Risultato della ricerca: Vanni Tola

«Spes non confundit», «la speranza non delude»: Bolla di indizione del Giubileo Ordinario dell’Anno 2025

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1. «Spes non confundit», «la speranza non delude» (Rm 5,5). Nel segno della speranza l’apostolo Paolo infonde coraggio alla comunità cristiana di Roma. La speranza è anche il messaggio centrale del prossimo Giubileo, che secondo antica tradizione il Papa indice ogni venticinque anni. Penso a tutti i pellegrini di speranza che giungeranno a Roma per vivere l’Anno Santo e a quanti, non potendo raggiungere la città degli apostoli Pietro e Paolo, lo celebreranno nelle Chiese particolari. Per tutti, possa essere un momento di incontro vivo e personale con il Signore Gesù, «porta» di salvezza (cfr. Gv 10,7.9); con Lui, che la Chiesa ha la missione di annunciare sempre, ovunque e a tutti quale «nostra speranza» (1Tm 1,1).

Tutti sperano. Nel cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del bene, pur non sapendo che cosa il domani porterà con sé. L’imprevedibilità del futuro, tuttavia, fa sorgere sentimenti a volte contrapposti: dalla fiducia al timore, dalla serenità allo sconforto, dalla certezza al dubbio. Incontriamo spesso persone sfiduciate, che guardano all’avvenire con scetticismo e pessimismo, come se nulla potesse offrire loro felicità. Possa il Giubileo essere per tutti occasione di rianimare la speranza. La Parola di Dio ci aiuta a trovarne le ragioni. Lasciamoci condurre da quanto l’apostolo Paolo scrive proprio ai cristiani di Roma.

Una Parola di speranza

2. «Giustificati dunque per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio. [...] La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,1-2.5). Sono molteplici gli spunti di riflessione che qui San Paolo propone. Sappiamo che la Lettera ai Romani segna un passaggio decisivo nella sua attività di evangelizzazione. Fino a quel momento l’ha svolta nell’area orientale dell’Impero e ora lo aspetta Roma, con quanto essa rappresenta agli occhi del mondo: una sfida grande, da affrontare in nome dell’annuncio del Vangelo, che non può conoscere barriere né confini. La Chiesa di Roma non è stata fondata da Paolo, e lui sente vivo il desiderio di raggiungerla presto, per portare a tutti il Vangelo di Gesù Cristo, morto e risorto, come annuncio della speranza che compie le promesse, introduce alla gloria e, fondata sull’amore, non delude.

3. La speranza, infatti, nasce dall’amore e si fonda sull’amore che scaturisce dal Cuore di Gesù trafitto sulla croce: «Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita» (Rm 5,10). E la sua vita si manifesta nella nostra vita di fede, che inizia con il Battesimo, si sviluppa nella docilità alla grazia di Dio ed è perciò animata dalla speranza, sempre rinnovata e resa incrollabile dall’azione dello Spirito Santo.

È infatti lo Spirito Santo, con la sua perenne presenza nel cammino della Chiesa, a irradiare nei credenti la luce della speranza: Egli la tiene accesa come una fiaccola che mai si spegne, per dare sostegno e vigore alla nostra vita. La speranza cristiana, in effetti, non illude e non delude, perché è fondata sulla certezza che niente e nessuno potrà mai separarci dall’amore divino: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? [...] Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» ( Rm 8,35.37-39). Ecco perché questa speranza non cede nelle difficoltà: essa si fonda sulla fede ed è nutrita dalla carità, e così permette di andare avanti nella vita. Sant’Agostino scrive in proposito: «In qualunque genere di vita, non si vive senza queste tre propensioni dell’anima: credere, sperare, amare». [1]

4. San Paolo è molto realista. Sa che la vita è fatta di gioie e di dolori, che l’amore viene messo alla prova quando aumentano le difficoltà e la speranza sembra crollare davanti alla sofferenza. Eppure scrive: «Ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza» (Rm 5,3-4). Per l’Apostolo, la tribolazione e la sofferenza sono le condizioni tipiche di quanti annunciano il Vangelo in contesti di incomprensione e di persecuzione (cfr. 2Cor 6,3-10). Ma in tali situazioni, attraverso il buio si scorge una luce: si scopre come a sorreggere l’evangelizzazione sia la forza che scaturisce dalla croce e dalla risurrezione di Cristo. E ciò porta a sviluppare una virtù strettamente imparentata con la speranza: la pazienza. Siamo ormai abituati a volere tutto e subito, in un mondo dove la fretta è diventata una costante. Non si ha più il tempo per incontrarsi e spesso anche nelle famiglie diventa difficile trovarsi insieme e parlare con calma. La pazienza è stata messa in fuga dalla fretta, recando un grave danno alle persone. Subentrano infatti l’insofferenza, il nervosismo, a volte la violenza gratuita, che generano insoddisfazione e chiusura.

Nell’epoca di internet, inoltre, dove lo spazio e il tempo sono soppiantati dal “qui ed ora”, la pazienza non è di casa. Se fossimo ancora capaci di guardare con stupore al creato, potremmo comprendere quanto decisiva sia la pazienza. Attendere l’alternarsi delle stagioni con i loro frutti; osservare la vita degli animali e i cicli del loro sviluppo; avere gli occhi semplici di San Francesco che nel suo Cantico delle creature, scritto proprio 800 anni fa, percepiva il creato come una grande famiglia e chiamava il sole “fratello” e la luna “sorella”. [2] Riscoprire la pazienza fa tanto bene a sé e agli altri. San Paolo fa spesso ricorso alla pazienza per sottolineare l’importanza della perseveranza e della fiducia in ciò che ci è stato promesso da Dio, ma anzitutto testimonia che Dio è paziente con noi, Lui che è «il Dio della perseveranza e della consolazione» ( Rm 15,5). La pazienza, frutto anch’essa dello Spirito Santo, tiene viva la speranza e la consolida come virtù e stile di vita. Pertanto, impariamo a chiedere spesso la grazia della pazienza, che è figlia della speranza e nello stesso tempo la sostiene.

Un cammino di speranza

5. Da questo intreccio di speranza e pazienza appare chiaro come la vita cristiana sia un cammino, che ha bisogno anche di momenti forti per nutrire e irrobustire la speranza, insostituibile compagna che fa intravedere la meta: l’incontro con il Signore Gesù. Mi piace pensare che un percorso di grazia, animato dalla spiritualità popolare, abbia preceduto l’indizione, nel 1300, del primo Giubileo. Non possiamo infatti dimenticare le varie forme attraverso cui la grazia del perdono si è riversata con abbondanza sul santo Popolo fedele di Dio. Ricordiamo, ad esempio, la grande “perdonanza” che San Celestino V volle concedere a quanti si recavano nella Basilica di Santa Maria di Collemaggio, a L’Aquila, nei giorni 28 e 29 agosto 1294, sei anni prima che Papa Bonifacio VIII istituisse l’Anno Santo. La Chiesa già sperimentava, dunque, la grazia giubilare della misericordia. E ancora prima, nel 1216, Papa Onorio III aveva accolto la supplica di San Francesco che chiedeva l’indulgenza per quanti avrebbero visitato la Porziuncola nei primi due giorni di agosto. Lo stesso si può affermare per il pellegrinaggio a Santiago di Compostela: infatti Papa Callisto II, nel 1122, concesse di celebrare il Giubileo in quel Santuario ogni volta che la festa dell’apostolo Giacomo cadeva di domenica. È bene che tale modalità “diffusa” di celebrazioni giubilari continui, così che la forza del perdono di Dio sostenga e accompagni il cammino delle comunità e delle persone.

Non a caso il pellegrinaggio esprime un elemento fondamentale di ogni evento giubilare. Mettersi in cammino è tipico di chi va alla ricerca del senso della vita. Il pellegrinaggio a piedi favorisce molto la riscoperta del valore del silenzio, della fatica, dell’essenzialità. Anche nel prossimo anno i pellegrini di speranza non mancheranno di percorrere vie antiche e moderne per vivere intensamente l’esperienza giubilare. Nella stessa città di Roma, inoltre, saranno presenti itinerari di fede, in aggiunta a quelli tradizionali delle catacombe e delle Sette Chiese. Transitare da un Paese all’altro, come se i confini fossero superati, passare da una città all’altra nella contemplazione del creato e delle opere d’arte permetterà di fare tesoro di esperienze e culture differenti, per portare dentro di sé la bellezza che, armonizzata dalla preghiera, conduce a ringraziare Dio per le meraviglie da Lui compiute. Le chiese giubilari, lungo i percorsi e nell’Urbe, potranno essere oasi di spiritualità dove ristorare il cammino della fede e abbeverarsi alle sorgenti della speranza, anzitutto accostandosi al Sacramento della Riconciliazione, insostituibile punto di partenza di un reale cammino di conversione. Nelle Chiese particolari si curi in modo speciale la preparazione dei sacerdoti e dei fedeli alle Confessioni e l’accessibilità al sacramento nella forma individuale.

A questo pellegrinaggio un invito particolare voglio rivolgere ai fedeli delle Chiese Orientali, in particolare a coloro che sono già in piena comunione con il Successore di Pietro. Essi, che hanno tanto sofferto, spesso fino alla morte, per la loro fedeltà a Cristo e alla Chiesa, si devono sentire particolarmente benvenuti in questa Roma che è Madre anche per loro e che custodisce tante memorie della loro presenza. La Chiesa Cattolica, che è arricchita dalle loro antichissime liturgie, dalla teologia e dalla spiritualità dei Padri, monaci e teologi, vuole esprimere simbolicamente l’accoglienza loro e dei loro fratelli e sorelle ortodossi, in un’epoca in cui già vivono il pellegrinaggio della Via Crucis, con cui sono spesso costretti a lasciare le loro terre d’origine, le loro terre sante, da cui li scacciano verso Paesi più sicuri la violenza e l’instabilità. Per loro la speranza di essere amati dalla Chiesa, che non li abbandonerà, ma li seguirà dovunque andranno, rende ancora più forte il segno del Giubileo.

6. L’Anno Santo 2025 si pone in continuità con i precedenti eventi di grazia. Nell’ultimo Giubileo Ordinario si è varcata la soglia dei duemila anni della nascita di Gesù Cristo. In seguito, il 13 marzo 2015, ho indetto un Giubileo Straordinario con lo scopo di manifestare e permettere di incontrare il “Volto della misericordia” di Dio, [3] annuncio centrale del Vangelo per ogni persona in ogni epoca. Ora è giunto il tempo di un nuovo Giubileo, nel quale spalancare ancora la Porta Santa per offrire l’esperienza viva dell’amore di Dio, che suscita nel cuore la speranza certa della salvezza in Cristo. Nello stesso tempo, questo Anno Santo orienterà il cammino verso un’altra ricorrenza fondamentale per tutti i cristiani: nel 2033, infatti, si celebreranno i duemila anni della Redenzione compiuta attraverso la passione, morte e risurrezione del Signore Gesù. Siamo così dinanzi a un percorso segnato da grandi tappe, nelle quali la grazia di Dio precede e accompagna il popolo che cammina zelante nella fede, operoso nella carità e perseverante nella speranza (cfr. 1Ts 1,3).

Sostenuto da una così lunga tradizione e nella certezza che questo Anno giubilare potrà essere per tutta la Chiesa un’intensa esperienza di grazia e di speranza, stabilisco che la Porta Santa della Basilica di San Pietro in Vaticano sia aperta il 24 dicembre del presente anno 2024, dando così inizio al Giubileo Ordinario. La domenica successiva, 29 dicembre 2024, aprirò la Porta Santa della mia cattedrale di San Giovanni in Laterano, che il 9 novembre di quest’anno celebrerà i 1700 anni della dedicazione. A seguire, il 1° gennaio 2025, Solennità di Maria Santissima Madre di Dio, verrà aperta la Porta Santa della Basilica papale di Santa Maria Maggiore. Infine, domenica 5 gennaio sarà aperta la Porta Santa della Basilica papale di San Paolo fuori le Mura. Queste ultime tre Porte Sante saranno chiuse entro domenica 28 dicembre dello stesso anno.

Stabilisco inoltre che domenica 29 dicembre 2024, in tutte le cattedrali e concattedrali, i Vescovi diocesani celebrino la santa Eucaristia come solenne apertura dell’Anno giubilare, secondo il Rituale che verrà predisposto per l’occasione. Per la celebrazione nella chiesa concattedrale, il Vescovo potrà essere sostituito da un suo Delegato appositamente designato. Il pellegrinaggio da una chiesa, scelta per la collectio, verso la cattedrale sia il segno del cammino di speranza che, illuminato dalla Parola di Dio, accomuna i credenti. In esso si dia lettura di alcuni brani del presente Documento e si annunci al popolo l’Indulgenza Giubilare, che potrà essere ottenuta secondo le prescrizioni contenute nel medesimo Rituale per la celebrazione del Giubileo nelle Chiese particolari. Durante l’Anno Santo, che nelle Chiese particolari terminerà domenica 28 dicembre 2025, si abbia cura che il Popolo di Dio possa accogliere con piena partecipazione sia l’annuncio di speranza della grazia di Dio sia i segni che ne attestano l’efficacia.

Il Giubileo Ordinario terminerà con la chiusura della Porta Santa della Basilica papale di San Pietro in Vaticano il 6 gennaio 2026, Epifania del Signore. Possa la luce della speranza cristiana raggiungere ogni persona, come messaggio dell’amore di Dio rivolto a tutti! E possa la Chiesa essere testimone fedele di questo annuncio in ogni parte del mondo!

Segni di speranza

7. Oltre ad attingere la speranza nella grazia di Dio, siamo chiamati a riscoprirla anche nei segni dei tempi che il Signore ci offre. Come afferma il Concilio Vaticano II, «è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche». [4] È necessario, quindi, porre attenzione al tanto bene che è presente nel mondo per non cadere nella tentazione di ritenerci sopraffatti dal male e dalla violenza. Ma i segni dei tempi, che racchiudono l’anelito del cuore umano, bisognoso della presenza salvifica di Dio, chiedono di essere trasformati in segni di speranza.

8. Il primo segno di speranza si traduca in pace per il mondo, che ancora una volta si trova immerso nella tragedia della guerra. Immemore dei drammi del passato, l’umanità è sottoposta a una nuova e difficile prova che vede tante popolazioni oppresse dalla brutalità della violenza. Cosa manca ancora a questi popoli che già non abbiano subito? Com’è possibile che il loro grido disperato di aiuto non spinga i responsabili delle Nazioni a voler porre fine ai troppi conflitti regionali, consapevoli delle conseguenze che ne possono derivare a livello mondiale? È troppo sognare che le armi tacciano e smettano di portare distruzione e morte? Il Giubileo ricordi che quanti si fanno «operatori di pace saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9). L’esigenza della pace interpella tutti e impone di perseguire progetti concreti. Non venga a mancare l’impegno della diplomazia per costruire con coraggio e creatività spazi di trattativa finalizzati a una pace duratura.

9. Guardare al futuro con speranza equivale anche ad avere una visione della vita carica di entusiasmo da trasmettere. Purtroppo, dobbiamo constatare con tristezza che in tante situazioni tale prospettiva viene a mancare. La prima conseguenza è la perdita del desiderio di trasmettere la vita. A causa dei ritmi di vita frenetici, dei timori riguardo al futuro, della mancanza di garanzie lavorative e tutele sociali adeguate, di modelli sociali in cui a dettare l’agenda è la ricerca del profitto anziché la cura delle relazioni, si assiste in vari Paesi a un preoccupante calo della natalità. Al contrario, in altri contesti, «incolpare l’incremento demografico e non il consumismo estremo e selettivo di alcuni, è un modo per non affrontare i problemi». [5]

L’apertura alla vita con una maternità e paternità responsabile è il progetto che il Creatore ha inscritto nel cuore e nel corpo degli uomini e delle donne, una missione che il Signore affida agli sposi e al loro amore. È urgente che, oltre all’impegno legislativo degli Stati, non venga a mancare il sostegno convinto delle comunità credenti e dell’intera comunità civile in tutte le sue componenti, perché il desiderio dei giovani di generare nuovi figli e figlie, come frutto della fecondità del loro amore, dà futuro ad ogni società ed è questione di speranza: dipende dalla speranza e genera speranza.

