Risultato della ricerca: acceSSO CIVICO
Oggi giovedì 18 gennaio 2024
Armi italiane a Israele dopo il 7 ottobre: il governo non è trasparente
18 Gennaio 2024 su Democraziaoggi
Duccio Facchini – Altraeconomia
L’Autorità Uama presso il ministero degli Esteri nega ad Altreconomia l’accesso civico alle informazioni sull’export effettivo dall’inizio dei bombardamenti su Gaza. Tra le “ragioni” opposte il “nocumento al sistema di difesa nazionale” e la tutela della “confidenzialità” con Tel Aviv. Una tesi che contraddice le uscite del ministro Crosetto
Il governo italiano si […]
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Riflessioni odierne e “antiche”
Dal Blog di Enzo Bianchi
Fondatore della comunità di Bose
Il senso di responsabilità
L’involgarimento del gusto, l’imbarbarimento dei modi, la mediocrità e la rozzezza pervadono ogni ambiente della nostra società
La Repubblica – 03 Ottobre 2022
di Enzo Bianchi
L’emergenza dovuta alla pandemia che ha ristretto il campo della nostra osservazione, la preoccupazione per la guerra ai confini dell’Europa – una guerra tra Russia e Occidente, come si è subito rivelata –, le difficoltà dovute alla recessione economica che stiamo attraversando, ci hanno impedito di leggere ciò che stiamo vivendo nel quotidiano a livello individuale e sociale. Ma se si cerca di farne una lettura formulandone un giudizio ci rendiamo subito conto che l’involgarimento del gusto, l’imbarbarimento dei modi, la mediocrità e la rozzezza (quest’ultima chiamata da Robert Musil “prassi della stupidità”) pervadono ogni ambiente della nostra società. Il clima in cui viviamo è ormai per molti di noi un’insostenibile pesantezza, perché deteriora e compromette la qualità della vita personale e collettiva, l’“io” e il “noi”. A questo appiattimento acritico su modelli spesso importati, a una cultura segnata da competitività, aggressività, negazione del diverso, sembra non sia possibile reagire efficacemente in campo educativo, per cui l’involgarimento è dilagante.
Sappiamo tutti elencare le crisi che stiamo attraversando, ma forse alla radice di molte di queste dovremmo riconoscerne una: la crisi del senso di responsabilità. Essere responsabili significa tenere costantemente presente il volto dell’altro, degli altri, perché il volto sempre si volge a me con una domanda, un’attesa, la richiesta implicita di una risposta che è la prima forma di responsabilità.
Ma per arrivare a possedere il senso di responsabilità certamente occorre resistere all’esproprio dell’interiorità, tentata dalla dominante colonizzazione della cultura di massa, sempre più tecnicizzata. Senza una vita interiore in cui possano sorgere le domande, riesca trovare spazio la critica, si possa misurare la capacità di resistenza, chi mai potrà tentare vie di libertà? Anche l’educazione, la trasmissione del sapere, come potrebbero avvenire in modo efficace e fecondo senza la formazione dello spirito o della vita interiore?
Troppo scarsa è l’attenzione che si dedica alla preparazione alla vita, alla formazione del carattere, all’esercizio del pensare e del discernere, e va anche denunciato come sia mancata una trasmissione da parte di quelli che dovevano essere “trasfusori di memoria”. Abbiamo avuto invece dei rottamatori che ci hanno lasciato solo rovine, e ora il panorama si presenta desertificato, senza più qualcuno che viva la passione per un compito, una missione.
È soprattutto nella vita della polis che si mostra il senso di responsabilità che impedisce il regnare della demissione. Sì, la demissione di fatto non può essere chiamata con altro nome che con quello di “stupidità”. Scrive Dietrich Bonhoeffer nelle lettere dal carcere: “Per il bene la stupidità è un nemico più pericoloso della malvagità. Contro il male è possibile protestare, ci si può compromettere, in caso di necessità ci si può opporre con la forza… ma contro la stupidità non abbiamo difese … in determinate circostanze gli uomini vengono resi stupidi, o si lasciano rendere tali. Il potere di alcuni richiede la stupidità degli altri”.
Parole che dicono l’urgenza di opporre resistenza, di impegnarsi in una vita interiore, per essere dotati del senso di responsabilità.
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Beni comuni e amministrazione condivisa • Il punto di Labsus
L’Amministrazione condivisa per sostenere la nostra febbricitante democrazia
Proposte per forme innovative di impegno politico capaci di recuperare gli spazi (perduti) della democrazia
di Pasquale Bonasora su Labsus
4 Ottobre 2022
«Quel giorno non comprendevo fino in fondo l’importanza di quello che stava succedendo, anche se ero molto fiera di recarmi alle urne. Con gli anni ho compreso meglio. Oggi sono orgogliosa di poterlo raccontare ai miei figli e nipoti. È stato un traguardo importantissimo per le donne e la democrazia in generale». Sono parole che raccontano un giorno storico, quello del 2 giugno 1946. Sono parole che raccontano le emozioni di Francesca Costella, tra le prime donne in Italia ad aver esercitato il diritto di voto.
Il primo partito italiano
La realtà oggi sembra molto diversa e decisamente meno entusiasmante. Quello dell’astensione è il primo partito in Italia e mentre, con ogni probabilità, avremo per la prima volta una donna alla guida del Governo, il livello della partecipazione al voto si abbassa sempre più. Il dato dell’astensione, del resto, sembra non preoccupi abbastanza i protagonisti della vita politica. È un tema buono per la prima dichiarazione a urne appena chiuse, quando ancora non ci si può sbilanciare sui risultati elettorali, ma sembra già dimenticato il giorno dopo le elezioni.
Innanzitutto, cambiare la legge elettorale
La percentuale dei cittadini che non è andata a votare alle politiche del 1983 era dell’11,99% (la prima volta con numeri in doppia cifra), nell’ultima tornata elettorale ha raggiunto il 36,09%. In soli cinque anni, dal 2018 ad oggi, quasi il 10% in più. Un lento inesorabile declino della voglia di partecipare attraverso l’esercizio del diritto di voto da parte degli italiani. Qualcosa nei sistemi politici attuali sembra non funzionare più vista la difficoltà delle forze politiche tradizionali a raccogliere consenso e governare. Tra le cause che alimentano la disaffezione al voto non sembra trovare riscontro nella classe politica quella di una legge elettorale che da tempo ha sottratto agli elettori il diritto di scelta dei propri rappresentanti, indicati dalle segreterie di partito e molto spesso catapultati in territori che non conoscono e scelti in base a più o meno attendibili garanzie di “obbedienza” al capo politico.
Una lettura semplicistica dell’astensionismo
Nessun riferimento alle criticità dell’attuale sistema elettorale lo si trova nemmeno nel Libro bianco per la partecipazione dei cittadini al voto promosso dal Ministero per i rapporti con il Parlamento, pubblicato nell’aprile di quest’anno, dove però troviamo una sorprendente definizione dell’astensionismo di protesta inteso come «quelli che possiamo considerare gli alienati che vanno da coloro che dissentono esplicitamente dalle politiche governative, a quelli che contestano la classe politica con posizioni chiaramente anti-establishment, a quelli che non hanno fiducia nel metodo (elettorale) democratico, a quelli con posizioni radicali, anche neo-autoritarie». Mi sembra una lettura semplicistica e per certi versi autoassolvente di un sistema che forse dovrebbe porsi come obiettivo quello di contrastare soprattutto le diseguaglianze crescenti nel mondo come nel nostro Paese.
I poveri non sono interessati a votare
Del resto, alcune interessanti letture mostrano un evidente collegamento tra le aree più povere e depresse e quelle con la maggiore astensione dal voto, quasi sovrapponibili. Significa che chi vive quotidianamente la precarietà, la mancanza di risorse, l’assenza di speranze non ha più riferimenti e crede sempre meno nella democrazia come processo che garantisca il benessere e la felicità di ciascuno e non di un numero sempre più ristretto di privilegiati.
Nuovi spazi per l’esercizio della democrazia
È un tema che riguarda tutti, da destra a sinistra. La verità, forse, sta nella necessità di recuperare gli spazi della democrazia in un processo che non può dirsi mai compiuto e leggere e sostenere quello che di nuovo sta nascendo, in forme diverse dal passato, ma con la capacità di definire identità nuove, mobilitare energie per la tutela di interessi generali, riconoscersi in principi e valori condivisi. Le tradizionali forme di partecipazione politica, invece, vivono ormai da tempo un processo di trasformazione e mutamento, nate per ricoprire innanzitutto una funzione di integrazione sociale e aggregazione delle domande a cui dare risposte attraverso la rappresentanza politica, per sopravvivere nel mercato elettorale puntano sempre più sulla personalizzazione e sul ricorso agli strumenti tipici delle strategie commerciali.
Saper riconoscere i nuovi soggetti diffusi, per dare loro fiducia
La ricerca spasmodica del consenso impedisce, non sempre ma spesso, di riconoscere tanti soggetti diffusi, apparentemente deboli ma molto radicati sul territorio, che stanno ridefinendo i confini dell’agire pubblico. Sono quei cittadini, organizzazioni collettive, gruppi informali, associazioni riconosciute e legittimate dal principio di sussidiarietà orizzontale. Tocca alle istituzioni “favorire” l’autonoma iniziativa dei cittadini ma, senza dimenticare l’impegno e l’abnegazione di tanti, soprattutto amministratori locali tecnici e politici, siamo ancora lontani dal significato che la costituzione all’articolo 118, IV comma attribuisce a quel “favoriscono”.
