Risultato della ricerca: Unione Europea

Una lettera che condividiamo in toto

img_9411Cari Amici,
avete ricevuto la settimana scorsa una nostra lettera da indirizzare agli Ebrei della Diaspora.

Importantissimo! Rapporto ASviS 2024: l’Italia è in “drammatico ritardo” su tutti gli Obiettivi dell’Agenda 2030.

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[Articolo di Flavio Natale]
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“L’alternativa a un mondo sostenibile è un mondo insostenibile. Come l’attuale”: questo l’avvertimento lanciato da Enrico Giovannini, direttore scientifico dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile, nel
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Rapporto ASviS 2024 “Coltivare ora il nostro futuro”, che come ogni anno fa il punto sull’avanzamento dei 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs) dell’Agenda 2030 a livello nazionale ed europeo, oltre a offrire un’analisi globale. Il Rapporto, frutto del lavoro di un vasto numero di esperte ed esperti provenienti da più di 320 aderenti dell’Alleanza, è stato lanciato durante l’evento di presentazione che si è tenuto il 17 ottobre presso l’Acquario Romano.

“Per chi si occupa seriamente di sviluppo sostenibile l’attuale stato del mondo non è una sorpresa”, ha aggiunto Giovannini. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha in più occasioni ribadito che l’Agenda 2030 “non è un esercizio burocratico per sognatori” e che “per troppo tempo abbiamo affrontato in modo inadeguato la questione della tutela dell’ambiente e del cambiamento climatico”. Ma nonostante gli appelli del Capo dello Stato e la firma del Patto sul Futuro, in cui i leader del mondo (inclusa l’Italia) si sono impegnati ad attuare 56 azioni da attuare nei prossimi anni per non precipitare verso crisi devastanti, l’Agenda 2030 non gode di buona salute nel nostro Paese, e i dati lo dimostrano. A questo proposito, le previsioni effettuate dall’ASviS, sulla base della metodologia Eurostat, si sono avvalse quest’anno (per la prima volta) della collaborazione della società di consulenza Prometeia, per indicatori e previsioni al 2030. Altra novità di questa edizione riguarda l’elaborazione di pillole infografiche del Rapporto, prodotte dallo studio editoriale Withub.

Sarà inoltre possibile visionare tutti i contenuti chiave del paper attraverso una pagina dedicata del sito asvis.it, con infografiche interattive, card facilmente divulgabili per raccontare i dati, possibilità di esplorare ciascun Obiettivo, e molto altro.

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Infografiche interattive, indicatori statistici, card social e molto altro:
esplora il Rapporto ASviS 2024
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L’Italia è su un sentiero di sviluppo insostenibile

Secondo il Rapporto ASviS, il nostro Paese è in “drammatico ritardo” su tutti gli Obiettivi dell’Agenda 2030. Tra il 2010 e il 2023 si riscontrano peggioramenti per cinque Goal: povertà, disuguaglianze, qualità degli ecosistemi terrestri, governance e partnership. Miglioramenti molto contenuti per sei Obiettivi: cibo, energia pulita, lavoro e crescita economica, città sostenibili, lotta al cambiamento climatico e qualità degli ecosistemi marini. Miglioramenti più consistenti per cinque Goal: salute, educazione, uguaglianza di genere, acqua e sistemi igienico-sanitari e innovazione, mentre l’unico miglioramento molto consistente interessa l’economia circolare. Guardando invece alle disuguaglianze territoriali, si evidenzia una riduzione per un solo Goal (governance), un aumento per due (educazione e acqua e servizi igienico-sanitari) e una sostanziale stabilità per i restanti dodici per cui sono disponibili dati sul territorio, in totale contraddizione con il principio chiave dell’Agenda 2030 di “non lasciare nessuno indietro”.

Se guardiamo agli obiettivi quantitativi, elaborati in base agli impegni definiti a livello europeo o dalla Strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile 2022 (SNSvS), le scelte del Paese risultano insufficienti per raggiungere i 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile. Secondo l’analisi condotta in collaborazione con Prometeia, dei 37 target da raggiungere entro il 2030 solo otto sono raggiungibili (il 21,6%), 22 non potranno essere raggiunti (il 59,5%) e per sette il risultato è incerto (il 18,9%). A conferma del ritardo del nostro Paese, i grafici contenuti nel Rapporto ASviS dimostrano che i dieci obiettivi raggiungibili per l’Ue si riducono a cinque per l’Italia. Mentre i cinque non raggiungibili a livello europeo diventano dieci per l’Italia. “Siamo di fronte a un disastro annunciato”, ha commentato Giovannini.

La situazione appare ancora più grave se si considera il divario tra le preoccupazioni della popolazione e l’azione politica: circa la metà degli italiani si sente minacciata da rischi ambientali come incendi, frane o alluvioni, solo il 21% pensa che il governo stia operando pensando alle prospettive del Paese a lungo termine, il 62% chiede al Governo una transizione ecologica più rapida e incisiva e il 93% ritiene che l’Italia debba rafforzare i propri impegni per affrontare il cambiamento climatico. I dati allarmanti e le opinioni dei cittadini dovrebbero far raccogliere attorno all’Agenda 2030 tutte le forze politiche, economiche e sociali del Paese, ma così non è: “Nonostante il sostegno della cittadinanza a queste tematiche e gli impegni assunti in sede Ue, G7 e Onu dal Governo italiano, l’attuazione dell’Agenda 2030 non appare centrale nel disegno delle politiche, visto che gli interventi adottati negli ultimi due anni non solo non sono in grado di produrre il cambio di passo necessario, ma diversi di essi sono andati in contrasto con quanto previsto dalla SNSvS 2022”.

Mancare questi obiettivi non è solo una questione di traguardi, ma significa generare effetti negativi sulla nostra popolazione: secondo gli studi raccolti nel Rapporto ASviS, nel 2023 5,7 milioni di persone si trovano in condizioni di povertà assoluta e il 22,8% della popolazione è a rischio di povertà o esclusione sociale; nel 2022, il 5% delle famiglie italiane più ricche deteneva il 46% della ricchezza netta complessiva, mentre il 50% delle famiglie più povere possedeva meno dell’8% della ricchezza netta totale; nel 2023, il 10,5% dei giovani di 18-24 anni sono usciti dal sistema di istruzione e formazione senza un diploma o una qualifica, mentre i 25-34enni che hanno completato l’istruzione terziaria sono il 30,6%, in aumento ma comunque molto al di sotto del 45% previsto dagli obiettivi concordati con l’Europa. L’Italia è inoltre al centro dell’hotspot climatico del Mediterraneo, e si riscalda a quasi il doppio della media globale. Ultimo dato: il nostro Paese si classifica in 83esima posizione su 146 Stati per la parità di genere, perdendo otto posizioni rispetto al 2023.

Cosa succede in Europa

Il Rapporto ASviS dedica anche un capitolo all’analisi delle politiche Ue e all’andamento degli indicatori europei per l’Agenda 2030, di grande rilevanza in particolare dopo la rielezione di Ursula von der Leyen alla guida della Commissione. Nei suoi orientamenti politici, in linea con il manifesto che l’ASviS aveva pubblicato alla vigilia delle elezioni europee, von der Leyen ha infatti avanzato numerose proposte per rafforzare le iniziative già avviate in materia di sostenibilità (compreso il Green Deal) e stimolarne di nuove. Inoltre, la Presidente, come aveva già fatto cinque anni fa, ha inserito nelle lettere di missione dei nuovi Commissari l’obiettivo di raggiungere gli SDGs di propria competenza, ribadendo così l’impegno complessivo dell’Unione europea per l’attuazione dell’Agenda 2030.

Ma come sta messa, in effetti, l’Ue? Dal 2010 a oggi sono stati registrati progressi per gran parte degli Obiettivi di sviluppo sostenibile, anche se appaiono insufficienti per sperare di conseguire i Target dell’Agenda 2030 entro la fine di questa decade. Sulla base dei dati pubblicati da Eurostat vediamo che, rispetto ai valori del 2010, nel 2022 si registra una crescita molto consistente solo nel caso dell’uguaglianza di genere, aumenti significativi per energia pulita, lavoro e crescita economica, e innovazione, dinamiche moderatamente positive per dieci Goal, e peggioramenti per la qualità degli ecosistemi terrestri e la partnership. I risultati dell’Italia sono complessivamente sotto la media degli Stati membri. Tra quelli che vanno molto male istruzione, lavoro, povertà e riduzione delle disuguaglianze. Mentre va molto bene l’economia circolare, fiore all’occhiello del nostro Paese.

Quattro game changer per l’Italia

Altra novità del Rapporto è l’individuazione di quattro possibili fattori di cambiamento per il futuro del Paese, uno negativo e tre positivi: la legge sull’autonomia differenziata e i fortissimi rischi ad essa associati in termini di aumento dei divari territoriali; l’impatto sulle imprese derivanti dalle nuove normative europee sulla rendicontazione di sostenibilità e il dovere di diligenza di impresa sui temi sociali e ambientali; il recepimento della direttiva europea sul ripristino della natura; la modifica della Costituzione del 2022 e la recente sentenza della Corte Costituzionale in materia di bilanciamento delle esigenze economiche con la tutela dell’ambiente e della salute. Secondo l’ASviS, dalle evoluzioni e svolte che prenderanno questi game changer potrebbe dipendere il futuro del nostro Paese.

Le proposte dell’ASviS

Infine, il Rapporto avanza come ogni anno numerose proposte per invertire la rotta del Paese, alcune di carattere trasversale, altre riguardanti questioni più settoriali, ma sempre nell’ottica integrata tipica del lavoro dell’Alleanza. L’obiettivo è quello di stimolare i soggetti pubblici, a partire da Governo e Parlamento, e quelli privati, a fare il necessario salto di qualità. In particolare, per ciò che riguarda gli interventi “di sistema”, l’Italia deve attuare con urgenza la Strategia nazionale di sviluppo sostenibile approvata dal Governo nel settembre 2023 e poi dimenticata. Inoltre, occorre:
definire il Piano d’accelerazione nazionale per il conseguimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile, assegnarne la responsabilità alla Presidenza del Consiglio, e integrarlo nei documenti di programmazione economica;
rendere operativo il Programma d’azione nazionale per la coerenza delle politiche per lo sviluppo sostenibile;
approvare la Legge sul Clima e attuare il Regolamento sul ripristino della natura, in linea con la riforma della Costituzione del 2022;
rafforzare le politiche per lo sviluppo sostenibile in una prospettiva territoriale e contrastare i rischi di aumento delle diseguaglianze territoriali derivanti dall’autonomia differenziata;
attuare la “Dichiarazione sulle Future generazioni” e rafforzare la partecipazione giovanile alla vita democratica del Paese.
Seguire queste proposte aiuterebbe dunque a “colmare il gap tra impegni e realtà”, come scrivono i presidenti ASviS Marcella Mallen e Pierluigi Stefanini nella loro introduzione al Rapporto. Ma il tempo che resta non è molto: “Non realizzare lo sviluppo sostenibile vuol dire ridurre la qualità della vita delle persone, le loro potenzialità, la loro libertà, la resilienza delle comunità locali, la tenuta dei nostri territori, la capacità del pianeta di rigenerarsi e sostenere la nostra società”, scrivono i presidenti. Mentre seguire il sentiero dello sviluppo sostenibile significa orientarci verso una società più giusta ed equa. Come sottolinea anche il titolo del Rapporto, dobbiamo “Coltivare ora il nostro futuro”, attuando adesso con urgenza azioni concrete e trasformative e prendendo sul serio gli impegni che sottoscriviamo a livello internazionale ed europeo per orientarci verso uno sviluppo pienamente sostenibile, perché “È l’unica strada possibile per costruire un futuro di speranza”.

