, ma hanno almeno tamponato le falle. La flessibilità del modello americano, che si affida agli aggiustamenti di mercato per passare da una fase all’altra del ciclo economico, ha ben pochi vantaggi quando la crisi non è dovuta a oscillazioni cicliche ma a uno choc generalizzato dal quale non si vede chiaramente l’uscita.
La stessa Ocse, nelle sue ricette contestuali alla diagnosi, raccomanda ai governi di non fare l’errore compiuto nel 2009, di continuare a spendere e a sostenere l’economia, continuare a elargire supporto pubblico per contrastare disoccupazione dei lavoratori e bancarotta delle imprese, e nel frattempo realizzare investimenti per far ripartire l’economia e guidarla su un sentiero di crescita sostenibile. Abbiamo visto come l’Unione Europa, con mille problemi dovuti alla sua architettura istituzionale e alle sue divisioni politiche, interpreti questa missione con il «Next generation Eu», il piano per la ripresa. Il suo successo dipenderà dall’effettività del piano stesso: messo sulla carta, adesso aspetta importanti e delicatissimi passaggi che potrebbero rallentarne l’attuazione e renderlo così poco utile oppure annacquarlo.
Dall’altra parte dell’Atlantico, l’attuale amministrazione americana pare invece puntare tutto su una ripresa spontanea, legata magari all’arrivo del vaccino; mentre il Regno Unito si dibatte nella doppia crisi da Covid e da Brexit, con pericolosissimi intrecci.

chi parteciperà e chi resterà indietro
In ombra in tutto ciò resta l’interrogativo su «chi» uscirà dalla crisi. La pandemia può agire da potente acceleratore di processi di innovazione – nelle catene del valore, come si è detto, ma soprattutto nel cambiamento tecnologico legato alla digitalizzazione; ma al tempo stesso può accelerare anche la tendenza che già era in atto all’aumento delle diseguaglianze, tra chi parteciperà alla ripresa e chi resterà indietro. Diseguaglianze tra Paesi, e all’interno dei Paesi stessi: tra poveri e ricchi, garantiti e non garantiti, giovani e vecchi, uomini e donne. Il piano europeo, pur puntando tutto sui due pilastri dell’innovazione digitale e degli investimenti ambientali, raccomanda di non perdere di vista la coesione sociale. Per la sua storia e cultura, l’Unione europea è maggiormente attrezzata a tentare una ripresa a trazione mista, pubblico-privato, ispirata al principio della solidarietà come strada più efficace, oltre che più giusta, per salvaguardare un bene comune. Ma se l’eredità del Novecento può essere utile per recuperare quella visione, gli strumenti non possono essere gli stessi. La riuscita della scommessa dipenderà dalla capacità di trovarne di nuovi, oltre che dalla forza di reggere ai contrapposti modelli in competizione: quello autoritario della Cina, e quello individualista finora prevalente degli Usa di Trump. Salvo inversioni di rotta nell’imprevedibile voto americano.
Roberta Carlini

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NEXT GENERATION UE: i soldi ci sono ma come spenderli?

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NEXT GENERATION EU
ambiente e digitale
i due pilastri
del finanziamento europeo

Roberta Carlini su Rocca

C’è una parola che ricorre spesso, nel discorso sullo stato dell’unione che la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha tenuto a metà settembre. È la parola «fragilità». Eppure, è stato uno dei discorsi più forti che dall’alto scranno di Bruxelles siano mai stati fatti. Il suo primo dall’insediamento, avvenuto il primo dicembre 2019, pochi mesi prima che il mondo cambiasse tutto. «Siamo fragili, ha detto la presidente Ue, come persone, come collettività, come istituzioni, come comunità internazionale. Il virus prevedibile ma imprevisto ci ha esposti e lasciato esposti e tutti ci sentiamo, e siamo, più vulnerabili. E l’Unione europea è fragile, con le sue diversità, i suoi percorsi incompiuti, l’assenza di un potere centrale in grado di governare quel che è già di per sé ingovernabile. Eppure, questo è il momento dell’Europa. «Il momento di aprire la strada che porta da questa fragilità a una nuova vitalità».

l’Europa cambia linguaggio
Si può pensare che sia solo retorica – e in questo caso, è stata una buona retorica, capace di riscattare l’immagine non tanto gradevole dei «burocrati» di Bruxelles, di usare parole ispirate e all’altezza della drammaticità del momento, con la malattia e i morti, il virus che ritorna e una crisi economica senza precedenti che già morde. Anche la retorica, in alcuni casi, serve, così come serve l’enunciazione di obiettivi che vanno verso una vita migliore (un salario minimo per tutti, un’economia che salvi l’ambiente, un’innovazione digitale che serva agli uomini e alle donne), laddove gli scopi dell’Unione europea da decenni si presentano solo in numeri, tetti, vincoli e proibizioni.
Il cambiamento del linguaggio, dovuto all’eccezionalità del momento ma forse non a caso attuato dalla prima donna presidente della Commissione, è già qualcosa. Ma basterà, servirà a cambiare l’Europa e a farci stare meglio? In fondo, l’Unione europea è la stessa di prima, i suoi membri litigiosi lo potranno diventare ancor di più in tempi di crisi, i nazionalismi e gli estremismi di destra governano in alcuni suoi Paesi, mentre appena fuori dai confini (in Bielorussia) si calpestano libertà, diritti, vite e dentro i suoi confini vengono lasciati morire o rinchiusi in modo disumano i migranti in cerca di salvezza. E, quanto all’economia, continua ad essere uno spazio con un mercato comune ma 27 governi diversi, al cui interno c’è un altro spazio con un gruppo di importanti Paesi che hanno una sola moneta ma 19 governi, dunque con una politica monetaria comune ma differenti politiche della spesa, delle tasse, della sicurezza sociale.