Sembra prevalere ancora l’idea che le esperienze di Amministrazione condivisa attraverso la cura dei beni comuni, sempre più diffuse in tutto il Paese, siano certamente positive ma sostanzialmente amatoriali. Buone per alimentare il senso civico dei cittadini ma senza quella capacità di incidere sui grandi problemi del nostro tempo, primo fra tutti quello delle disuguaglianze. Utili, forse, per migliorare la fruizione di alcuni beni, ma ancora poco efficaci nel migliorare la qualità della vita nei territori. È necessario, allora, che le istituzioni pongano maggiore fiducia in queste esperienze e nelle forme di gestione dei beni comuni che solo l’Amministrazione condivisa è capace di promuovere.
Una gestione condivisa anche di servizi di interesse comune
Quanto è lunga la lista degli spazi dimenticati delle nostre città? Aree dismesse, cinema abbandonati, scuole chiuse, edifici pubblici e privati inutilizzati tutti in attesa di una nuova identità che potrebbe trasformarli da costo a investimento per l’amministrazione pubblica. Non solo, oggi si è fatta strada la possibilità che sia possibile attivare la gestione condivisa anche di servizi di interesse comune che mettono al centro la persona affinché possa sentirsi parte integrante di una comunità in un percorso centrato intorno alla pratica quotidiana della cura. È necessario superare l’idea che solo la gestione pubblica sia in grado di garantire l’accesso a beni e diritti fondamentali, a favore di modelli e forme di gestione condivisa e partecipata da parte dei cittadini.
Proposte per forme innovative di impegno politico
La stessa Corte costituzionale nella pronuncia 131/20 ha definito l’Amministrazione condivisa come «un canale alternativo a quello del profitto e del mercato», è un riconoscimento che la politica deve saper cogliere e fare proprio, c’è bisogno di trovare strade nuove per superare l’insofferenza crescente rispetto alle forme della democrazia. Forme innovative di impegno politico che interpretano in chiave contemporanea il diritto di ogni cittadino di «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (art. 49 Costituzione), oggi passano dalla capacità di riconoscere alcuni elementi essenziali, non solo di natura tecnica e amministrativa, dei processi di Amministrazione condivisa:
sono centrati sulle persone e sulla cura del pianeta. I beni comuni sono al tempo stesso locali e globali ma solo chi vive nel territorio dove quel bene si trova può concretamente prendersene cura per consentire a tutti gli altri esseri umani presenti e futuri di goderne i benefici;
hanno la capacità di valorizzare i processi dalla piccola alla grande scala. Nello spazio, dall’effetto della singola azione di cura alla visione generale di impatto sostenibile e nel tempo, dal presente al futuro;
alimentano la creatività e lo scambio di idee facendo emergere nuove prospettive;
sono orientati all’inclusione e alla condivisione delle differenze riconoscendo l’interdipendenza tra le generazioni e le culture;
sono circolari e generativi perché liberano le risorse esistenti – fisiche e sociali – per nutrirle e farle crescere.
L’azione sussidiaria dei cittadini, dunque, ha una sua dimensione politica capace di produrre e alimentare quelle risorse di socialità indispensabili per sostenere la nostra febbricitante democrazia.
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La fatica e il coraggio di essere uomini.
di Salvatore Loi, Guamaggiore 1971.
Mi hanno sempre colpito due frasi del Vangelo: una è di San Luca “ma il Figlio dell’uomo, alla sua venuta, troverà forse la Fede sulla terra?” (Lc. 18,8) e l’altra è di San Matteo “per il moltiplicarsi dell’iniquità si raffredderà la carità di molti” (Mt. 24,12).
A pensar bene sono due frasi drammatiche: sembra che Gesù veda con amarezza tempi in cui fede e amore entreranno in agonia. E l’agonia della fede e dell’amore coincide con l’agonia di Dio nel mondo, ma anche con l’agonia dell’uomo.
Forse oggi essere uomini significa vivere accettando la terrificante condizione umana senza lasciarsene vincere.
Se abituassimo i nostri occhi a superare le barriere dell’apparenza e il nostro cuore ad avere il coraggio di guardare fino in fondo anche ciò che non vorremmo vedere, ci accorgeremmo che siamo povera gente presa dalla paura di tutto.
Il peggio è che questo tutto te lo senti di fronte e di spalle e di fianco e non riesci ad afferrarlo, te lo senti in fondo al cuore e non sai che sia.
Siamo spesso come il povero ebreo errante che sente su di sè il peso di una vita che non riesce a portare, come il pellegrino in viaggio verso una terra che desidera e teme. Gente seduta alla porta di casa a sognare e mentre sogna si accorge che arriva la fine e che il sogno finisce.
La nostra esperienza non è stata voluta per uscire dalla condizione di ogni uomo: guai a coloro che per essere cristiani dimenticano di essere uomini.
È stata voluta come un momento in cui insieme potessimo ricuperare dal fondo del nostro essere quella nostalgia di fede e di amore che ci facessero sperare che è ancora possibile essere uomini veri, con Dio e in Dio.
Il mistero dell’uomo, ha scritto il Concilio Vaticano II, trova spiegazione alla luce del mistero di Cristo. Perciò abbiamo cercato di porre Cristo al centro della nostra esperienza: la sua Parola, il suo Sacrificio e la sua Carità.
Non è che la sua presenza abbia reso la nostra vita più superficialmente tranquilla.
Io non mi so dire perché Dio preferisca piangere con l’uomo piuttosto che dargli una gioia che l’uomo non ha la felicità di costruirsi, ma so, voglio sapere che Dio non è tanto occupato da non ascoltare il pianto di chi non sa ricevere, come di chi non sa dare.
La presenza di Dio: ora consolante e ora sconvolgente, però tale che non ci toglierà la fatica di essere uomini.
Ci darà solo il coraggio di esserlo fino in fondo, se noi vorremo.
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È online
Che succede? Che fare?
Destra, sinistra e il sistema elettorale
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by c3dem_admin | su C3dem
Nella situazione italiana servirebbe una legge proporzionale: le alleanze, viste le difficoltà, si farebbero a posteriori, in una forma non obbligata dalla ricerca dei voti, ma per un accordo a governare in base a un patto esplicito
Tanto i sondaggi, quanto i pareri degli esperti e le analisi dedicate ai singoli seggi, danno per certa la vittoria delle destre nelle prossime elezioni politiche.
Del resto, non occorre un particolare acume, né calcoli troppo complicati, per prendere atto che un’ampia parte dei seggi uninominali sarà appannaggio della destra, che si presenta unita e compatta a differenza della sinistra.
D’altronde che poteva fare il PD? Letta ha disperatamente cercato di mettere insieme il più ampio schieramento possibile, cioè le diverse forze presenti, ad esclusione dei 5Stelle (dopo il loro comportamento inaccettabile) e Renzi (uscito dal partito in passato).
L’operazione non è riuscita ed in effetti era difficile, anche se tutt’altro che sbagliata: certo che se se ipoteticamente si dovesse scegliere tra Calenda e la sinistra, sarebbe meglio un’alleanza politica con Calenda rispetto a un accordo elettorale con una sinistra del no.
Così si esprime anche Arturo Parisi che, in un’intervista sull’Avvenire, sostiene che il PD doveva allearsi solo coi partiti favorevoli a Draghi, ma poi lui stesso dice che il sistema (elettorale) è bipolare. Ma questo non obbliga a fare alleanze con tutti se si vuole concorrere?
Se contassimo i voti degli elettori, probabilmente destra e sinistra si troverebbero pressappoco alla pari, ma, ciononostante, la destra sembra destinata a vincere nettamente.
E’ facile desumere che ci sia qualcosa che non funziona in questa legge elettorale: legge ibrida – la cui responsabilità è tanto della destra che della sinistra – che risponde a varie spinte in senso maggioritario, bipolare e a favore della governabilità.
Il risultato finale è un pasticcio: poiché il sistema “reale” non è bipolare (come mettere insieme PD, Calenda, Renzi, 5Stelle, Sinistra Italiana, Impegno Civico, Europa+), il sistema elettorale risulta sbilanciato.
E’ necessaria una precedente realtà bipolare dei partiti perché si possa applicare una legge elettorale bipolare, altrimenti si genera uno sconquasso ed è ciò che sta per accadere.
Fra parentesi: il sistema bipolare è un’idea molto bella, ma di difficile realizzazione e va sparendo di fatto nei paesi europei.
Dunque, nella situazione italiana, sarebbe meglio pensare a una legge proporzionale (con una quota minima di accesso): le alleanze, viste le difficoltà, si farebbero a posteriori, in una forma non obbligata dalla ricerca dei voti, ma per un accordo a governare in base a un patto esplicito.
L’ansia per il maggioritario e la governabilità ha portato ad altri provvedimenti elettorali tanto esagerati quanto chiaramente antidemocratici: tutte le liste e i candidati sono decisi a Roma e l’elettore può solo esprimere un sì o un no, ma non esprimere preferenze per i candidati.
Si tratta di vere e proprie prevaricazioni che non hanno alcuna giustificazione: occorre ritornare a liste di candidati decise a livello locale e mettere i cittadini in grado di scegliere i candidati che preferiscono.
Questo è anche un modo – certamente non l’unico, ma efficace – di rivitalizzare i partiti: se i candidati vogliono essere scelti e votati devono impegnarsi a livello locale, farsi conoscere, meritare il consenso, ciò che rende l’intero partito più vivo e la partecipazione più attiva.
Possono certamente manifestarsi consorterie locali (sono sempre esistite) e verificarsi operazioni non limpide: su questo deve vigilare il centro, che ha compiti di controllo e di orientamento.
Se avvengono fatti di questo genere significa che in quella città o provincia il partito non funziona e dunque l’intervento dovrà essere realizzato a monte per garantire un partito democratico e trasparente.
Se si andasse nella direzione qui proposta, si potrebbe forse realizzare un passo in avanti nella democrazia, tanto nel paese che nei partiti.