Scarica:

- il Rapporto ASviS
- la presentazione del direttore scientifico.

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Guerra maledetta guerra

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Su Volerelaluna.
Con l’invasione del territorio russo nella zona di Kursk da parte di truppe corazzate ucraine, armate ed equipaggiate dalla NATO, e con la pretesa ucraina di utilizzare sistemi d’arma occidentali per colpire obiettivi strategici in profondità in Russia, si è verificato un salto di qualità nell’escalation del conflitto russo-ucraino, che ci riguarda e ci coinvolge direttamente.

Lev Tolstoj, in Guerra e Pace, per descrivere Napoleone Bonaparte che ordina l’avanzata in territorio russo nel 1812 ricorre al noto aforisma di Dio che fa impazzire quelli che vuole perdere. La catastrofe della guerra in Russia indubbiamente fu frutto del delirio di potenza che aveva oscurato la mente di Napoleone. Oggi ci troviamo di fronte alla programmazione di una nuova e più catastrofica campagna di Russia, di cui l’invasione ucraina nel territorio di Kursk, rappresenta il detonatore, se Zelensky non verrà ridotto a più miti consigli. La mini-invasione della Russia intrapresa dall’Ucraina con i mezzi corazzati, l’armamento e la copertura di intelligence della NATO, è un’operazione che non ha grandi prospettive sul piano meramente militare, addirittura potrebbe apparire un non senso, dal momento che l’Ucraina ha dovuto distogliere una parte delle sue truppe migliori dal Donbass dove non riesce ad arrestare la lenta ma inesorabile avanzata delle truppe russe. Tuttavia, al di là della sua opinabile rilevanza militare, l’incursione ucraina, rappresenta una provocazione politica che punta a esasperare il conflitto e a indurre la Russia a massimizzare la violenza, provocando così l’ingresso definitivo in guerra della NATO.

L’offensiva dei dirigenti politici ucraini che punta a ottenere mano libera per usare sistemi missilistici USA e NATO allo scopo di colpire siti di valore strategico in Russia e la dichiarata intenzione di Zelensky di presentare un “Piano per la vittoria”, lasciano intendere che la direzione di marcia del piccolo Napoleone di Kiev è quello di provocare l’avversario anche sfidando il rischio che, messa con le spalle al muro, la Russia, ricorra all’uso delle armi nucleari tattiche. La decisione di USA, Gran Bretagna e di numerosi Stati europei, con il sostegno dei vertici dell’Unione Europea, di permettere all’Ucraina di utilizzare sistemi d’arma occidentali sempre più performanti per colpire in profondità nei territori della Russia, rappresenta un crescendo di ostilità che ci coinvolge sempre di più nel conflitto. Qui siamo molto al di là dal sostegno alla resistenza delle forze armate ucraine a fronte dell’attacco russo scatenato il 24 febbraio 2022, ci troviamo di fronte a una alleanza de facto per sostenere una guerra che punta alla “vittoria” dell’Ucraina, attraverso la disfatta militare e l’umiliazione della Russia. Senonché l’unica possibilità di “vittoria” per un Paese più debole come l’Ucraina consiste nel provocare l’intervento dei Paesi della NATO nella guerra contro la Russia. Per ottenere questo risultato qualsiasi azzardo è giustificato, anche quello di spingere la Russia ad utilizzare le sue armi nucleari tattiche. Quella compiuta dall’Ucraina è la più rilevante incursione in territorio russo dalla Seconda guerra mondiale. Le reminiscenze di un passato tragico non possono che attizzare risposte irrazionali nella società e nel potere russo.

Domenico Quirico su La Stampa ha colto che «oggi dopo Kursk qualcosa è cambiato, di profondo, al di là della irrilevanza militare della incursione ucraina» e ha osservato che «un sistema politico, esiste solo se risponde in maniera adeguata a ciò che lo mette in pericolo. Finché riesce a reagire e ad annientare ciò che punta alla sua fine sopravvive. Quando dimostra di non avere più i mezzi per rispondere, subito, drasticamente, muore. La Russia putiniana è forse arrivata a questo dilemma senza vie di uscita». Se Quirico quasi si compiace dell’indebolimento del potere di Putin, noi, al contrario non possiamo che allarmarci. Come farà quel sistema politico a rispondere in maniera adeguata a ciò che lo mette in pericolo?

Persino Tajani e Crosetto, si sono resi conto che stiamo varcando la soglia della guerra con la Russia e hanno messo le mani avanti dichiarando contrarietà all’uso di nostri sistemi d’arma per colpire obiettivi in territorio russo poiché: «noi non siamo in guerra con la Russia». I politici italiani sono campioni mondiali di servilismo, oggi verso la NATO, ieri verso la Germania hitleriana, ma non sono pazzi al punto da rischiare il suicidio per amore di servilismo. L’impazzimento invece dilaga nel territorio dell’Unione Europea e offusca le menti dei dirigenti politici se l’Alto Rappresentante per la politica estera Josep Borrell ha tacciato di ridicolo le esitazioni italiane: «Io credo che sia ridicolo dire che se si permettono di colpire obiettivi militari in Russia allora vuol dire essere in guerra contro Mosca, come dicono alcuni Stati membri». Evidentemente per Borrell dirigere le nostre armi contro obiettivi strategici in Russia e colpirli pesantemente non è un atto di ostilità e la Russia non deve considerarlo come tale. Purtroppo nulla ci garantisce che i generali russi condividano questa tesi.

In questo momento – direbbe Tolstoj – il delirio di potenza circola nelle Cancellerie dei principali Paesi europei, specialmente in Gran Bretagna e nei Paesi nordici. L’Italia non conta nulla, ma facciamo pur sempre parte della NATO e lo scoppio della guerra con la Russia ci coinvolgerà inevitabilmente. Il nostro Paese, come tutti i popoli europei, non ha alcun interesse reale a entrare in guerra con la Russia: sarebbe una tragedia enorme che sovrasterebbe i lutti e le distruzioni provocate dalla Seconda guerra mondiale. La guerra con la Russia non è inevitabile, come sostengono i vertici della NATO, e i leader europei profeti di sventura, ma noi ci troveremmo inevitabilmente coinvolti se continuassimo a fornire a Zelensky gli strumenti per attuare i suoi piani di provocazione politica e militare nei confronti della società e del potere russo.

L’escalation del conflitto russo ucraino è arrivata a un punto di svolta. Dobbiamo fare tutto il possibile per evitare che questa svolta si compia, non basta mettere la testa sotto la sabbia e proclamare (invano) la nostra contrarietà all’uso di armi italiane su territorio russo, bisogna invertire la direzione di marcia respingendo il mito della “vittoria” ucraina come unica soluzione auspicabile del conflitto. Nessuna delle due parti può conseguire la vittoria: l’unica soluzione è un negoziato da attuarsi mediante una Conferenza di Pace sul modello Helsinki 1975. È urgente una mobilitazione delle coscienze per spingere Governo, partiti e strutture della società civile a dire no alla guerra con la Russia, senza se e senza ma. È proprio il caso di dire che si tratta di una questione di vita o di morte.

Una versione ridotta dell’articolo è stata pubblicata su Il Fatto Quotidiano del 4 settembre con il titolo: Dobbiamo tirarci fuori dalla campagna di Russia
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I Cattolici del Meic in campo sull’invasione energetica. Si all’energia rinnovabile senza danni all’ambiente e al paesaggio sardo

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SI’ alle Energie rinnovabili. NO alla devastazione del territorio della Sardegna. Si vince solo uniti e partecipi, con alla testa le nostre Istituzioni autonomiste.
Nota stampa MEIC diocesi di cagliari Oristano Nuoro

La lotta contro la devastante speculazione energetica, che ormai interessa tutti i territori sardi, può diventare l’occasione per costruire con lo Stato un nuovo rapporto paritario fondato nel rispetto di quanto previsto dallo Statuto del 1948. Consiglio e Giunta regionali. Il Consiglio e la Giunta regionali devono raccogliere la voce preoccupata di cittadini e sindaci che da ogni angolo dell’isola si leva a difesa del patrimonio identitario della Sardegna, seriamente minacciato da una invasione affaristica. Un processo speculativo che, se non presidiato e ridimensionato, porterà a una nuova colonizzazione dell’isola questa volta nel nome del “dio Gigawatt”.
La “ribellione” pacifica e corale dei territori, senza differenze partitiche, indica alle massime istituzioni regionali il percorso politico in grado di incidere sulle decisioni del Governo nazionale. Il segnale di un popolo unito – territori, Comuni, istituzioni regionali, parlamentari sardi, parlamentari europei rappresentanti della circoscrizione Sicilia-Sardegna, Università, forze economiche e sociali, terzo settore – è l’unica convincente dimostrazione di forza che la Sardegna può dare alle centrali del potere . Uniti nel confronto/negoziazione con il Governo nazionale e l’Unione Europea. Tutti uniti perché le divisioni partitiche di fronte al bene comune dei sardi sono incomprensibili e ingiustificabili.