La comunità cristiana perciò non può essere seconda a nessuno nel sostenere la necessità di un’alleanza sociale per la speranza, che sia inclusiva e non ideologica, e lavori per un avvenire segnato dal sorriso di tanti bambini e bambine che vengano a riempire le ormai troppe culle vuote in molte parti del mondo. Ma tutti, in realtà, hanno bisogno di recuperare la gioia di vivere, perché l’essere umano, creato a immagine e somiglianza di Dio (cfr. Gen 1,26), non può accontentarsi di sopravvivere o vivacchiare, di adeguarsi al presente lasciandosi soddisfare da realtà soltanto materiali. Ciò rinchiude nell’individualismo e corrode la speranza, generando una tristezza che si annida nel cuore, rendendo acidi e insofferenti.

10. Nell’Anno giubilare saremo chiamati ad essere segni tangibili di speranza per tanti fratelli e sorelle che vivono in condizioni di disagio. Penso ai detenuti che, privi della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto. Propongo ai Governi che nell’Anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi.

È un richiamo antico, che proviene dalla Parola di Dio e permane con tutto il suo valore sapienziale nell’invocare atti di clemenza e di liberazione che permettano di ricominciare: «Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti» ( Lv 25,10). Quanto stabilito dalla Legge mosaica è ripreso dal profeta Isaia: «Il Signore mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore» ( Is 61,1-2). Sono le parole che Gesù ha fatto proprie all’inizio del suo ministero, dichiarando in sé stesso il compimento dell’“anno di grazia del Signore” (cfr. Lc 4,18-19). In ogni angolo della terra, i credenti, specialmente i Pastori, si facciano interpreti di tali istanze, formando una voce sola che chieda con coraggio condizioni dignitose per chi è recluso, rispetto dei diritti umani e soprattutto l’abolizione della pena di morte, provvedimento contrario alla fede cristiana e che annienta ogni speranza di perdono e di rinnovamento. [6] Per offrire ai detenuti un segno concreto di vicinanza, io stesso desidero aprire una Porta Santa in un carcere, perché sia per loro un simbolo che invita a guardare all’avvenire con speranza e con rinnovato impegno di vita.

11. Segni di speranza andranno offerti agli ammalati, che si trovano a casa o in ospedale. Le loro sofferenze possano trovare sollievo nella vicinanza di persone che li visitano e nell’affetto che ricevono. Le opere di misericordia sono anche opere di speranza, che risvegliano nei cuori sentimenti di gratitudine. E la gratitudine raggiunga tutti gli operatori sanitari che, in condizioni non di rado difficili, esercitano la loro missione con cura premurosa per le persone malate e più fragili.

Non manchi l’attenzione inclusiva verso quanti, trovandosi in condizioni di vita particolarmente faticose, sperimentano la propria debolezza, specialmente se affetti da patologie o disabilità che limitano molto l’autonomia personale. La cura per loro è un inno alla dignità umana, un canto di speranza che richiede la coralità della società intera.

12. Di segni di speranza hanno bisogno anche coloro che in sé stessi la rappresentano: i giovani. Essi, purtroppo, vedono spesso crollare i loro sogni. Non possiamo deluderli: sul loro entusiasmo si fonda l’avvenire. È bello vederli sprigionare energie, ad esempio quando si rimboccano le maniche e si impegnano volontariamente nelle situazioni di calamità e di disagio sociale. Ma è triste vedere giovani privi di speranza; d’altronde, quando il futuro è incerto e impermeabile ai sogni, quando lo studio non offre sbocchi e la mancanza di un lavoro o di un’occupazione sufficientemente stabile rischiano di azzerare i desideri, è inevitabile che il presente sia vissuto nella malinconia e nella noia. L’illusione delle droghe, il rischio della trasgressione e la ricerca dell’effimero creano in loro più che in altri confusione e nascondono la bellezza e il senso della vita, facendoli scivolare in baratri oscuri e spingendoli a compiere gesti autodistruttivi. Per questo il Giubileo sia nella Chiesa occasione di slancio nei loro confronti: con una rinnovata passione prendiamoci cura dei ragazzi, degli studenti, dei fidanzati, delle giovani generazioni! Vicinanza ai giovani, gioia e speranza della Chiesa e del mondo!

13. Non potranno mancare segni di speranza nei riguardi dei migranti, che abbandonano la loro terra alla ricerca di una vita migliore per sé stessi e per le loro famiglie. Le loro attese non siano vanificate da pregiudizi e chiusure; l’accoglienza, che spalanca le braccia ad ognuno secondo la sua dignità, si accompagni con la responsabilità, affinché a nessuno sia negato il diritto di costruire un futuro migliore. Ai tanti esuli, profughi e rifugiati, che le controverse vicende internazionali obbligano a fuggire per evitare guerre, violenze e discriminazioni, siano garantiti la sicurezza e l’accesso al lavoro e all’istruzione, strumenti necessari per il loro inserimento nel nuovo contesto sociale.

La comunità cristiana sia sempre pronta a difendere il diritto dei più deboli. Spalanchi con generosità le porte dell’accoglienza, perché a nessuno venga mai a mancare la speranza di una vita migliore. Risuoni nei cuori la Parola del Signore che, nella grande parabola del giudizio finale, ha detto: «Ero straniero e mi avete accolto», perché «tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli l’avete fatto a me» (Mt 25,35.40).

14. Segni di speranza meritano gli anziani, che spesso sperimentano solitudine e senso di abbandono. Valorizzare il tesoro che sono, la loro esperienza di vita, la sapienza di cui sono portatori e il contributo che sono in grado di offrire, è un impegno per la comunità cristiana e per la società civile, chiamate a lavorare insieme per l’alleanza tra le generazioni.

Un pensiero particolare rivolgo ai nonni e alle nonne, che rappresentano la trasmissione della fede e della saggezza di vita alle generazioni più giovani. Siano sostenuti dalla gratitudine dei figli e dall’amore dei nipoti, che trovano in loro radicamento, comprensione e incoraggiamento.

15. Speranza invoco in modo accorato per i miliardi di poveri, che spesso mancano del necessario per vivere. Di fronte al susseguirsi di sempre nuove ondate di impoverimento, c’è il rischio di abituarsi e rassegnarsi. Ma non possiamo distogliere lo sguardo da situazioni tanto drammatiche, che si riscontrano ormai ovunque, non soltanto in determinate aree del mondo. Incontriamo persone povere o impoverite ogni giorno e a volte possono essere nostre vicine di casa. Spesso non hanno un’abitazione, né il cibo adeguato per la giornata. Soffrono l’esclusione e l’indifferenza di tanti. È scandaloso che, in un mondo dotato di enormi risorse, destinate in larga parte agli armamenti, i poveri siano «la maggior parte […], miliardi di persone. Oggi sono menzionati nei dibattiti politici ed economici internazionali, ma per lo più sembra che i loro problemi si pongano come un’appendice, come una questione che si aggiunga quasi per obbligo o in maniera periferica, se non li si considera un mero danno collaterale. Di fatto, al momento dell’attuazione concreta, rimangono frequentemente all’ultimo posto». [7] Non dimentichiamo: i poveri, quasi sempre, sono vittime, non colpevoli.

Appelli per la speranza

16. Facendo eco alla parola antica dei profeti, il Giubileo ricorda che i beni della Terra non sono destinati a pochi privilegiati, ma a tutti. È necessario che quanti possiedono ricchezze si facciano generosi, riconoscendo il volto dei fratelli nel bisogno. Penso in particolare a coloro che mancano di acqua e di cibo: la fame è una piaga scandalosa nel corpo della nostra umanità e invita tutti a un sussulto di coscienza. Rinnovo l’appello affinché «con il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari costituiamo un Fondo mondiale per eliminare finalmente la fame e per lo sviluppo dei Paesi più poveri, così che i loro abitanti non ricorrano a soluzioni violente o ingannevoli e non siano costretti ad abbandonare i loro Paesi per cercare una vita più dignitosa». [8]

Un altro invito accorato desidero rivolgere in vista dell’Anno giubilare: è destinato alle Nazioni più benestanti, perché riconoscano la gravità di tante decisioni prese e stabiliscano di condonare i debiti di Paesi che mai potrebbero ripagarli. Prima che di magnanimità, è una questione di giustizia, aggravata oggi da una nuova forma di iniquità di cui ci siamo resi consapevoli: «C’è infatti un vero “debito ecologico”, soprattutto tra il Nord e il Sud, connesso a squilibri commerciali con conseguenze in ambito ecologico, come pure all’uso sproporzionato delle risorse naturali compiuto storicamente da alcuni Paesi». [9] Come insegna la Sacra Scrittura, la terra appartiene a Dio e noi tutti vi abitiamo come «forestieri e ospiti» ( Lv 25,23). Se veramente vogliamo preparare nel mondo la via della pace, impegniamoci a rimediare alle cause remote delle ingiustizie, ripianiamo i debiti iniqui e insolvibili, saziamo gli affamati.

17. Durante il prossimo Giubileo cadrà una ricorrenza molto significativa per tutti i cristiani. Si compiranno, infatti, 1700 anni dalla celebrazione del primo grande Concilio ecumenico, quello di Nicea. È bene ricordare che, fin dai tempi apostolici, i Pastori si riunirono in diverse occasioni in assemblee allo scopo di trattare tematiche dottrinali e questioni disciplinari. Nei primi secoli della fede i Sinodi si moltiplicarono sia nell’Oriente sia nell’Occidente cristiano, mostrando quanto fosse importante custodire l’unità del Popolo di Dio e l’annuncio fedele del Vangelo. L’Anno giubilare potrà essere un’opportunità importante per dare concretezza a questa forma sinodale, che la comunità cristiana avverte oggi come espressione sempre più necessaria per meglio corrispondere all’urgenza dell’evangelizzazione: tutti i battezzati, ognuno con il proprio carisma e ministero, corresponsabili affinché molteplici segni di speranza testimonino la presenza di Dio nel mondo.

Il Concilio di Nicea ebbe il compito di preservare l’unità, seriamente minacciata dalla negazione della divinità di Gesù Cristo e della sua uguaglianza con il Padre. Erano presenti circa trecento Vescovi, che si riunirono nel palazzo imperiale convocati su impulso dell’imperatore Costantino il 20 maggio 325. Dopo vari dibattimenti, tutti, con la grazia dello Spirito, si riconobbero nel Simbolo di fede che ancora oggi professiamo nella Celebrazione eucaristica domenicale. I Padri conciliari vollero iniziare quel Simbolo utilizzando per la prima volta l’espressione «Noi crediamo», [10] a testimonianza che in quel “Noi” tutte le Chiese si ritrovavano in comunione, e tutti i cristiani professavano la medesima fede.

Il Concilio di Nicea è una pietra miliare nella storia della Chiesa. L’anniversario della sua ricorrenza invita i cristiani a unirsi nella lode e nel ringraziamento alla Santissima Trinità e in particolare a Gesù Cristo, il Figlio di Dio, «della stessa sostanza del Padre», [11] che ci ha rivelato tale mistero di amore. Ma Nicea rappresenta anche un invito a tutte le Chiese e Comunità ecclesiali a procedere nel cammino verso l’unità visibile, a non stancarsi di cercare forme adeguate per corrispondere pienamente alla preghiera di Gesù: «Perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» ( Gv 17,21).

Al Concilio di Nicea si trattò anche della datazione della Pasqua. A tale riguardo, vi sono ancora oggi posizioni differenti, che impediscono di celebrare nello stesso giorno l’evento fondante della fede. Per una provvidenziale circostanza, ciò avverrà proprio nell’Anno 2025. Possa essere questo un appello per tutti i cristiani d’Oriente e d’Occidente a compiere un passo deciso verso l’unità intorno a una data comune per la Pasqua. Molti, è bene ricordarlo, non hanno più cognizione delle diatribe del passato e non comprendono come possano sussistere divisioni a tale proposito.

Ancorati alla speranza

18. La speranza, insieme alla fede e alla carità, forma il trittico delle “virtù teologali”, che esprimono l’essenza della vita cristiana (cfr. 1Cor 13,13; 1Ts 1,3). Nel loro dinamismo inscindibile, la speranza è quella che, per così dire, imprime l’orientamento, indica la direzione e la finalità dell’esistenza credente. Perciò l’apostolo Paolo invita ad essere «lieti nella speranza, costanti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera» (Rm 12,12). Sì, abbiamo bisogno di «abbondare nella speranza» (cfr. Rm 15,13) per testimoniare in modo credibile e attraente la fede e l’amore che portiamo nel cuore; perché la fede sia gioiosa, la carità entusiasta; perché ognuno sia in grado di donare anche solo un sorriso, un gesto di amicizia, uno sguardo fraterno, un ascolto sincero, un servizio gratuito, sapendo che, nello Spirito di Gesù, ciò può diventare per chi lo riceve un seme fecondo di speranza. Ma qual è il fondamento del nostro sperare? Per comprenderlo è bene soffermarci sulle ragioni della nostra speranza (cfr. 1Pt 3,15).

19. «Credo la vita eterna»: [12] così professa la nostra fede e la speranza cristiana trova in queste parole un cardine fondamentale. Essa, infatti, «è la virtù teologale per la quale desideriamo […] la vita eterna come nostra felicità». [13] Il Concilio Ecumenico Vaticano II afferma: «Se manca la base religiosa e la speranza della vita eterna, la dignità umana viene lesa in maniera assai grave, come si constata spesso al giorno d’oggi, e gli enigmi della vita e della morte, della colpa e del dolore rimangono senza soluzione, tanto che non di rado gli uomini sprofondano nella disperazione». [14] Noi, invece, in virtù della speranza nella quale siamo stati salvati, guardando al tempo che scorre, abbiamo la certezza che la storia dell’umanità e quella di ciascuno di noi non corrono verso un punto cieco o un baratro oscuro, ma sono orientate all’incontro con il Signore della gloria. Viviamo dunque nell’attesa del suo ritorno e nella speranza di vivere per sempre in Lui: è con questo spirito che facciamo nostra la commossa invocazione dei primi cristiani, con la quale termina la Sacra Scrittura: «Vieni, Signore Gesù!» ( Ap 22,20).

20. Gesù morto e risorto è il cuore della nostra fede. San Paolo, nell’enunciare in poche parole, utilizzando solo quattro verbi, tale contenuto, ci trasmette il “nucleo” della nostra speranza: «A voi […] ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici» ( 1Cor 15,3-5). Cristo morì, fu sepolto, è risorto, apparve. Per noi è passato attraverso il dramma della morte. L’amore del Padre lo ha risuscitato nella forza dello Spirito, facendo della sua umanità la primizia dell’eternità per la nostra salvezza. La speranza cristiana consiste proprio in questo: davanti alla morte, dove tutto sembra finire, si riceve la certezza che, grazie a Cristo, alla sua grazia che ci è stata comunicata nel Battesimo, «la vita non è tolta, ma trasformata», [15] per sempre. Nel Battesimo, infatti, sepolti insieme con Cristo, riceviamo in Lui risorto il dono di una vita nuova, che abbatte il muro della morte, facendo di essa un passaggio verso l’eternità.

E se di fronte alla morte, dolorosa separazione che costringe a lasciare gli affetti più cari, non è consentita alcuna retorica, il Giubileo ci offrirà l’opportunità di riscoprire, con immensa gratitudine, il dono di quella vita nuova ricevuta nel Battesimo in grado di trasfigurarne il dramma. È significativo ripensare, nel contesto giubilare, a come tale mistero sia stato compreso fin dai primi secoli della fede. Per lungo tempo, ad esempio, i cristiani hanno costruito la vasca battesimale a forma ottagonale, e ancora oggi possiamo ammirare molti battisteri antichi che conservano tale forma, come a Roma presso San Giovanni in Laterano. Essa indica che nel fonte battesimale viene inaugurato l’ottavo giorno, cioè quello della risurrezione, il giorno che va oltre il ritmo abituale, segnato dalla scadenza settimanale, aprendo così il ciclo del tempo alla dimensione dell’eternità, alla vita che dura per sempre: questo è il traguardo a cui tendiamo nel nostro pellegrinaggio terreno (cfr. Rm 6,22).

La testimonianza più convincente di tale speranza ci viene offerta dai martiri, che, saldi nella fede in Cristo risorto, hanno saputo rinunciare alla vita stessa di quaggiù pur di non tradire il loro Signore. Essi sono presenti in tutte le epoche e sono numerosi, forse più che mai, ai nostri giorni, quali confessori della vita che non conosce fine. Abbiamo bisogno di custodire la loro testimonianza per rendere feconda la nostra speranza.

Questi martiri, appartenenti alle diverse tradizioni cristiane, sono anche semi di unità perché esprimono l’ecumenismo del sangue. Durante il Giubileo pertanto è mio vivo desiderio che non manchi una celebrazione ecumenica in modo da rendere evidente la ricchezza della testimonianza di questi martiri.