Sandro Antoniazzi
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Concordo sulla necessità di una nuova legge elettorale proporzionale con uno sbarramento ragionevole. Non invece sull’individuazione delle responsabilità per la caduta del governo Draghi. Stante i vicoli della pessima (e incostituzionale) legge elettorale vigente, avrei voluto che si costruisse un’alleanza costituzionale tra diversi per contrastare e perfino battere la destra. Così è andata, diversamente purtroppo. Ne prendiamo atto. La situazione è sotto gli occhi di tutti. Cerchiamo di limitare i danni. Come? Innanzitutto votare e convincere a votare una delle liste credibili dello schieramento avverso alla destra, puntando su buoni candidati, che comunque a ben vedere ci sono!
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LA CHIESA E LE ELEZIONI. IL PAPA E LA GUERRA. MELONI DRAGHIANA?
31 Agosto 2022 su C3dem
Lorenzo Prezzi, “Il silenzio della Chiesa nella campagna elettorale è pieno di messaggi” (Domani). Eugenia Roccella, “Dopo Andrea Riccardi anche Ernesto Galli Della Loggia torna sull’irrilevanza dei cattolici in politica” (Foglio). PAPA E GUERRA: una nota del Corriere della sera: “Il Vaticano: inaccettabile la guerra iniziata da Mosca”. Franco Monaco, “La pietà del papa per le vittime e la resa politica alla guerra” (Avvenire). PARTITI / FRATELLI D’ITALIA: Marcello Sorgi, “Se Meloni si riscopre draghiana” (La Stampa). Francesco Bei, “L’ambiguità di Meloni e l’eredità di Draghi” (Repubblica). Claudio Cerasa, “La forza del non essere” (Foglio). Flavia Perina, “Il bisogno di essere mamma e premier” (La Stampa). Gianluca Passarelli, “Giorgia Meloni potrebbe vincere le elezioni e perdere Palazzo Chigi” (Domani). Karima Moual, “I ‘patrioti’ contro i migranti” (La Stampa). Roberto Napoletano, “E’ Salvini la spina nel fianco di Meloni” (Il Quotidiano). Claudio Tito, “Il Ppe sdogana Meloni ma punta a sostituire Salvini con Calenda” (Repubblica). 5 STELLE: Simone Canettieri, “Ecco il nuovo format del Conte rosso” (Foglio). DEM: Giuseppe Provenzano, “Destra unita soltanto contro i più poveri” (intervista a La Stampa). Elsa Fornero, “Sinistra incapace di un messaggio forte” (intervista a La Stampa). Gianfranco Pasquino, “Letta, il Pd e gli elettori indecisi da conquistare” (Domani). SINISTRA: Walter Siti e Luciana Castellini, “La sinistra e l’identità, un dialogo” (Domani). GOVERNO: Daniele Manca, “L’illusione di ricette semplici” (Corriere della sera). Stefano Folli, “Partiti, gas e Ue, un banco di prova” (Repubblica). Fausta Chiesa, “Chi decide la quotazione del gas e perché serve legarla alle rinnovabili” (Corriere). Paolo Romani, “Capire una crisi” (Foglio). IDEE: Angelo Panebianco, “Il mondo multipolare e il valore della linea atlantica” (Corriere). Giuliano Ferrara, “Quanti danni ha fatto l’ambientalismo. Una provocazione” (Foglio). Mauro Magatti, “Addio al sonno della ragione, fine dell’abbondanza, illusioni e iniquità” (Avvenire).
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ELEZIONI IN TEMPO DI CAMBIAMENTO, È L’ORA DI DARE DI PIÙ – DI LUCIA FRONZA CREPAZ
Set 2, 2022 – 05:35:52 – CEST su Politicainsieme.
Siamo in una fase di grande trasformazione dove le crisi ricorrenti sono l’indice di un cambiamento in atto che stenta a trovare soluzioni. Il ruolo indispensabile della partecipazione politica nel segnare strade nuove a partire dall’affrontare ogni questione da una prospettiva sovranazionale.
Le frasi scritte e dette per descrivere il desolante panorama politico in atto in Italia che hanno portato a queste elezioni sono ormai tutte esaurite. Una su tutte: «È tutto solo un circo, perché parteciparvi con il mio voto?». Eppure, mi sento di dire che oggi la prospettiva giusta sia, invece, quella di dare di più, non di meno! A cominciare proprio dal voto.
Quello che vediamo e che giustamente ci dà la nausea è l’ennesima prova che cercare di capire da dove è partita la valanga risulterebbe poco più che una perdita di tempo. Qui occorre mettere mano al sistema, poiché le crisi subentranti sono indice di un cambiamento in atto che stenta a trovare soluzioni. Chi è sovrano, il popolo, ovvero tutti noi, dobbiamo metterci alla stanga.
Quali i punti chiave su cui occorre aumentare l’impegno per capire e agire di conseguenza?
[segue]
5 giugno Giornata mondiale dell’Ambiente
Il 5 giugno si celebra la 47° Giornata mondiale dell’Ambiente
(Rinnovabili.it) – “Il degrado degli ecosistemi sta già mettendo a rischio il benessere del 40% dell’umanità. Per fortuna la Terra è resiliente: ma ha bisogno del nostro aiuto”. Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, introduce così la Giornata Mondiale dell’Ambiente 2021 (World Environment Day) e il suo tema principale: il ripristino degli ecosistemi.
[segue]
PNRR sotto la lente del Forum delle disuguaglianze e diversità
COSA PENSIAMO DEL PIANO INVIATO ALL’UE E “CHE FARE ORA”?
1. Gli spazi per fare la cosa giusta e un requisito: monitoraggio aperto
11 maggio 2021 su ForumDD.
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (235,1 miliardi di euro, di cui 204,5 di Next Generation EU) è all’attenzione formale della Commissione Europea. Dopo avere lavorato dal luglio 2020 per orientarne le scelte, per noi ForumDD, come per tanti altri, è arrivato il momento di prendere atto che questo è quanto le nostre istituzioni sono in grado di fare. Sull’esito pesano l’infelice avvio – a partire dalla raccolta dei progetti esistenti – e la scelta, immodificata da un governo all’altro, di assoluta chiusura al dialogo sociale. Pesa, da ultimo, anche la scelta della classe dirigente europea di anteporre l’obiettivo di “chiudere” i Piani alla presenza di tutti gli elementi di garanzia per il raggiungimento degli obiettivi dichiarati. E allora, se questo è “ciò che passa il convento”, ci sono tre cose da fare: apprezzare alcuni progressi compiuti; segnalare i seri limiti (molti già presenti in gennaio), osando augurarci che alcuni di essi siano superati nel confronto con la Commissione Europea; e poi, comunque, a Piano dato, individuare gli spazi che abbiamo, come società attiva e ricerca, per cavarne il massimo in termini di sviluppo giusto e sostenibile, di giustizia sociale e ambientale, insomma, il nostro “che fare” dei prossimi mesi.
Queste tre cose proviamo a fare in queste note. Lo facciamo, nonostante la valutazione sia resa difficile dal fatto che il Governo non ha ancora reso pubblici al Paese e al Parlamento le informazioni su “Targets e Milestones”, che immaginiamo la Commissione Europea abbia, visto che sono parte integrante del Piano da essa richiesto, e che circolano da poco in modo informale e non facilmente intellegibile. Ma prima un’osservazione generale. [segue]
RECOVERY PLAN e ISTRUZIONE
Passi avanti da migliorare
di Fiorella Farinelli su Rocca.
Forse è chiedere troppo all’attuale classe politica. Ma è certo che nel Recovery Plan varato il 12 gennaio, non c’è un disegno convincente delle strategie e delle misure con cui innescare cambiamenti decisivi – un’autentica ricostruzione nazionale – in un Paese slabbrato ed esausto già prima della pandemia. È lungo, del resto, il cammino per la versione definitiva dei programmi e delle riforme (da attivare «contestualmente», indica saggiamente la Commissione europea, «perché le risorse non cadano come pioggia sul deserto»), con cui ottenere i 209 mld tra prestiti e trasferimenti destinati all’Italia nell’ambito di Next Generation Ue 2021-26. Ci si arriverà solo dopo confronti con le istituzioni regionali e locali, le forze economiche e sociali, il Terzo Settore e le reti di cittadinanza attiva, e ovviamente il Parlamento. C’è dunque da augurarsi che da qui alla scadenza di aprile ci siano significativi miglioramenti. Come è già successo con i passi avanti, parziali ma nella giusta direzione, dalle prime bozze a quest’ultima versione, grazie soprattutto al pressing di Italia Viva: ricalibrato il peso dei bonus a favore degli investimenti, cresciute le risorse per la sanità e l’istruzione, ottenuti più coordinamento e minore frammentazione. Ma con un testo così complesso e un piatto così ricco (310 mld il totale, per l’inclusione nel pacchetto di altri fondi Ue e di spese programmate nel bilancio ordinario), la cosa non è scontata. Non solo per possibili ostinazioni dell’uno o dell’altro padrone del vapore a tener fermi programmi-bandiera che ingoiano troppe risorse (è il caso, non unico, del superecobonus 110/100 per la proprietà edilizia) o per un taglio più modernizzatore che sociale che sembra ormai difficile modificare, ma perché il clima generale è sempre più pesante. Tra tensioni politiche che delegittimano le istituzioni, contrasti e distonie tra Stato, Regioni, Città, reazioni agli effetti immediati e futuri della pandemia (mentre la parte dedicata alle politiche attive e al lavoro, soprattutto dei più giovani, è del tutto inadeguata agli sconquassi che verranno). Tutto ciò accompagnato dall’incapacità di definire la cosiddetta «governance». Cioè il modello di gestione dell’operazione, rinviato a un futuro decreto «che identifichi le responsabilità della realizzazione, garantisca il coordinamento con i ministri competenti a livello nazionale e gli altri livelli di governo, monitori i progressi di avanzamento della spesa». Difficoltà della politica politicante, certo, ma anche un approccio centralista che non aiuta e in più la solita mancanza di cultura attuativa, quella che permette di aprire i cantieri. Un limite, quest’ultimo, che preoccupa e squalifica, essendo noto in ambito europeo che nell’ultimo settennio non siamo stati capaci di spendere più del 40 per cento dei Fondi assegnati. C’entrano, si sa, leggi e regolamenti che trasformano in estenuanti tormentoni ogni gara d’appalto, ogni concorso, ogni convenzione. Ma come si fa a spendere entro il 2026 quella montagna di soldi se non si trovano i soggetti, le procedure, i modi per rimediare alla crisi dell’asse decisionale tra Stato, Regioni, Città e per superare la «diserzione amministrativa»? Basterà la «digitalizzazione» per garantire semplificazione ed efficienza? E basterà quanto previsto dal Piano – al momento poco più di un titolo – per portare a casa la più difficile delle sfide, una riforma decente della Pubblica Amministrazione? Appare dunque ancora impervia la strada per trasformare il Piano in un investimento capace di scaldare i cuori e di attivare le intelligenze dell’insieme della società italiana. E anche questo non è un problema da poco.