Il Meic sa bene che i pubblici amministratori hanno la responsabilità di valutare potenzialità, vantaggi e i molti rischi, connessi all’uso delle energie alternative, e si sente impegnato ad evitare che le loro decisioni siano dettate da pressioni provenienti da interessi di parte. La Dottrina sociale cristiana invita a tener presente che i beni della terra sono stati creati da Dio per essere sapientemente usati da tutti, equamente condivisi. Si tratta perciò di impedire l’ingiustizia di un accaparramento delle risorse e avviare processi di positivo governo delle energie rinnovabili. Quindi di valutare accuratamente la riconosciuta utilità delle energie rinnovabili, ma anche la necessità di ridurre al minimo ogni effetto collaterale negativo per il territorio. Noi ribadiamo la giustezza dell’uscita dalla dipendenza della creazione di energia dalle fonti fossili. Siamo da sempre sostenitori convinti dell’Agenda 2030 dell’Onu che si armonizza in toto con l’Enciclica Laudato si’. Siamo attenti sostenitori della declinazione dei rispettivi obbiettivi nelle dimensioni europee, italiane e sarde. E nella loro pratica attuazione vogliamo che prevalgano gli interessi delle popolazioni, perché l’Economia sia per la vita e non per l’aumento delle “inequita’ e delle povertà. Siamo convinti che la partecipazione dei cittadini nelle forme previste dalla democrazia costituzionale ne sia il più importante strumento.

Al riguardo ci sovviene la convenzione di Aarhus, in vigore nei paesi dell’Unione Europea dal 30 ottobre 2001, che attribuisce al pubblico (individui e associazioni che li rappresentano) il diritto di accedere alle informazioni e di partecipare nelle decisioni in materia ambientale, così come ad avere diritto di ricorso se questi diritti non vengono rispettati.

E’ di grande attualità la raccomandazione di papa San Paolo VI nell’enciclica “Populorum Progressio”:

«Noi abbiamo degli obblighi verso tutti, e non possiamo disinteressarci di coloro che verranno dopo di noi a ingrandire la cerchia della famiglia umana. La solidarietà universale, che è un fatto e per noi un beneficio, è altresì un dovere». Si tratta di una responsabilità che le generazioni presenti hanno nei confronti di quelle future, una virtuosa responsabilità politica che oggi appartiene in primis al Consiglio e alla Giunta regionali della Sardegna.

Cagliari, 1 agosto 2024

Il Movimento Ecclesiale Impegno Culturale delle Diocesi di Cagliari, Oristano e Nuoro
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img_8082SI’ alle Energie rinnovabili. NO alla devastazione del territorio della Sardegna. Si vince solo uniti e partecipi, con alla testa le nostre Istituzioni autonomiste.

Documento del Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale
Diocesi di Cagliari, Oristano e Nuoro

La lotta contro la devastante speculazione energetica, che ormai interessa tutti i territori sardi, può diventare – per la Regione Autonoma della Sardegna – l’occasione per costruire e avviare con lo Stato un nuovo rapporto paritario fondato sul rispetto dello Statuto di Autonomia della Sardegna e delle norme di attuazione [1].

1. Consiglio e Giunta interpreti della volontà popolare.

Il Consiglio regionale, come massima assise rappresentativa del popolo sardo, e la Giunta regionale, come organo di governo, devono raccogliere la voce preoccupata di cittadini e sindaci che da ogni angolo dell’isola si leva a difesa del patrimonio identitario della Sardegna, seriamente minacciato da una nuova invasione affaristica. Un processo speculativo che, se non presidiato e ridimensionato, porterà alla terza colonizzazione dell’isola – dopo quella militare e petrolifera – che “cospargerà di sale” la terrà sarda definitivamente distrutta, anche nelle zone interne, da migliaia di pale eoliche e milioni di pannelli fotovoltaici.

2. Elementi unificatori.

Giunta e Consiglio regionale nella mobilitazione popolare in atto devono trovare l’elemento unificante per presentarsi come una sola forza e una sola volontà politica davanti al Governo, per ottenere di emendare il Decreto legislativo Draghi del 2021 [2] e, di conseguenza, il Decreto attuativo del ministro Pichetto Fratin (2024) [3], alla luce della specificità della Sardegna, per le determinazioni di competenza della Regione.

3. Azione unitaria della Giunta e del Consiglio regionale.

La “ribellione” pacifica e corale dei territori, senza differenze partitiche, indica alle massime istituzioni regionali il percorso politico in grado di incidere sulle decisioni del Governo nazionale. Il segnale di un popolo unito – territori, Comuni, istituzioni regionali, parlamentari sardi, parlamentari europei rappresentanti della circoscrizione Sicilia-Sardegna, Università, forze economiche e sociali, terzo settore – è l’unica convincente dimostrazione di forza che la Sardegna può dare alle centrali del potere. Uniti nel confronto/negoziazione con il Governo nazionale e l’Unione Europea.

4. Divisioni politico-partitiche incomprensibili e ingiustificabili.

Le divisioni partitiche di fronte al bene comune dei sardi sono incomprensibili e ingiustificabili, anche alla luce dei programmi elettorali presentati alle scorse elezioni regionali dai diversi schieramenti, tutti convergenti verso una sostanziale tutela dell’ambiente, del paesaggio e della cultura sarda.

5. Consiglio e Giunta regionali “sentinelle” e custodi della storia, della cultura, del patrimonio identitario, dell’ambiente, del bene comune della Sardegna.

Come cattolici del MEIC (Movimento ecclesiale di Impegno culturale) siamo convinti, seguendo le indicazioni della Dottrina sociale della Chiesa, che in questo momento difficile la risposta unitaria delle nostre istituzioni sia l’espressione più alta di una comunità politica veramente “al servizio della società civile dalla quale essa deriva”, quindi del bene comune, ragion d’essere e prima responsabilità delle istituzioni.

6. Armonizzazione degli interessi settoriali

«Per assicurare il bene comune, il governo di ogni paese – per noi la Regione – ha il compito specifico di armonizzare con giustizia i diversi interessi settoriali (Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, n.169) [4]». Fino a questo momento, nel processo di riconversione energetica attraverso le “rinnovabili”, emerge che prioritariamente gli interessi tutelati sono quelli delle società finanziarie organizzatrici del business affaristico a danno dei comuni, delle popolazioni locali e dell’intera isola.

7. Relazione tra il popolo sardo e la sua terra.

L’invasione non controllata delle energie rinnovabili rischia di far perdere a noi sardi tutti – per un vantaggio economico di potenti interessi industriali e finanziari – la relazione con il patrimonio storico-ambientale cui è legata la nostra stessa identità culturale che contraddistingue la gente della Sardegna nel mondo. Una relazione che le Università di Cagliari e Sassari sarebbe bene e necessario che ribadissero pubblicamente, con il sostegno della ricerca scientifica.

8. Impedire l’ingiustizia dell’accaparramento.

Il Meic sa bene che i pubblici amministratori hanno la responsabilità di valutare potenzialità, vantaggi e i molti rischi, connessi all’uso delle energie alternative, e si sente impegnato ad evitare che le loro decisioni siano dettate da pressioni provenienti da interessi di parte. La Dottrina sociale cristiana invita a tener presente che i beni della terra sono stati creati da Dio per essere sapientemente usati da tutti, equamente condivisi. Si tratta perciò di impedire l’ingiustizia di un accaparramento delle risorse e avviare processi di positivo governo delle energie rinnovabili. Quindi di valutare accuratamente la riconosciuta utilità delle energie rinnovabili, ma anche la necessità di ridurre al minimo ogni effetto collaterale negativo per il territorio. Noi ribadiamo la giustezza dell’uscita dalla dipendenza della creazione di energia dalle fonti fossili. Siamo da sempre sostenitori convinti dell’Agenda 2030 dell’Onu [5] che si armonizza in toto con l’Enciclica Laudato si’ [6] [*]. Siamo attenti sostenitori della declinazione dei rispettivi obbiettivi nelle dimensioni europee, italiane e sarde. E nella loro pratica attuazione vogliamo che prevalgano gli interessi delle popolazioni, perché l’Economia sia per la vita e non per l’aumento delle “inequita’ e delle povertà. Siamo convinti che la partecipazione dei cittadini nelle forme previste dalla democrazia costituzionale ne sia il più importante strumento.

Al riguardo ci sovviene la convenzione di Aarhus, in vigore nei paesi dell’Unione Europea dal 30 ottobre 2001 [7], che attribuisce al pubblico (individui e associazioni che li rappresentano) il diritto di accedere alle informazioni e di partecipare nelle decisioni in materia ambientale, così come ad avere diritto di ricorso se questi diritti non vengono rispettati.

9.Responsabilità verso le generazioni future, eredi delle generazioni passate e beneficiari del lavoro dei nostri contemporanei.

Scriveva quasi 50 anni fa papa san Paolo VI, fondatore proprio a Cagliari nel 1932 del Movimento dei Laureati di Azione Cattolica:

«Noi abbiamo degli obblighi verso tutti, e per ìnon possiamo disinteressarci di coloro che verranno dopo di noi a ingrandire la cerchia della famiglia umana. La solidarietà universale, che è un fatto e per noi un beneficio, è altresì un dovere». [8] Si tratta di una responsabilità che le generazioni presenti hanno nei confronti di quelle future, una virtuosa responsabilità politica che oggi appartiene in primis al Consiglio e alla Giunta regionali della Sardegna.

Con questo spirito unitario, sinceramente volto alla tutela e al benessere del popolo sardo, il Meic appoggia tutte le iniziative in atto e quelle che coerentemente si vorranno intraprendere nel tempo che verrà. E’ la doverosa risposta del nostro Movimento culturale a un’emergenza ambientale – diventata grande problema di giustizia sociale – in coerenza con il dettato conciliare: « Il cristiano che trascura i suoi impegni temporali, trascura i suoi doveri verso il prossimo, anzi verso Dio stesso, e mette in pericolo la propria salvezza eterna» (G.S.,43) [9].

Cagliari, Oristano, Nuoro, 1 agosto 2024

​Il MEIC delle diocesi di Cagliari, Oristano e Nuoro.
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NOTE

[1] https://www.regione.sardegna.it/regione/leggi-e-delibere/statuto
[2] Decreto legislativo Draghi: https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:decreto.legislativo:2021-11-08;199 .
[3] Decreto Pichetto Fratin del 2024: https://ageei.eu/wp-content/uploads/2024/06/Nuova-bozza-DM-Aree-idonee.pdf
[4] Compendio della dottrina sociale della Chiesa: https://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/justpeace/documents/rc_pc_justpeace_doc_20060526_compendio-dott-soc_it.html
[5] Agenda ONU 2030 per lo Sviluppo Sostenibile: https://asvis.it/l-agenda-2030-dell-onu-per-lo-sviluppo-sostenibile/
[6] Enciclica di Papa Francesco Laudato si’: https://www.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20150524_enciclica-laudato-si.html
[7] Convenzione di Aarhus: https://www.mase.gov.it/pagina/convenzione-di-aarhus-informazione-e-partecipazione .
[8] Populorum progressio: https://www.vatican.va/content/paul-vi/it/encyclicals/documents/hf_p-vi_enc_26031967_populorum.html
[9] Gaudium et Spes: https://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19651207_gaudium-et-spes_it.html

[*] Sulle connessioni tra l’Agenda ONU 2030 e l’Enciclica Laudato Si’ si fa riferimento a un articolo di Franco Meloni sul Dossier Caritas 2021: https://www.aladinpensiero.it/?p=103098 .