rimediare ai difetti
Dunque la prudenza è d’obbligo e un po’ di scetticismo pure, dati i trascorsi della politica europea e gli choc dell’ultimo decennio: a partire dalla gestione disastrosa della crisi iniziata nel 2008, importata dagli Stati Uniti ma aggravata e anzi poi trasformata in una crisi tutta europea, quella dei debiti sovrani, sulla quale tutta la costruzione europea ha rischiato di saltare – e sarebbe saltata, se non fosse stato per la decisione della Bce di Mario Draghi di ergersi a protezione della stabilità della zona dell’euro, facendo svolgere alla politica monetaria e alla banca centrale un ruolo di salvagente e supplenza dell’Europa politica. Ma pur riuscendo a salvare in qualche modo l’Unione e l’eurozona da se stesse, il «bazooka» di Draghi non è riuscito a tamponare la crisi di fiducia che intanto si spargeva in tutti i Paesi membri, ricchi e poveri, alimentando i partiti antieuropeisti ovunque e culminando nell’uscita del Regno Unito con la Brexit.
La crisi del 2008, come scrive l’economista Francesco Saraceno in un bel libro appena uscito, intitolato «La riconquista. Perché abbiamo perso l’Europa e come possiamo riprendercela» (Luiss University Press, 2020), è stata un’occasione mancata per rimediare ai difetti di fabbricazione dell’Unione e dell’euro, e voltare pagina; mentre la grande crisi della pandemia del 2020 potrebbe essere l’occasione per «riprendersi» l’Europa. Tutto dipenderà dal seguito che si darà alle decisioni, finora senza precedenti, prese nei primi mesi del Covid 19: la sospensione dei vincoli ai bilanci nazionali; l’allungamento e potenziamento dei poteri della Banca centrale europea come rete di protezione e pompa di liquidità nel sistema; i programmi temporanei messi in piedi dalla Commissione (Sure e nuovo Mes); e il primo strumento di condivisione del debito, con il Recovery plan all’interno del «Next generation EU».

i due pilastri della spesa europea
Di queste novità si è già parlato in precedenti articoli su Rocca. Con la ripresa di settembre, il discorso della presidente von der Leyen e i documenti usciti da Bruxelles hanno segnato il passaggio a una ulteriore fase: adesso che è chiaro che c’è un imponente pacchetto di aiuti pubblici, e per la prima volta la sfera del «pubblico» è davvero europea, cioè parte da decisioni e risorse comuni, cosa ne facciamo di questi soldi? Oltre il bisogno e dovere immediati di salvare le persone, il lavoro, l’economia, quale è la visione? Quale futuro prepariamo, o cerchiamo di agevolare, per la famosa «prossima generatione»?

l’ambiente e il digitale
I due pilastri della spesa europea – finanziata o consentita dal programma Next Generation UE – sono l’ambiente e il digitale. Ossia gli investimenti in imprese e opere capaci di fermare il surriscaldamento del pianeta e ridurre le emissioni inquinanti; e nella diffusione dell’innovazione tecnologica a tutti i livelli della società, dell’economia, delle istituzioni, sia a livel- lo di offerta (che le opportunità offerte dalle nuove tecnologie siano accessibili a tutti) che di domanda (che tutti siano in grado di sfruttarle). A questi grandi titoli, sono ora aggiunti alcuni numeri. Sull’ambiente: il 37 per cento delle risorse del programma – dunque, 277 miliardi a livello europeo – dovranno andare al «green deal», e il 30 per cento dei finanziamenti sarà reperito sul mercato emettendo degli speciali «green bonds», dei titoli pubblici il cui rimborso è garantito dalla Ue e che serviranno esclusivamente per pagare gli investimenti «verdi».
Al digitale andrà il 20 per cento delle risorse del Next generation UE – 150 miliardi, sempre a livello europeo – che dovranno servire per trovare e finanziare la via europea a uno sviluppo che finora è stato guidato dai colossi americani (prima) e cinesi (poi).
Nel primo «pilastro», si tratta di una sfida difficile; quel che si deve fare è chiaro, ma è anche chiaro che le resistenze di economie ancora molto basate sul carbone saranno forti, e il passaggio doloroso in termini di posti di lavoro e costi sociali, per arrivare – questo l’obiettivo – a tagliare le emissioni inquinanti del 55% entro il 2030. Nel secondo, la sfida è ancora maggiore poiché non ci sono strade tracciate, se si vuole evitare il modello americano di una crescita digitale tutta centrata su pochi grandi colossi dal potere enorme e incontrollato, ma ovviamente anche la strada cinese di una «internet di Stato». Insomma, si tratta di inventare un modello che ancora non c’è.

i soldi ci sono ma come spenderli?
Quanto all’Italia, il nostro paese avrà una fetta enorme delle nuove risorse, molto maggiore del suo peso specifico nell’economia dell’Unione: 208 miliardi, tra trasferimenti e debiti «europei», cioè garantiti a livello comunitario. Sul come saranno spesi, finora si sa poco. Non ha aiutato la richiesta fatta a tutti i ministeri e le regioni di presentare i propri progetti; ne sono arrivati circa 600, i più vari e spesso raffazzonati, tirati fuori dai cassetti delle precedenti programmazioni. Il rischio è quello di rivestire di verde o digitale programmi pensati per tutt’altro, oppure di accontentare semplicemente le lobby più forti e influenti. Le linee guida per il Piano nazionale di ripresa e resilienza, preparate dal governo italiano, sono giuste nella diagnosi dei problemi, riconoscendo il fatto che molti dei ritardi e dei problemi dell’Italia preesistono al Covid 19 e semmai sono stati aggravati da questa emergenza, non da essa creati. Non solo. Per la prima volta in un documento del genere si mettono al primo posto gli investimenti in istruzione, ricerca e sviluppo, riduzione delle disuguaglianze (territoriali, di genere, retributive). Si pone l’obiettivo di aumentare di 10 punti il tasso di occupazione, che è tra i più bassi d’Europa, menzionando il fatto che questo gap è dovuto soprattutto al fatto che troppe poche donne lavorano, in particolare al Sud. E si aggiunge l’obiettivo di aumentare gli investimenti pubblici di un punto di Pil, dal 2 al 3%.