21. Cosa sarà dunque di noi dopo la morte? Con Gesù al di là di questa soglia c’è la vita eterna, che consiste nella comunione piena con Dio, nella contemplazione e partecipazione del suo amore infinito. Quanto adesso viviamo nella speranza, allora lo vedremo nella realtà. Sant’Agostino in proposito scriveva: «Quando mi sarò unito a te con tutto me stesso, non esisterà per me dolore e pena dovunque. Sarà vera vita la mia vita, tutta piena di te». [16] Cosa caratterizzerà dunque tale pienezza di comunione? L’essere felici. La felicità è la vocazione dell’essere umano, un traguardo che riguarda tutti.

Ma che cos’è la felicità? Quale felicità attendiamo e desideriamo? Non un’allegria passeggera, una soddisfazione effimera che, una volta raggiunta, chiede ancora e sempre di più, in una spirale di avidità in cui l’animo umano non è mai sazio, ma sempre più vuoto. Abbiamo bisogno di una felicità che si compia definitivamente in quello che ci realizza, ovvero nell’amore, così da poter dire, già ora: «Sono amato, dunque esisto; ed esisterò per sempre nell’Amore che non delude e dal quale niente e nessuno potrà mai separarmi». Ricordiamo ancora le parole dell’Apostolo: «Io sono […] persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,38-39).

22. Un’altra realtà connessa con la vita eterna è il giudizio di Dio, sia al termine della nostra esistenza che alla fine dei tempi. L’arte ha spesso cercato di rappresentarlo – pensiamo al capolavoro di Michelangelo nella Cappella Sistina – accogliendo la concezione teologica del tempo e trasmettendo in chi osserva un senso di timore. Se è giusto disporci con grande consapevolezza e serietà al momento che ricapitola l’esistenza, al tempo stesso è necessario farlo sempre nella dimensione della speranza, virtù teologale che sostiene la vita e permette di non cadere nella paura. Il giudizio di Dio, che è amore (cfr. 1Gv 4,8.16), non potrà che basarsi sull’amore, in special modo su quanto lo avremo o meno praticato nei riguardi dei più bisognosi, nei quali Cristo, il Giudice stesso, è presente (cfr. Mt 25,31-46). Si tratta pertanto di un giudizio diverso da quello degli uomini e dei tribunali terreni; va compreso come una relazione di verità con Dio-amore e con sé stessi all’interno del mistero insondabile della misericordia divina. La Sacra Scrittura afferma in proposito: «Hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare gli uomini, e hai dato ai tuoi figli la buona speranza che, dopo i peccati, tu concedi il pentimento […] e ci aspettiamo misericordia, quando siamo giudicati» ( Sap 12,19.22). Come scriveva Benedetto XVI, «nel momento del Giudizio sperimentiamo ed accogliamo questo prevalere del suo amore su tutto il male nel mondo e in noi. Il dolore dell’amore diventa la nostra salvezza e la nostra gioia». [17]

Il giudizio, quindi, riguarda la salvezza nella quale speriamo e che Gesù ci ha ottenuto con la sua morte e risurrezione. Esso, pertanto, è volto ad aprire all’incontro definitivo con Lui. E poiché in tale contesto non si può pensare che il male compiuto rimanga nascosto, esso ha bisogno di venire purificato, per consentirci il passaggio definitivo nell’amore di Dio. Si comprende in tal senso la necessità di pregare per quanti hanno concluso il cammino terreno, solidarietà nell’intercessione orante che rinviene la propria efficacia nella comunione dei santi, nel comune vincolo che ci unisce in Cristo, primogenito della creazione. Così l’indulgenza giubilare, in forza della preghiera, è destinata in modo particolare a quanti ci hanno preceduto, perché ottengano piena misericordia.

23. L’indulgenza, infatti, permette di scoprire quanto sia illimitata la misericordia di Dio. Non è un caso che nell’antichità il termine “misericordia” fosse interscambiabile con quello di “indulgenza”, proprio perché esso intende esprimere la pienezza del perdono di Dio che non conosce confini.

Il Sacramento della Penitenza ci assicura che Dio cancella i nostri peccati. Ritornano con la loro carica di consolazione le parole del Salmo: «Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità, salva dalla fossa la tua vita, ti circonda di bontà e misericordia. […] Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore. […] Non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe. Perché quanto il cielo è alto sulla terra, così la sua misericordia è potente su quelli che lo temono; quanto dista l’oriente dall’occidente, così allontana da noi le nostre colpe» (Sal 103,3-4.8.10-12). La Riconciliazione sacramentale non è solo una bella opportunità spirituale, ma rappresenta un passo decisivo, essenziale e irrinunciabile per il cammino di fede di ciascuno. Lì permettiamo al Signore di distruggere i nostri peccati, di risanarci il cuore, di rialzarci e di abbracciarci, di farci conoscere il suo volto tenero e compassionevole. Non c’è infatti modo migliore per conoscere Dio che lasciarsi riconciliare da Lui (cfr. 2Cor 5,20), assaporando il suo perdono. Non rinunciamo dunque alla Confessione, ma riscopriamo la bellezza del sacramento della guarigione e della gioia, la bellezza del perdono dei peccati!

Tuttavia, come sappiamo per esperienza personale, il peccato “lascia il segno”, porta con sé delle conseguenze: non solo esteriori, in quanto conseguenze del male commesso, ma anche interiori, in quanto «ogni peccato, anche veniale, provoca un attaccamento malsano alle creature, che ha bisogno di purificazione, sia quaggiù, sia dopo la morte, nello stato chiamato purgatorio». [18] Dunque permangono, nella nostra umanità debole e attratta dal male, dei “residui del peccato”. Essi vengono rimossi dall’indulgenza, sempre per la grazia di Cristo, il quale, come scrisse San Paolo VI, è «la nostra “indulgenza”». [19] La Penitenzieria Apostolica provvederà ad emanare le disposizioni per poter ottenere e rendere effettiva la pratica dell’Indulgenza Giubilare.

Tale esperienza piena di perdono non può che aprire il cuore e la mente a perdonare. Perdonare non cambia il passato, non può modificare ciò che è già avvenuto; e, tuttavia, il perdono può permettere di cambiare il futuro e di vivere in modo diverso, senza rancore, livore e vendetta. Il futuro rischiarato dal perdono consente di leggere il passato con occhi diversi, più sereni, seppure ancora solcati da lacrime.

Nello scorso Giubileo Straordinario ho istituito i Missionari della Misericordia, che continuano a svolgere un’importante missione. Possano anche durante il prossimo Giubileo esercitare il loro ministero, restituendo speranza e perdonando ogni volta che un peccatore si rivolge a loro con cuore aperto e animo pentito. Continuino ad essere strumenti di riconciliazione e aiutino a guardare l’avvenire con la speranza del cuore che proviene dalla misericordia del Padre. Auspico che i Vescovi possano avvalersi del loro prezioso servizio, specialmente inviandoli laddove la speranza è messa a dura prova, come nelle carceri, negli ospedali e nei luoghi in cui la dignità della persona viene calpestata, nelle situazioni più disagiate e nei contesti di maggior degrado, perché nessuno sia privo della possibilità di ricevere il perdono e la consolazione di Dio.

24. La speranza trova nella Madre di Dio la più alta testimone. In lei vediamo come la speranza non sia fatuo ottimismo, ma dono di grazia nel realismo della vita. Come ogni mamma, tutte le volte che guardava al Figlio pensava al suo futuro, e certamente nel cuore restavano scolpite quelle parole che Simeone le aveva rivolto nel tempio: «Egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima» (Lc 2,34-35). E ai piedi della croce, mentre vedeva Gesù innocente soffrire e morire, pur attraversata da un dolore straziante, ripeteva il suo “sì”, senza perdere la speranza e la fiducia nel Signore. In tal modo ella cooperava per noi al compimento di quanto suo Figlio aveva detto, annunciando che avrebbe dovuto «soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere»
(Mc 8,31), e nel travaglio di quel dolore offerto per amore diventava Madre nostra, Madre della speranza. Non è un caso che la pietà popolare continui a invocare la Vergine Santa come Stella maris, un titolo espressivo della speranza certa che nelle burrascose vicende della vita la Madre di Dio viene in nostro aiuto, ci sorregge e ci invita ad avere fiducia e a continuare a sperare.

In proposito, mi piace ricordare che il Santuario di Nostra Signora di Guadalupe, a Città del Messico, si sta preparando a celebrare, nel 2031, i 500 anni dalla prima apparizione della Vergine. Attraverso il giovane Juan Diego la Madre di Dio faceva giungere un rivoluzionario messaggio di speranza che anche oggi ripete a tutti i pellegrini e ai fedeli: «Non sto forse qui io, che sono tua madre?». [20] Un messaggio simile viene impresso nei cuori in tanti Santuari mariani sparsi nel mondo, mete di numerosi pellegrini, che affidano alla Madre di Dio preoccupazioni, dolori e attese. In questo Anno giubilare i Santuari siano luoghi santi di accoglienza e spazi privilegiati per generare speranza. Invito i pellegrini che verranno a Roma a fare una sosta di preghiera nei Santuari mariani della città per venerare la Vergine Maria e invocare la sua protezione. Sono fiducioso che tutti, specialmente quanti soffrono e sono tribolati, potranno sperimentare la vicinanza della più affettuosa delle mamme, che mai abbandona i suoi figli, lei che per il santo Popolo di Dio è «segno di sicura speranza e di consolazione». [21]

25. In cammino verso il Giubileo, ritorniamo alla Sacra Scrittura e sentiamo rivolte a noi queste parole: «Noi, che abbiamo cercato rifugio in lui, abbiamo un forte incoraggiamento ad afferrarci saldamente alla speranza che ci è proposta. In essa infatti abbiamo come un’àncora sicura e salda per la nostra vita: essa entra fino al di là del velo del santuario, dove Gesù è entrato come precursore per noi» (Eb 6,18-20). È un invito forte a non perdere mai la speranza che ci è stata donata, a tenerla stretta trovando rifugio in Dio.

L’immagine dell’àncora è suggestiva per comprendere la stabilità e la sicurezza che, in mezzo alle acque agitate della vita, possediamo se ci affidiamo al Signore Gesù. Le tempeste non potranno mai avere la meglio, perché siamo ancorati alla speranza della grazia, capace di farci vivere in Cristo superando il peccato, la paura e la morte. Questa speranza, ben più grande delle soddisfazioni di ogni giorno e dei miglioramenti delle condizioni di vita, ci trasporta al di là delle prove e ci esorta a camminare senza perdere di vista la grandezza della meta alla quale siamo chiamati, il Cielo.

Il prossimo Giubileo, dunque, sarà un Anno Santo caratterizzato dalla speranza che non tramonta, quella in Dio. Ci aiuti pure a ritrovare la fiducia necessaria, nella Chiesa come nella società, nelle relazioni interpersonali, nei rapporti internazionali, nella promozione della dignità di ogni persona e nel rispetto del creato. La testimonianza credente possa essere nel mondo lievito di genuina speranza, annuncio di cieli nuovi e terra nuova (cfr. 2Pt 3,13), dove abitare nella giustizia e nella concordia tra i popoli, protesi verso il compimento della promessa del Signore.

Lasciamoci fin d’ora attrarre dalla speranza e permettiamo che attraverso di noi diventi contagiosa per quanti la desiderano. Possa la nostra vita dire loro: «Spera nel Signore, sii forte, si rinsaldi il tuo cuore e spera nel Signore» (Sal 27,14). Possa la forza della speranza riempire il nostro presente, nell’attesa fiduciosa del ritorno del Signore Gesù Cristo, al quale va la lode e la gloria ora e per i secoli futuri.

Dato a Roma, presso San Giovanni in Laterano, il 9 maggio, Solennità dell’Ascensione di Nostro Signore Gesù Cristo, dell’Anno 2024, dodicesimo di Pontificato.

FRANCESCO

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NOTE (segue)

Guilcer: dalla nostra inviata (in bicicletta) Carla Deplano

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Non solo mare: in bicicletta tra i novenari del Guilcer
.
di Carla Deplano

Metti un itinerario alternativo al mare, nel cuore della Sardegna selvaggia. Come una delle ciclo-escursioni organizzate dal CAI Club Alpino Italiano della sezione di Oristano. 40 chilometri di sterrata, carrareccia e asfalto tra ulivi millenari e il lago Omodeo come quinta scenografica alla scoperta di architetture preistoriche (nuraghi e domus de janas) e medievali del Comune di Ghilarza.
Le tappe: nuraghe Oschini, novenari della Madonna di Trempu, di San Serafino, di San Giovanni Battista, di San Michele arcangelo.
Il territorio: Guilcièr, distretto amministrativo del regno giudicale d’Arborea con capoluogo la bidda di Guilcièr,
poi img_7721Abbasanta e Sédilo nel Trecento. Accanto all’area comunale di Abbasanta, la curadoria era costituita dal territorio che attualmente comprende i Comuni di Aidomaggiore, Bidonì, Boroneddu, Ghilarza, Norbello, Paulilatino, Sedilo, Soddì, Sorradile, Tadasuni. Nel Medioevo le originarie ville (bidde) surviventi e scomparse rientravano nella Diocesi di Santa Giusta, aggregata all’Archidiocesi di Oristano dal 1503.
I luoghi: cumbessias o muristenes.

Il MEIC per la Città di Cagliari

meic-conf-stampaAi Candidati/e Sindaci e Consiglieri
LL. SEDI
Lettera-aperta su impegni e programmi per Giustizia sociale, Cultura e partecipazione alla vita della città di Cagliari
Opportunamente i vostri programmi elettorali si caratterizzano per le “cose” che intendete realizzare nella gestione della città per trasformare sicuramente in meglio Cagliari: più pulita, sicura, ordinata nel traffico, vivibile, abitabile, turistica e molto altro ancora. Tutto questo è bello e onorevole per quanti intendono mettersi al servizio dei cittadini.
Il MEIC ( Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale) ha un particolare legame con Cagliari, dove è stato fondato nel 1932 ad opera di alcuni giovani cattolici della nostra città – Antonio Dessì, Aurelio Espis, Gigi Fantola, Enrico Carboni, Giovanni Dore, Angela Mari, solo per citarne alcuni – insieme con monsignor Giovanni Battista Montini (futuro papa Paolo VI). Anche in virtù di questo forte legame il Meic ritiene opportuno, anzi doveroso, proporre ai candidati sindaci e a tutti i candidati consiglieri alcune linee d’impegno che potranno dare più senso e significato alla loro “missione” di amministratori della città, nei compiti di governo come quelli di opposizione. Siamo consapevoli che in tanta parte i nostri punti programmatici ricalcano i vostri, ma ci piace ribadirli anche per avere la legittimazione di esercizio di un’attività di collaborazione/controllo sull’effettiva realizzazione degli stessi.

Cagliari amore mio. Una storia illustre (III)

img_6873L’Istituto Martini,
un pezzo di storia di Cagliari

di Carla Deplano

Dieci anni prima della Breccia di Porta Pia, un anno prima della proclamazione dell’Unità d’Italia. Cronistoria dell’Istituto Tecnico Economico Martini

In ottemperanza alla Legge Casati, nel 1860 il Consiglio provinciale di Cagliari fonda l’Istituto Tecnico Commerciale. Negli anni successivi il Comune sistema gli alunni nell’ex convento di Santa Teresa e poi in quello di Sant’Antonio, nel quartiere di Marina. Entrambe le strutture, tuttavia, si rivelano ben presto inadeguate e sottostimate per il crescente numero di iscritti.
Nel 1916 la scuola nel frattempo intitolata a Pietro Martini viene ospitata all’interno dei locali della Caserma degli allievi dei Carabinieri, di inizio Novecento. Negli anni ’30, con la realizzazione del nuovo Comando Generale progettato da Angelo Binaghi e Flavio Scano (l’attuale Legione dei Carabinieri compresa tra via Grazia Deledda e via Sonnino) si realizza il definitivo insediamento della nostra scuola nel casamento di via Sant’Eusebio.
Dopo l’apertura delle sedi staccate di Carbonia, Oristano, Senorbì, Decimomannu e Monserrato tra gli anni ’50 e ’70, a seguito del successivo dimensionamento il Martini integra l’ITC Da Vinci-Besta e nel 2016 viene trasferito dalla sua sede storica ubicata nelle propaggini di Villanova e diviso tra i due plessi di Via Ciusa e Via Cabras.