Il MEIC: unità dei sardi con la guida del Consiglio e della Giunta regionali

img_8082SI’ alle Energie rinnovabili. NO alla devastazione del territorio della Sardegna. Si vince solo uniti e partecipi, con alla testa le nostre Istituzioni autonomiste.

Documento del Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale
Diocesi di Cagliari, Oristano e Nuoro

La lotta contro la devastante speculazione energetica, che ormai interessa tutti i territori sardi, può diventare – per la Regione Autonoma della Sardegna – l’occasione per costruire e avviare con lo Stato un nuovo rapporto paritario fondato sul rispetto dello Statuto di Autonomia della Sardegna e delle norme di attuazione.

Democrazia è…

img_7991Ogni atto rivolto contro la libera informazione, ogni sua riduzione a fake news, è un atto eversivo rivolto contro la Repubblica. Garanzia di democrazia è, naturalmente, il pluralismo dell’informazione. A questo valore le istituzioni della Repubblica devono rivolgere la massima attenzione e sostegno. L’intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione dell’incontro con i componenti dell’Associazione Stampa Parlamentare, i direttori dei quotidiani e delle agenzie giornalistiche e i giornalisti accreditati presso il Quirinale per la consegna del Ventaglio da parte dell’Associazione Stampa Parlamentare

24/07/2024
La ringrazio, Presidente, per le sue parole di saluto e ringrazio la Stampa Parlamentare e i quirinalisti per questo incontro, divenuto un appuntamento per riflettere brevemente su quanto ha presentato l’anno di lavoro che si avvia a una pausa per le istituzioni.

Il ringraziamento più intenso riguarda il prezioso e talvolta non facile compito di seguire e interpretare il mondo delle istituzioni e della politica, dandone notizia ai cittadini, esprimendo opinioni, suggerimenti, critiche che – non va mai dimenticato – sono essenziali nella vita democratica.

Le preoccupazioni e gli interrogativi che lei ha presentato sono comprensibilmente numerosi. Anzitutto quello sulla libertà di informazione.

Nella società dell’informazione globale è del tutto superfluo richiamare l’importanza che l’informazione riveste per il funzionamento della democrazia, per un’efficace tutela del sistema delle libertà La democrazia, infatti è, anzitutto, conoscenza. È contesto nel quale avviene il confronto fra le idee e si esercita il diritto a manifestarle e testimoniarle. Alla libertà di opinione si affianca la libertà di informazione, cioè di critica, di illustrazione di fatti e di realtà. Si affianca, in democrazia, anche il diritto a essere informati, in maniera corretta. Informazione, cioè, come anticorpo contro le adulterazioni della realtà.

Operare contro le adulterazioni della realtà costituisce una responsabilità, e un dovere, affidati anzitutto ai giornalisti. La legge Gonella, che ha istituto l’Ordine dei giornalisti, ne dà una rappresentazione pregevole: “È diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà di informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede”.

Va sempre rammentato che i giornalisti si trovano a esercitare una funzione di carattere costituzionale che si collega all’art.21 della Carta fondamentale, con un ruolo democratico decisivo. Si vanno, negli ultimi tempi, infittendo contestazioni, intimidazioni, quando non aggressioni, nei confronti di giornalisti, che si trovano a documentare fatti. Ma l’informazione è esattamente questo. Come anche a Torino, nei giorni scorsi.

Documentazione di quel che avviene, senza obbligo di sconti. Luce gettata su fatti sin lì trascurati. Raccolta di sensibilità e denunce della pubblica opinione. Canale di partecipazione e appello alle istituzioni. Per citare ancora una volta Tocqueville, “democrazia è il potere di un popolo informato”.

Ecco perché ogni atto rivolto contro la libera informazione, ogni sua riduzione a fake news, è un atto eversivo rivolto contro la Repubblica. Garanzia di democrazia è, naturalmente, il pluralismo dell’informazione. A questo valore le istituzioni della Repubblica devono rivolgere la massima attenzione e sostegno.

Si è aperta la discussione sulla opportunità di una nuova legge organica sull’editoria, come è avvenuto in precedenti occasioni di svolta in questa industria. È inevitabile tener conto della evoluzione tecnologica che ha mutato radicalmente diffusione e fruizione delle notizie. È responsabilità della Repubblica e dell’Unione Europea che i valori del pluralismo si affermino anche nei nuovi ambiti e si creino le condizioni per accompagnare la transizione in atto.

Ai giornali, alla stampa, alla radio e alle tv, si sono affiancate oggi le piattaforme digitali, divenute principali responsabili della veicolazione di contenuti informativi.

Appare singolare che a un ruolo così significativo corrisponda una convinzione di minori obblighi che ne derivano, con una tendenza, del tutto inaccettabile, dei protagonisti a sottrarvisi.

Gli over the top appaiono distanti dal sentimento comune, dalle relazioni di appartenenza alla comunità entro cui operano, quasi occupassero uno spazio meta-territoriale che li rende veicoli di innovazione, capaci di intercettare opportunità economiche, senza tuttavia considerare che anche per essi valgono i principi di convivenza civile propri agli Stati e alla comunità internazionale da cui traggono benefici.

Ho citato questioni non nuove, tanto è vero che l’Unione Europea ha approvato, nell’aprile di quest’anno, in un confronto tra Parlamento Europeo e Consiglio dell’Unione, il nuovo Regolamento sulla libertà dei media, adesso in fase di progressiva attuazione, a partire dal prossimo 8 novembre, per quanto riguarda i diritti dei destinatari dei servizi di media, vale a dire dei cittadini.

In sintesi: promozione del pluralismo e della indipendenza dei media in tutta l’Unione, con protezione dei giornalisti e delle loro fonti da ingerenze politiche; pubblicità sui fondi statali destinati a media o a piattaforme; garanzia del diritto dei cittadini alla gratuità e pubblicità delle informazioni; indipendenza editoriale dei media pubblici; protezione della libertà dei media dalle grandi piattaforme; istituzione di un nuovo Comitato europeo per i servizi di media per promuovere una applicazione coerente di queste norme.

Come si vede, un cantiere e un percorso impegnativo per l’Unione e per gli Stati membri, coscienti del valore che questo tema riveste per la libertà del nostro continente.

Tema, vorrei aggiungere, impegnativo per tutti coloro che del mondo dell’informazione fanno parte.

Tra i suoi richiami, Presidente, vi è quello che fa riferimento alla pubblica opinione, che guarda, con apprensione e smarrimento crescenti, alla situazione internazionale, attraversata – come lei ha ricordato – da tensioni, conflitti di varia natura, guerre. Vicino a noi, vicino ai confini dell’Unione Europea: in Ucraina, in Medio Oriente dopo la disumana giornata del 7 ottobre e la reazione israeliana con tante migliaia di vittime. Ma anche altrove, in altri luoghi del mondo.

L’Italia è impegnata, con convinzione, a sostegno dell’Ucraina. Insieme alla quasi totalità dei Paesi dell’Unione e insieme a quelli dell’Alleanza Atlantica. Alla Nato la Federazione Russa ha regalato un rilancio imprevedibile di ruolo e di protagonismo. Chi non ricorda le parole di più di un Capo di Stato e di governo di Paesi della Nato che, appena tre anni fa, la definivano in stato di accantonamento, per usare un termine davvero riduttivo rispetto alle espressioni allora adoperate?

Lei fa presente – con ragionevole fondamento – che si registra una fatica maggiore nelle pubbliche opinioni sull’impegno per l’indipendenza dell’Ucraina.

È vero. A nessuno – comprensibilmente – piace un’atmosfera in cui la guerra abbia prolungata presenza, anche se non vi si è coinvolti. Come non lo è l’Italia.

Pensiamo a come appare questo spettacolo di guerre agli occhi dei nostri giovani, che ritengono Erasmus e Schengen talmente naturali da non ritenerli più una conquista, ma una condizione ovvia, dalla Scandinavia a Malta, da Lisbona a Bucarest.

Aggiungo, personalmente, che spinge a grande tristezza vedere che il mondo getta in armamenti immani risorse finanziarie, che andrebbero, ben più opportunamente, destinate a fini di valore sociale. Ma chi ne ha la responsabilità? Chi difende la propria libertà – e chi l’aiuta a difenderla – o chi aggredisce la libertà altrui?

Uno dei momenti, che fa più riflettere – anche oggi – sugli errori gravidi di conseguenze, si identifica con le parole che Neville Chamberlain, Primo Ministro britannico, pronunziò, a Londra, al ritorno dalla conferenza di Monaco nel 1938: “Sono tornato dalla Germania con la pace per il nostro tempo”.

Come tutti ricordiamo, Hitler pretendeva di annettere al Reich la parte della Cecoslovacchia che confinava con la Germania – i Sudeti – dove viveva anche una minoranza di lingua tedesca. La Cecoslovacchia – che aveva fortificato quel confine temendo aggressioni – ovviamente rifiutava. Le cosiddette potenze europee del tempo – Gran Bretagna, Francia, Italia – anziché difendere il diritto internazionale e sostenere la Cecoslovacchia, a Monaco, senza neppure consultarla, diedero a Hitler via libera. La Germania nazista occupò i Sudeti. Dopo neppure sei mesi occupò l’intera Cecoslovacchia. E, visto che il gioco non incontrava ostacoli, dopo altri sei mesi provò con la Polonia (previo accordo con Stalin). Ma, a quel punto, scoppiò la tragedia dei tanti anni della Seconda guerra mondiale. Che, verosimilmente, non sarebbe scoppiata senza quel cedimento per i Sudeti.

Historia magistra vitae.

L’Italia, i suoi alleati, i suoi partner dell’Unione sostenendo l’Ucraina difendono la pace, affinché si eviti un succedersi di aggressioni sui vicini più deboli. Perché questo – anche in questo secolo – condurrebbe a un’esplosione di guerra globale.

Naturalmente, avvertiamo indispensabile adoperarsi – in Ucraina come tra Israele e Palestinesi – per la fine della guerra, per chiudere queste piantagioni di odio, che le guerre rappresentano anche per il futuro. Palestre di disumanità nel calcolo delle giovani vittime mandate a morire, come avveniva nelle pagine più buie della Prima guerra mondiale. Lei ha richiamato un altro aspetto inquietante: il diffondersi di una sub cultura che si ispira all’odio. Una violenza che – come lei ha detto – da verbale diventa frequentemente fisica.