la politica del «fare»
Ma questa è solo la cornice, che deve essere riempita di politiche e progetti scritti sulla realtà dell’economia e della società, non confezionati solo per essere conformi alla grammatica della Commissione e ottenere i soldi. Come dice spesso l’economista Fabrizio Barca, bisogna uscire dalla logica dei «progettifici», individuare i bisogni e passare alle cose che si possono fare, chiedendosi in che misura e forma l’aiuto pubblico può aiutare quel «fare». Ci sono cose facili da fare, ma non per questo le più utili e produttive: per esempio, una politica molto battuta negli ultimi anni è quella dei bonus e delle decontribuzioni, che però sono spesso a pioggia, possono aiutare il corso della corrente (se tutto va bene) ma non aprire vie nuove, né tantomeno andare controcorrente quando serve. Un’altra via facile e popolare è quella di promettere generiche riduzioni delle tasse, laddove è chiaro che quei fondi europei non sono da destinare a ridurre le tasse, ma agli investimenti; e che le stesse raccomandazioni della Commissione sulla riforma del sistema fiscale sono indirizzate a rimediare ai suoi squilibri – primo tra tutti, il fatto che ci sono troppe tasse sul lavoro – non ad alimentare promesse elettorali.
Nelle prossime settimane le scelte decisive su questi temi dovranno essere impostate, nei prossimi mesi compiute. E quel che fa l’Italia non è importante solo per noi, ma anche per tutta l’Europa. Un uso clientelare, confuso, o solo emergenziale dei fondi europei si tradurrebbe in una ennesima occasione sprecata per l’Italia; e avrebbe un contraccolpo letale per chi vuole riformare l’Unione, e ridurre il gap di fiducia tra i Paesi del nord e quelli del Sud, evitando che i primi tornino ai vecchi tempi e alla vecchia impostazione che finora ha bloccato il progresso europeo.

Roberta Carlini

- NEXT GENERATION EU: i due pilastri del finanziamento europeo.
ROCCA 1 OTTOBRE 2020

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RECOVERY FUND (O MEGLIO NEXT GENERATION EU): Spiega il perché dell’altra dizione Francesco Giavazzi sul Corriere: “Riforme di lungo periodo per costruire il futuro”. Denso ma utile da leggere l’articolo del ministro Enzo Amendola sui piani del governo: “L’Europa ci sostiene. Adesso le riforme non sono un’utopia” (Il Riformista). Un bell’articolo del prof. Amedeo Lepore sul Mattino: “Infrastrutture, la via sociale che porta allo sviluppo”

Che succede, cosa succederà?

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eu2020-deutschland-logo-700x513LA GERMANIA IN SELLA ALL’UNIONE E I COMPITI TEDESCHI DI CONTE
1 Luglio 2020 Su C3dem.
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MES. SE ADESSO IL GIOCO SI FA DURO
1 Luglio 2020 su C3dem.
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Oggi mercoledì 1° luglio 2020

sardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413filippo-figari-sardegna-industre-2senza-titolo1lampadadialadmicromicro13democraziaoggi-loghetto55aed52a-36f9-4c94-9310-f83709079d6dasvis-oghetto
—————————Opinioni, Commenti e “Riflessioni, Appuntamenti—————–
eu2020-deutschland-logo-700x513Oggi 1° luglio la Germania assume la presidenza semestrale dell’Unione Europea. Covid, Brexit e Cina. Ecco l’agenda della presidenza tedesca dell’Ue.
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I problemi dei Paesi dell’Est pesano sul futuro dell’Europa
1° Luglio 2020
Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi.
Claus OffE, uno dei più autorevoli ricercatori sociali d’ispirazione marxista della Germania contemporanea e studioso delle trasformazioni che hanno caratterizzato gli Stati dell’Est europeo con la transizione verso la democrazia, ha di recente pubblicato su “Il Mulino (n. 1/2020) l’articolo “I cantieri aperti dal 1989”. Nell’ articolo Offe analizza ciò che è accaduto […]
—————————Rileggiamoli——————————
stiglitz-riscrivere-l-economia-europeaAl capezzale dell’Europa
Su Micromega.
Joseph E. Stiglitz (a cura di), Riscrivere l’economia europea – le regole per il futuro dell’Unione, il Saggiatore, Milano 2020.
Manuel Castells (a cura di), Europe’s Crises, Polity Press, Cambridge 2018.
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verso-uneconomia-post-covid-per-il-bene-comune“Verso un’economia post-Covid per il bene comune”
Pubblicato il documento “Verso un’economia post-Covid per il bene comune”, proposta congiunta del movimento internazionale “Economy for the common good” che propone un modello socioeconomico sistemico e sostenibile, che si basi su valori fondamentali come la sostenibilità, l’inclusione sociale e la cooperazione.
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Europa, Europa

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UNIONE EUROPEA
una svolta storica

di Roberta Carlini, su Rocca.

Qualcuno ha scomodato Alexander Hamilton, il fondatore del bilancio federale statunitense, per segnalare il passaggio storico che l’Unione Europea ha compiuto nel pieno della crisi da Covid-19. La svolta è arrivata con il documento franco-tedesco nel quale l’asse che da sempre ha determinato le svolte (e, in negativo, i fallimenti) del processo di unificazione europea, ha dato il via a una possibilità nuova: quella per cui la Commissione europea, l’esecutivo di Bruxelles, può prendere denaro a prestito sui mercati e girarlo ai Paesi che ne hanno bisogno, cioè i più colpiti dalla pandemia e dalla successiva crisi economica. Quel documento, frutto di un accordo tra Macron e Merkel, è stato poi leggermente emendato ed è stato fatto proprio dalla presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, con la proposta intitolata Next Generation EU: se questa passerà la lunga e difficile fase di contrattazione politica che adesso si apre, i governi europei avranno a disposizione 500 miliardi di trasferimenti e altri 250 di nuovi prestiti. Questi vanno ad aggiungersi agli altri strumenti via via approvati da quando «il grande lockdown» (definizione del Fondo monetario internazionale) è iniziato.
Di questi si è già parlato su Rocca n.10: si chiamano «Sure», il piano per coprire gli ammortizzatori sociali per chi ha perso il lavoro; Mes, ossia il «vecchio» meccanismo europeo di stabilità sfrondato delle delle sue condizioni-capestro; più i prestiti della Banca europea degli investimenti, per assistere le piccole e medie imprese. In più, c’è la sospensione dei vincoli del Patto europeo di stabilità e crescita, per cui gli Stati possono a loro volta indebitarsi senza dover più rispettare i paletti posti dai trattati europei, quelli attorno ai quali si svolgevano le contrattazioni e i conflitti ogni autunno sulla manovra economica.
Tutti gli strumenti precedenti al Next generation EU, e che sono già operativi (se un governo vuole accedervi), prevedono in sostanza nuovo debito pubblico, ma fanno anche in modo che questo tipo di aiuto non si avviti in testacoda su se stesso: poiché questo succederebbe se l’aumento del debito per i Paesi già fortemente esposti come l’Italia comportasse una forte crescita dei tassi di interesse che il governo stesso deve pagare su quei debiti. Meccanismi finanziari come il Sure e il Mes servono a tenere bassi e uniformi i tassi; ma soprattutto a questa esigenza provvede l’altra arma sfoderata dall’eurozona all’inizio della crisi, attraverso la Bce. Dopo l’iniziale passo falso compiuto quando ha annunciato che «la Bce non è qui per tenere a bada gli spread», Christine Lagarde, presidente della Banca centrale europea, ha steso una rete di protezione diretta proprio a tenere a bada gli spread dalla speculazione. Una riedizione, molto rafforzata, del «bazooka» di Mario Draghi.