Pietro Martini, classe 1800
455e2cd8-ba90-4ce1-8b8a-ced9529ddb1fCon la dismissione delle fortificazioni murarie Cagliari si trasforma da piazzaforte militare in città borghese e si apre al territorio comunale assecondando quel respiro europeo che, pur su scala ridotta, bene esprime le nuove esigenze di una comunità che si rinnova attraverso un sensibile sviluppo economico e un proporzionale risveglio culturale.
Nella illuminata temperie culturale ottocentesca, intellettuali come Alberto Azuni, Ludovico Baylle, Giuseppe Manno, Pietro Martini, Vittorio Angius, Giovanni Siotto Pintor, Vincenzo Sulis, Giovanni Spano – cui vengono intitolate strade e scuole – alimentano una stagione prevalentemente cagliaritana della cultura sarda, in uno straordinario fermento di studi storiografici che avranno grande influenza sul pensiero autonomistico e nella “questione sarda”.
La nostra scuola è intitolata a Pietro Martini, cagliaritano classe 1800. Dopo le Scuole Pie e la Laurea in Legge, questi presta servizio presso la Segreteria di Stato, viene nominato bibliotecario, quindi Presidente della Biblioteca della Reale Università di Cagliari, membro della Reale Deputazione di Storia Patria e Cavaliere mauriziano.
Una carriera esemplare, macchiata nondimeno dall’abbaglio delle false Carte d’Arborea, che traggono in inganno molti suoi illustri contemporanei.
Le trasformazioni urbanistiche di Cagliari in atto alla nascita dell’Istituto Martini

Oggi 28 marzo 2024 Giovedi Santo

Ci vuole “spirito di servizio” a partire da chi sta più in alto.

di Franco Meloni, su Aladinews di giovedì santo del 4 aprile 2012, nonché del 14 aprile 2022.

Dal Vangelo secondo Giovanni 13, 4-54 si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. 5 Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto. 

La chiesa cattolica nella liturgia del giovedì santo, nella messa in coena Domini, rivive il gesto della lavanda dei piedi riportato nel testo dell’evangelista Giovanni.

Su Dossier Caritas 2023. COP28: Dubai e oltre Dubai

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Lunedì 18 dicembre la Caritas di Cagliari ha presentato il XIII Dossier Caritas 2023. Il volume è ricco di informazioni sulla vasta attività dell’istituzione durante il corrente anno, nonché di riflessioni su quanto accade nel nostro tempo. Avremo occasioni per riproporre almeno una parte di tali contenuti nella nostra news, dando ad essi adeguato spazio e rilievo. Nel presente spazio-editoriale riportiamo l’articolo del direttore sull’esortazione apostolica Laudate Deum di Papa Francesco, pubblicata il 4 ottobre u.s., dedicata alle questioni ambientali, un vero e proprio aggiornamento dell’enciclica Laudato si’, in previsione della COP28 tenutasi come previsto a Dubai dal 30 novembre al 12 dicembre (prolungatasi per alcuni giorni). Lo stesso pontefice avrebbe dovuto parteciparvi nei gg. 1-3 dicembre, ma ha dovuto rinunciare per ragioni di salute. L’articolo è andato in stampa ben prima dell’evento di Dubai, riporta pertanto previsioni e auspici, da confrontare oggi con quanto effettivamente accaduto e deciso nei documenti finali. Per completezza di informazione, aggiornata ad oggi, riportiamo di seguito all’articolo del direttore, tre pezzi di valutazione a conclusione della COP28 di Dubai, che crediamo ne mostrino luci ed ombre, obbiettivi raggiunti (pochi), obbiettivi parzialmente soddisfacenti, obbiettivi totalmente mancati (tanto che alcuni parlano di fallimento). Ai lettori un giudizio motivato, sulla base della documentazione fornita o comunque di altra disponibile in rete.
papamondo-copia-di-schermata-2023-11-13-alle-13-13-04Aspettando Dubai, oltre Dubai
L’Esortazione apostolica di Papa Francesco Laudate Deum
di Franco Meloni

Premessa: con Papa Francesco, Giovanni XXIII, Paolo VI

Papa Francesco tiene molto nelle sue encicliche ed esortazioni e, in generale, nelle sue dichiarazioni a ricollegarsi ai suoi predecessori, soprattutto a quelli più vicini, nella linea della “continuità nel rinnovamento” del magistero della Chiesa. Ma sono specialmente due i Pontefici a cui fa riferimento, quelli più legati al Concilio Vaticano II: Giovanni XXIII, che lo ha indetto e iniziato; Paolo VI, che lo ha ripreso e portato a compimento [1]. E sappiamo quanto Papa Francesco ami e consideri il Concilio: «evento di grazia per la Chiesa e per il mondo», «i cui frutti non si sono esauriti» e che «non è stato ancora interamente compreso, vissuto e applicato (…) Dal Concilio Ecumenico Vaticano II abbiamo ricevuto molto. Abbiamo approfondito, ad esempio, l’importanza del popolo di Dio, categoria centrale nei testi conciliari, richiamata ben centottantaquattro volte, che ci aiuta a comprendere il fatto che la Chiesa non è un’élite di sacerdoti e consacrati e che ciascun battezzato è un soggetto attivo di evangelizzazione”. E continua: “dobbiamo riscoprire l’ispirazione del Concilio e come passo dopo passo questo evento abbia trasformato la vita della Chiesa, è l’occasione per affrontare meglio il percorso sinodale, che è fatto innanzitutto di ascolto, di coinvolgimento, di capacità di far spazio al soffio dello Spirito, lasciando a Lui la possibilità di guidarci”.[2]
Anch’io in premessa delle mie considerazioni sull’Esortazione apostolica di Papa Francesco Laudate Deum (LD) [3] faccio riferimento ai medesimi due Pontefici.
- A Giovanni XXIII, laddove mi soffermo sui destinatari del messaggio pontificio che appare nel titolo stesso della LD: “…a tutte le persone di buona volontà”.
Si tratta di un’ulteriore innovazione che va oltre quanto Papa Francesco già sottolineava nella Laudato sì’ sotto l’intitolazione “Niente di questo mondo ci risulta indifferente”, Papa Francesco ricordava: “Più di cinquant’anni fa, mentre il mondo vacillava sull’orlo di una crisi nucleare, il santo Papa Giovanni XXIII scrisse un’Enciclica con la quale non si limitò solamente a respingere la guerra, bensì volle trasmettere una proposta di pace. Diresse il suo messaggio Pacem in terris a tutto il “mondo cattolico”, ma aggiungeva «nonché a tutti gli uomini di buona volontà». Adesso, di fronte al deterioramento globale dell’ambiente, voglio rivolgermi a ogni persona che abita questo pianeta (…)”. E ribadisce: “In questa Enciclica (LS), mi propongo specialmente di entrare in dialogo con tutti riguardo alla nostra casa comune” (LS 3). La novità della Laudate Deum consiste, nel rivolgersi “a primo acchito” all’intera umanità, almeno a quella pensante, di buona volontà, (formata da “persone”, non “uomini”, al fine di superare la tradizionale prevalenza del maschile), prima ancora che ai “fedeli cattolici”, a cui dedica gli ultimi paragrafi dell’Esortazione (LD 61-73).
- A Paolo VI [4], precisamente alla sua prima Enciclica, Ecclesiam Suam (ES) [4bis], laddove individua “le posizioni concrete, in cui l’umanità si trova rispetto alla Chiesa cattolica (…) a guisa di tre cerchi concentrici” che la circondano [5] In questa trattazione ci interessa il primo.

Dall’Enciclica di Paolo VI Ecclesiam suam alla Costituzione conciliare Gaudium et Spes

Paolo VI lo descrive come “(…) un immenso cerchio, di cui non riusciamo a vedere i confini; essi si confondono con l’orizzonte; cioè riguardano l’umanità in quanto tale, il mondo. Noi misuriamo la distanza che da noi lo tiene lontano; ma non lo sentiamo estraneo. Tutto ciò ch’è umano ci riguarda. Noi abbiamo in comune con tutta l’umanità la natura, cioè la vita, con tutti i suoi doni, con tutti i suoi problemi. Siamo pronti a condividere questa prima universalità; ad accogliere le istanze profonde dei suoi fondamentali bisogni, ad applaudire alle affermazioni nuove e talora sublimi del suo genio. E abbiamo verità morali, vitali, da mettere in evidenza e da corroborare nella coscienza umana, per tutti benefiche. Dovunque è l’uomo in cerca di comprendere se stesso e il mondo, noi possiamo comunicare con lui; dovunque i consessi dei popoli si riuniscono per stabilire i diritti e i doveri dell’uomo, noi siamo onorati, quando ce lo consentono, di assiderci fra loro. Se esiste nell’uomo un’anima naturalmente cristiana, noi vogliamo onorarla della nostra stima e del nostro colloquio”. E prosegue: “Noi potremmo ricordare a noi stessi e a tutti gli altri come il nostro atteggiamento sia, da un lato, totalmente disinteressato; non abbiamo alcuna mira politica o temporale; dall’altro, sia rivolto ad assumere, cioè ad elevare a livello soprannaturale e cristiano, ogni onesto valore umano e terreno; non siamo la civiltà, ma fautori di essa. (…)” (ES 101-102).
È un’anticipazione della costituzione conciliare “Gaudium et Spes” [6] di cui cito lo splendido incipit: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. La loro comunità, infatti, è composta di uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre, ed hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti”.

Dall’Enciclica Laudato sì’ all’Esortazione Laudate Deum

Nell’intervista fattagli di recente dalla Rai [7], Papa Francesco ricorda un suo viaggio a Strasburgo: “Non dimentico quando il 25 novembre 2014, invitato dal Parlamento europeo, incontrai la ministra francese dell’Ambiente, Ségolène Royal, con cui parlai di quello che stavo scrivendo sull’ambiente e del progetto di un lavoro comune con scienziati e teologi. «Per favore, lo pubblichi prima della Conferenza sul clima di Parigi [8]»: furono queste le parole della ministra. Ed in effetti il 24 maggio 2015 fu emanata l’enciclica Laudato si’” (LS). Il Papa dunque giocò d’anticipo, riuscendo in certa misura a far pesare, con l’autorevolezza di un’Enciclica, le sue argomentazioni, che non sono dogma, ma rappresentano l’aggiornamento della dottrina sociale della Chiesa cattolica in materia di ambiente, cambiamento climatico, ecologia integrale… in sostanza quanto si compendia nella “cura del Creato”. La capacità di Papa Francesco di “cogliere i segni dei tempi” [9] fino ad anticipare gli eventi è un suo carisma che si è appalesato non solo rispetto alla COP21 di Parigi, ma, come rilevo sul Dossier Caritas 2019 [10], anche rispetto alla risoluzione dell’Onu con cui il 25 settembre 2015 fu approvata l’Agenda Onu 2030 [11], anticipata di quattro mesi dalla Laudato sì’. Ma su questo argomento rinvio ad altri approfondimenti.

Con l’Esortazione Laudate Deum, ad oltre otto anni dalla LS, il Papa si comporta in modo analogo rispetto alla imminente scadenza della COP28 a Dubai [12], non certo per il gusto dell’arrivare primo, quanto piuttosto per enfatizzarne l’importanza, dando la sveglia a tutti… .
Dice il Papa in una delle sue esternazioni “Dopo Parigi purtroppo le cose non sono andate come speravo, e questo continua a preoccuparmi”. Il perché lo spiega nell’Esortazione: “(…) con il passare del tempo, mi rendo conto che non reagiamo abbastanza, poiché il mondo che ci accoglie si sta sgretolando e forse si sta avvicinando a un punto di rottura. Al di là di questa possibilità, non c’è dubbio che l’impatto del cambiamento climatico danneggerà sempre più la vita di molte persone e famiglie. Ne sentiremo gli effetti in termini di salute, lavoro, accesso alle risorse, abitazioni, migrazioni forzate e in altri ambiti” (LD 2) . Le conseguenze della crisi climatica globale sono sotto gli occhi di tutti: “Negli ultimi anni abbiamo assistito a fenomeni estremi, frequenti periodi di caldo anomalo, siccità e altri lamenti della terra che sono solo alcune espressioni tangibili di una malattia silenziosa che colpisce tutti noi (…) È verificabile che alcuni cambiamenti climatici indotti dall’uomo aumentano in modo significativo la probabilità di eventi estremi più frequenti e più intensi. Sappiamo quindi che ogni volta che la temperatura globale aumenta di 0,5 gradi centigradi, aumenta anche l’intensità e la frequenza di forti piogge e inondazioni in alcune aree, di grave siccità in altre, di caldo estremo in alcune regioni e di forti nevicate in altre ancora. Se fino a ora potevamo avere ondate di calore alcune volte all’anno, cosa accadrebbe con un aumento della temperatura globale di 1,5 gradi centigradi, a cui siamo vicini? Tali onde di calore saranno molto più frequenti e più intense. Se si superano i 2 gradi, le calotte glaciali della Groenlandia e di gran parte dell’Antartide si scioglieranno completamente, con conseguenze enormi e molto gravi per tutti” (LD 5).

Dalla Conferenza sull’Ambiente e sullo Sviluppo delle Nazioni Unite di Rio de Janeiro del 1992 alla COP 28 di Dubai

Dopo aver passato in rassegna le COP che hanno preceduto e seguito quella di Parigi e che dopo quest’ultima hanno prodotto risultati deludenti [13], il Papa s’interroga: “Cosa ci si aspetta dalla COP28 di Dubai?” [13] Si mostra speranzoso: “Se abbiamo fiducia nella capacità dell’essere umano di trascendere i suoi piccoli interessi e di pensare in grande, non possiamo rinunciare a sognare che la COP28 porti a una decisa accelerazione della transizione energetica, con impegni efficaci che possano essere monitorati in modo permanente. Questa Conferenza può essere un punto di svolta, comprovando che tutto quanto si è fatto dal 1992 [14] era serio e opportuno, altrimenti sarà una grande delusione e metterà a rischio quanto di buono si è potuto fin qui raggiungere”. E ancora: “Nonostante i numerosi negoziati e accordi, le emissioni globali hanno continuato a crescere. È vero che si può sostenere che senza questi accordi sarebbero cresciute ancora di più. Ma su altre questioni ambientali, dove c’è stata la volontà, sono stati raggiunti risultati molto significativi, come nel caso della protezione dello strato di ozono. Invece la necessaria transizione verso energie pulite, come quella eolica, quella solare, abbandonando i combustibili fossili, non sta procedendo abbastanza velocemente. Di conseguenza, ciò che si sta facendo rischia di essere interpretato solo come un gioco per distrarre (…) Se c’è un sincero interesse a far sì che la COP28 diventi storica, che ci onori e ci nobiliti come esseri umani, allora possiamo solo aspettarci delle forme vincolanti di transizione energetica che abbiano tre caratteristiche: che siano efficienti, che siano vincolanti e facilmente monitorabili. Questo al fine di avviare un nuovo processo che sia drastico, intenso e possa contare sull’impegno di tutti. Ciò non è accaduto nel cammino percorso finora, ma solo con un tale processo si potrebbe ripristinare la credibilità della politica internazionale, perché solo in questo modo concreto sarà possibile ridurre notevolmente l’anidride carbonica ed evitare in tempo i mali peggiori. (…) Speriamo che quanti interverranno siano strateghi capaci di pensare al bene comune e al futuro dei loro figli, piuttosto che agli interessi di circostanza di qualche Paese o azienda. Possano così mostrare la nobiltà della politica e non la sua vergogna. Ai potenti oso ripetere questa domanda: «Perché si vuole mantenere oggi un potere che sarà ricordato per la sua incapacità di intervenire quando era urgente e necessario farlo?». [15] (…) Sappiamo che, di questo passo, in pochi anni supereremo il limite massimo auspicabile di 1,5 gradi centigradi e a breve potremmo arrivare a 3 gradi, con un alto rischio di raggiungere un punto critico. Anche se questo punto di non ritorno non venisse raggiunto, gli effetti sarebbero disastrosi e bisognerebbe prendere misure in maniera precipitosa, con costi enormi e con conseguenze economiche e sociali estremamente gravi e intollerabili. Se le misure che adotteremo ora hanno dei costi, essi saranno tanto più pesanti quanto più aspetteremo.

Il paradigma tecnocratico
Papa Francesco non manca l’occasione di rammentare, come già affermato nella Laudato si’, che alla base della degradazione dell’ambiente, vi è quello che lui chiama il paradigma tecnocratico [15] , «un modo di comprendere la vita e l’azione umana che è deviato e che contraddice la realtà fino al punto di rovinarla; come se la realtà, il bene e la verità sbocciassero spontaneamente dal potere stesso della tecnologia e dell’economia. Da qui si passa facilmente all’idea di una crescita infinita o illimitata, che ha tanto entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e della tecnologia» (LD 20; LS 101-106).