Nei giorni scorsi il tentativo di grave attentato a Trump; in maggio quello, di più pesanti conseguenze al Primo Ministro slovacco, Fico; nello stesso mese quello all’ex Sindaca (spero che si possa ancora dire) di Berlino, Giffey; al deputato europeo tedesco Ecke; che hanno fatto seguito ad altri attentati contro esponenti politici in Germania, talvolta con conseguenze mortali; due anni fa l’attentato al marito di Nancy Pelosi, sopravvissuto a fatica.

È fondamentale e doveroso ribadire la condanna ferma e intransigente nei confronti di questa drammatica deriva di violenza contro esponenti politici di schieramenti avversi trasformati in nemici.

Occorre adoperarsi sul piano culturale contro la pretesa di elevare l’odio a ingrediente, a elemento legittimo della vita: una spinta a retrocedere nell’inciviltà.

Si registrano anche un crescente antisemitismo, l’aumento dell’intolleranza religiosa e razziale, che hanno superato il livello di guardia. Un odio che viene spesso alimentato sul web, che va non soltanto condannato ma concretamente contrastato con rigore e severità.

Vi sono, in giro per il mondo, molti apprendisti stregoni, incauti nel maneggiare, pericolosamente, strumenti che generano odio e violenza.

Lei ha parlato degli avvenimenti elettorali in altri Paesi. Numerosi quest’anno, e in grandi democrazie. Dall’Indonesia, all’India, dal Regno Unito alla Francia, nell’Unione Europea, a novembre negli Stati Uniti.

L’Italia ha rapporti di amicizia e vicinanza tradizionali con Washington, maturati all’indomani della Seconda Guerra mondiale con il generoso contributo alla ricostruzione offerto con il Piano Marshall e con il sostegno alla nostra democrazia, consolidatosi nell’Alleanza Atlantica e in altri numerosi contesti delle organizzazioni internazionali.

I vincoli di condivisione di valori dei nostri due popoli rafforzano i rapporti tra gli Stati e ne consentiranno la costante crescita. Al Presidente Biden va il ringraziamento della comunità internazionale per il suo apprezzato servizio e per la sua leadership.

Sotto altro profilo, rimango sorpreso quando si dà notizia o si presume che vi possano essere posizionamenti a seconda di questo o quell’esito elettorale, come se la loro indubbia importanza dovesse condizionare anche le nostre scelte. Nessuno – vorrei presumere – ipotizza di conformare i propri orientamenti a seconda di quanto decidono gli elettori di altri Paesi e non in base a quel che risponde al rispetto del nostro interesse nazionale e dei principi della nostra Costituzione. Questo vale sia per l’Italia, sia per l’Unione Europea.

Lei, Presidente, ha cortesemente citato alcune delle parole che ho pronunziato a Trieste qualche giorno addietro.

Come lei ha ricordato, ho parlato di Tocqueville, di Bobbio, di Popper. Ma ho parlato anche di altri, non meno illustri, tutti ormai, purtroppo, non più in vita.

Ho espresso – intenzionalmente – considerazioni concrete ma sul piano generale, di principi, senza alcun trasferimento ai temi del confronto politico attuale. E non è il caso di farlo qui.

Il mio riferimento alla correttezza e nitidezza dei sistemi elettorali muoveva – oltre che dall’inderogabile necessità di piena democraticità – dalla alta preoccupazione delle crescenti astensioni dal voto, invitando a chiedersi se una delle sue ragioni non sia la disaffezione provocata dalla percezione dalla eccessiva limitazione delle scelte effettivamente affidate agli elettori.

Se proprio vuole uno spunto di attualità, non glielo nego.

Riguarda la lunga attesa della Corte Costituzionale per il suo quindicesimo giudice. Si tratta di un vulnus alla Costituzione compiuto dal Parlamento, proprio quella istituzione che la Costituzione considera al centro della vita della nostra democrazia.

Non so come queste mie parole saranno definite: monito, esortazione, suggerimento, invito.

Ecco, invito, con garbo ma con determinazione, a eleggere subito questo giudice. Ricordo che ogni nomina di giudice della Corte Costituzionale – anche quando se ne devono scegliere diversi contemporaneamente – non fa parte di un gruppo di persone da eleggere, ma consiste, doverosamente, in una scelta rigorosamente individuale, di una singola persona meritevole per cultura giuridica, esperienza, stima e prestigio di assumere quell’ufficio così rilevante.

Vi è un altro tema che le sue considerazioni mi inducono ad affrontare. Quello delle paure che attraversano alcuni Paesi, in un mondo globalizzato e sempre più interconnesso.

Vi sono molte persone che vivono in uno stato di tensione di fronte ai grandi cambiamenti in corso sempre più velocemente. Come ben sappiamo, registriamo condizioni nuove: di vita quotidiana, di modelli sociali, di lavoro, di formule di lavoro, di strumenti di cui avvalersi, di prospettive. Vi si affiancano fenomeni nuovi: dai mutamenti del clima alle possibili pandemie, da strumenti economici e sociali, ormai indispensabili, in mani di pochi e potenti gestori al di sopra dei confini e dell’autorità degli Stati, dalle migrazioni, in ogni continente, alla crescente fusione di popolazioni e di culture, a nuovi strumenti che la scienza propone.

Tutto questo genera, forse comprensibilmente, allarme in tanti, che si sentono disorientati, forse indifesi. E che rischiano di cadere nella rete ingannevole di chi fa credere che la soluzione sia semplice: tornare a un’epoca dorata che non c’è più (se pur mai c’è stata). E che non ci sarà più. Perché la storia cammina, i cambiamenti non si possono fermare, il tempo non torna indietro.

img_7994Vi è un tema – l’ultimo che cito – che sempre più richiede vera attenzione: quello della situazione nelle carceri. Non ho bisogno di spendere grandi parole di principio: basta ricordare le decine di suicidi – decine di suicidi – in poco più dei sei mesi, in quest’anno.

Ma vorrei condividere una lettera che ho ricevuto – per il tramite del garante di quel territorio – da alcuni detenuti di un carcere di Brescia: la descrizione è straziante. Condizioni angosciose agli occhi di chiunque abbia sensibilità e coscienza. Indecorose per un Paese civile, qual è – e deve essere – l’Italia.

Il carcere non può essere il luogo in cui si perde ogni speranza, Non va trasformato, in questo modo, in palestra criminale. Vi sono, in atto, alcune, proficue e importanti, attività di recupero attraverso il lavoro. Dimostrano che, in molti casi, è possibile un diverso modello carcerario.

È un dovere perseguirlo. Subito, ovunque.

Vi ringrazio per la vostra presenza e vi ricambio intensamente gli auguri di una buona pausa estiva. E rivolgo i complimenti più grandi a Ilaria Caracciolo per la bellezza e il significato coinvolgente del ventaglio.

Grazie.
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ChiesadituttiChiesadeipoveri News Letter

chiesa-schermata-2024-07-24-alle-19-08-06Newsletter n.346 del 24 luglio 2024
LA TERRA OCCUPATA
Cari amici,

si incontrano negli Stati Uniti Netanyahu e Biden, due personaggi estremi della scena internazionale, araldi di morte, l’uno vuole abolire i palestinesi, l’altro vuole abolire i cinesi, passando per i russi. E mentre si svolge questo incontro il nostro pensiero va ai bambini di Gaza, che oggi sono vivi e che domani non lo saranno più.

Autonomia differenziata

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Autonomia differenziata, sui “Lep” profili di incostituzionalità con effetti negativi anche su famiglie e imprese del Nord
Franco Gallo​​​
15 Luglio 2024
Pubblichiamo l’intervento del Presidente emerito della Corte costituzionale, Franco Gallo, alla cerimonia di consegna del premio Lef per tesi di laurea tenutasi presso il Cnel il 9 luglio 2024. Il contributo del professor Gallo si è incentrato intorno a una disamina degli effetti attesi dalla nuova normativa sulla cosiddetta “Autonomia differenziata”.

Democrazia e «… libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta.»

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Intervento del Presidente della Repubblica alla cerimonia di apertura della 50^ edizione della Settimana Sociale dei Cattolici in Italia
Trieste, 03/07/2024

Rivolgo un saluto di grande cordialità al Presidente della Conferenza Episcopale, ai Vescovi presenti, al Nunzio Apostolico; alle autorità di questa splendida parte dell’Italia, il Presidente della Regione, il Sindaco, gli altri Sindaci presenti; a tutti voi, ringraziandovi per l’invito e, soprattutto, per quello che fanno le Settimane Sociali.

Democrazia.

Parola di uso comune, anche nella sua declinazione come aggettivo.
È ampiamente diffusa. Suggerisce un valore.

Le dittature del Novecento l’hanno identificata come un nemico da battere.

Gli uomini liberi ne hanno fatto una bandiera.

Insieme una conquista e una speranza che, a volte, si cerca, in modo spregiudicato, di mortificare ponendone il nome a sostegno di tesi di parte.

Non vi è dibattito in cui non venga invocata a conforto della posizione propria.

Un tessuto che gli avversari della democrazia pretenderebbero logoro.

L’interpretazione che si dà di questo ordito essenziale della nostra vita appare talora strumentale, non assunto in misura sufficiente come base di rispetto reciproco.

Si è persino giunti ad affermare che siano opponibili tra loro valori come libertà e democrazia, con quest’ultima artatamente utilizzabile come limitazione della prima.

Non è fuor di luogo, allora, chiedersi se vi sia, e quale, un’anima della democrazia.

O questa si traduce soltanto in un metodo?

Cosa la ispira?

Cosa ne fa l’ossatura che sorregge il corpo delle nostre Istituzioni e la vita civile della nostra comunità?

È un interrogativo che ha accompagnato e accompagna il progresso dell’Italia, dell’Europa.

Alexis de Tocqueville affermava che una democrazia senz’anima è destinata a implodere, non per gli aspetti formali, naturalmente, bensì per i contenuti valoriali venuti meno.

Intervenendo a Torino, alla prima edizione della Biennale della democrazia, nel 2009, il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, rivolgeva lo sguardo alla costruzione della nostra democrazia repubblicana, con la acquisizione dei principi che hanno inserito il nostro Paese, da allora, nel solco del pensiero liberal-democratico occidentale.

Dopo la “costrizione” ossessiva del regime fascista soffiava “l’alito della libertà”, con la Costituzione a intelaiatura e garanzia dei diritti dei cittadini.

L’alito della libertà, anzitutto, come rifiuto di ogni obbligo di conformismo sociale o politico, come diritto all’opposizione.

La democrazia, in altri termini, non si esaurisce nelle sue norme di funzionamento, ferma restando, naturalmente, l’imprescindibilità della definizione e del rispetto delle “regole del gioco”.