dal debito al trasferimento
Il salto di qualità della proposta della Commissione è nel passare dal debito ai trasferimenti. Ai Paesi come l’Italia – ma in realtà a tutti, dato che tutti avranno bisogno di aumentare l’intervento pubblico nell’economia – non è data solo la possibilità di farlo ricorrendo all’emissione di propri titoli, ma anche l’accesso a fondi trasferiti direttamente da Bruxelles: sarà l’Unione a indebitarsi per conto dei governi, godendo così di condizioni molto più favorevoli sui mercati e prevedendo emissioni di titoli che saranno ripagati solo tra molti anni (dal 2018 al 2058). Non solo: la ripartizione di questi fondi tra i Paesi seguirà il principio del bisogno e non quello del loro peso relativo. Dunque l’Italia avrà più di tutti – 82 miliardi. Come farà l’Europa a ripagare questo debito? Il piano prevede in parte che siano gli Stati, nel tempo, a finanziare il rimborso; e in altra parte che possa imporre proprie tasse per pagare il servizio del debito (gli interessi). Si tratterà di tasse che fanno pagare i giganti del web che per ora non pagano niente (la digital tax), di imposte sulle emissioni carboniche finalizzate a disincentivare le produzioni inquinanti, e di una tassa sulla plastica. È ancora troppo poco per scomodare la memoria di Hamilton, poiché la sua riforma pose davvero le basi di un bilancio federale, che vuol dire autonoma capacità impositiva e di spesa. Ma è molto, moltissimo, rispetto al pantano in cui l’Unione europea stava affogando, per incapacità di una politica economica comune, una moneta senza Stato. Adesso, abbiamo una politica della moneta più attenta ai bisogni degli Stati (sia pure senza dimenticare la sua missione che è quella della stabilità); e un embrione di politica fiscale, attraverso quella che di fatto è l’emissione di titoli del debito europeo – anche se guai a chiamarli «eurobond», questa parola fa venire il sangue agli occhi a molti nordici.
Se, nonostante l’opposizione dei suddetti nordici, la proposta della Commissione vedrà la luce, saremo alla prima manovra economica comunitaria. Motivata non da una conversione altruistica, ma dalla necessità di evitare il disastro nelle quali tutte le economie europee, fortemente interconnesse nelle produzioni e nei commerci, precipiterebbero di fronte a un crollo dell’economia di uno di essi. Se l’Italia, come si è ipotizzato, avrà 82 miliardi, vorrà dire che da Bruxelles ci arriverà una capacità di spesa pari al 4,5% del nostro prodotto lordo, ai quali dovrebbero aggiungersi circa 90 miliardi in nuovi prestiti, per un totale di 170 miliardi. Per fare un paragone, fino a pochi mesi i governi italiani erano costretti a elemosinare da Bruxelles scostamenti di bilancio dell’entità di decimali di Pil.

due sfide
Si aprono ora due sfide, una esterna e una interna. Quella esterna è nella tenuta del patto e nella conquista del consenso di tutti gli scettici, che siedono in molti governi ma soprattutto nelle opinioni pubbliche dei Paesi europei che hanno i bilanci in attivo o in pareggio e hanno un radicato pessimismo circa la capacità dei governi del Sud di imboccare sentieri virtuosi. È vero che c’è molto di macchiettistico e stereotipato in alcuni giudizi, e che tutti dovrebbero prendere atto del fatto che siamo di fronte a una crisi nuova ed enorme, che niente ha a che fare con vecchi vizi di «spesa facile» senza responsabilità. Ed è vero che, come si diceva prima, le economie di quei Paesi sarebbero a loro volta a rischio se anche stavolta, come nel 2008, l’Europa rispondesse senza coesione e senza politica comune a uno choc esterno. Ma è anche vero che quei pregiudizi hanno un fondo di realtà, ed è nei decenni nei quali la politica fiscale italiana ha speso senza investire, ha distribuito a pioggia senza curarsi della sostenibilità; non ha messo a posto un’evasione fiscale gigantesca, non ha inciso sulla bassa produttività, non ha affrontato i nodi strutturali della sua debole struttura industriale.
E qui viene la sfida interna: come spenderemo quei soldi? La Commissione europea ci chiede di farlo rilanciando l’economia. E scrive: «Rilanciare l’economia non vuol dire tornare allo status quo che c’era prima della crisi, ma lanciarsi in avanti», in particolare nella riconversione verde e nell’innovazione digitale. Il «green new deal», rimasto finora a livello di slogan, adesso trova finanziamenti e una lista di investimenti: infrastrutture ed edifici (in questo caso, per lo più ristrutturazione dell’esistente in senso ecologico); transizione a un’energia pulita, basata su fonti rinnovabili; trasporti e logistica; economia circolare. Il piano digitale invece prevede investimenti nelle reti, politica industriale per favorire grandi campioni tecnologici europei, intelligenza artificiale. Chiude il quadro la raccomandazione di «una crescita giusta e inclusiva per tutti», dunque l’uso e la riforma degli strumenti di protezione sociale.