un finanziamento notevole ma insufficiente
Istruzione e ricerca è la quarta delle sei Missioni (1) contenute nel Piano, articolate in 16 componenti e 47 progetti. Il finanziamento è 28,5 miliardi, di cui 16,7 per il «potenziamento delle competenze e il diritto allo studio» (scuola e università) e 11,7 per la linea «dalla ricerca all’impresa» (università). Pur essendo il più grande finanziamento pubblico in educazione dopo il piano di ricostruzione postbellica delle scuole e quello di sviluppo del sistema successivo alla riforma della scuola media (1962-63), i 16,7 mld sono insufficienti non solo rispetto alla gravità della situazione educativa del Paese, ma anche alla piena realizzazione di tutte le azioni previste. Anche i 6,8 mld aggiuntivi per l’edilizia scolastica (che vengono dall’«efficientamento energetico e cablaggio degli edifici pubblici» di un’altra Missione) costituiscono un investimento modesto, neppure 1/5 di quello che occorre per mettere in sicurezza, riqualificare, riadattare a modelli di apprendimento e di apertura allo sviluppo culturale e civile delle comunità, le circa 30.000 sedi scolastiche. Un patrimonio pubblico per lo più piuttosto vecchio, in parte costruito prima delle normative antisismiche, spesso in stato di cattiva manutenzione, quasi sempre strutturato secondo finalità educative e didattiche obsolete. Più in generale l’investimento complessivo è inadeguato a misurarsi con la quantità e qualità dei problemi che stanno dietro alle criticità più acute, non derivate solo da una lunga stagione di «tagli» ma anche dall’incapacità politica di affrontare temi scomodi, che scatenano contrarietà nella più numerosa ed irritabile categoria professionale, quella dei docenti. La minore efficacia del nostro sistema rispetto ad altri in ambito sia europeo che Ocse (i più alti tassi di dispersione esplicita e implicita, il minor numero di diplomati e laureati, i divari territoriali nella quantità e qualità dell’offerta e anche nei risultati, le diseguaglianze e i fenomeni di segregazione formativa, la distanza tra formazione scolastica e sfide del mondo del lavoro, l’esistenza nella popolazione adulta anche delle età più giovani di un’ampia area di senza-diplomi e senza-qualifiche, e perfino di 13 milioni di analfabeti funzionali e digitali privi delle competenze minime per il lavoro e per la cittadinanza attiva) non nasce da niente. E non dipende solo dalle tante e diverse «povertà» sociali e individuali che condizionano negativamente l’apprendimento. A pesare sulle difficoltà che la scuola non supera, tradendo quindi il suo stesso ruolo che non è solo di inclusione ma anche di promozione, ci sono troppe povertà culturali, organizzative, professionali intrinseche al sistema. Che riguardano la troppo variabile qualità professionale dei docenti, la rigidità dell’organizzazione del lavoro, degli orari, delle cattedre, le carriere basate sull’anzianità e non sui meriti. Un’autonomia scolastica non ancorata alle comunità di riferimento e non dotata delle figure necessarie al suo funzionamento. Un ordinamento, nel primo e nel secondo ciclo, che non risponde al diritto allo studio nella «scuola di tutti» (che dire, per esempio, di quel dispositivo tutt’altro che innocente rispetto agli abbandoni precoci che è l’esame di stato alla fine della scuola media nonostante la durata decennale dell’obbligo di istruzione? e di un’istruzione e formazione professionale, decisiva per il completamento dell’obbligo per centinaia di migliaia di ragazzi, che però funziona solo in metà del Paese, e non dove dispersione e abbandoni mordono di più?). Un insegnamento, nella secondaria, caratterizzato da separazione e gerarchizzazione delle discipline, che non valorizza il naturale altalenare dell’apprendimento tra teoria e pratica, tra formale e non formale, e non permette percorsi vocazionali e orientativi. E poi il buco enorme dell’assenza di un sistema per l’apprendimento permanente, pur strategico a fronte della crescente importanza per tutta la popolazione di buoni livelli di conoscenza e di capacità di apprendere lungo tutto il corso della vita, non solo in vista del lavoro che cambia ma della crescente complessità del vivere sociale. Di molto di tutto ciò – e quindi anche di una povertà educativa non solo «minorile» – non c’è traccia nel Recovery Plan, dove manca anche una contestualizzazione rispetto ai processi in corso. Cosa sarà la scuola italiana tra dieci anni, con 1 milione e 300.000 iscritti in meno per calo demografico, l’uscita per pensionamento del 40% del suo personale, un peso specifico crescente degli studenti con back ground migratorio, con problemi di integrazione, ma col vantaggio potenziale di un bilinguismo naturale e di un affaccio culturale su mondi diversi? Qual è il nuovo modello a cui guardiamo? Non sarà, speriamo, solo una scuola tornata «in presenza» il nostro nuovo paradiso.
il paradiso non sarà solo una scuola tornata in presenza
Ma bisognava scegliere. Il «Potenziamento delle competenze e diritto allo studio» si articola in tre aree di intervento. La prima è «Accesso all’istruzione e divari territoriali», con uno stanziamento di 9,45 miliardi. La seconda è «Competenze Stem-Scienza*, Tecnologia, Ingegneria, Matematica e Multilinguismo» (ma comprende anche attrezzature didattiche, laboratori, scuola 4.0), con 5,02 miliardi. La terza è «Istituti Professionali e Istruzione Tecnica Superiore» (ma comprende anche l’orientamento al post diploma) con 2,25 miliardi. A questo si aggiungono 9 riforme, che interessano anche l’Università, solo in parte collegate con le azioni e i progetti, e con contenuti per lo più da definire. Sono l’istituzione della Scuola di Alta formazione per il personale scolastico (Università-Indire) a frequenza obbligatoria; la riforma del reclutamento docenti (coincidenza dell’esame di laurea con l’esame di stato per l’accesso alla professione e tirocinio annuale); l’aggiunta nei curricoli di moduli Stem e per le competenze digitali; la riforma degli Istituti Tecnici Superiori; degli istituti tecnici e professionali; dell’orientamento al livello terziario; l’introduzione delle lauree abilitanti; la riforma delle classi di laurea; la riforma dei dottorati. Qual è, in sintesi, il perimetro degli interventi? Se da un lato si conferma un approccio che, per quanto attiene alla qualità del lavoro nella scuola si limita a mettere a fuoco la formazione iniziale e continua del personale e il reclutamento dei docenti, dall’altro si interviene sul pianeta istruzione circoscrivendo due principali ambiti. Il primo, riguardante soprattutto il primo ciclo e il comparto 0-6, consiste nella prevenzione precoce delle diseguaglianze, nel contrasto della povertà educativa minorile, nel rafforzamento delle competenze di base incluse quelle digitali e multilingue. Il secondo, che guarda al superamento del gap tra preparazione scolastica e competenze richieste dal mondo del lavoro, consiste nel rafforzamento del comparto tecnico professionalizzante di livello secondario e terziario, nella declinazione dei curricoli e della didattica in direzione dell’innovazione tecnologica, nonché nell’orientamento agli studi post-diploma. Non è tutto quel che servirebbe, ma sono comunque criticità vere su cui intervenire.