Perché – come ricordava Norberto Bobbio – le condizioni minime della democrazia sono esigenti: generalità ed eguaglianza del diritto di voto, la sua libertà, proposte alternative, ruolo insopprimibile delle assemblee elettive e, infine, non da ultimo, limiti alle decisioni della maggioranza, nel senso che non possano violare i diritti delle minoranze e impedire che queste possano, a loro volta, divenire maggioranza.

È la pratica della democrazia che la rende viva, concreta, trasparente, capace di coinvolgere.

Quali le ragioni del riferimento all’alito della libertà parlando di democrazia?

Non è democrazia senza la tutela dei diritti fondamentali di libertà, che rappresentano quel che dà senso allo Stato di diritto e alla democrazia stessa.

Il tema impegnativo che avete posto al centro della riflessione di questa Settimana sociale interpella quindi, con forza, tutti.

La democrazia, infatti, si invera ogni giorno nella vita delle persone e nel mutuo rispetto delle relazioni sociali, in condizioni storiche mutevoli, senza che questo possa indurre ad atteggiamenti remissivi circa la sua qualità.

Si può pensare di contentarsi che una democrazia sia imperfetta?

Di contentarsi di una democrazia a “bassa intensità”?

Si può pensare di arrendersi, “pragmaticamente”, al crescere di un assenteismo dei cittadini dai temi della “cosa pubblica”?

Può esistere una democrazia senza il consistente esercizio del ruolo degli elettori? Per porre mente alla defezione, diserzione, rinuncia intervenuta da parte dei cittadini in recenti tornate elettorali.

Occorre attenzione per evitare di commettere l’errore di confondere il parteggiare con il partecipare.

Occorre, piuttosto, adoperarsi concretamente affinché ogni cittadino si trovi nelle condizioni di potere, appieno, prender parte alla vita della Repubblica.

I diritti si inverano attraverso l’esercizio democratico.

Se questo si attenua, si riduce la garanzia della loro effettiva vigenza.

Democrazie imperfette vulnerano le libertà: ove si manifesta una partecipazione elettorale modesta. Oppure ove il principio “un uomo-un voto” venga distorto attraverso marchingegni che alterino la rappresentatività e la volontà degli elettori.

Ancor più le libertà risulterebbero vulnerate ipotizzando democrazie affievolite, depotenziate da tratti illiberali.

Ci soccorre anche qui Bobbio, quando ammonisce che non si può ricorrere a semplificazioni di sistema o a restrizioni di diritti “in nome del dovere di governare”.

Una democrazia “della maggioranza” sarebbe, per definizione, una insanabile contraddizione, per la confusione tra strumenti di governo e tutela della effettiva condizione di diritti e di libertà.

Al cuore della democrazia – come qui leggiamo – vi sono le persone, le relazioni e le comunità a cui esse danno vita, le espressioni civili, sociali, economiche che sono frutto della loro libertà, delle loro aspirazioni, della loro umanità: questo è il cardine della nostra Costituzione.

Questa chiave di volta della democrazia opera e sostiene la crescita di un Paese, compreso il funzionamento delle sue Istituzioni, se al di là delle idee e degli interessi molteplici c’è la percezione di un modo di stare insieme e di un bene comune.

Se non si cede alla ossessiva proclamazione di quel che contrappone, della rivalsa, della delegittimazione.

Se l’universalità dei diritti non viene menomata da condizioni di squilibrio, se la solidarietà resta il tessuto connettivo di una economia sostenibile, se la partecipazione è viva, diffusa, consapevole del proprio valore e della propria necessità, della propria essenziale necessità.

Nel cambiamento d’epoca che ci è dato di vivere avvertiamo tutta la difficoltà, e a volte persino un certo affanno, nel funzionamento delle democrazie.

Oggi constatiamo criticità inedite, che si aggiungono a problemi più antichi.

La democrazia non è mai conquistata per sempre.

Anzi, il succedersi delle diverse condizioni storiche e delle loro mutevoli caratteristiche, ne richiede un attento, costante inveramento.

Nella complessità delle società contemporanee, a elementi critici conosciuti, che mettono a rischio la vita degli Stati e delle comunità, si aggiungono nuovi rischi epocali: quelli ambientali e climatici, sanitari, finanziari, oltre alle sfide indotte dalla digitalizzazione e dall’intelligenza artificiale.

Le nostre appaiono sempre più società del rischio, a fronteggiare il quale si disegnano, talora, soluzioni meramente tecnocratiche.

È tutt’altro che improprio, allora, interrogarsi sul futuro della democrazia e sui compiti che le sono affidati, proprio perché essa non è semplicemente un metodo, bensì costituisce lo “spazio pubblico” in cui si esprimono le voci protagoniste dei cittadini.

Nel corso del tempo, è stata più volte posta, malauguratamente, la domanda “a cosa serve la democrazia?”. La risposta è semplice: a riconoscere – perché preesistono, come indica l’art. 2 della nostra Costituzione – e a rendere effettive le libertà delle persone e delle comunità.

Karl Popper ha indicato come le forme di vita democratica realizzino, essenzialmente, quella “società aperta” che può massimizzare le opportunità di costituzione di identità sociali destinate a trasferirsi, poi, sul terreno politico e istituzionale.

La stessa esperienza italiana degli ultimi trent’anni ne è un esempio.

Nei settantotto anni dalla scelta referendaria del 1946, libertà di impronta liberale e libertà democratica hanno contribuito, al “cantiere aperto” della nostra democrazia repubblicana, con la diversità delle alternative, le realtà di vita e le differenti mobilitazioni che ne sono derivate.

La libertà di tradizione liberale ci richiama a un’area intangibile di diritti fondamentali delle persone, e alla indisponibilità di questi rispetto al contingente succedersi di maggioranze e, ancor più, a effimeri esercizi di aggregazione di interessi.

La libertà espressa nelle vicende novecentesche, con l’irruzione della questione sociale, ha messo poi a fuoco la dinamica delle aspettative e dei bisogni delle identità collettive nella società in permanente trasformazione.

È questione nota al movimento cattolico, se è vero che quel giovane e brillante componente dell’Assemblea Costituente, che fu Giuseppe Dossetti, pose il problema del “vero accesso del popolo e di tutto il popolo al potere e a tutto il potere, non solo quello politico, ma anche a quello economico e sociale”, con la definizione di “democrazia sostanziale”.

A segnare in tal modo il passaggio ai contenuti che sarebbero stati poi consacrati negli articoli della prima parte della nostra Costituzione. Fra essi i diritti economico-sociali.

Una riflessione impegnativa con l’ambizione di mirare al “bene comune” che non è il “bene pubblico” nell’interesse della maggioranza, ma il bene di tutti e di ciascuno, al tempo stesso; di tutti e di ciascuno, secondo quanto già la Settimana Sociale del ’45 volle indicare.

Il percorso dei cattolici – con il loro contributo alla causa della democrazia- non è stato occasionale né data di recente, eppure va riconosciuto che l’adesione dottrinaria alla democrazia fu condizionata dalla “questione romana”, con il percorso accidentato della sua soluzione.

Ma già l’ottava Settimana Sociale, a Milano, nel 1913, non aveva remore nell’affermare la fedeltà dei cattolici allo Stato e alla Patria – quest’ultima posta più in alto dello Stato – sollecitando, contemporaneamente, il diritto di respingere – come venne enunciato – ogni tentativo di “trasformare la Patria, lo Stato, la sua sovranità, in altrettante istituzioni ostili… mentre sentiamo di non essere a nessuno secondi nell’adempimento di quei doveri che all’una e all’altro ci legano”. Una espressione di matura responsabilità.

Il tema che veniva posto, era fondamentalmente un tema di libertà – anche religiosa – e questo riguardava tutta la società, non esclusivamente i rapporti tra Regno d’Italia e Santa Sede.

Ho poc’anzi ricordato la 19^ edizione della Settimana, a Firenze, nell’ottobre 1945. In quell’occasione, nelle espressioni di un giurista eminente – poi costituente – Egidio Tosato, troviamo proposto il tema dell’equilibrio tra i valori di libertà e di democrazia, con la individuazione di garanzie costituzionali a salvaguardia dei cittadini.

La democrazia come forma di governo non basta a garantire in misura completa la tutela dei diritti e delle libertà: essa può essere distorta e violentata nella pretesa di beni superiori o di utilità comuni. Il Novecento ce lo ricorda e ammonisce.

Anche da questo si è fatta strada l’idea di una suprema Corte Costituzionale.

Tosato contestò l’assunto di Rousseau, in base al quale la volontà generale non poteva trovare limiti di alcun genere nelle leggi, perché la volontà popolare poteva cambiare qualunque norma o regola.

Lo fece Tosato con parole molto nette: “Noi sappiamo tutti ormai che la presunta volontà generale non è in realtà che la volontà di una maggioranza e che la volontà di una maggioranza, che si considera come rappresentativa della volontà di tutto il popolo può essere, come spesso si è dimostrata, più ingiusta e oppressiva che non la volontà di un principe”. Esprimeva un fermo no, quindi, all’assolutismo di Stato, a un’autorità senza limite, potenzialmente prevaricatrice.

La coscienza dei limiti è un fattore imprescindibile per qualunque Istituzione, a partire dalla Presidenza della Repubblica, per una leale e irrinunziabile vitalità democratica.

Guido Gonella, personalità di primo piano del movimento cattolico italiano, e poi statista insigne nella stagione repubblicana, relatore anch’egli alla Settimana di Firenze del ’45, non ebbe esitazioni nel rinvenire nelle Costituzioni, una “forma di vita – come disse – più alta e universale”, con la presenza di elementi costanti, “categorie etiche” le definì, e di elementi variabili, secondo le “esigenze storiche”, ponendo in guardia dei rischi posti da una eccessiva rigidezza conservatrice e da una troppo facile flessibilità demagogica che avrebbe potuto caratterizzarle, con il risultato di poter passare con indifferenza dall’assolutismo alla demagogia, per ricadere indietro verso la dittatura.

Su questo si basa la distinzione tra prima e seconda parte della nostra Costituzione.

Il messaggio fu limpido: sbagliato e rischioso cedere a sensibilità contingenti, sulla spinta delle tentazioni quotidiane della contesa politica. Come avviene con la frequente tentazione di inserire richiami a temi particolari nella prima parte della Costituzione, che del resto – per effetto della saggezza dei suoi estensori – regola tutti questi aspetti comunque, in base ai suoi principi e valori di fondo.

La Costituzione seppe dare un senso e uno spessore nuovo all’unità del Paese e, per i cattolici, l’adesione ad essa ha coinciso con un impegno a rafforzare, e mai indebolire, l’unità e la coesione degli italiani.