scegliere
Siamo ancora ai titoli di testa. Ma potrebbero bastare per evitare la riedizione dei vecchi film, ossia un generale assalto alla diligenza della spesa pubblica. La vera novità sarebbe nel decidere la strategia e selezionare le aree di intervento. Scegliere. Cosa non fatta nel passato, e purtroppo non fatta neanche nei decreti dell’emergenza Covid. È giusto che all’inizio si sia dato a tutti, anche per accelerare le pratiche (purtroppo senza riuscirci) e coprire il più possibile. Sul terreno dell’assistenza, la priorità è raggiungere chi ha più bisogno – e non è successo, dato che si è dovuto aspettare settimane per pensare alle lavoratrici e ai lavoratori domestici, e i precari con contratti a tempo determinato scaduti sono ancora in gran parte esclusi dai sussidi. Ma soprattutto, con il decreto rilancio si è dato uno sgravio fiscale sull’Irap a tutte le imprese, che fossero nei settori colpiti dalle chiusure o no. E il ministro dell’economia Gualtieri ha annunciato come sua strategia una generalizzata riduzione delle tasse sui redditi medio-bassi, che certo sarebbe molto gradita e fruttuosa in termini di consenso, ma è il contrario di una politica selettiva e di investimenti diretti. Stavolta le condizioni poste dall’Europa – «lanciarsi in avanti» – possono aiutarci. Seguirle aiuterebbe anche i nostri negoziatori a convincere il resto d’Europa che siamo davvero a una «Next generation». Ci sarà il coraggio politico di farlo?
Roberta Carlini
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Gli europeisti di fronte a ciò che resta del disegno europeo
di Gianfranco Sabattini, su il manifesto sardo.

E’ ancora diffusa l’idea che la realizzazione dell’Unione europea sia il più rilevante evento del mondo occidentale dal dopoguerra ad oggi; ciò, per diverse ragioni, quali in particolare, il superamento della rivalità tra i Paesi membri, la libera circolazione dei cittadini europei, il rispetto delle diversità culturali, la cooperazione con gli Stati non comunitari, il progressivo equilibrio tra competenze comunitarie e sovranità di nazioni, il metodo democratico seguito per mediare tra i diversi punti di vista ed altro ancora.
L’insieme di tali ragioni è ancora sufficiente per convincere la maggioranza dei cittadini europei che, per affrontare il futuro, sia preferibile rimanere nell’Unione, nonostante le difficoltà che si oppongono alla prosecuzione del processo di integrazione politica, ormai fermo da lungo tempo. Attualmente, quindi, anche se sono aumentati coloro che ripongono fiducia sulle soluzioni nazionali, la maggioranza dei cittadini europei è del parere che ritirarsi dal percorso comune sarebbe di grave pregiudizio al futuro del Continente e dei singoli Stati membri.
Tuttavia, il progetto europeo sta attraversando una grave crisi di fiducia. L’esito del referendum britannico sulla Brexit e la diffusione di movimenti antieuropei indicano che il disgregarsi del progetto comune è uno scenario ormai possibile, proprio in un momento come quello attuale, in cui maggiore è l’avvertimento che sarebbe necessario avere più Europa come scala minima per poter contare sulla scena internazionale e dare risposte concrete ed efficienti ai problemi più sentiti dai cittadini.
Il possibile rilancio del processo di integrazione è oggi frustrato dal fatto che le due “famiglie politiche” che hanno sinora gestito il processo, i cristiano-sociali e i socialdemocratici, sono fortemente indebolite, poiché con la crisi del 2007-2008 sono comparsi i movimenti populisti che, sebbene siano al potere solo in alcuni dei Paesi membri, sono in grado di condizionare l’azione dei singoli governi, divenuti fragili per via dell’indebolimento dei partiti tradizionali.
Inoltre – afferma Yves Mény, in “Per l’Europa è ora di essere radicali” (Il Mulino, n. 1/2019) – i Paesi membri dell’Unione sono divisi in sottogruppi, “ma anche in ‘club’ spesso antagonisti (Lega anseatica, Gruppo di Visegrad, Coppia franco-tedesca, tentativi populisti di costruire una ‘lega’ di eurocritici, ecc.). Gli Stati Uniti, la Russia, la Cina, dal canto loro – secondo Mény – lo hanno capito così bene che stanno “soffiando sulla brace, cercando di sfruttare al meglio i divari che si sono allargati tra ‘amici’”. E’ perciò un eufemismo – continua Mény – dire che l’Europa “sta andando male”, sia nel suo insieme (Unione Europea), che con riferimento ai singoli Stati membri. Non c’è Paese europeo che sia libero da difficoltà che minano le sue fondamenta, perfino “là dove tutto sembra andare per il meglio sul fronte economico, come in Germania, in Svezia, in Olanda o in Danimarca”.
I Paesi membri dell’Est dell’Europa, pur godendo di una crescita stabile, tendono tutti a non “soddisfare gli ideali di ‘buon governo’”, mostrando spesso di non aver compiuto una vera transizione democratica, lasciandosi alle spalle i vecchi regimi. Al Nord, le democrazie scandinave, per tanti anni considerate modelli da imitare, sono agitate dalle pretese dei movimenti populisti e sciovinisti. Nella parte occidentale del Vecchio Continente, il Regno Unito ha deciso di abbandonare l’Europa; una scelta destinata a pesare non solo sulla Gran Bretagna, ma anche sulle due Irlande. Dal canto suo, anche la Francia, pur non essendo governata da movimenti populisti, è agitata al suo interno da profondi contrasti che stanno rendendo la sua coesione sociale “tanto fragile quanto esplosiva”. Infine, la Spagna si trova anch’essa in una situazione controversa, caratterizzata da proteste sociali e dal problema catalano, di difficile soluzione, mentre solo il Portogallo, dopo un lungo periodo di austerità, sembra inserito in una prospettiva di crescita, essendosi sottratto al “virus populista”.
Al centro dell’Europa, la Germania – sostiene Mény – ha riscoperto “con sgomento che i vecchi demoni del passato non sono stati sconfitti del tutto e che, nonostante la sua invidiabile prosperità economica, gli antagonismi, gli odi e le divisioni sociali sono profondi all’interno dei suoi confini e ben visibili all’esterno”. Il Sud dell’Europa non fa eccezione rispetto alla altre grandi circoscrizioni geografiche dell’Unione Europea: l’Italia è da tempo retta da governi deboli e instabili, alle prese con un debito pubblico consolidato alle stelle, con un livello inadeguato di investimenti e con la paralisi delle riforme strutturali; l’Austria condivide la prosperità economica del Paese vicino del Nord, ma soffre della svolta a destra populista e xenofoba del Pese vicino del Sud; la Bulgaria e la Romania soffrono di una corruzione diffusa e del fatto che gli ex partiti comunisti “sono riusciti a qualificarsi e a controllare il potere in altre vesti”; Malta e Cipro si sono trasformati in paradisi fiscali e in centri di riciclaggio di “denaro sporco, mentre la Grecia, dopo un decennio di austerità, stenta ancora ad uscire definitivamente dal “tunnel” della grave crisi nella quale era caduta.
La situazione dell’Unione europea non è migliore se valutata dal punto di vista delle sue Istituzioni. Molti Paesi, ad esempio, membri sono in una situazione di opposizione radicale nei confronti della Commissione; fatto, questo, che rende difficile l’accettazione delle sue proposte di riforma e di adeguamento delle politiche nazionali. Si tratta di una situazione che ha solo favorito – a parere di Mény – il consolidarsi di una situazione paradossale, caratterizzata dalla formazione di due poli: da un lato, il polo del “potere economico”, che cerca di sfuggire ad ogni forma di controllo politico; dall’altro lato, il polo dei “governi democratici”, sempre più sottomessi a pressioni pubbliche che li rendono incapaci di risolvere i problemi che i cittadini chiedono che siano affrontare. L’Europa è così stretta nell’”occhio del ciclone”, sia nelle sue componenti che nel suo insieme, perché i suoi strumenti di governo “sono inadeguati al centro e impotenti alla periferia”.
La situazione è resa ancora più negativa sul piano del rilancio del processo di integrazione dalla mancanza di autorevoli leader; prevalgono così singoli gruppi di europeisti, ma le loro proposte, poco partecipate e prive di autorevolezza, risultano inappropriate, anche perché avanzate in un contesto dove è del tutto impossibile mobilitare un’opinione pubblica stanca di sentirsi rispondere che la soluzione dei problemi è solo possibile sulla base di compromessi e di “aggiustamenti incrementali”.
Perché la maturazione di questa situazione di stallo? Per una robusta schiera di osservatori, la risposta è da rinvenirsi nella firma del Trattato di Maastricht, che è stato il risultato di un compromesso finalizzato a contenere il crescente “peso” politico ed economico della Germania, attraverso la costituzione di un mercato comune interno, cui avrebbero dovuto far seguito la ripresa del processo di unificazione politica del Vecchio Continente su basi federaliste e la conduzione di una politica di difesa ed estera comune. A parte la costituzione del mercato interno, le spinte federaliste e quelle per una difesa e una politica estera comuni, all’epoca appoggiate anche dalla Germania, sono state fortemente ridimensionate su pressione di alcuni importanti Stati membri, quali il Regno Unito, l’Olanda e i Paesi scandinavi.
L’Unione Europea è venuta a così a caratterizzarsi solo sul piano dell’integrazione economica e finanziaria, dando vita a un mercato comune in cui è stata realizzata piena libertà di circolazione dei beni e dei capitali, rafforzato dalla creazione di una Banca Centrale e di una moneta comune. Secondo le idee neoliberiste del tempo, le regole di funzionamento del mercato interno dovevano essere quelle della libera concorrenza, con l’esclusione di qualsiasi possibilità di un intervento degli Stati a favore delle proprie imprese; un tal modo, nel rilancio del processo di unificazione degli Stati europei è stata privilegiata la competizione, non la solidarietà. [segue]