Ricorda che «un ambiente sano è anche il prodotto dell’interazione dell’uomo con l’ambiente, come avviene nelle culture indigene e come è avvenuto per secoli in diverse regioni della Terra. I gruppi umani hanno spesso “creato” l’ambiente, rimodellandolo in qualche modo senza distruggerlo o metterlo in pericolo. Il grande problema di oggi è che il paradigma tecnocratico ha distrutto questo rapporto sano e armonioso» (LD 28). E’ dunque un imperativo fermare il degrado del nostro ecosistema, invertire la rotta e promuovere azioni concrete, forti e senza perdere tempo prezioso, per mitigare il più possibile il cambiamento climatico e, nello stesso tempo, per adattarci alle condizioni climatiche che si vanno determinando. Al riguardo sono importanti sia gli accordi tra i governi delle nazioni in un’ottica di un nuovo multilateralismo che nasce dal basso, sia la condotta individuale e collettiva delle persone, adottando stili di vita sostenibili con l’ambiente e solidali con la gran parte dell’umanità che soffre drammaticamente le violenze esercitate dall’uomo sulla terra. (LD 37-38). Giova rammentare che il Papa a sostegno delle sue posizioni sul clima si appoggia alla stragrande maggioranza degli studiosi in materia [16] e non ha alcuna timidezza nel condannare i negazionismi e a richiamare alla ragione quanti se ne fanno portatori, anche all’interno della Chiesa cattolica (LD 14). Certo è che non bisogna illudersi che l’attuale economia che egemonizza il mondo, basata sulla “logica del massimo profitto al minimo costo, mascherata da razionalità, progresso e promesse illusorie” possa avere la priorità del bene comune, della difesa della casa comune, della “promozione degli scartati della società” (LD 31). Occorre la ricerca e la pratica di una diversa economia che non sia disgiunta dall’etica e che pertanto metta al centro la persona e il suo benessere. Dice il Papa che “dobbiamo tutti ripensare alla questione del potere umano”, per difendere “la nostra stessa sopravvivenza”. E’ efficace al riguardo la citazione ironica di Solov’ëv: “Un secolo così progredito che perfino gli era toccato in sorte essere l’ultimo” (LD 28) [17]. Il Papa coglie l’occasione per richiamare la necessità di quello che chiama “il pungiglione etico”, richiamando il valore dell’impegno, della crescita delle capacità, del lodevole spirito di iniziativa, della ricerca e pratica della reale uguaglianza di opportunità, contro le “idee sbagliate sulla cosiddetta ‘meritocrazia’” (LD 29-33).

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Armato di queste convinzioni, come detto, Papa Francesco si recherà a Dubai nei gg. 1, 2 e 3 dicembre 2023 per implorare tutti i governanti del mondo affinché facciano qualcosa di molto preciso per salvare la Terra, la nostra casa comune. E’ una “chiamata a responsabilità” che si aggiunge ai numerosi altri appelli che il Papa fa quotidianamente per la Pace del mondo, sconvolto da innumerevoli guerre e conflitti, portatori di morte e distruzioni e anch’essi gravemente colpevoli dei disastri ambientali. Ci consola che Papa Francesco non sia solo tra i grandi leader religiosi. Non sappiamo quanti altri fisicamente parteciperanno alla Conferenza, ma è di buon auspicio il documento firmato da 28 leader religiosi il 6 novembre 2023 ad Abu Dhabi, con il quale i religiosi chiedono ai delegati mondiali un’azione decisiva per frenare il cambiamento climatico [18].

Aspettando Dubai, oltre Dubai

Altrimenti? Quanto potrà ancora accadere non è forse attendibilmente prevedibile, come continuamente afferma la stragrande maggioranza degli studiosi? Lo confermano una serie di simulazioni che sono oggi già in grado di farci vedere drammaticamente come sarà la Terra se non si interverrà con la massima urgenza, subito. Gli artisti con la loro capacità immaginifica sono in grado di farci vedere anticipatamente tutto quello che potrà accadere. Tra i tanti, il cantautore-poeta Francesco Guccini ce lo mostra in una sua bellissima e struggente canzone [19].

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Il vecchio e il bambino, di Francesco Guccini.

Un vecchio e un bambino si preser per mano
E andarono insieme incontro alla sera
La polvere rossa si alzava lontano
Il sole brillava di luce non vera
Immensa pianura sembrava arrivare
Fin dove l’occhio di un uomo poteva guardare
E tutto di intorno, non c’era nessuno
Solo il tetro contorno di torri di fumo
I due camminavano e il giorno cadeva
Il vecchio parlava, e piano piangeva
Con l’anima assente, con gli occhi bagnati
Seguiva il ricordo di miti passati
I vecchi subiscon le ingiuria degli anni
Non sanno distinguere il vero dai sogni
I vecchi non sanno nel loro pensiero
Distinguer nei sogni il falso dal vero
Il vecchio diceva guardando lontano
“Immagina questo coperto di grano
Immagina i frutti, immagina i fiori
E pensa alle voci e pensa ai colori”
E in questa pianura, fin dove si perde
Crescevano gli alberi e tutto era verde
Cadeva la pioggia, segnavano i soli
Il ritmo dell’uomo e delle stagioni
Il bimbo ristette, lo sguardo era triste
Gli occhi guardavano cose mai viste
E poi disse al vecchio con voce sognante
“Mi piaccion le fiabe, raccontane altre” [19]
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Note
(Segue)

Verso il Convegno su Adriano Olivetti e la Sardegna – Documentazione

img_4862img_4876Verso il Convegno di Cagliari del 27 e 28 ottobre 2023. ADRIANO OLIVETTI E LA SARDEGNA, quando il comunitarismo incontrò il sardismo.
di Salvatore Cubeddu, sul sito della Fondazione Sardinia.
La storia del rapporto tra Adriano Olivetti e il partito sardo nelle elezioni politiche del 1958. Il racconto dell’intellettuale lussurgese Antonio Cossu inviato da Ivrea in Sardegna. Il testo dell’accordo elettorale tra Adriano Olivetti e Titino Melis, segretario del PSd’A(z) (i due nelle foto). Il programma politico-economico-culturale (stralcio). Le elezioni politiche del 1958 in Sardegna.
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Laudate Deum

costituente-terra-logoÈ INUTILE LODARE DIO SE SI DISTRUGGE LA TERRA
11 OTTOBRE 2023 / COSTITUENTE TERRA / L’ECOLOGIA INTEGRALE E LA LAUDATO SÌ /
Nel nuovo documento sull’ “ecologia integrale” Papa Francesco pone con forza il problema del potere, locale, nazionale e internazionale, primo responsabile della salvezza della Terra. Le anime e i corpi e la materia in cui è nascosto il cuore di Dio

di Raniero La Valle

Laudate Deum

img_4650ESORTAZIONE APOSTOLICA
LAUDATE DEUM

DEL SANTO PADRE FRANCESCO

A TUTTE LE PERSONE DI BUONA VOLONTÀ
SULLA CRISI CLIMATICA

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Il testo integrale sulla Sala stampa della Santa Sede: https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2023/10/04/0692/01509.html#ita
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Quando finisce la notte?

img_4398Quando finisce la notte?
settimananews.it/ecumenismo-dialogo/quando-finisce-la-notte/
17 settembre 2023
di Tomas Halík
Il 14 settembre Tomas Halík ha tenuto una relazione in occasione della XIII Assemblea generale della Federazione luterana mondiale.

Sorelle e fratelli!

Il cristianesimo è alle soglie di una nuova riforma. Non sarà la prima, né la seconda, né l’ultima. La Chiesa è, secondo le parole di sant’Agostino, “semper reformanda“. Ma, soprattutto in momenti di grandi cambiamenti e crisi nel nostro mondo, è compito profetico della Chiesa riconoscere e rispondere alla chiamata di Dio in relazione a questi segni dei tempi.

Da Lutero, grande maestro della paradossale saggezza della croce e discepolo dei grandi mistici tedeschi, dobbiamo imparare in questi tempi a essere sensibili a come la potenza di Dio si manifesta: “sub contrario” – nelle nostre crisi e debolezze. “La mia grazia ti basta“: queste parole di Cristo all’apostolo Paolo valgono anche per noi, ogni volta che siamo tentati di perdere la speranza nelle notti buie della storia.

La riforma, la trasformazione della forma, è necessaria quando la forma ostacola il contenuto, quando inibisce il dinamismo del nucleo vivo. Il nucleo del cristianesimo è il Cristo risorto e vivente, che vive nella fede, nella speranza e nell’amore degli uomini e delle donne nella Chiesa e oltre i suoi confini visibili. Questi confini devono essere ampliati e tutte le nostre espressioni esteriori di fede devono essere trasformate se ostacolano il nostro desiderio di ascoltare e comprendere la parola di Dio.

Il pensiero di Adriano Olivetti per il superamento della crisi della Sardegna

img_4771Adriano Olivetti 1 Nei giorni 27 e 28 ottobre prossimo si terrà a Cagliari un importante Convegno sulla figura di Adriano Olivetti – intitolato “Adriano Olivetti e la Sardegna – Attualità di una prospettiva umanistica” – che ne riproporrà a tutto tondo il pensiero, soffermandosi specificamente su “teorie e pratiche di comunità”, che lo caratterizzano e informarono la sua prassi politica, purtroppo interrottasi con la sua morte improvvisa e prematura, impedendone una diffusione nel paese. Olivetti trovò felice corrispondenza del suo pensiero anche in Sardegna,
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- Foto: Archivi Fondazione Sardinia e Fondazione Adriano Olivetti
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dove strinse fecondi rapporti di collaborazione culturale e politica con il Partito Sardo d’Azione e con diversi esponenti della cultura operanti in Sardegna, come appunto Antonio Cossu, sul quale è incentrato il saggio del prof. Duilio Caocci. In particolare l’esperienza di Olivetti in Sardegna sarà approfondita nella ricerca degli elementi utili per proporre oggi una possibile alternativa all’attuale modello sociale, politico, culturale, nonché istituzionale, o, perlomeno, migliorare la situazione di crisi che attraversa la nostra Regione. Oltre l’autonomia verso un federalismo solidale? Il Convegno è organizzato dalla Fondazione Sardinia, dall’Università di Cagliari, dalla Pontificia Facoltà Teologica, con il patrocinio della Fondazione Adriano Olivetti. Aladinpensiero e il manifesto sardo assicurano la funzione di media partner della manifestazione. Proprio in questa veste, assumiamo l’impegno di pubblicizzare al massimo la meritoria iniziativa, prima, durante e successivamente. In questo contesto rilanciamo qui (e rilanceremo nei prossimi giorni/mesi) materiali di approfondimento a cura della Fondazione Sardinia, tratti dal suo sito web. Non ripetiamo quanto ben spiegato nelle premesse.
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Antonio Cossu, uno scrittore olivettiano in Sardegna
di Duilio Caocci su Fondazione Sardinia.

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Antonio Cossu, uno scrittore olivettiano in Sardegna
di Duilio Caocci su Fondazione Sardinia.

“Il primo contatto tra Antonio Cossu e Adriano Olivetti è decisivo”. Questo importante saggio di Duilio Caocci – professore ordinario di letteratura italiana presso l’Università di Cagliari – sull’intellettuale lussurgese Antonio Cossu (nella foto) rappresenta la ripresa delle tematiche “comunitarie” poste dal pensiero e dall’azione di Adriano Olivetti ed il loro importante passaggio in Sardegna a partire dagli anni Cinquanta dello scorso secolo. Un discorso che continueremo.

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All’interno della cosiddetta letteratura olivettiana, porzione minima e però importante della letteratura industriale, Antonio Cossu – per la quantità e per la qualità delle opere schiettamente olivettiane – dovrebbe occupare una posizione di primo piano. Se si conviene su una definizione ampia (1), ovvero sul fatto che con l’aggettivo derivato dal cognome del grande industriale si possa definire un gruppo ampio ed eterogeneo di prodotti letterari – poesie, saggi, romanzi, diari – che si ispirano alle idee di Adriano Olivetti (o evocano l’ingegnere, o rappresentano la vita nelle fabbriche di Ivrea e Pozzuoli, oppure ancora discutono i grandi temi dell’illuminato imprenditore), allora l’intera produzione dello scrittore sardo di cui vorremmo ora scrivere rientrerebbe pienamente in questo campo molto popolato. Anche quando – come accade nella più gran parte dell’opera – Antonio Cossu non parla affatto di fabbriche. Anzi, proprio perché riflette sul futuro dell’isola senza industria, in una fase storica in cui, dopo il fecondo dibattito sulle ragioni dell’autonomia, si pianifica l’attuazione dell’articolo 13 dello Statuto, quello che afferma che lo Stato col concorso della Regione dispone un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale dell’Isola. Tale ‘rinascita’, secondo un’idea di sviluppo condivisa nel clima politico degli anni Cinquanta e Sessanta, doveva prevedere una radicale trasformazione delle dinamiche sociali e un rapido passaggio dall’economia rurale a quella industriale.

Tra i quattro romanzi di Cossu – I figli di Pietro Paolo, Il riscatto, Mannigos de memoria, Il sogno svanito – la Sardegna evoluta in senso industriale compare solo nel Sogno svanito, perché lo scrittore quando si dispone a fare letteratura non è tanto interessato al lavoro nella catena di montaggio, ma a questioni che riguardano più direttamente la sua terra: la modernizzazione dei processi economici in campo agropastorale in relazione al miglioramento della qualità di vita delle comunità, il perfezionamento dei rapporti di potere tra centri decisionali e periferie. Tutti nodi che Cossu aveva imparato a considerare con attenzione dalle letture dei filosofi personalisti francesi prima e da Adriano Olivetti poi.

Il primo contatto tra Antonio Cossu e Adriano Olivetti è precoce e decisivo. Risale al tempo immediatamente successivo alla Laurea conseguita presso la Statale di Milano2 e fu favorito da Diego Are (Santu Lussurgiu, 1914-2000), un intellettuale compaesano di Cossu che aveva fondato nella capitale il Movimento internazionale di unione e fraternità3 e si era presto avvicinato al Movimento Comunità. Nel 1954 si tiene a Roma un convegno organizzato dal Movimento di Are e dalla sede romana del Movimento Comunità, intitolato Abolire la miseria. Per un fronte di riforme e di lotta popolare contro il bisogno. È in quel contesto che Antonio Cossu, allora ventisettenne, viene reclutato dall’ingegnere per una collaborazione con il settimanale «La via del Piemonte» allora diretto da Geno Pampaloni4 e pubblicato a Ivrea dalle Edizioni di Comunità. A partire da quel momento il giovane lussurgese diventa protagonista di un grande progetto politico e culturale e ha la possibilità di lavorare accanto a una schiera di intellettuali composita e valorosa.
Nel settembre 1955 appare su «Comunità» (a. XI, n. 32) un racconto ibrido di Cossu, Sardegna a passo di carro e di cavallo, di quelli che si posizionano sulle zone di confine tra generi: reportage giornalistico, riflessione sociale e racconto finzionale, collocabile perciò tra quei non pochi scritti letterari olivettiani «che camuffano il rapporto tra narrativa e sociologia sotto la falsariga di una letteratura a carattere documentario perché oscillano tra scrittura d’invenzione e di testimonianza»5.

Il protagonista racconta in prima persona l’esperienza di un viaggio compiuto con suo padre in un’ampia area tra i paesi dell’oristanese, sino a Macomer, insistendo sulle condizioni arretrate del territorio e su una lentezza – quella appunto del carro – incompatibile con la modernità dei mezzi di trasporto a motore. Le descrizioni si accreditano come ‘oggettive’ per lo stile asciutto che caratterizza l’intera narrazione e per il corredo di fotografie scattate dall’autore al fine di documentare con maggiore evidenza i fenomeni tipici di un ritardo economico e culturale dell’Isola rispetto allo sviluppo frenetico di altre aree d’Italia. Ma le finalità documentarie del reportage non bastavano a Cossu neppure in quella fase di esordio e di formazione. Esse dovevano considerarsi – secondo un modello che l’autore aveva appreso dai personalisti francesi e che si era rafforzato e ‘aggiornato’ nel contatto con Adriano Olivetti e con l’ambiente olivettiano – un passo preliminare, una presa di coscienza e di conoscenza delle condizioni di una comunità, cui avrebbe necessariamente fatto seguito il momento dell’individuazione delle responsabilità prima e quello dell’azione individuale e collettiva poi, assieme all’impegno per la rimozione dei problemi. Il viaggio consente al protagonista di descrivere una serie di caratteristiche del paesaggio fisico e socio-antropologico di una parte della Sardegna e di esaltare la vocazione peculiare, l’irriducibile specificità di ciascuna comunità. È questo un modo di presentare l’Isola molto diverso rispetto a quello praticato da molta pubblicistica politica e da altrettanta produzione letteraria: qui la ‘frammentazione’ e la differenza sono considerate un valore e un punto di partenza per il riscatto collettivo; nelle negoziazioni tra Stato e Regione e nel dibattito politico interno, a pochissimi anni (sette per la precisione) dalla promulgazione dello Statuto Speciale per la Sardegna (26 febbraio 1948) e in un momento di grande entusiasmo per i poderosi investimenti promessi dallo Stato per la Rinascita, si preferiva confezionare discorsi identitari che puntavano sui tratti comuni più che su quelli divisivi.