Spirito prezioso, come ha ricordato di recente il Cardinale Zuppi, perché la condivisione intorno ai valori supremi di libertà e democrazia è il collante irrinunciabile della nostra comunità nazionale.

Pio XII, nel messaggio natalizio del 1944, era stato ricco di indicazioni importanti e feconde.

Permettetemi di soffermarmi su quel testo per richiamarne l’indicazione che, al legame tra libertà e democrazia, unisce il tema della democrazia connesso a quello della pace.

Perché la guerra soffoca, può soffocare, la democrazia.

L’ordine democratico, ricordava il Papa, include la unità del genere umano e della famiglia dei popoli. “Da questo principio – diceva – deriva l’avvenire della pace”. Con l’invocazione “guerra alla guerra” e l’appello a “bandire una volta per sempre la guerra di aggressione come soluzione legittima delle controversie internazionali e come strumento di aspirazioni nazionali”.

Un grido di pace oggi rinnovato da Papa Francesco.

Non si trattava di un dovuto “irenismo”, di uno scontato ossequio pacifista della Chiesa di fronte alla tragedia della Seconda Guerra Mondiale.

Era, piuttosto, una ferma reazione morale che interpreta la coscienza civile, presente certamente nei credenti – e, comunque, nella coscienza dei popoli europei – destinata a incrociarsi con le sensibilità di altre posizioni ideali.

Prova ne è stata la generazione delle Costituzioni del Secondo dopoguerra, in Italia come in Germania, in Austria, in Francia.

Per l’Italia gli art. 10 e 11 della nostra Carta, volti a definire la comunità internazionale per assicurare e pervenire alla pace.

Sarebbe stato il professor Pergolesi, sempre a Firenze 1945, ad affermare il diritto del cittadino alla pace, interna ed esterna, con la proposta di inserimento di questo principio nelle Costituzioni, dando così vita a una concezione nuova dei rapporti tra gli Stati.

Se in passato la democrazia si è inverata negli Stati – spesso contrapposti e comunque con rigidi, insormontabili frontiere – oggi, proprio nel continente che degli Stati è stato la culla, si avverte l’esigenza di costruire una solida sovranità europea che integri e conferisca sostanza concreta e non illusoria a quella degli Stati membri. Che consenta e rafforzi la sovranità del popolo disegnata dalle nostre Costituzioni ed espressa, a livello delle Istituzioni comunitarie, nel Parlamento Europeo.

Il percorso democratico, avviato in Europa dopo la sconfitta del nazismo e del fascismo, ha permesso di rafforzare le Istituzioni dei Paesi membri e di ampliare la protezione dei diritti dei cittadini, dando vita a quella architrave di pace che è stata prima la Comunità europea e adesso è l’Unione.

Una più efficace unità europea – più forte ed efficiente di quanto fin qui siamo stati capaci di realizzare – è oggi condizione di salvaguardia e di progresso dei nostri ordinamenti di libertà e di uguaglianza, di solidarietà e di pace.

Tornando alla riflessione sui cardini della democrazia, va sottolineato che la democrazia comporta il principio di eguaglianza – poc’anzi richiamato dal Cardinale Zuppi – perché riconosce che le persone hanno eguale dignità.

La democrazia è strumento di affermazione degli ideali di libertà.

La democrazia è antidoto alla guerra.

Quando ci chiediamo se la democrazia possiede un’anima, quando ci chiediamo a cosa serva, troviamo agevolmente risposte chiare.

Lo sforzo che, anche in questa occasione, vi apprestate a produrre per la comunità nazionale, richiama le parole con cui il Cardinale Poletti, nel 1988, alla XXX assemblea generale Conferenza Episcopale, accompagnò, dopo vent’anni, la ripresa delle Settimane Sociali: “diaconia della Chiesa italiana al Paese”.

Con il vostro contributo avete arricchito, in questi quasi centoventi anni dalla prima edizione, il bene comune della Patria e, di questo, la Repubblica vi è riconoscente.

La nostra democrazia ha messo radici, si è sviluppata, è divenuta un tratto irrinunciabile dell’identità nazionale – mentre diveniva anche identità europea – sostenuta da partiti e movimenti, che avevano raggiunto la democrazia nel corso del loro cammino e su di essa stavano rifondando la loro azione politica nella nuova fase storica.

Oggi dobbiamo rivolgere lo sguardo e l’attenzione a quanto avviene attorno a noi, nel mondo sempre più raccolto e interconnesso.

Accanto al riproporsi di tentazioni neo-colonialistiche e neo-imperialistiche, nuovi mutamenti geopolitici sono sospinti anche dai ritmi di crescita di Stati-continente in precedenza meno sviluppati, da tensioni territoriali, etniche, religiose che, non di rado sfociano in guerre drammatiche, da andamenti demografici e giganteschi flussi migratori.

Attraversiamo fenomeni – questi e altri – che mutano profondamente le condizioni in cui si viveva in precedenza e che è impossibile illudersi che possano tornare.

Dalla dimensione nazionale dei problemi – e delle conseguenti sfere decisionali – siamo passati a quella europea e, per qualche aspetto, a quella globale.

È questa la condizione della quale siamo parte e nella quale dobbiamo far sì che a prevalere sia il futuro dei cittadini e non delle sovrastrutture formatesi nel tempo.

All’opposto della cooperazione fra eguali si presenta il ritorno alle sfere di influenza dei più forti o meglio armati – che si sta praticando e teorizzando, in sede internazionale, con la guerra, l’intimidazione, la prevaricazione – e, in altri ambiti, di chi dispone di forza economica che supera la dimensione e le funzioni degli Stati.

Risalta la visione storica e la sagacia di Alcide De Gasperi con la scelta di libertà del Patto Atlantico compiuta dalla Repubblica nel 1949 e con il suo coraggioso apostolato europeo.

Venti anni fa, a Bologna, la 44^ Settimana si poneva il tema dei nuovi scenari e dei nuovi poteri di fronte ai quali la democrazia si trovava.

È necessario misurarsi con la storia, porsi di fronte allo stato di salute delle Istituzioni nazionali e sovranazionali e dell’organizzazione politica della società.

Nuovi steccati sono sempre in agguato a minare le basi della convivenza sociale: le basi della democrazia non sono né esclusivamente istituzionali né esclusivamente sociali, interagiscono fra loro.

Cosa ci aiuta? Dare risposte che vedono diritti politici e sociali dei cittadini e dei popoli concorrere insieme alla definizione di un futuro comune.

Vogliamo riprendere per un attimo l’Enciclica “Populorum progressio” di Paolo VI: “essere affrancati dalla miseria, garantire in maniera più sicura la propria sussistenza, salute, una partecipazione più piena alle responsabilità, al di fuori di ogni oppressione, al riparo da situazioni che offendono la loro dignità di uomini, godere di una maggiore istruzione, in una parola fare conoscere e avere di più per essere di più: ecco l’aspirazione degli uomini di oggi – diceva -, mentre un gran numero di essi è condannato a vivere in condizioni che rendono illusorio questo legittimo desiderio”.

Vi è qualcuno che potrebbe rifiutarsi di sottoscrivere queste indicazioni?

Temo di sì, in realtà, anche se nessuno avrebbe il coraggio di farlo apertamente.

Anche per questo l’esercizio della democrazia, come si è visto, non si riduce a un semplice aspetto procedurale e non si consuma neppure soltanto con la irrinunziabile espressione del proprio voto nelle urne nelle occasioni elettorali. Presuppone lo sforzo di elaborare una visione del bene comune in cui sapientemente si intreccino – perché tra loro inscindibili – libertà individuali e aperture sociali, bene della libertà e bene dell’umanità condivisa. Né si tratta di una questione limitata ad ambiti statali.

Mons. Adriano Bernareggi, nelle sue conclusioni della Settimana Sociale del ’45, – l’abbiamo poc’anzi visto nelle immagini – argomentò, citando Jacques Maritain, che una nuova cristianità si affacciava in Europa.

L’unità da raggiungere nelle comunità civili moderne non aveva più un’unica “base spirituale”, bensì un bene comune terreno, che doveva fondarsi proprio sull’intangibile “dignità della persona umana”.

Questa la consapevolezza che è stata alla base di una stagione di pace così lunga – che speriamo continui – nel continente europeo.

Continuava l’allora Vescovo di Bergamo, “la democrazia non è soltanto governo di popolo, ma governo per il popolo”.

Affrontare il disagio, il deficit democratico che si rischia, deve partire da qui.

Dal fatto che, in termini ovviamente diversi, ogni volta si riparte dalla capacità di inverare il principio di eguaglianza, da cui trova origine una partecipazione consapevole.

Perché ciascuno sappia di essere protagonista della storia.

Don Lorenzo Milani esortava a “dare la parola”, perché “solo la lingua fa eguali”. A essere, cioè, alfabeti nella società.

La Repubblica ha saputo percorrere molta strada, ma il compito di far sì che tutti prendano parte alla vita della sua società e delle sue Istituzioni non si esaurisce mai.

Ogni generazione, ogni epoca, è attesa alla prova della “alfabetizzazione”, dell’inveramento della vita della democrazia.

Prova, oggi, più complessa che mai, nella società tecnologica contemporanea.

Ebbene, battersi affinché non vi possano essere più “analfabeti di democrazia” è causa primaria e nobile, che ci riguarda tutti. Non soltanto chi riveste responsabilità o eserciti potere.

Per definizione, democrazia è esercizio dal basso, legato alla vita di comunità, perché democrazia è camminare insieme.

Vi auguro, mi auguro, che si sia numerosi a ritrovarsi in questo cammino.
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Visita Pastorale del Santo Padre Francesco a Trieste in occasione della 50ª Settimana Sociale dei Cattolici in Italia – Incontro con i Congressisti, 07.07.2024

Discorso del Santo Padre

Illustri Autorità,
cari fratelli Vescovi,
Signori Cardinali,
fratelli e sorelle, buongiorno!

Ringrazio il Cardinale Zuppi e Monsignor Baturi per avermi invitato a condividere con voi questa sessione conclusiva. Saluto Monsignor Renna e il Comitato Scientifico e Organizzatore delle Settimane Sociali. A nome di tutti esprimo gratitudine a Monsignor Trevisi per l’accoglienza della Diocesi di Trieste.

La prima volta che ho sentito parlare di Trieste è stato da mio nonno che aveva fatto il ‛14 sul Piave. Lui ci insegnava tante canzoni e una era su Trieste: “Il general Cadorna scrisse alla regina: ‘Se vuol guardare Trieste, che la guardi in cartolina’”. E questa è la prima volta che ho sentito nominare la città.