Europa, Europa

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L’Europa è una sola, non è quella dei nostri sogni
di Fernando Codonesu*

Se è vero che in questi ultimi tre mesi vi sono stati importanti piccoli passi avanti dell’Europa che, messi insieme come dice Franco Ventroni (http://www.democraziaoggi.it/?p=6530; www.manifestosardo.org/leuropa-che-vogliamo-un-piccolo-passo-in-avanti), fanno segnare una vera svolta della politica dell’istituzione comunitaria di fronte ai problemi sanitari, economici e finanziari generati dalla pandemia da COVID-19 in tutta l’area europea, è per me anche condivisibile la posizione più cauta, direi laica e disincantata, con un pizzico di sana diffidenza che non guasta, sostenuta da Roberto Mirasola (www.manifestosardo.org/prospettive-pericolose). Altra è la posizione di chi intende lavorare per un’altra Europa tutta da inventare e da costruire, una posizione così idealistica, marginale e iperminoritaria, fatta propria da certa sinistra fuori dal principio di realtà, su cui non intendo soffermarmi in questa sede.
In sostanza, dal mio punto di vista, le due posizioni di Ventroni e Mirasola riflettono due angolazioni complementari e chi fa politica le deve seguire entrambe, perché la partita che si gioca sul campo europeo è quella che va giocata fino all’ultimo minuto e si vince solo se si sanno creare alleanze politiche e culturali tali da dispiegare rapporti di forza complessivamente più favorevoli alla causa italiana e a quella dei paesi maggiormente indebitati.
Quello che abbiamo di fronte è un cammino così irto di difficoltà e di pericoli che richiede nervi saldi, determinazione e un quadro politico nazionale molto più coeso di quello che vediamo tutti i giorni per delineare un programma di “ricostruzione” che abbia qualche possibilità di successo.
Il quadro economico e politico nazionale e internazionale ha visto negli ultimi due mesi oltre 4 miliardi di persone in lockdown, un fatto mai successo nella storia, con tutto quel che ne consegue: con la sola esclusione della Cina il cui PIL per il 2020 è atteso a +1%, in tutto il resto del mondo si registra una grave recessione, con punte di vera e propria depressione economica per alcuni paesi che durerà nel tempo.
Possiamo affermare che la crisi dovuta alla pandemia da COVID-19 è molto più devastante di quella di origine finanziaria del 2007/8. Al riguardo, oggi negli USA sono stati diffusi i dati sull’occupazione del settore privato che nel solo mese di aprile ha avuto una perdita di 20,2 milioni di posti di lavoro mentre nel mese di febbraio del 2009, per fare un raffronto significativo, erano venuti a mancare 835.000 posti di lavoro!
Nel 2019, dopo 12 anni dalla crisi finanziaria e poi economica del 2007/8, il PIL del nostro paese presentava ancora un differenziale di sei punti percentuali in meno rispetto ai dati pre crisi, con un miliardo di ore lavorate in meno pur in presenza di un numero di occupati leggermente superiore al dato del 2008. Mantenendo gli stessi parametri operativi nell’andamento dell’economia nel decennio 2010/2019, peraltro non dissimile da ciò che abbiamo visto almeno a partire dai primi anni ’90 del secolo scorso, e considerando le capacità di reazione e di organizzazione del lavoro italiano già ampiamente verificate in questo periodo storico, è facile prevedere che per riprenderci dal colpo inferto dalla pandemia del coronavirus alla nostra economia ci sarà bisogno di uno sforzo senza pari per almeno 20/25 anni: forse di più, sicuramente non meno!
Insomma, una generazione, forse una generazione e mezza per riprenderci e ritornare al livello attuale, ma continuerebbe purtroppo a permanere quel differenziale del 6% in meno mai colmato rispetto al PIL italiano prima del 2008.
Una brutta prospettiva, mi pare.
A questo punto la discussione tutta italiana sui risultati dell’eurogruppo e la validità degli strumenti in campo come il MES, gli eurobond, il recovery fund, il ruolo della BCE vanno inquadrati in questo quadro generale e non avendo a riferimento i nostri soliti confini nazionali e, tanto meno, le beghe quotidiane di alcune forze politiche nostrane per qualche potenziale voto in più da raccattare nei sondaggi.
Parafrasando qualcuno si può dire molta, troppa confusione sotto il cielo, solo che la situazione non è “eccellente”, ma pessima da qualunque parte la si guardi.
Il quadro appena delineato è ancora più fosco se si ragiona sui dati appena esposti dalla Commissione europea sulla recessione di tutta l’Europa, con l’atteso calo del PIL più pesante per il trio di coda Spagna (-9.4%), Italia (-9.5%) e Grecia (-9.7%).
Per noi si profila un debito al 155% del PIL, ma più probabilmente è destinato ad aumentare di almeno altri 10-15 punti: un disastro, specialmente se venisse a mancare l’ombrello della BCE.
In questo quadro già difficile e molto problematico di per sé si è abbattuta la sentenza della corte costituzionale della Germania che, comunque la si veda e nonostante il parere rassicurante del Presidente del Consiglio Conte che nell’intervista concessa al Fatto quotidiano ha rimarcato che la legislazione europea, e quindi le decisioni assunte dalla BCE riguardanti il QE (Quantitative Easing, acquisto dei titoli di stato dei vari paesi, a partire da quelli con maggiori sofferenze a causa dell’altro debito pubblico), è prevalente rispetto alle sentenze di qualunque Corte costituzionale degli Stati aderenti, costituisce un ulteriore grave colpo alla costruzione dell’Europa di cui mette a nudo per lo meno la farraginosità dei suoi meccanismi decisionali.
L’ulteriore stallo è evidente se si pensa che la Bundesbank è tenuta “contemporaneamente” a rispettare le decisioni della BCE e quelle della propria Corte costituzionale. A me sembra evidente che in caso di decisione conflittuale come il concorso ai prossimi acquisti dei Bond degli Stati indebitati la posizione interna tedesca per il NO, diverrà prevalente e l’eventuale decisione di altri acquisti da parte della BCE, in qualunque forma, sotto l’ombrello del QE diverrà alla lunga insostenibile.