Ma come lo si fa?
c’è ancora da limare e riequilibrare
Non è un dettaglio, ovviamente, l’articolazione degli investimenti. Balza all’occhio, per esempio, l’incongruenza tra la generosità dei 5,2 mld della seconda linea d’azione («Competenze Stem* e multilingue») che ne stanzia ben 3 in laboratori e attrezzature per la «scuola 4.0», e i risicati 9,45 mld per l’articolatissimo programma della prima («Accesso all’istruzione e divari territoriali»). Tolti infatti i 2,35 mld per borse di studio e alloggi per gli studenti universitari, ne restano solo 7,10 per obiettivi tutti molto importanti e impegnativi. Che infatti, chi più chi meno, vengono dotati di investimenti insufficienti a una realizzazione compiuta. A partire dall’azione più importante per il contrasto precoce delle diseguaglianze educative e per il superamento dei divari territoriali, ovvero lo sviluppo omogeneo dei servizi educativi 0-3 cioè gli asili nido, in tutte le aree del Paese (copertura al 33% della domanda in ogni Regione, media nazionale al 55%). Lo sanno ormai anche le pietre, infatti, che il programma, finalizzato anche al contrasto della denatalità, alla conciliazione tra lavoro e genitorialità, all’occupazione femminile, costa almeno 4,8 mld, mentre nel Piano, dove varie oscillazioni, ci si assesta ora su 3,6. Assai peggio va all’altro ingrediente essenziale per il raggiungimento dell’obiettivo, cioè lo sviluppo del tempo pieno, dove si prevede 1 mld mentre la sua generalizzazione nella primaria costerebbe, solo di spesa per il personale (senza considerare quella degli Enti Locali), 2,8 mld annui. Completano il quadro 1 mld per il potenziamento della scuola per l’infanzia, che potrebbe essere un costo perfino sovrastimato considerato il forte impatto del calo demografico su questo comparto educativo (e l’assenza, viceversa, dell’obiettivo di una sua «generalizzazione»), e 1,5 mld per il contrasto degli abbandoni che potrebbe invece essere sensibilmente sottostimato rispetto alle complessità delle azioni e alla numerosità del target. Quanto alla terza linea d’azione («Istruzione Professionale e Its»), la parte del leone dei 2,25 mld la fa il potenziamento dell’istruzione tecnica superiore (1,50 mld), mentre all’orientamento scuola-università e alla collaborazione Università-Formazione professionale vanno 0,75 mld. C’è dunque ancora da limare, e soprattutto da riequilibrare. Zero assoluto, invece, per l’Istruzione e Formazione professionale per l’obbligo di istruzione e la qualifica professionale, che non compare né qui né dove ci si occupa di politiche formative per il lavoro, pur essendo un’alternativa preziosa, dove c’è, agli abbandoni precoci. E pur intercettando ogni anno migliaia di ragazzi in difficoltà, tra cui molti stranieri di prima e seconda generazione. C’è da chiedersi, con qualche amarezza, se gli estensori del testo sappiano sempre di che cosa stanno scrivendo. E anche questo, ovviamente, non è un problema da poco. Ma ci si dovrà tornare.
Fiorella Farinelli
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Nota
(1) Le altre sono digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura (46,1 mld); rivoluzione verde e transizione ecologica (68,9 mld); infrastrutture per la mobilità sostenibile (31,98 mld); inclusione sociale e coesione (27,62 mld); salute (19,72 mld).
* L’acronimo STEM, dall’inglese Science, Technology, Engineering and Mathematics è un termine utilizzato per indicare le discipline scientifico-tecnologiche (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) e i relativi corsi di studio.
ROCCA 1 FEBBRAIO 2021
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Recovery Plan. Legambiente e Forum Disuguaglianze e Diversità presentano le 10 sfide green indispensabili al Paese
Recovery Plan le 10 sfide per l’Italia: documento e webinar Legambiente e ForumDD
Pubblicato il 29 Settembre, 2020 in Comunicati0 Commenti
Legambiente e Forum Disuguaglianze e Diversità presentano le 10 sfide green indispensabili al Paese e lanciano un percorso di osservazione civica e confronto. Oggi dalle 15.30 alle 18.00 in diretta sul sito e sulla pagina Facebook de La Nuova Ecologia
Roma, 29 settembre 2020. L’accordo europeo di luglio e il lancio del programma NextGenerationUE, e in particolare della Recovery and Resilience Facility, rappresentano un’opportunità straordinaria per rilanciare l’economia italiana, attraverso obiettivi e risorse che sono mancati dopo la crisi del 2008, e disegnare una traiettoria di sviluppo giusto e sostenibile. Si tratta di restituire speranza a un Paese che negli ultimi trenta anni si è impoverito e ha visto progressivamente indebolire la rete di infrastrutture sociali e sanitarie, scolastiche e universitarie. Siamo, dunque, a un passaggio straordinario ed epocale, da non sprecare, in cui al centro è la scelta di investire nel Green Deal Europeo abbandonando le ricette del passato con l’obiettivo di “build back better”: ricostruire meglio e in modo diverso, con innovazione, sostenibilità, attenzione al disagio sociale e alle disuguaglianze cresciute in questi anni.
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Appello: non si restringano gli spazi di partecipazione!
“Il Dibattito Pubblico affossato prima ancora di nascere”
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Il Senato in considerazione dell’emergenza sanitaria da COVID-19 ha approvato nel disegno di legge Semplificazioni una norma di deroga al ricorso alla procedura di dibattito pubblico prima di una grande opera pubblica, come previsto dal Dpcm n. 76/2018 che ha introdotto nel nostro ordinamento il «Regolamento recante modalità di svolgimento, tipologie e soglie dimensionali delle opere sottoposte a dibattito pubblico». L’appello perché la legge vigente non venga modificata. Aladinpensiero aderisce e s’impegna nella diffusione dell’appello.
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Appello per un cambio di prospettiva della partecipazione in Italia
Siamo esperti di processi partecipativi, studiosi di democrazia deliberativa, membri di associazioni che si occupano di innovazione democratica, cittadini impegnati per il bene comune. Scriviamo per esprimere la nostra preoccupazione per una norma approvata dal Senato nel disegno di legge Semplificazioni: l’introduzione di una deroga al ricorso alla procedura di dibattito pubblico prima di una grande opera pubblica.
Ecco la norma approvata all’articolo 8 del disegno di legge Semplificazioni:
6-bis. In considerazione dell’emergenza sanitaria da COVID-19 e delle conseguenti esigenze di accelerazione dell’iter autorizzativo di grandi opere infrastrutturali e di architettura di rilevanza sociale, aventi impatto sull’ambiente, sulle città o sull’assetto del territorio, sino al 31 dicembre 2023, su richiesta delle amministrazioni aggiudicatrici, le regioni, ove ritengano le suddette opere di particolare interesse pubblico e rilevanza sociale, previo parere favorevole della maggioranza delle amministrazioni provinciali e comunali interessate, possono autorizzare la deroga alla procedura di dibattito pubblico di cui all’articolo 22, comma 2, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, e al relativo regolamento di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 10 maggio 2018, n. 76, consentendo alle medesime amministrazioni aggiudicatrici di procedere direttamente agli studi di prefattibilità tecnico-economica nonché alle successive fasi progettuali, nel rispetto delle disposizioni del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50.
Cos’è il Dibattito Pubblico
Il dibattito pubblico è un processo di informazione, partecipazione e confronto pubblico che ha lo scopo di accrescere il coinvolgimento dei cittadini e cittadine nei processi di realizzazione delle grandi opere e si svolge nelle fasi iniziali di elaborazione del progetto, al fine di valutare gli impatti delle diverse alternative e orientare le scelte. Ispirato al modello francese del débat public (introdotto dalla c.d. legge Barnier nel 1995) e già previsto in alcune leggi regionali, non è vincolante per il decisore pubblico ma permette di individuare e trattare con anticipo possibili conflitti che rischierebbero di rallentare la realizzazione degli interventi, come si è verificato in numerosi casi di infrastrutture controverse. Tale procedura ha una durata di pochi mesi, portando benefici sia in termini di trasparenza e democraticità delle decisioni sia in termini di speditezza ed efficacia dell’azione amministrativa, sottraendola alle pressioni settoriali e localistiche. Il dibattito pubblico è uno strumento nato per gestire una conflittualità latente o esplicita e per migliorare la qualità della progettazione delle opere, serve ad aiutare e facilitare la decisione. Non è un elemento di complicazione o rallentamento delle procedure e può essere svolto anche negli ambienti digitali, nel rispetto dei principi inclusivi sul piano del confronto e della deliberazione, della celerità e della tutela sanitaria.
Perché questa deroga è inopportuna
Ci preoccupa la deroga alle norme sul dibattito pubblico. La partecipazione civica è un diritto e una modalità per rendere le scelte più condivise e quindi più sostenibili, non è un intralcio. La norma approvata dal Senato sembra invece appoggiare l’erronea percezione che informare e ascoltare il punto di vista dei cittadini sia una complicazione ed una perdita di tempo, mentre numerose opere in Italia sono ferme proprio a causa della mancanza di dialogo e di informazione delle popolazioni. Un preventivo ascolto civico tende ad accorciare piuttosto che ad allungare un processo decisionale.
Questa deroga nega dunque non solo un diritto individuale riconosciuto da legislazioni internazionali, europee e nazionali, ma impedisce l’adozione di decisioni strategiche e di politiche pubbliche di migliore qualità. E questo proprio in una congiuntura emergenziale durante la quale il coinvolgimento dei cittadini diventa più prezioso in quanto garanzia di trasparenza e di dialogo sociale.
Cosa proponiamo
Chiediamo al Legislatore di ripensarci e di abrogare la norma che introduce la deroga al dibattito pubblico. Invitiamo il Governo a rispettare gli impegni presi anche in sedi internazionali (l’Italia è firmataria della Convenzione di Aahrus) e di mettere al primo posto l’interesse generale e la tutela dei diritti di cittadine e cittadini. La deroga costituisce una regressione dei diritti e un peggioramento dei metodi di decisione e di costruzione delle politiche pubbliche. Da questo punto di vista la scelta del Senato appare non solo incomprensibile, ma anche nociva per la qualità delle opere infrastrutturali di cui il paese ha bisogno.