A Cossu e all’intero gruppo di cui faceva parte interessava invece mostrare come si sviluppano nel tempo lungo le relazioni tra un paese e quello vicino. Il cosiddetto ‘campanilismo’, cioè il municipalismo, il provincialismo, è certamente un sentimento negativo se porta il cittadino alla chiusura nel piccolo spazio e al disprezzo per l’altro, ma nell’ottica personalistica e olivettiana il paese è il luogo in cui inizia la promozione dell’individuo a ‘persona’ capace di agire verso il prossimo e con il prossimo, a vantaggio di collettività sempre più ampie. Bisognava dunque senza timore restituire valore alle caratteristiche di ogni individuo, famiglia, quartiere, paese, regione e fare in modo che tale valore si aprisse verso lo spazio esterno. È per questa ragione che il racconto passa da Milis, paese di commercianti scialacquatori e pigri, a Macomer, cittadina industriosa, ricca di bestiame di qualità e capace di produrre ricchezza con i suoi caseifici e con la lavorazione della lana e attraversa la superba Ghilarza fino alla Cuglieri spagnolesca e esterofila. In quell’arcipelago ben delimitato di paesi ben delimitato era necessario anzitutto – secondo la prospettiva di Cossu – compiere un’indagine seria e capace di mettere in evidenza vizi e virtù di ciascuna comunità e di restituire la giusta dignità a ogni campanile. Con la giusta coscienza identitaria, si sarebbe dovuto incentivare e favorire il moto solidale di un paese verso l’altro, per il progresso dell’intera area.

Il campanile, o meglio, la campana è proprio il simbolo che salda istituzionalmente la più olivettiana delle imprese di Antonio Cossu al Movimento Comunità: la fondazione del «Montiferru. Periodico della Comunità del Montiferru». A partire dal primo numero – il numero unico provvisorio in attesa di registrazione del 20 febbraio 1955 – il periodico assume il logo della campana con il cartiglio su cui è incisa la locuzione humana civilitas, un’immagine che Leonardo Sinisgalli aveva trovato tra alcune carte cinquecentesche e che Giovanni Pintori6 aveva ridisegnato come logo per le Edizioni di Comunità e per la rivista «Comunità»7.

Si tratta dunque di un progetto che si inscrive all’interno del reticolo di pubblicazioni promosse dalle Edizioni di Comunità e che rappresenta uno degli ideologemi personalisti di Adriano Olivetti, il quale spiegherà così le ragioni di quell’invocazione umanistica e le finalità che tengono insieme, come un tutto omogeneo, le molte attività industriali e culturali:

Noi guardiamo all’uomo, sappiamo che nessuno sforzo sarà valido e durerà nel tempo se non saprà educare ed elevare l’animo umano, che tutto sarà inutile se il tesoro insostituibile della cultura, luce dell’intelletto e lume dell’intelligenza, non sarà dato ad ognuno con estrema abbondanza e con amorosa sollecitudine8.

Con la sua rivista Antonio Cossu intendeva portare nel suo paese le buone pratiche che si sperimentavano a Ivrea. Si trattava di favorire la costruzione di una comunità vera e solidale in un piccolo paese periferico, Santu Lussurgiu, ma evitando che la stessa si concepisse irrelata, autosufficiente. È infatti a un’area antropologicamente omogenea che si rivolge la testata, il Montiferru appunto, una sub-regione della Sardegna centro-occidentale caratterizzata da un’economia prevalentemente agro-pastorale. Il primo editoriale di Cossu, intitolato Oltre il campanilismo, colloca l’intera operazione tra due tendenze insidiose della modernità politica, il centralismo e l’individualismo, e chiarisce il senso dell’impegno coesivo e solidaristico in chiave federalista. Se la stampa e la politica ignorano e sottovalutano gli interessi dei piccoli paesi, è necessario avere una rivista che ne accolga e amplifichi le istanze, al fine di dotare le piccole patrie comunali di una forza contrattuale maggiore nei confronti delle istituzioni centrali. A supporto degli argomenti esposti, Cossu chiude l’editoriale con la citazione di un brano tratto da un libro di Luigi Einaudi e con un Appello del Consiglio dei Comuni d’Europa. Il brano di Einaudi – che avrebbe terminato il suo mandato da Presidente della Repubblica nel maggio di quello stesso anno 1955 – è particolarmente incisivo per il modo in cui connette il tema del federalismo a quello della libertà:

Federalismo è il contrario di assoggettamento dei vari stati e delle varie regioni ad un unico centro. Il pericolo del concentramento della cultura in un solo luogo si ha negli stati altamente accentrati, dove la vita fluisce da un solo centro politico verso la periferia, dall’alto verso il basso. Ma federazione vuol dire invece liberazione degli stati dalle funzioni accentratrici.9

La questione del rapporto tra il centro del potere e le periferie è – come dicevamo – una costante olivettiana nella rivista, sino all’ultimo numero del luglio-settembre 1957, dove Antonio Cossu presenta un intervento intitolato La Regione e i comuni, per dare conto della terza edizione del Convegno Sardegna d’oggi tenutosi nell’agosto del medesimo anno. La questione del decentramento si pone in relazione al compimento dell’Autonomia regionale e alla pianificazione della rinascita della Sardegna garantita dall’articolo 13 dello Statuto. Per una vera rinascita – sostiene Cossu – occorre creare un reticolo di comuni dotati di sufficiente autonomia, ma saldati l’uno all’altro dagli interessi condivisi e da un progetto più grande, di respiro almeno regionale.

Non si può tuttavia pensare di giungere a un impegno corale di tante comunità verso il bene comune se non si agisce correttamente sui presupposti di ogni relazione, cioè sulla formazione dei singoli cittadini, per fare in modo che ogni individuo acquisti la dignità e la consapevolezza di persona. A questo tema è dedicato il fascicolo che raccoglie i numeri 7-8-9 dell’ottobre-novembre-dicembre 1955. Più precisamente il tema centrale del fascicolo è quello dell’istruzione nella scuola e l’epigrafe viene da Manlio Rossi Doria, politico ed economista di primissimo piano:
[segue]

Buggerru

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L’eccidio di Buggerru tra letteratura, arte, teatro, cinema, musica e poesia
Le zone minerarie sono state oggetto di numerosi studi e analisi a partire dal lavoro di Quintino Sella “Sulle condizioni dell’industria mineraria nell’isola di Sardegna”.
Alla storia delle miniere nella nostra isola, ha dedicato attenzione, soprattutto dopo gli anni ’60 del secolo scorso, anche la rappresentazione poetica, letteraria, artistica e cinematografica.
È evidente che gli artisti, dei settori più vari, non restarono, e non restano, insensibili di fronte a quel sacrificio di vite umane per ottenere condizioni di lavoro più accettabili. Due sono, a mio avviso, i motivi principali che hanno spinto, e spingono, a rappresentare in forma artistica la vita dei minatori: il recupero della memoria, dando voce a chi non l’ha spesso avuta dalla storiografia ufficiale e il bisogno di raccontare la realtà delle miniere sarde, che, fino a qualche decennio fa, era stata assente da queste forme di narrazione, anche con lo scopo di avvicinare il lettore a problematiche sociali importanti quali i diritti dei lavoratori.

Mario Tronti: il Regno, se noi lo vogliamo

img_4224Mario Tronti: il Regno, se noi lo vogliamo*
di Marcello Tarì•

Mario Tronti è morto il 7 agosto, nella sua casa di Ferentillo, a 92 anni da poco compiuti; un’«età da patriarchi» disse per i 90 anni di Ingrao[1], così come poi dovette dire di sé stesso con un pizzico della sua consueta ironia, tagliente e dolce allo stesso tempo.

Per buona parte del piccolo e grande pubblico, il suo nome è legato al suo primo e giovanile libro, Operai e capitale, pubblicato da Einaudi nel 1966[2], che fu in seguito definito «la bibbia dell’operaismo». Un libro che, comunque lo si voglia giudicare, segnò, a ridosso del ’68, e specialmente delle grandi lotte operaie del 1969, una grande novità ma anche una forte rottura teorica nel marxismo del secondo Novecento, questo secolo duro e difficile a cui lui è sempre rimasto fedele.

L’opera prima

In quelle pagine Tronti compiva infatti la cosiddetta «rivoluzione copernicana» nell’interpretazione del conflitto epocale tra capitale e lavoro: prima viene il soggetto operaio e le sue lotte, dopo il capitale e il suo sviluppo; quindi, al partito va la tattica, al movimento operaio la strategia, proprio quella che in uno dei passaggi più celebri e densi di conseguenze chiamò la «strategia del rifiuto».

C’era già, a ben guardare, in quel rovesciamento di prospettiva, un aspetto della radicalità evangelica a cui più tardi Tronti avrebbe fatto direttamente riferimento: i primi saranno gli ultimi e gli ultimi saranno i primi. Conflitto radicalissimo, espressione organizzata della forza degli oppressi e tuttavia conflitto senza violenza: «Il conflitto è sapere. (…) La forza è il negativo della resistenza, la violenza è il positivo dell’aggressione. (…) Lo sciopero è per eccellenza decisione collettiva, azione che interrompe le attività, è un dire no, no alla continuazione del lavoro, lotta nonviolenta,
conflitto senza guerra». Il conflitto di classe come alternativa di civiltà alla guerra di massacro, perché sono «le forme della lotta [che] rivelano gli scopi del movimento»[3].

Un comunismo eterodosso

Operai e capitale fu un vero choc anche per il suo linguaggio, il suo stile e i suoi riferimenti teorici: tutto materiale estraneo all’ortodossia comunista di quel tempo. A una cultura militante che in Italia era ancora invischiata nel Diamat staliniano coniugato alla triade Croce-Gentile-Gramsci, Tronti oppose l’urto portentoso del pensiero negativo e della cultura della crisi. Nietzsche e Weber venivano introdotti con grande fracasso tra le mura delle fabbriche, le note di Mahler «tra un disperante adagio e un maestoso presto»[4] accompagnavano la marcia degli operai in sciopero e la grande letteratura della crisi, da Musil a Mann a Dostoevskij, impregnava persino la riflessione sul partito. Tutti i concetti dell’economia politica diventavano motivo di conflitto e questo, dalla fabbrica, arrivava come lava incandescente a investire la società intera. La rivista culturale del Partito comunista italiano, Rinascita, lo stroncò inorridita e spaventata.

Ma la sua storia teorico-militante non si concluse certo con quel libro. In queste righe vorrei piuttosto richiamare il Tronti degli ultimi decenni, quello che, dopo la fase dell’«autonomia del politico» degli anni ’70[5], un passaggio importante e generalmente mal compreso, si è avventurato nello studio della teologia politica, sperimentata dapprima in un inedito e ardito connubio della teoria sviluppata da Carl Schmitt con la tradizione marxiana – “Karl und Carl”, come recita un capitolo del suo La politica al tramonto – e quindi nella coltivazione di una spiritualità che affonda nelle profondità e nelle altezze della Scrittura, dei Padri della Chiesa e della letteratura monastica.

E infine, il comunismo messianico di Walter Benjamin, l’insurrezionalismo escatologico di Ernst Bloch e il san Paolo apocalittico-rivoluzionario di Jacob Taubes, tutti chiamati da Tronti a dare una forte correzione tanto all’apocalittica reazionaria espressa dalla teologia politica di Schmitt, quanto all’aridità del materialismo, dialettico o storico che fosse.

Fu infatti in un dialogo pubblico che avemmo qualche anno fa in un piccolo teatro romano che Tronti disse, scandendo bene le parole, che «in fondo, il materialismo è una cosa da borghesi». È in questo orizzonte, credo, che bisogna comprendere il suo autodefinirsi un «rivoluzionario conservatore». Realista sì, materialista no.

Fallimento della rivoluzione e teologia politica

La teologia politica certamente gli arrivava dalla precoce lettura che, tra i primi a sinistra, fece di Schmitt e dei grandi conservatori e tuttavia concerneva anche una più sottile valutazione di carattere esistenziale, personale: bisognava «correggere» la direzione della storia fin dentro la soggettività, poiché «tutto il Moderno è stato il contrario dell’Annuncio»[6].

Nel 1980, in una discussione sul terrorismo, rispondendo ad Angelo Bolaffi, il quale sosteneva che il limite della sinistra stava nel fatto che aveva prodotto una teologia della rivoluzione, lui, con una delle sue classiche risposte fulminanti, replicava che: «Proprio perché c’è stato il fallimento della rivoluzione in Occidente, la rivoluzione è diventata teologia»[7]. O quanto meno lo era diventata per lui. La sconfitta, il fallimento, anche l’umiliazione, diventavano pienamente categorie teologico politiche per poi trasformarsi in qualcos’altro.

Per il Tronti degli anni a cavallo dei due millenni, la dimensione teologica, da essere sintomo e tentativo di risposta a una catastrofe storica, doveva corrispondere alla necessità di una resistenza soggettiva, espressa paradossalmente tramite un approfondimento della crisi. Perché è il cristianesimo stesso, il Vangelo, ad essere «krisis», nel suo senso più vero di scelta e decisione.

Crisi della soggettività, crisi della storia, crisi del «mondo». Ma specialmente crisi rivoluzionaria perché vissuta per e con gli ultimi, gli espropriati, gli oppressi, gli umiliati e offesi: la parte di umanità a cui Tronti ha sempre sentito intimamente di «appartenere», con il suo punto di vista partigiano che deve lottare sempre e di nuovo contro la totalità di «questo mondo» così com’è: ingiusto, violento, egoista, nichilista, individualista.

Il capitalismo per Tronti non era più solamente un modo di produzione odioso, difeso da un altrettanto odioso sistema politico-ideologico, ma una costruzione antropologica vertiginosa, un’idea e una pratica distruttiva della Terra e della Persona che si è accampata nelle anime, corrompendo gli spiriti, minandone la capacità a discernere il bene dal male. Non si trattava più, per lui, di crisi del modo di produzione o dei rapporti di classe, oppure di quella della politica come gestione degli affari dello Stato, bensì di una verticale «crisi di civiltà».

Il problema del marxismo, diceva Tronti, era invece proprio quello di non essere stato in grado di proporre un’antropologia all’altezza dei tempi e della sfida che questi ponevano. Ed è anche in questo senso che bisogna comprendere quel suo costante lamentare, come una ferita aperta, lo scontro che lui reputava assurdo e che pure ci fu tra movimento comunista e cristianesimo, arrivando a delle conclusioni molto vicine a quelle di padre Turoldo, un uomo, un monaco, un partigiano e un poeta per il quale condividevamo una grande passione, che una volta ebbe a scrivere: «il comunismo poteva essere la vera rivoluzione dei poveri; a una condizione, che non fosse tradita precisamente la legge della povertà. Invece tutto è fallito miseramente.

Non si è tenuto conto della cupido rerum, della possibilità del peccato (…) si è pensato di fare un comunismo prescindendo dalla forza della religione, quando essenza della vera religione è “conservarsi puri da questo mondo”»[8].

Ma l’assunzione del paradigma teologico-politico permetteva anche lo svelarsi di una verità inconfessabile per molti militanti di sinistra: se con Schmitt si assumeva che «tutti i concetti della dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati», allora, seguendo una suggestione benjaminiana, è vero anche che «tutti i concetti della dottrina rivoluzionaria sono concetti teologici secolarizzati», come scrivemmo in un testo del 2020 dal titolo Xeniteia. Contemplazione e combattimento[9].