Non bastasse tutto questo, pare che ci siano all’orizzonte anche alcune condizionalità sul MES dedicato agli aspetti sanitari del COVID-19, volute dalla solita Olanda che, anche in questo caso, pare agisca sotto dettatura in lingua tedesca.
Pur apprezzando i piccoli passi positivi evidenziati da Ventroni nei suoi interventi, in questo quadro allora meglio, molto meglio un atteggiamento guardingo e disincantato, perché in economia come nella politica, a qualunque livello, le decisioni vengono assunte sulla base dei rapporti di forza e queste sono ancorate a precisi filoni culturali e, aggiungerei, religiosi con radici secolari ampiamente note.
In questa Europa caratterizzata in politica estera dalla Francia e nella politica economica e fiscale dall’interesse prevalente della Germania, ora che sembra finalmente definito il ruolo ambiguo svolto dalla Gran Bretagna con la decisione sulla Brexit, per certi aspetti continuano ad essere presenti nella politica europea atteggiamenti ereditati da quelle che furono note come guerre di religione di altre epoche storiche, purtroppo mai del tutto accantonate e superate.
Gratta, gratta, infatti, al fondo dei due diversi approcci ai problemi dell’Europa vi sono due visioni culturali (quasi tre fino a tutto il 2019 se si tiene conto della Gran Bretagna) che hanno un fondo religioso.
A proposito del rigore dei paesi del Nord Europa si dice infatti che si tratti di un approccio da formiche laboriose, di contro ai paesi latini, gli spendaccioni, che vengono continuamente accomunati alle cicale canterine.
Ma è proprio così?
Se diamo dei nomi e cognomi alle “formiche”, ovvero Germania, Olanda, Svezia, Finlandia e Austria, è facile osservare che si tratta di culture che hanno come riferimento Lutero e Calvino e, al riguardo, per comprendere appieno la valenza del protestantesimo quale fondamento del capitalismo moderno si rimanda alla lucida e profonda analisi svolta da Max Weber nel libro “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”.
In buona sostanza già con Lutero, e quindi con Calvino, la povertà francescana come via per la testimonianza di Dio è stata espunta dal credo di fondo degli aderenti alla chiesa riformata a vantaggio dell’etica del lavoro e dell’accumulazione della ricchezza sulla terra.
Già per Lutero la concezione del sacro si era spostata dall’abito monacale all’abito civile, per esigenza di sintesi si può dire che il principio cardine benedettino “ora et labora” che rappresentava l’essenza del monachesimo, veniva spostato nel tempo di tutti i giorni e nella costruzione del lavoro: è il lavoro che costituisce l’aspetto sacrale, tanto più alto quanto più consente il successo e la ricchezza.
Per i calvinisti, il lavoro rappresenta un’evidenza etica e il profitto, lungi dal rappresentare come proposto da Marx il frutto dello sfruttamento della classe lavoratrice, diventa lo scopo della vita perché il guadagno è il risultato dell’abilità individuale. Quando poi la concentrazione e l’accumulazione del capitale in poche mani diventa così enorme da far gridare alcuni allo scandalo della disuguaglianza quale manifestazione diabolica dell’ingiustizia sociale, per queste culture non c’è nessun problema, neanche di coscienza, in quanto si tratta di un risultato delle capacità individuali che viene premiato da Dio.
A differenza dell’insegnamento cattolico per cui è più facile che un cammello passi nella cruna di un ago piuttosto che un ricco entri nel regno dei cieli, qui non è così. I ricchi sono i predestinati, hanno già tracciato la propria autostrada per il paradiso grazie alla ricchezza accumulata con il proprio lavoro: il profitto è professione, la professione è il profitto, il profitto è sacro e benedetto da Dio: è la via maestra per il paradiso.
Nessuno sfruttamento e nessun ripensamento: tutt’al più c’è lo spazio per un po’ di “carità pelosa” nei confronti dei più diseredati possibilmente per farne cassa di risonanza mediatica ed aumentare ancora di più la possibilità di accrescimento della propria ricchezza agli occhi del proprio Dio.
Credo che dobbiamo ricordare sempre che queste sono le cosiddette formiche dei paesi del nord Europa e da qui deriva il comportamento di fondo sul rigore dei conti che viene preteso anche per gli altri paesi europei, anche di altre religioni e ancor di più nei confronti dei laici e dei non credenti: è una cultura e non un atteggiamento estemporaneo o il frutto avvelenato della costruzione europea.
E l’Europa è quella che è, quella che vediamo tutti i giorni, non quella dei nostri sogni o quella pensata dai padri fondatori.
Se l’euroscetticismo avanza e il sogno dell’Europa viene meno in larga parte dell’elettorato europeo, come non ricordare che questo è tutto da addebitare alle scelte politiche compiute dai singoli stati a cominciare da chi ha boicottato i referendum nazionali indetti per l’approvazione del progetto di costituzione europea nel 2005. Sul punto giova riportare alcune date di cronaca diventata storia.
In data 29 ottobre 2004 a Roma veniva firmata solennemente la Costituzione europea. Dopo nemmeno un anno, tra maggio e giugno del 2005, i francesi e gli olandesi bocciarono quell’idea poco amata e al seppellimento definitivo provvidero britannici, polacchi e danesi sospendendo i loro referendum e rendendone così impossibile la ratifica.
Il tradimento della Costituzione, però, nasce ancora prima e parte dal momento in cui si forza la mano nel voler definire come Costituzione un progetto di riforma e di semplificazione dei trattati in vigore senza un reale processo costituente.