Le socie ed i soci di Aip2 – Associazione Italiana per la Partecipazione Pubblica
Insieme a:
Chiara L. Pignaris, presidente Associazione Italiana per la Partecipazione Pubblica
Giandiego Càrastro, socio Aip2 e membro Argomenti2000 Senigallia
Giovanni Allegretti, Centro de Estudos Sociais dell’Universitá di Coimbra, Portogallo
Marianella Sclavi, presidente di Ascolto Attivo srl e docente al Master ProPart di Venezia
Agnese Bertello, facilitatrice di Ascolto Attivo srl
Ilaria Casillo, prof. associata Facoltà di urbanistica Università Gustave Eiffel Parigi
Francesca Gelli, direttrice del Master IUAV in Progettazione Partecipata – ProPART
Susan George, docente Università di Pisa, presidente Aip2 2016-2019
Alfonso Raus, formatore, esperto di processi partecipativi e di innovazione territoriale – socio Aip2
Antonio Floridia, dirigente del Settore Politiche per la partecipazione della Regione Toscana
Andrea Pirni, prof. associato di Sociologia dei fenomeni politici, Università di Genova
Sofia Mannelli, presidente associazione Chimica Verde Bionet
Veronica Dini, presidente Systasis – Centro Studi per la prevenzione e la gestione dei conflitti ambientali
Iolanda Romano, socia fondatrice di Avventura Urbana
Ilaria Ramazzotti, Coordinatrice Argomenti2000 Senigallia
Umberto Allegretti, già professore ordinario di diritto pubblico presso l’università di Firenze
Maria Chiara Prodi
Giuseppe Maiorana, direttore dello spazio museale di Belìce/EpiCentro della Memoria Viva _CRESM
Elena Pivato, Urban Center Brescia
Lucia Lancerin, architetto (VI) – socia di Aip2
Elena Farnè, socia di Aip2
Andrea Panzavolta, di Formattiva – socio di Aip2
Giovanni Realdi, insegnante
Gabriella Giornelli
Maria Cristina Venanzi, consulente comunicazione pubblica
Antonio Sgueglia
Sara Giacomozzi, architetto paesaggista – socia di Aip2
Andrea Caccìa, facilitatore – socio Aip2
Andrea Pillon, Avventura Urbana Srl
Lilli Antonacci, facilitatrice e animatrice sociale – socia Aip2
Maurizio Schifano, Service Designer – Associazione Coltivatori di bellezza
Luca Raffini, ricercatore in Sociologia dei fenomeni politici, Università di Genova – socio Aip2
Alessio Conti, professore
Angelo D. Marra, avvocato
Mauro Julini, facilitatore, mediatore, formatore di mediatori e negoziatori – socio Aip2
Antonella Giunta, Aip2
Sara Serravalle, esperta di gestione di conflitti urbani ed ambientali e dottore di ricerca – socia Aip2
Franco Meloni, direttore, e la redazione di Aladinpensiero online
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Per sottoscrivere l’appello inviare una mail a: info@aip2italia.org
Per scaricare il documento
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Fonte illustrazione: https://www.aladinpensiero.it/?p=112366
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Per correlazione
-Buone brevi letture: Umberto Allegretti “Democrazia partecipativa e processi di democratizzazione”, 2009.
- Buone impegnative letture. “Convenzione sull’accesso alle informazioni, la partecipazione del pubblico ai processi decisionali e l’accesso alla giustizia in materia ambientale, fatta ad Aarhus il 25 giugno 1998″. Ratificata dall’Italia con Legge del 16 marzo 2001, n. 108 (Suppl. alla G.U. n.85 dell’11 aprile 2001).
CONVENZIONE INTERNAZIONALE 25 giugno 1998, Aarhus.
Convenzione sull’accesso alle informazioni, la partecipazione del pubblico ai processi decisionali e l’accesso alla giustizia in materia ambientale, fatta ad Aarhus il 25 giugno 1998
Ratificata con Legge del 16 marzo 2001, n. 108 (Suppl. alla G.U. n.85 dell’11 aprile 2001)
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- Anche su Giornalia.
Uno sguardo oltre il cortile.
Entropia e virtù privata e pubblica. Oggi più che mai serve l’esempio
di Leonardo Becchetti
In questi giorni convulsi di crisi di governo e di rovente dibattito estivo sulla politica, sono affiorate più volte nelle cronache le fotografie totalmente opposte e stridenti che raccontano le vacanze di politici del oggi e di ieri.
In tanti anni non sono cambiati solo i politici, sono cambiati e molto i “costumi” (da intendersi in senso sia letterale sia metaforico) e con essi la nostra società. La vita umana può essere una leggera passeggiata in salita che ci porta verso panorami mozzafiato mentre la percorriamo agevolmente se bene allenati, o una discesa molto attraente che spesso conduce verso burroni e precipizi.
Nella salute fisica come in quella affettiva, sociale e spirituale esiste un principio di entropia, quello che governa i sistemi chiusi garantendone l’equilibrio non l’equità e la bontà. La stasi, la sedentarietà è una “malattia”, ammonisce oggi l’educazione ai corretti stili di vita e, se non facciamo movimento o non ci “alleniamo” con un certo impegno (l’allenamento funziona se è minimamente faticoso), il fisico tende a deperire.
Lo stesso accade nella dimensione degli affetti, nella vita sociale e spirituale (non a caso un genio come sant’Ignazio ha inventato gli esercizi spirituali che sono diventati strumento di formazione per tutta la cristianità e non solo).
Insomma, e rispettivamente, senza l’esercizio della virtù fisica, affettiva, sociale e spirituale il fisico, la capacità di costruire e coltivare relazioni, il senso civico e la vita interiore si rattrappiscono e avvizziscono. Senza allenamento e impegno costante non saremmo neppure capaci di esercitare una piccola virtù come quella di alzarci la mattina dal letto con una certa celerità per raggiungere in tempo la scuola o il lavoro.
Nelle società del passato, la cultura e le norme sociali erano tutte saldamente allineate in questa direzione e, con esse, i messaggi provenienti da famiglia, Chiesa e società. L’ascesi, la ricerca della virtù era l’imperativo morale e la tensione quasi naturale per le persone di quelle generazioni essendo anche munizione indispensabile per affrontare gli ostacoli di una vita molto più dura e difficile. Col tempo però alcune condizioni di contesto sono cambiate contribuendo a sgretolare progressivamente questo pilastro della nostra civiltà.
Da una parte la vita, almeno come consumatori, è diventata enormemente più facile con l’accesso delle masse a una vasta gamma di beni di comfort disponibili a prezzi contenuti. Se non più necessaria per “conquistarsi” l’accesso a uno standard di vita di buona qualità la fatica della virtù è sembrata pian piano divenire per molti quasi un orpello e una fatica inutile.
Il progressivo indebolimento della centralità e della forza del messaggio religioso e della solidità delle famiglie ha ulteriormente indebolito due fonti tradizionali di stimolo all’allenamento affettivo, sociale e spirituale. Ed è così che molti giovani di oggi, precocemente esposti alle sollecitazioni dei media tradizionali e dei social, aspirano quasi istintivamente a diventare degli ‘influencer’ piuttosto che degli ‘eroi’, cercano cioè la scorciatoia più comoda possibile che è quella di diventare ricchi e famosi con il minimo sforzo necessario.
La sfida chiave per una cultura umanamente sostenibile nel prossimo futuro sta nel dare nuove motivazioni (e nel rinnovare quelle antiche) allo sforzo dell’allenamento per una vita virtuosa nella dimensione privata così come in quella pubblica. Ci aiutano in questo le nuove evidenze sui fattori che rendono la vita soddisfacente e ricca di senso.
E le bellissime intuizioni di un economista geniale e non abbastanza valorizzato come Tibor Scitovsky autore della ‘Società senza gioia’. Scitovsky inventa la distinzione tra beni di comfort e beni di stimolo. I primi (tra i quali possiamo includere tutti i tipi di dipendenze) producono eccitazione ed euforia a breve, ma creano dipendenza e riducono le energie necessarie per raggiungere i beni di stimolo.
Le vite di chi non riesce a uscire dalla trappola dei beni di comfort e ne diventa eccessivamente succube finiscono molto spesso in dei vicoli ciechi. I beni di stimolo invece sono quelli che producono appagamento e soddisfazione duratura, ma non sono raggiungibili se non dopo un congruo investimento.
Imparare una lingua, sviluppare delle abilità sportive o professionali, sviluppare passioni e impegno civico e sociale, crescere nella vita spirituale sono beni duraturi che ci fanno compagnia nella vita dando senso e ricchezza alla stessa ma, per poter essere goduti e raggiunti, richiedono fatica, impegno, investimento e sforzo.
Il fondatore dell’economia civile Antonio Genovesi e il sociologo Mauro Magatti ci ricordano infine che la generatività, ovvero la capacità dei propri percorsi di vita di incidere positivamente sulle vite altrui e di creare relazioni di qualità, è la chiave della soddisfazione e ricchezza di senso della vita. Se vogliamo uscire dalla legge dell’entropia, che sembra oggi prevalere, l’unica via percorribile è trasmettere il fascino e il valore dei “beni di stimolo”, non solo a parole ma attraverso l’esempio di una vita virtuosa e generativa.
Una responsabilità che grava in modo speciale su chi esercita ed eserciterà ruoli di leadership. È questo un metodo profondo ed essenziale per la rinascita umana, sociale, politica e economica del nostro Paese.
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Fonti
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By sardegnasoprattutto/ 19 agosto 2019/ Culture/
https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/serve-lesempio – Domenica 18 agosto 2019 .
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Roventini: “Senza la Lega un nuovo governo può fare grandi cose: salario minimo, no flat tax, zero gas serra, soldi a sanità e istruzione”
di Gea Scancarello
« Previous/ Next » By sardegnasoprattutto/ 22 agosto 2019/ Economia & Lavoro/
Il suo nome potrebbe tornare a circolare nei prossimi giorni, quando, con ogni probabilità, sarà necessario ripensare alla compagine governativa, e al Movimento Cinque Stelle saranno assai utili consigli su come invertire la rotta.
Andrea Roventini – economista, professore associato alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa e già suggerito come ministro nell’Economia da Luigi Di Maio nel 2018 – saprebbe da dove partire: regolamentazione del mercato, ruolo dello Stato e la necessità di abbandonare un certo neoliberismo mascherato che ha guidato i provvedimenti spinti dalla Lega nella fase che si è appena conclusa.