Questo articolo doveva aprire un piccolo cantiere di ricerca tramite il quale, con il contributo di altri amici, abbiamo voluto provare a pensare nuovamente il legame «originario» tra cristianesimo e comunismo, in specie attraverso quella tradizione monastica che ha ispirato profondamente la riflessione trontiana degli ultimi decenni e la sua stessa vita, attraversata dall’amicizia con il camaldolese dom Benedetto Calati e con Enzo Bianchi insieme alle loro comunità.

Il comunismo come forma di vita

«Originario» perché, ne abbiamo molto discusso in questi anni, Tronti si era infine convinto che il comunismo non fosse riducibile al marxismo, che pure ne resta un importante episodio, ma che avesse una più ampia profondità storica e una magnetica dimensione trascendente, indicando una «forma di vita» che contempliamo nelle righe luminose degli Atti degli Apostoli e che poi si può seguire lungo il filo della controstoria dei poveri e degli oppressi: «Che l’idea di comunismo abbia a che fare con il cristianesimo delle origini è un fatto che il movimento comunista del Novecento non ha contemplato. È una grave mancanza»[10]. E d’altronde questo è forse il solo modo di salvare lo spirito del comunismo dall’oblio annichilente a cui «questo mondo», la storia dei vincitori, destina i suoi antagonisti.

Ma dunque, se da un lato la teologia politica riguarda le categorie fondamentali della politica moderna, dello Stato e dei conflitti sul potere – diciamo, per semplificare, le categorie del «che fare?» – dall’altro, quello svelare le radici teologiche del comunismo significa volgere lo sguardo al tema della spiritualità, cioè al «come fare?», ovvero al «come vivere» qui e ora, magari da sconfitti, come Tronti stesso ammetteva senza giri di parole, ma senza mai abiurare l’antica promessa della liberazione.

Insomma, il tema della spiritualità come forma di vita, poiché questo in fondo era stato secondo Tronti il comunismo per molti della sua generazione: un modo d’essere ancor prima di una dottrina o il sogno di un’istituzione alternativa. In uno scambio epistolare, che avemmo attorno a un mio testo sulla spiritualità[11], scriveva: «In fondo in qualche modo la civitas Dei, in contrasto con la civitas hominis, ormai dell’ultimo uomo, è ancora lì ad attendere la forza dello spirito che si proponga di realizzarla. L’uomo nuovo è allora questa forza propositiva generante, non il prodotto finale della realizzazione».

Ancora rovesciamenti di prospettiva: prima lo forza dello spirito, poi la realizzazione; prima l’uomo nuovo, poi le strutture. Il contrario di quanto avevano fatto le rivoluzioni del passato. Nelle quali, all’inizio, diceva Turoldo, c’è sempre la potente presenza disordinante dello Spirito, ma i rivoluzionari non seppero o vollero seguirlo e quindi si perdettero nel credere che l’uomo nuovo dovesse essere il risultato delle unità di produzione, come cantavano i C.S.I. (Consorzio Suonatori Indipendenti): «Sogno Tecnologico Bolscevico/Atea Mistica Meccanica/Macchina Automatica-no anima» (C.S.I., Unità di produzione, 1998).

Coltivare la spiritualità

In realtà, se stiamo a quanto scritto da Tronti, la teologia politica stessa è affare del passato[12], bisogna studiarla e usarla, per afferrare il nesso tra «politica e trascendenza»[13], ma senza illusioni sul presente, perciò quello che invece resta da fare urgentemente è la coltivazione di una forte spiritualità e puntare magari verso un altro continente, quello della «mistica e politica» che l’ultimo Tronti richiamava spesso, anche tramite autori contemporanei come il teologo indiano-catalano Raimon Panikkar, da lui conosciuto per la mediazione di sua figlia Antonia che di Panikkar è una profonda conoscitrice[14]. Lo cita ad esempio in una conferenza tenutasi a Roma nel 2006, nella quale cercava di spiegare che cosa fosse per lui “spiritualità”: «Ora, la spiritualità ha una storia lunga. Arriva a noi da molto lontano.

Panikkar parla di quel terzo senso che è – dice lui – come un barlume più o meno chiaro di consapevolezza che nella vita c’è qualcosa in più di ciò che è percepito dai sensi o inteso dalla mente. (…) non è un prolungamento orizzontale, verso ciò che ancora non sappiamo o che ancora non siamo, è piuttosto un salto verticale verso un’altra dimensione della realtà (…) Stare sulla terra andando verso l’alto, e cioè non piegati sotto qualcosa. Che è poi la condizione dell’essere liberi (…) E tuttavia quella conflittualità della spiritualità – perché io di questo parlo, della conflittualità della spiritualità – credo sia possibile trovarla di più e meglio nella nostra tradizione, la tradizione ebraico-cristiana (…) La mia tesi è questa: la spiritualità è un linguaggio della crisi»[15].

Invece di continuare a dilatare nichilisticamente la secolarizzazione dei concetti teologici, Tronti sembrava impegnato nel senso contrario, cioè nella riteologizzazione dei concetti secolarizzati del politico, come giustamente ha fatto notare il filosofo e teologo svedese Mårten Björk[16].

D’altronde è Tronti stesso che nel 1992, in un saggio significativamente intitolato “Oltre l’amiconemico”, scriveva: «Dobbiamo assumere noi, come filosofia dell’avvenire, il progetto di una riteologizzazione dei concetti secolarizzati? È un problema di pensiero sul politico, ma anche di pratica del politico. Forse occorre tornare a distinguere tra “nuovi cieli” e “nuove terre”. Bisogna darsi il coraggio di riproporre il “regno” utopico di un altro mondo degli uomini e per gli uomini»[17].

I tempi di Bailamme

Di fatto, uno dei laboratori di pensiero più interessanti che Tronti contribuì ad animare a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, insieme a credenti e non, fu quello della rivista Bailamme che portava come sottotitolo programmatico non “rivista di teologia e politica” bensì di “spiritualità e politica”[18].

Se ne apprezzerà la differenza. Dove è importante anche quella e che sta lì in mezzo a dire una possibile congiunzione ma anche un possibile conflitto, una tensione mai del tutto risolvibile e che, proprio per questo, è capace di generare pensiero alternativo e persino di orientare una vita e dargli una forma[19].

Per cui, vi sono due campi: non opposti, anzi strettamente connessi, e tuttavia differenti. Da un lato quello teologico-politico della ricerca sul potere e sulle forme del conflitto attorno ad esso, senza mai dimenticare la dimensione trascendente che agita e informa il tutto, dall’altro quello della spiritualità come «armatura» della soggettività contro il culto dell’ego pubblicizzato dal liberalismo esistenziale, come slancio della libertà dello spirito dentro e contro il deserto mondano, come quella della speranza contro ogni speranza che ti lacera fin nella carne, come l’utopia concreta di un altro mondo, quello che «diventa possibile (…) solo quando diventa necessario»[20]. È di tutto ciò che parla il suo ultimo grande libro, a cui teneva molto, Dello spirito libero, in cui rivendicava la scelta di una spiritualità «non per sé, ma contro il mondo (…) Stare in pace con sé vuol dire entrare in guerra con il mondo»[21].

E a proposito di speranze, in uno dei suoi più bei testi scritti di recente[22], Tronti diede infine la sua definizione di teologia politica, che credo meriti di essere qui ricordata e meditata: «Nel Magnificat leggiamo: abbattere i potenti, innalzare gli umili. Ecco il teologico. Come abbattere i potenti, come innalzare gli umili. Ecco il politico». Ancora una volta: lo Spirito ispira e guida, il politico segue e cerca di operare per la realizzazione del regno.

Teologia della liberazione

Mi diceva che avremmo dovuto riprendere e approfondire la conoscenza della teologia della liberazione perché, scriveva, «lì in effetti c’è il combattimento». E quindi: contemplazione – guardando ai padri del deserto – e combattimento – guardando alle barricate evangeliche del Sud del mondo.

Il suo dubbio, che condivido, era se si potesse davvero impiantare un discorso come quello della teologia della liberazione da noi, in Occidente, dove i poveri, gli ultimi, come soggetto, sono «da noi ormai oltre che non riconosciuti, anche irriconoscibili, per la causa, come si diceva una volta».

Questa invisibilità degli ultimi, che credo cominciò a riconoscere grazie all’intensa amicizia che ebbe con il gesuita Pio Parisi, lo toccava profondamente[23]. Bisogna riuscire a «vedere oltre», appunto, e nel suo ultimo intervento pubblico dello scorso giugno, parafrasando il Gesù di Giovanni 9,39, diceva così la sua speranza, che era anche un incitamento alla lotta: «chi non vede vedrà, chi vede sarà accecato»[24].

Gigi Roggero, che di quell’ultimo incontro è stato l’organizzatore, scrive che in quella frase c’è «un Gesù che non porge l’altra guancia. Un Gesù molto benjaminiano, che lotta per vendicare il passato.

Un Gesù che divide il mondo in due. Ricchi e poveri, per il cristianesimo delle origini. Operai e capitale, per noi. Amico e nemico, nel lessico del realismo»[25].

Credo che in questo commento risuoni un aspetto chiliastico che è effettivamente presente in un certo Tronti – aspetto che, devo dire, io stesso ho coltivato per lungo tempo – e quindi un’impazienza, dunque una tentazione, per cui la divisione finale non è, come è nel Vangelo e come diceva in realtà Benjamin[26], nelle mani del Messia, ma si secolarizza e quindi va fatta qui e ora con le nostre stesse mani, e tanto peggio, se insieme alla zizzania, verranno strappate delle spighe di grano.

Il mistero di una vita

E tuttavia Mario Tronti, come ogni vita umana, è un mistero e vi era in lui anche un’altra tensione, un corpo a corpo con la Parola, attraverso cui credo sentisse che l’ultima, vera e definitiva rivoluzione, la grande divisione escatologica, la «rottura totale» come diceva Bonhoeffer, non è nelle nostre possibilità e che invece a noi tocca adesso forse spostare quel «fuoco nella mente», che sempre ci ha portato in battaglia, per farlo ardere nel cuore, nel mentre volgiamo lo sguardo verso l’alto, lottando, certo, per affrettare la venuta del regno; ma è un affrettare che non corrisponde a una nostra imposizione sul mondo, a una scarica della volontà di potenza, bensì alla forza e all’intensità del nostro desiderio.

In quell’articolo che scrivemmo a quattro mani, alla frase «un regno, ci è stato annunciato, che è già tra noi», fu la sua mano ad aggiungere «se noi lo vogliamo». È qualcosa che ha a che fare con una conversione del cuore e un desiderio di comunione nello spirito, dalle quali consegue una politica.

Almeno così intendo le parole che mi scrisse due anni fa: «Se capisco bene, la direzione di marcia si configura nel senso di tornare a coniugare, dentro e contro tutte le repliche della storia, libertà e comunismo. Libertà dello spirito per resistere al mondo, comunismo degli spiriti per ascendere al regno». È interessante la scelta del verbo: «ascendere». Ma è giusto, perché il Suo regno non è di «questo mondo» e verso l’alto è la direzione della libertà.

Tanto ancora ci sarebbe da dire e verrà il tempo, ma adesso, carissimo Mario, mentre noi continuiamo a guardare le cose «per speculum in aenigmate» e ci prepariamo a mordere ancora la polvere, forse tu già vedi e conosci e ami «facie ad faciem» nella comunione degli spiriti. Così sia.

* in “SettimanaNews” del 23 agosto 2023ripreso sul Blog di Enzo Bianchi del 28 agosto 2023.

Marcello Tarì è autore e traduttore. Si è occupato dei movimenti antagonisti italiani e di teoria politica. Suoi i volumi: Il ghiaccio era sottile, DeriveApprodi 2012 e Non esiste la rivoluzione infelice, DeriveApprodi 2017. Negli ultimi anni la sua ricerca riguarda la spiritualità e la politica dalla radicalità evangelica. Con l’amico e maestro Mario Tronti ha animato dal 2020 al 2022 la rubrica Xeniteia. Contemplazione e combattimento.
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Note

Guerra o Pace?

b8d4f079-0a9d-4306-b131-9b630a570a4ecostituente-terra-logo Costituente Terra Newsletter n. 124 del 5 luglio 2023 – Chiesadituttichiesadeipoveri Newsletter n. 304 del 5 luglio 2023

IL DIRITTO E LA STRAGE

Cari amici,
un appello al governo perché la smetta di inviare armi e imbocchi invece la via della pace è stato fatto da quanti hanno partecipato a un incontro su “Guerra o pace?”- da Domenico Gallo ad Alfiero Grandi, da Barbara Spinelli al generale Fabio Mini, dall’ex ambasciatore Cassini alla vice-presidente del Senato Mariolina Castellone – tenutosi il 30 giugno alla Biblioteca del Senato. Nello stesso tempo “la Repubblica” pubblica oggi “a caratteri di scatola”, come si diceva una volta: “Bombe italiane per Kiev”.
Ma qui nasce un problema. Qual è la natura di queste bombe? E come si definisce il fatto di mandarle? Trattandosi di bombe e proiettili, e non di armi antiaeree, si tratta di arnesi non ordinati a sventare una minaccia, ma di armi di combattimento, intese all’annientamento, alla ritorsione o vendetta sul nemico. Il loro scopo è ovviamente di distruggere e uccidere. E come si qualifica questa azione? Non poniamo qui la questione sul piano morale, estraneo purtroppo all’attuale discorso comune, ma sul piano fattuale e giuridico.
Sul piano fattuale si tratta ovviamente di una violenza indiscriminata, comunque motivata, contro cose e persone. Sul piano giuridico, fino alla Carta dell’ONU che ha messo fuori legge la guerra, era un’azione perfettamente legittima, perché il distruggere e l’uccidere – a parte gli eccessi configurabili come crimini di guerra, di cui però non sempre si tiene conto, come per esempio fu a Hiroshima e Nagasaki – era giustificato e promosso dallo stesso diritto di guerra. Ma anche oggi molti Stati si comportano come se quel diritto ancora esistesse e considerano le guerre che fanno come legittime, eroiche e salutari, e su loro istigazione anche le opinioni pubbliche purtroppo se ne fanno persuase. Tuttavia perché questo distruggere e uccidere possa ancora essere pensato come eroico e legittimo, bisogna che la guerra ci sia, che vi si sia effettivamente e pubblicamente coinvolti, se non addirittura che sia “dichiarata”. Altrimenti, come è stabilito fin dalla nascita del diritto pubblico e dello Stato moderno, l’uso non autorizzato della violenza e della forza è un crimine, un reato di lesioni, di omicidio o di strage. Dunque è una ignominia e un peccato grave anche se commesso da persone giustissime e miti, di cui la guerra è il grande lavacro. È così che lo racconta Joseph De Maistre, il mistico della guerra: “al primo segnale, il giovane più amabile, educato all’orrore per la violenza e per il sangue, lascia la casa paterna e corre, armi alla mano, a cercare sul campo di battaglia colui che egli chiama ‘nemico’, senza neppur sapere cos’è un nemico. Il giorno prima si sarebbe sentito in colpa se avesse schiacciato per caso il canarino della sorella; il giorno dopo lo vedete salire su un mucchio di cadaveri ‘per vedere più lontano’, come diceva Charron. Il sangue che sgorga da ogni parte gli serve da sprone per spargere il suo e quello altrui, egli si infiamma gradatamente fino a raggiungere ‘l’entusiasmo per il massacro’”. Per questa ragione i soldati americani che combatterono in Vietnam, anche se autori della strage di Mỹ Lai sono circonfusi di gloria e sepolti nel cimitero di Arlington, mentre i ragazzi che comprano il fucile e uccidono nel cortile della scuola sono assassini, e Biden si indigna perché il congresso non proibisce che si vendano loro le armi.
Dunque è la guerra che “giustifica”. Ma l’Italia non è in guerra, anzi, secondo il politicamente corretto “la Russia non è il nemico”. Dunque se mandiamo le armi per uccidere siamo mandanti di omicidio e di strage, ai sensi del diritto vigente, come i capomafia che ordinano i delitti a distanza. Certo, la nostra presidente del Consiglio, nonostante qualche tono alto, non ha entusiasmo per il massacro, ma l’Italia e mezzo mondo che senza guerra concorrono alle reciproche stragi in Ucraina (si parla già di 330.000 morti, 200.000 russi e 130.000 ucraini) anche senza entusiasmo il massacro lo fanno.
Se poi si dice che a legittimare il massacro, anche senza guerra, è la politica (o una maggioranza eletta in buona e debita forma) vuol dire che non c’è più differenza tra guerra e politica, non si può più distinguere tra tempo di pace e tempo di guerra; ma allora è tutto il mondo sbagliato, e anzi gloriosamente perverso.
Nel sito pubblichiamo l’appello del Convegno romano su “Guerra o pace?”, e un intervento sui protagonisti del conflitto in Ucraina pronunciato in tale convegno [anche di seguito su Aladinpensiero online].
Con i più cordiali saluti,
Chiesadituttichiesadeipoveri
Costituente Terra (Raniero La Valle)
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Pubblichiamo di seguito la relazione di Raniero La Valle al Convegno “Guerra o Pace”.
AL SENATO
di Raniero La Valle
Posta l’alternativa “Guerra o pace?” è molto importante cercare di capire qual è la vera natura di questa guerra. Sempre più appare che essa non è un accadimento circoscritto, ma un capitolo di una guerra costituente che investe tutto l’ordine internazionale e lo struttura come un sistema di dominio e di guerra, i cui effetti sono imprevedibili e possono essere devastanti per tutti i soggetti della comunità mondiale.
Presa in se stessa, questa d’Ucraina è una guerra quanto mai stupida. La guerra infatti non solo può essere dulce inexpertis, non solo può essere aliena a ratione, non solo è contro il diritto, non solo è efferata, ma può essere anche estremamente stupida. E questa lo è. Non ci voleva niente a evitarla, e poteva ben presto finire, 15 giorni dopo, con gli accordi di Antalya subito ricusati dalla NATO.
Dato che questo non è successo, vediamo quali sono i ruoli che nella guerra hanno giocato i diversi protagonisti: lo sfidante, il nemico, la vittima, i vincitori, gli sconfitti.
1. Gli sfidanti sono gli Stati Uniti che dopo la rimozione del muro di Berlino, si sono prefissi di instaurare un ordine mondiale fatto a loro immagine e misura e conformato a un unico dominio. Secondo i documenti strategici dell’amministrazione americana -Casa Bianca e Pentagono – (gli ultimi dell’ottobre scorso) dovrebbe trattarsi di un ordine fondato sui tre pilastri della democrazia, della libertà e della libera impresa e dovrebbe realizzarsi entro questo decennio con l’eliminazione della Russia e la sfida finale con la Cina. Pertanto la guerra d’Ucraina si è presentata come una buona occasione per cominciare col liquidare la Russia, senza nemmeno dover combattere. Secondo Biden bisognava ridurre la Russia alla condizione di paria, ed eliminarla dalla competizione strategica per il dominio globale. Questo dice qual è l’alternativa reale per cui si combatte in questa guerra: o un mondo unipolare e monocratico uniformato a un solo modello culturale e politico, o un mondo pluralistico ma in pace con tutte le sue diversità e le sue dialettiche. E questa è anche la vera scelta che è posta davanti a noi.
2. Il Nemico è naturalmente la Russia. In lei l’Occidente ha ritrovato Il nemico che aveva perduto grazie alla rimozione gorbaciovana del muro di Berlino. L’Occidente ne aveva bisogno perché senza nemico non si può recuperare lo strumento della guerra, come invece, finita la deterrenza, si è affrettato a fare con la guerra del Golfo; ne aveva bisogno perché senza nemico ad Est non può stare in piedi la NATO ad Ovest, e perché senza la coppia amico-nemico secondo la nostra cultura viene meno anche la politica, il “criterio” del politico. La Russia ci ha messo del suo a farsi prendere per nemico, si è offerta alla recriminazione universale, perché mentre aveva ragione nell’opporsi alla NATO in Ucraina e alla repressione nel Donbass, muovendo guerra è precipitata nel torto e ha dato un alibi alla frenesia antirussa imperante in Occidente. Tuttavia la Russia di Putin ha tenuto sotto controllo la sua forza, scegliendo di condurre una guerra circoscritta e a bassa intensità, invece di invadere tutta l’Ucraina e occupare Kiev, come avrebbe potuto fare data la disparità delle forze in campo. Non lo ha fatto non perché non ci è riuscita a causa della sua impreparazione militare, ma perché la posta in gioco non è l’Ucraina, ma l’ordine del mondo.