Un processo costituente infatti implicherebbe una rifondazione di sovranità e di legittimità democratica, con un popolo che si sente prima europeo e si dà una specifica cittadinanza per questo: prima europei e poi italiani, francesi, olandesi, tedeschi, ecc.
Già nel 2001, quando si avviarono i lavori per il progetto di Costituzione europea non c’era niente di tutto questo: nei governi dei singoli Stati non vi era posto per alcuna delega di sovranità o cessione di legittimità.
In quel caso, 15 anni fa, abbiamo avuto la convergenza di interessi di fatto delle tre grandi religioni cristiane (protestanti luterani-calvinisti, protestanti anglicani e cattolici dopo l’inutile battaglia fatta da papa Wojtyla per l’inserimento delle radici cristiane nel preambolo della Carta in approvazione e non approvato da Giscard D’Estaing che presiedeva il gruppo di estensori della Carta). La mancata approvazione è costata molto a larghe parti dei popoli europei che in quel progetto avevano creduto e su cui avevano riposto grandi speranze, non certo alle élite degli Stati che hanno portato avanti il boicottaggio sistematico dell’idea di cittadinanza europea e della conseguente necessità di una specifica Costituzione, quale preludio per la costruzione degli Stati Uniti d’Europa.
Certo oggi abbiamo una generazione Erasmus e ci sono e ci saranno i figli di questa generazione: su di loro va riposta la speranza per i cittadini europei di domani e non più dei singoli Stati, ma questo è di là da venire.
Nel momento in cui il progetto di costituzione abortì dopo il primo voto contrario dell’Olanda (guarda caso!) e della Francia che intendeva probabilmente anche impedire che l’ex presidente Giscard passasse alla storia, si trovano le radici dell’euroscetticismo e del populismo che oggi caratterizza larga parte dell’elettorato europeo e questo impone a quei romantici sognatori che continuano a credere nella necessità dell’Europa di aprire gli occhi e attrezzarsi con gli occhiali della realtà alla luce del sole per trasformare quel sogno in un progetto reale. Un progetto che per andare avanti ha bisogno di militanti che apprezzino i piccoli passi positivi dei tavoli decisori come sottolinea Franco Ventroni, anche sognatori perché senza sogno non c’è vita, ma al contempo guardinghi, disincantati e con un pizzico di diffidenza che non guasta, come suggerisce tra le righe Roberto Mirasola.
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*L’articolo di Fernando Codonesu che proponiamo alle nostre lettrici e ai nostri lettori è il settimo contributo condiviso dalle redazioni de il manifesto sardo, Democraziaoggi e aladinpensiero, nell’ambito dell’impegno comune che qui si richiama.
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Immagine in testa (completo) e in fondo (dettaglio): “Il rapimento d’Europa”, Noël-Nicolas Coypel, 1726-1727