Temi in linea con l’idea di un capitalismo diverso, e migliore, di cui già aveva chiacchierato con Business Insider, e su cui negli ultimi giorni arrivano segnali persino dai più insospettabili capitani d’azienda della corporate America.
Ha fatto notizia il documento dei 200 capi d’azienda americani in cui si chiede un capitalismo migliore. E, nel suo discorso al Senato, l’ex premier Giuseppe Conte ha invocato per un suo eventuale bis un ruolo più forte – ancorché non dirigista – dello Stato.
“A partire dagli anni 60, nell’economia politica c’è stato un movimento accademico e culturale che ha cercato di convincerci che il mercato ha sempre ragione e funziona perfettamente per cui l’intervento dello Stato, come ad esempio l’introduzione del salario minimo, crea sempre inefficienze e costi per la collettività.
Questa fiducia cieca nella magnifiche sorti e progressive del libero mercato è stata ripetuta come un mantra e insegnata in molte Università a generazioni di studenti, portando ad una sfiducia nell’intervento pubblico nella politica monetaria e fiscale. La Banca Centrale deve controllare solo l’inflazione, mentre le politiche fiscali sono dannose perché sottraggono risorse al settore privato per darle a quello pubblico.
L’egemonia del mercato ha pervaso la finanza: secondo la teoria “Fondamentalista” del premio Nobel Fama, i prezzi delle azioni riflettono il valore delle aziende, cioè dei loro profitti presenti e futuri, per cui nei mercati finanziari non possono esserci bolle speculative”.
Un pensiero un po’ ardito.
“Ma sostenuto da numerosi economisti tanto da divenire egemonico e da portare alla deregolamentazione spinta dei mercati finanziari, una delle cause della crisi del 2008. Tuttavia, Fama ha comunque continuato a sostenere che la crisi dei mutui subprime non era dovuta ad una bolla finanziaria: l’integralismo può arrivare a vette molto elevate! Nel frattempo si sono diffuse teorie alternative come quelle di Shiller che tengono conto dell’”esuberanza irrazionale” dei mercati.
Ma Fama e Shiller pur sostenendo tesi opposte hanno vinto il premio Nobel nel 2013: un po’ come conferire un premio sia a Tolomeo che a Copernico. A livello d’impresa e di teoria manageriale si è diffusa l’idea, ispirata originariamente da Milton Friedman, che i manager devono perseguire la massimizzazione dei profitti, creando valore per gli azionisti, e aumentando così le chances di ricevere aumenti di stipendio e laute stock options”.
E adesso qualcosa è cambiato?
“Dopo la crisi del 2008 fortunatamente ci si è resi conto che il mercato da solo non basta, ma anzi può portare a risultati catastrofici. La politica monetaria non può essere ossessionata solo dall’inflazione; la politica fiscale è un valido strumento per rilanciare l’economia durante una recessione; i mercati finanziari deregolamentati non funzionano bene perché il rischio non può essere totalmente diversificato e i comportamenti elusivi dei regolamenti degli istituti finanziari accentuano la formazione di bolle e l’instabilità.
Infine ci si è resi conto che le imprese non possono solo massimizzare valore per gli azionisti, come insegnato comunemente nelle business school. Come diverse generazioni di economisti sono stati formati con l’idea che il mercato ha sempre ragione, così intere generazioni di manager e quadri aziendali sono stati educati con il pensiero unico della massimizzazione del valore degli azionisti, non considerando gli altri obiettivi sociali delle imprese”.
Cosa ci fa pensare però che oggi la lezione sia realmente assimilata, e non si tratti solo di un nuovo tipo di opportunismo?
“Se si analizzano la narrativa e i discorsi delle imprese si nota che c’è un’attenzione crescente per l’ambiente ed il cambiamento climatico (ad esempio l’obiettivo di essere “carbon neutral”), e per la responsabilità sociale. Naturalmente possono essere solo strategie comunicative, ma i frutti ci permetteranno di giudicare. Nel frattempo, possiamo e dobbiamo creare incentivi, regolamentazioni e politiche pubbliche per essere sicuri che le imprese prendano coscienza dei rischi ambientali e della loro responsabilità sociale.
Per esempio, si possono fissare standard più stringenti per le emissioni di gas serra, si può introdurre una carbon tax e si possono rompere i monopoli dei giganti di internet. Di quest’ultima misura si discute da tempo negli Stati Uniti, che hanno una lunga tradizione di contrasto dei monopoli.
Anche se non si smembreranno le grandi imprese di internet, sicuramente è opportuno modificare la legislazione italiana, europea e possibilmente mondiale per assicurarsi che paghino finalmente le imposte: la web tax è un buon inizio. I mercati finanziari ed il settore bancario vanno assoggettati ad una regolamentazione più stringente ed allo stesso tempo semplice, per evitare scappatoie e comportamenti elusivi”.
Questo richiede però un forte intervento del governo, e una forte novità. Considerata la situazione politica attuale, quale di queste lezioni il prossimo governo – anche se dovesse nascere da una costola di quello appena caduto – potrebbe assimilare?
“Bè, diciamo che l’esperienza di questo governo ci ha lasciato in eredità pochi provvedimenti positivi in un oceano di cose negative. Tra i primi, metterei il decreto Dignità che ha ri-regolamentato il mercato del lavoro, perché se si vogliono fare i contratti a tutele crescenti vanno disincentivati e possibilmente eliminate le altre tipologie contrattuali, come già sosteneva Olivier Blanchard.
Un altro elemento positivo è stato, ovviamente, il reddito di cittadinanza che si è innestato sul Rei, e che andrà messo a punto dal prossimo governo. Detto questo, ci sono una serie di provvedimenti negativi, spinti dalla Lega e dalla sua visione bipolare della politica economica.
Da un lato ci sono provvedimenti ultra liberisti come la cosiddetta tassa piatta. Hanno provato a raccontare la bufala che si sarebbe pagata da sola: l’economia e l’evidenza statistica invece insegnano che non è vero, e che la flat tax aumenta il deficit pubblico e accresce le disuguaglianze sociali dato che ne beneficiano principalmente i ricchi.
Dall’altro lato ci sono politiche populiste di stampo peronista come la famigerata quota 100, un regalo a determinate categorie sociali (maschi di mezza età con carriere continue), solo per raccogliere voti. Il quadro disastroso si completa con una serie di condoni fiscali spacciati per “pace fiscale” e con l’introduzione delle quote forfettarie per le piccole imprese che le spinge ad evadere o a rimanere piccole. Quindi esattamente il contrario di quello che dovrebbe fare uno Stato che fa politica industriale e guida l’innovazione delle imprese e cerca di farle diventare più grandi”.
Pensa che, con un’altra composizione del governo, si possa fare di meglio?
“Bè, prima della crisi di governo ero realmente pessimista. Ora sono moderatamente ottimista perché senza la Lega al governo è facile fare meglio, semplicemente evitando certe politiche che non avrebbero aumentato la crescita ma solo esacerbato le disuguaglianze e scassato i conti pubblici. Spero che un nuovo governo possa fare di meglio, anche se il percorso sarà difficile dato che deve essere disinnescato l’aumento dell’IVA”.
Quale percorso dovrebbe seguire, in politica economica, il nuovo governo, per segnare discontinuità e fare un’operazione realmente diversa?
“Spero che si potranno intraprendere passi per una crescita sostenibile e inclusiva, innanzitutto destinando maggiori risorse a sanità, istruzione, ricerca, primo motore dell’innovazione. E poi un grande piano per rilanciare la crescita della produttività contrastando il cambiamento climatico.
Come nel Regno Unito va introdotto al più presto l’obiettivo di zero emissioni di gas serra per il 2050 e lo Stato deve intraprendere una seria politica industriale a favore delle imprese per stimolare l’economia verde, aumentando l’innovazione, creando nuove tecnologie, stimolando la nascita di nuove imprese e l’occupazione. Infine, andrebbe introdotto il salario minimo, di concerto con i sindacati, per contrastare la disuguaglianza e tutelare maggiormente i lavoratori più deboli”.
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Fonte
https://it.businessinsider.com/roventini-senza-la-lega-un-nuovo-governo-puo-fare-grandi-cose-salario-minimo-no-flat-tax-zero-gas-serra-piu-soldi-a-sanita-e-istruzione/
……………commenti…….
M5S-PD, accordo possibile o accordo suicida?
di Paolo Flores d’Arcais su MicroMega.
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Lo sguardo oltre il cortile. Dove andiamo?
Entropia e virtù privata e pubblica. Oggi più che mai serve l’esempio
di Leonardo Becchetti
In questi giorni convulsi di crisi di governo e di rovente dibattito estivo sulla politica, sono affiorate più volte nelle cronache le fotografie totalmente opposte e stridenti che raccontano le vacanze di politici del oggi e di ieri.
In tanti anni non sono cambiati solo i politici, sono cambiati e molto i “costumi” (da intendersi in senso sia letterale sia metaforico) e con essi la nostra società. La vita umana può essere una leggera passeggiata in salita che ci porta verso panorami mozzafiato mentre la percorriamo agevolmente se bene allenati, o una discesa molto attraente che spesso conduce verso burroni e precipizi.
Nella salute fisica come in quella affettiva, sociale e spirituale esiste un principio di entropia, quello che governa i sistemi chiusi garantendone l’equilibrio non l’equità e la bontà. La stasi, la sedentarietà è una “malattia”, ammonisce oggi l’educazione ai corretti stili di vita e, se non facciamo movimento o non ci “alleniamo” con un certo impegno (l’allenamento funziona se è minimamente faticoso), il fisico tende a deperire.
Lo stesso accade nella dimensione degli affetti, nella vita sociale e spirituale (non a caso un genio come sant’Ignazio ha inventato gli esercizi spirituali che sono diventati strumento di formazione per tutta la cristianità e non solo).