E un uso controllato della forza ha fatto Putin anche nei confronti della rivolta della Wagner; avrebbe potuto sparare e fermare così la marcia verso Mosca, e non l’ha fatto, scegliendo una soluzione politica (con i terroristi dunque si tratta, al contrario dell’ortodossia corrente in Italia!) e scongiurando una guerra civile.

3. La vittima, come sempre dice il Papa, è la martoriata Ucraina (oltre alle popolazioni povere di mezzo mondo colpite dalla crisi alimentare e energetica). Ma questa vittima ucraina è stata immolata non da uno solo, ma da molti officianti del sacrificio. Putin per primo l’ha individuata come il fulcro della contraddizione e causa della violenza e l’ha gettata nella guerra, ma gli amici e alleati dell’Ucraina l’hanno subito assunta come vittima da innalzare per una soluzione salvifica della crisi, e hanno fatto di Zelensky l’eroe sacrificato ai valori e all’identità dell’Occidente; Europa America e NATO hanno d’incanto raggiunto la loro unità, stabilendo la loro comunione nelle armi inviate alla vittima e nell’affidare alla sua morte sacrificale, spacciata come vittoria, i propri sogni di gloria; si è così stabilita intorno all’Ucraina un’unanimità violenta, che ha accomunato amici e nemici. A sua volta l’Ucraina ingannata dagli Alleati che le hanno promesso la vittoria sulla Russia, si è offerta essa stessa come vittima espiatoria con la decisione di bandire il negoziato, e di non ammettere altro esito che il recupero delle terre perdute, fino alla Crimea; ci sono pagine inquietanti di René Girard, il grande rivelatore dell’ideologia sacrificale, che hanno mostrato come molto spesso la vittima stessa si faccia complice della propria immolazione; e in Zelensky il sacrificatore si è fatto sacrilego perché sacra è la carne del suo popolo gettato nella fornace: anche a costo di restare in guerra per anni, come ha detto, intervistato a “Otto e mezzo”, il ministro degli esteri ucraino Kuleba. Nella logica del potere, come ha mostrato lo stesso Girard, le istituzioni dissimulano la loro propria violenza proiettandola su sempre nuove vittime.
4. I vincitori di questa guerra sono senza dubbio quei fabbricanti americani di armi che tra il 1996 e il 1998 investirono 51 milioni di dollari (94 milioni di oggi) in attività di lobbying per convincere congressisti e Casa Bianca a estendere verso Est la NATO, per espandere il mercato delle armi; come ha detto l’arcivescovo Delpini nel duomo di Milano in morte di Silvio Berlusconi, quando si fanno affari si guarda ai numeri e si dimenticano i criteri. Dimenticati i criteri, la guerra in Ucraina è venuta ed ha ripagato ad usura quell’investimento, dato che già 100 miliardi di dollari dagli Stati Uniti sono andati in armi e profitti per sostenerla.
5. E chi è lo sconfitto? Sconfitto è il progetto di un mondo tutto assorbito nel nuovo secolo americano, perché il mondo non ci sta ad essere ridotto a un unico Impero. Il mondo non è un’entità amorfa, primitiva, disponibile al dominio. È stata questa l’hybris dell’Occidente, la sua scalata al cielo. Mentre fiorivano altre civiltà, a lungo abbiamo creduto che il mondo fosse tutto compreso nella koiné greco-romana, poi lo abbiamo costituito in cristianità, e ora lo chiamiamo Occidente. Ma questa guerra segna la fine dell’Occidente, la sconfitta della sua pretesa di intestarsi la storia del mondo, di ricapitolarne tutti i valori.
Qual è stato il peccato capitale dell’Occidente? L’Occidente non ha riconosciuto l’altro, lo straniero, non lo ha considerato pari a sé. Nonostante il rovesciamento del cristianesimo e di san Paolo, l’Occidente si è portato dietro un’antropologia della diseguaglianza che da Aristotele, dalla società di signori e servi, di cittadini e meteci, di schiavi e liberi, è arrivata fino ad Hegel ed a Croce, passando attraverso la scoperta dell’America; solo questa è costata la scomparsa di 100 milioni di Indiani, di cui anche teologi dell’Occidente dubitavano che avessero l’anima. L’attuale paura della sostituzione etnica, la lotta ai migranti che vengono dal Sud, non a quelli che vengono dall’Ucraina, i porti chiusi, Cutro, sono figli di questa cultura della selezione e dell’esclusione. Non passa lo straniero! Ma, come dice Carl Schmitt, nel senso più estremo lo straniero non è solo l’altro, l’estraneo, ma è il nemico. E il nemico non è necessariamente il malvagio, il nemico è semplicemente l’altro da me; e in fin dei conti, come dirà poi lo stesso Schmitt alla fine della sua vita, grazie alla “sapienza della cella” in cui era rinchiuso per i suoi trascorsi col nazismo, il nemico è “colui che mette in questione me stesso”; in un certo senso dunque il nemico è qualcosa che sta dentro di noi, perché noi stessi siamo continuamente questione a noi stessi; ma ciò vuol dire che se l’Occidente non riconosce l’altro, non lo accoglie come un altro uguale a sé, lo rifiuta come prossimo, non conosce neanche se stesso, è diviso anche in se stesso, è nemico a se stesso.
Qualche giorno fa il Corriere della Sera, pubblicando un editoriale di Angelo Panebianco sullo stato del mondo, titolava così: “L’Occidente e il resto del mondo”. No, non c’è un Occidente che è il mondo, e un resto che è ciò che avanza del mondo, il residuo, lo scarto. Il mondo è uno, ma non per dominarlo come un Impero solo, e nemmeno per dargli un unico diritto, un unico Nomos. Non è questa l’universalità. L’Occidente ha avuto la vocazione alla vera universalità, ha generato messianismi e profezie, ha concepito una koiné che nell’armonia di ricchezze diverse si estendesse fino ai confini della Terra. È questa universalità che l’Occidente ha tradito. Ma non è mai troppo tardi per riafferrare il kairòs mentre fugge, e riaprire il futuro.
Sarebbe tempo che l’Occidente recuperasse la sua vocazione, scongiurasse la fine e che insieme a tutti gli altri si mettesse in gioco per un’altra concezione del mondo, per salvare la Terra.
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CESSATE-IL-FUOCO: LA PAROLA ALLA DIPLOMAZIA
1. Dal convegno “Guerra o pace?”, svoltosi in una sala del Senato il 30 giugno scorso, sono emerse le conclusioni riflesse in questo documento, con il quale si intende contribuire a dare rappresentanza sociale e politica ai sentimenti di pace che percorrono l’opinione pubblica e raccogliere le adesioni di coloro che ne condividano il contenuto.
2. Nel perdurare del conflitto in Ucraina, ci rivolgiamo ai parlamentari italiani per promuovere un cessate-il-fuoco presidiato da forze dell’ONU con la supervisione dell’OSCE, e il simultaneo avvio di negoziati per una conferenza di pace e sicurezza in Europa. Il protrarsi della guerra, infatti, rischia di aggravarsi fino al confronto nucleare, alla possibile destabilizzazione della Russia e alla caduta in mani incontrollabili del suo arsenale atomico. L’opzione proposta scongiurerebbe tali rischi, affronterebbe con gli strumenti della diplomazia le spine all’origine del conflitto, aprirebbe la via a nuove architetture di sicurezza nel nostro continente e permetterebbe di riportare la Russia nel consesso europeo in un quadro di collaborazione che eviti futuri confronti e prevenga il consolidarsi di sentimenti antioccidentali. Inoltre, offrirebbe all’Europa l’opportunità di farsi capofila della propria sicurezza, nella lealtà atlantica e con la dovuta attenzione alle azioni in corso da parte del Vaticano e di altri importanti interlocutori internazionali.
3. È urgente, quindi, dar luogo a un’iniziativa parlamentare che ispiri il Governo italiano, e gradualmente tutti i membri dell’Unione Europea e dell’Alleanza, a una visione lungimirante per l’Europa, in modo da non distogliere energie dai temi planetari della nostra epoca e scongiurare l’infausta prospettiva di lasciare alle giovani generazioni un mondo devastato dall’odio. L’avvio di un negoziato – e di una visione – di pace si avvarrebbe di cultura e strumenti già disponibili e praticati in passato: i principi di Helsinki; le regole fondative dell’OSCE; le iniziative di cooperazione emerse dagli anni Novanta in poi nella stessa Alleanza Atlantica. Lo scopo finale sarebbe la costruzione, in Europa, di un sistema di garanzie reciproche che nessuno avrebbe interesse a scardinare. La ricostruzione dell’Ucraina farebbe ovviamente parte del progetto.
4. Questo documento si propone di tradurre in iniziativa politica il diffuso e crescente desiderio di pace che attraversa l’Italia e l’Europa. Attorno a esso intendiamo raccogliere componenti del Parlamento e della politica, al fine di indirizzare un chiaro messaggio all’Italia, all’Europa e agli Stati Uniti per la stabilità del nostro continente. Anche perché senza ampi correttivi da mettere subito in atto, le nuove adesioni alla NATO apportano ben pochi vantaggi; anzi, irrigidiscono ancor più il confronto globale. Perciò auspichiamo che nel prossimo Vertice di Vilnius non siano adottate precipitose decisioni sul futuro status dell’Ucraina che priverebbero il negoziato di un importante elemento di trattativa.
5. Chiediamo a chi condivida questo documento di aderire e rendersi disponibile a un coordinamento interparlamentare per gli obiettivi indicati. Non sarà un cammino facile, né breve. Tuttavia, è il solo che appare ragionevole, nel generale interesse.
Roma, 7 luglio 2023
Giorgio Maria Baroncelli, Diplomatico A/R
Elena Basile, Diplomatica A/R
Mauro Beschi, Presidenza Coordinamento Democrazia Costituzionale Mario Boffo, Diplomatico A/R
Rocco Cangelosi, Diplomatico A/R
Giuseppe Cassini, Diplomatico A/R
Guido Cerboni, Diplomatico A/R
Enrico De Maio, Diplomatico A/R
Tommaso di Francesco, Giornalista
Biagio Di Grazia, Generale
Domenico Gallo, Presidenza Coordinamento Democrazia Costituzionale Giovanni Germano, Diplomatico A/R
Alfonso Gianni, Direttore di Alternative per il Socialismo
Alfiero Grandi, Vicepresidente vicario Coordinamento Democrazia Costituzionale Raniero La Valle, Giornalista
Silvia Manderino, Vicepresidente Coordinamento Democrazia Costituzionale Roberto Mazzotta, Diplomatico A/R
Gian Giacomo Migone, Presidente Commissione Esteri Senato 1994-2001 Fabio Mini, Generale
Enrico Nardi, Diplomatico A/R
Alberto Negri, Giornalista
Angelo Persiani, Diplomatico A/R
Antonio Pileggi, Presidenza Coordinamento Democrazia Costituzionale Michelangelo Pipan, Diplomatico A/R
Armando Sanguini, Diplomatico A/R
Barbara Spinelli, Giornalista
Massimo Spinetti, Diplomatico A/R
Vittorio Tedeschi, Diplomatico A/R
Massimo Villone, Presidente Coordinamento Democrazia Costituzionale Vincenzo Vita, Presidente Associazione Rinnovamento della Sinistra
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È online Rocca 14/2023
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Il Presidente Solinas, come Giorgio Gaber.

sedia-van-gogh4La sedia
di Vanni Tola
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img_3570Sta per scadere il mandato di una delle più inadeguate Giunte regionali di sempre, quella del presidente Solinas. E’ tempo di bilanci, ma è difficile tirare le somme tra il nulla realizzato e il niente ancora da fare. L’impresa appare quanto meno difficoltosa. Tra le ultime “perle” di questa Giunta come non ricordare che, da oltre due anni, il Presidente è stato nominato Commissario straordinario di dieci grandi opere infrastrutturali incompiute per affrettarne la realizzazione. A tutto oggi nulla è cambiato, ad eccezione dell’annunciato probabile sblocco dei lavori della Sassari – Alghero, una delle dieci incompiute. I finanziamenti destinati alla Sanità per eliminare le code nella prenotazione di importanti e urgenti esami diagnostici, non sono stati utilizzati nonostante ce ne fosse un gran bisogno. L’inadeguatezza dell’Amministrazione Solinas nel supportare l’applicazione del PNRR è sotto gli occhi di tutti. Diversi esponenti politici hanno denunciato più volte il rischio che la Sardegna non riesca a spendere, se non una minima parte, gli esigui finanziamenti ottenuti.

La sanità regionale è allo sfascio, non si contano più le proteste e le mobilitazioni dei pazienti di vaste aree dell’isola per richiedere che siano garantiti livelli minimi di assistenza sanitaria.