Insomma, e rispettivamente, senza l’esercizio della virtù fisica, affettiva, sociale e spirituale il fisico, la capacità di costruire e coltivare relazioni, il senso civico e la vita interiore si rattrappiscono e avvizziscono. Senza allenamento e impegno costante non saremmo neppure capaci di esercitare una piccola virtù come quella di alzarci la mattina dal letto con una certa celerità per raggiungere in tempo la scuola o il lavoro.
Nelle società del passato, la cultura e le norme sociali erano tutte saldamente allineate in questa direzione e, con esse, i messaggi provenienti da famiglia, Chiesa e società. L’ascesi, la ricerca della virtù era l’imperativo morale e la tensione quasi naturale per le persone di quelle generazioni essendo anche munizione indispensabile per affrontare gli ostacoli di una vita molto più dura e difficile. Col tempo però alcune condizioni di contesto sono cambiate contribuendo a sgretolare progressivamente questo pilastro della nostra civiltà.
Da una parte la vita, almeno come consumatori, è diventata enormemente più facile con l’accesso delle masse a una vasta gamma di beni di comfort disponibili a prezzi contenuti. Se non più necessaria per “conquistarsi” l’accesso a uno standard di vita di buona qualità la fatica della virtù è sembrata pian piano divenire per molti quasi un orpello e una fatica inutile.
Il progressivo indebolimento della centralità e della forza del messaggio religioso e della solidità delle famiglie ha ulteriormente indebolito due fonti tradizionali di stimolo all’allenamento affettivo, sociale e spirituale. Ed è così che molti giovani di oggi, precocemente esposti alle sollecitazioni dei media tradizionali e dei social, aspirano quasi istintivamente a diventare degli ‘influencer’ piuttosto che degli ‘eroi’, cercano cioè la scorciatoia più comoda possibile che è quella di diventare ricchi e famosi con il minimo sforzo necessario.
La sfida chiave per una cultura umanamente sostenibile nel prossimo futuro sta nel dare nuove motivazioni (e nel rinnovare quelle antiche) allo sforzo dell’allenamento per una vita virtuosa nella dimensione privata così come in quella pubblica. Ci aiutano in questo le nuove evidenze sui fattori che rendono la vita soddisfacente e ricca di senso.
E le bellissime intuizioni di un economista geniale e non abbastanza valorizzato come Tibor Scitovsky autore della ‘Società senza gioia’. Scitovsky inventa la distinzione tra beni di comfort e beni di stimolo. I primi (tra i quali possiamo includere tutti i tipi di dipendenze) producono eccitazione ed euforia a breve, ma creano dipendenza e riducono le energie necessarie per raggiungere i beni di stimolo.
Le vite di chi non riesce a uscire dalla trappola dei beni di comfort e ne diventa eccessivamente succube finiscono molto spesso in dei vicoli ciechi. I beni di stimolo invece sono quelli che producono appagamento e soddisfazione duratura, ma non sono raggiungibili se non dopo un congruo investimento.
Imparare una lingua, sviluppare delle abilità sportive o professionali, sviluppare passioni e impegno civico e sociale, crescere nella vita spirituale sono beni duraturi che ci fanno compagnia nella vita dando senso e ricchezza alla stessa ma, per poter essere goduti e raggiunti, richiedono fatica, impegno, investimento e sforzo.
Il fondatore dell’economia civile Antonio Genovesi e il sociologo Mauro Magatti ci ricordano infine che la generatività, ovvero la capacità dei propri percorsi di vita di incidere positivamente sulle vite altrui e di creare relazioni di qualità, è la chiave della soddisfazione e ricchezza di senso della vita. Se vogliamo uscire dalla legge dell’entropia, che sembra oggi prevalere, l’unica via percorribile è trasmettere il fascino e il valore dei “beni di stimolo”, non solo a parole ma attraverso l’esempio di una vita virtuosa e generativa.
Una responsabilità che grava in modo speciale su chi esercita ed eserciterà ruoli di leadership. È questo un metodo profondo ed essenziale per la rinascita umana, sociale, politica e economica del nostro Paese.
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Fonti
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By sardegnasoprattutto/ 19 agosto 2019/ Culture/
https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/serve-lesempio – Domenica 18 agosto 2019 .
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“ORSOLA”
19 Agosto 2019 by Forcesi | su C3dem.
Domenica 18 agosto il Messaggero pubblica un articolo di Romano Prodi: “Due congressi e un conclave per costituire un esecutivo“, in cui si propone la strada di un esecutivo “Orsola”, tra i partiti che hanno votato Ursula Von der Leyen presidente della Commissione Ue. Mario Giro (di Demos, area Pd) diceva all’Avvenire: “Sì a una coalizione Ursula per una rete di sicurezza”. Stessa proposta da Pierferdinando Casini al Corriere: “Nuova maggioranza? Chi votò Von der Leyen”. Così anche Ettore Rosato sul Messaggero: “Maggioranza più ampia dei due partiti”. E anche Renato Brunetta in un’intervista a La Stampa: “Sì a un governo sostenuto da tutti i partiti”. Sabino Cassese, sul Corriere, in un lucidissimo articolo, fotografava la crisi e le ipotesi di uscita, condividendo le condizioni poste da Prodi a una governo “Orsola” (cioè autocritiche, chiarezza, confronto serio…): “La confusione, la realtà e gli accordi che sono possibili”. Su La Verità Giorgio Gandola ironizzava: “Germania, Chiesa e Cgil votano per l’inciucio”. Matteo Renzi, intervistato da Il Giornale, diceva: “Ecco di chi mi fido davvero”. IL GIORNO DOPO: il quotidiano la Repubblica è prudente: Stefano Folli, “La mossa di Prodi e un patto difficile”; Ezio Mauro, “La buona politica e i grandi camaleonti”; Stefano Cappellini, “Ma non basta votare Ursula per essere un’alleanza”; Goffredo De Marchis, “Prodi apre ai 5stelle. Zingaretti frena, teme la scissione renziana“. Anche Marco Damilano (che però scriveva venerdì) sull’Espresso è diffidente verso il nuovo possibile ciorso: “I Mattei sbagliati”. In ogni caso sul Corriere Andrea Marcucci (renziano) dice: “Un’intesa per l’interesse nazionale…”. Sul Mattino Mauro Calise evidenzia “I 5 ostacoli da superare dopo l’autogol del Carroccio”. Le reminiscenze di Luigi Covatta sul Mattino: “Le convergenze parallele sessant’anni dopo”.
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Per salvare la nostra Casa, la Terra! Un’alleanza per il clima, la Terra e la giustizia sociale
Pubblichiamo il documento Laudato Si’, risultato di un lavoro a molte voci, su iniziativa della Casa della carità di Milano. Un lavoro aperto perché è possibile tuttora avanzare suggerimenti, proposte e perché le varie posizioni non sono giustapposte, ma convivono l’una a fianco dell’altra e come ricorda Maria Agostina Cabiddu non c’è un prendere o lasciare di tutto il documento.
- Il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, che ce lo ha inviato, sottolinea di essere interessato a questo lavoro, in cui tanti si sono impegnati come singoli e come associazioni.
- Questo documento è presentato da brevi scritti di Raniero La Valle e di Maria Agostina Cabiddu, entrambi componenti del direttivo nazionale del Cdc, che hanno partecipato al lavoro di costruzione del documento.
- La Valle in particolare pone un problema politico fondamentale: trovare le modalità per attuare politiche che non sono realizzabili senza un salto di qualità di strumenti e di iniziative.
- Può sembrare un’utopia. In realtà le utopie sono necessarie per individuare percorsi nuovi, per avere una nuova stella polare istituzionale e politica. Basta ricordare che per regolare I rapporti tra i mercati nazionali è stata costruita una struttura sovranazionale come il WTO, come del resto ne sono state costruite altre.
- Oppure sono stati ipotizzati trattati tra grandi aree del mondo per regolare i commerci, come quello tra Europa e Canada.
- Perché mai i mercati debbono potere proporre e attuare discutibili proposte di regolazione, che arrivano a mettere sullo stesso piano gli Stati e le multinazionali, mentre se si tratta di cambiare in profondità il sistema economico, le sue relazioni, i suoi obiettivi tutto questo viene liquidato come una utopia ?
- In fondo il milione di giovani e ragazze che ha manifestato per il clima e l’ambiente in tutto il mondo, proseguendo l’impegno e il protagonismo proposto da Greta Thumberg pone esattamente il problema della svolta politica ed istituzionale di cui c’è bisogno.
- La Valle con la consueta lucidità pone il problema, ipotizza delle soluzioni. La soluzione concreta dipenderà da tutti noi e quindi è bene che se ne discuta.
Per La Presidenza di CdC
Alfiero Grandi
28/5/2019
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DOCUMENTI UTILI
- La Valle – presentazione.pdf
- Un’alleanza per il clima, la Terra e la giustizia sociale 13 maggio 2019.pdf
Santa Igia
Il territorio di Santa Igia e il progetto di fondazione del Castello di Cagliari, città nuova pisana del 1215
Riassunto
Il nucleo della città nuova fu progettato dai pisani nel 1215 nei territori di Santa Igia, capitale del Giudicato di Cagliari. L’analisi di alcune parti pervenute del contesto originario permette una più ampia valutazione di vari aspetti della fondazione pisana, quali la strategia adottata per disconnettere l’assetto territoriale precedente e l’introduzione di innovazioni sul piano della costruzione urbanistica ed edilizia.
La caratura culturale della città nuova è quella di una “grande opera” in un panorama europeo nel quale le fondazioni sono una pratica diffusa. Il progetto di Cagliari interpreta istanze politiche e mercantili, eseguite secondo i più avanzati dispositivi militari, estetici, simbolici e culturali.
[segue]