Questa è stata la 50.ma Settimana Sociale. La storia delle “Settimane” si intreccia con la storia dell’Italia, e questo dice già molto: dice di una Chiesa sensibile alle trasformazioni della società e protesa a contribuire al bene comune. Forti di questa esperienza, avete voluto approfondire un tema di grande attualità: “Al cuore della democrazia. Partecipare tra storia e futuro”.

Il Beato Giuseppe Toniolo, che ha dato avvio a questa iniziativa nel 1907, affermava che la democrazia si può definire «quell’ordinamento civile nel quale tutte le forze sociali, giuridiche ed economiche, nella pienezza del loro sviluppo gerarchico, cooperano proporzionalmente al bene comune, rifluendo nell’ultimo risultato a prevalente vantaggio delle classi inferiori»[1]. Così diceva Toniolo. Alla luce di questa definizione, è evidente che nel mondo di oggi la democrazia, diciamo la verità, non gode di buona salute. Questo ci interessa e ci preoccupa, perché è in gioco il bene dell’uomo, e niente di ciò che è umano può esserci estraneo[2].

In Italia è maturato l’ordinamento democratico dopo la seconda guerra mondiale, grazie anche al contributo determinante dei cattolici. Si può essere fieri di questa storia, sulla quale ha inciso pure l’esperienza delle Settimane Sociali; e, senza mitizzare il passato, bisogna trarne insegnamento per assumere la responsabilità di costruire qualcosa di buono nel nostro tempo. Questo atteggiamento si ritrova nella Nota pastorale con cui nel 1988 l’Episcopato italiano ha ripristinato le Settimane Sociali. Cito le finalità: «Dare senso all’impegno di tutti per la trasformazione della società; dare attenzione alla gente che resta fuori o ai margini dei processi e dei meccanismi economici vincenti; dare spazio alla solidarietà sociale in tutte le sue forme; dare sostegno al ritorno di un’etica sollecita del bene comune […]; dare significato allo sviluppo del Paese, inteso […] come globale miglioramento della qualità della vita, della convivenza collettiva, della partecipazione democratica, dell’autentica libertà»[3]. Fine citazione.

Questa visione, radicata nella Dottrina Sociale della Chiesa, abbraccia alcune dimensioni dell’impegno cristiano e una lettura evangelica dei fenomeni sociali che non valgono soltanto per il contesto italiano, ma rappresentano un monito per l’intera società umana e per il cammino di tutti i popoli. Infatti, così come la crisi della democrazia è trasversale a diverse realtà e Nazioni, allo stesso modo l’atteggiamento della responsabilità nei confronti delle trasformazioni sociali è una chiamata rivolta a tutti i cristiani, ovunque essi si trovino a vivere e ad operare, in ogni parte del mondo.

C’è un’immagine che riassume tutto ciò e che voi avete scelto come simbolo di questo appuntamento: il cuore. A partire da questa immagine, vi propongo due riflessioni per alimentare il percorso futuro.

Nella prima possiamo immaginare la crisi della democrazia come un cuore ferito. Ciò che limita la partecipazione è sotto i nostri occhi. Se la corruzione e l’illegalità mostrano un cuore “infartuato”, devono preoccupare anche le diverse forme di esclusione sociale. Ogni volta che qualcuno è emarginato, tutto il corpo sociale soffre. La cultura dello scarto disegna una città dove non c’è posto per i poveri, i nascituri, le persone fragili, i malati, i bambini, le donne, i giovani, i vecchi. Questo è la cultura dello scarto. Il potere diventa autoreferenziale – è una malattia brutta questa –, incapace di ascolto e di servizio alle persone. Aldo Moro ricordava che «uno Stato non è veramente democratico se non è al servizio dell’uomo, se non ha come fine supremo la dignità, la libertà, l’autonomia della persona umana, se non è rispettoso di quelle formazioni sociali nelle quali la persona umana liberamente si svolge e nelle quali essa integra la propria personalità»[4]. La parola stessa “democrazia” non coincide semplicemente con il voto del popolo; nel frattempo a me preoccupa il numero ridotto della gente che è andata a votare. Cosa significa quello? Non è il voto del popolo solamente, ma esige che si creino le condizioni perché tutti si possano esprimere e possano partecipare. E la partecipazione non si improvvisa: si impara da ragazzi, da giovani, e va “allenata”, anche al senso critico rispetto alle tentazioni ideologiche e populistiche. In questa prospettiva, come ho avuto modo di ricordare anni fa visitando il Parlamento Europeo e il Consiglio d’Europa, è importante far emergere «l’apporto che il cristianesimo può fornire oggi allo sviluppo culturale e sociale europeo nell’ambito di una corretta relazione fra religione e società»[5], promuovendo un dialogo fecondo con la comunità civile e con le istituzioni politiche perché, illuminandoci a vicenda e liberandoci dalle scorie dell’ideologia, possiamo avviare una riflessione comune in special modo sui temi legati alla vita umana e alla dignità della persona.

Le ideologie sono seduttrici. Qualcuno le comparava a quello che a Hamelin suonava il flauto; seducono, ma ti portano a annegarti.

A tale scopo rimangono fecondi i principi di solidarietà e sussidiarietà. Infatti un popolo si tiene insieme per i legami che lo costituiscono, e i legami si rafforzano quando ciascuno è valorizzato. Ogni persona ha un valore; ogni persona è importante. La democrazia richiede sempre il passaggio dal parteggiare al partecipare, dal “fare il tifo” al dialogare. «Finché il nostro sistema economico-sociale produrrà ancora una vittima e ci sarà una sola persona scartata, non ci potrà essere la festa della fraternità universale. Una società umana e fraterna è in grado di adoperarsi per assicurare in modo efficiente e stabile che tutti siano accompagnati nel percorso della loro vita, non solo per provvedere ai bisogni primari, ma perché possano dare il meglio di sé, anche se il loro rendimento non sarà il migliore, anche se andranno lentamente, anche se la loro efficienza sarà poco rilevante»[6].Tutti devono sentirsi parte di un progetto di comunità; nessuno deve sentirsi inutile. Certe forme di assistenzialismo che non riconoscono la dignità delle persone … Mi fermo alla parola assistenzialismo. L’assistenzialismo, soltanto così, è nemico della democrazia, è nemico dell’amore al prossimo. E certe forme di assistenzialismo che non riconoscono la dignità delle persone sono ipocrisia sociale. Non dimentichiamo questo. E cosa c’è dietro questo prendere distanze dalla realtà sociale? C’è l’indifferenza, e l’indifferenza è un cancro della democrazia, un non partecipare.

La seconda riflessione è un incoraggiamento a partecipare, affinché la democrazia assomigli a un cuore risanato. È questo: a me piace pensare che nella vita sociale è necessario tanto risanare i cuori, risanare i cuori. Un cuore risanato. E per questo occorre esercitare la creatività. Se ci guardiamo attorno, vediamo tanti segni dell’azione dello Spirito Santo nella vita delle famiglie e delle comunità. Persino nei campi dell’economia, della ideologia, della politica, della società. Pensiamo a chi ha fatto spazio all’interno di un’attività economica a persone con disabilità; ai lavoratori che hanno rinunciato a un loro diritto per impedire il licenziamento di altri; alle comunità energetiche rinnovabili che promuovono l’ecologia integrale, facendosi carico anche delle famiglie in povertà energetica; agli amministratori che favoriscono la natalità, il lavoro, la scuola, i servizi educativi, le case accessibili, la mobilità per tutti, l’integrazione dei migranti. Tutte queste cose non entrano in una politica senza partecipazione. Il cuore della politica è fare partecipe. E queste sono le cose che fa la partecipazione, un prendersi cura del tutto; non solo la beneficenza, prendersi cura di questo …, no: del tutto!

La fraternità fa fiorire i rapporti sociali; e d’altra parte il prendersi cura gli uni degli altri richiede il coraggio di pensarsi come popolo. Ci vuole coraggio per pensarsi come popolo e non come io o il mio clan, la mia famiglia, i miei amici. Purtroppo questa categoria – “popolo” – spesso è male interpretata e, «potrebbe portare a eliminare la parola stessa “democrazia” (“governo del popolo”). Ciò nonostante, per affermare che la società è di più della mera somma degli individui, è necessario il termine “popolo”»[7], che non è populismo. No, è un’altra cosa: il popolo. In effetti, «è molto difficile progettare qualcosa di grande a lungo termine se non si ottiene che diventi un sogno collettivo» [8]. Una democrazia dal cuore risanato continua a coltivare sogni per il futuro, mette in gioco, chiama al coinvolgimento personale e comunitario. Sognare il futuro. Non avere paura.

Non lasciamoci ingannare dalle soluzioni facili. Appassioniamoci invece al bene comune. Ci spetta il compito di non manipolare la parola democrazia né di deformarla con titoli vuoti di contenuto, capaci di giustificare qualsiasi azione. La democrazia non è una scatola vuota, ma è legata ai valori della persona, della fraternità e anche dell’ecologia integrale.

Come cattolici, in questo orizzonte, non possiamo accontentarci di una fede marginale, o privata. Ciò significa non tanto di essere ascoltati, ma soprattutto avere il coraggio di fare proposte di giustizia e di pace nel dibattito pubblico. Abbiamo qualcosa da dire, ma non per difendere privilegi. No. Dobbiamo essere voce, voce che denuncia e che propone in una società spesso afona e dove troppi non hanno voce. Tanti, tanti non hanno voce. Tanti. Questo è l’amore politico[9], che non si accontenta di curare gli effetti ma cerca di affrontare le cause. Questo è l’amore politico. È una forma di carità che permette alla politica di essere all’altezza delle sue responsabilità e di uscire dalle polarizzazioni, queste polarizzazioni che immiseriscono e non aiutano a capire e affrontare le sfide. A questa carità politica è chiamata tutta la comunità cristiana, nella distinzione dei ministeri e dei carismi. Formiamoci a questo amore, per metterlo in circolo in un mondo che è a corto di passione civile. Dobbiamo riprendere la passione civile, questo, dei grandi politici che noi abbiamo conosciuto. Impariamo sempre più e meglio a camminare insieme come popolo di Dio, per essere lievito di partecipazione in mezzo al popolo di cui facciamo parte. E questa è una cosa importante nel nostro agire politico, anche dei pastori nostri: conoscere il popolo, avvicinarsi al popolo. Un politico può essere come un pastore che va davanti al popolo, in mezzo al popolo e dietro al popolo. Davanti al popolo per segnalare un po’ il cammino; in mezzo al popolo, per avere il fiuto del popolo; dietro al popolo per aiutare i ritardatari. Un politico che non abbia il fiuto del popolo, è un teorico. Gli manca il principale.

Giorgio La Pira aveva pensato al protagonismo delle città, che non hanno il potere di fare le guerre ma che ad esse pagano il prezzo più alto. Così immaginava un sistema di “ponti” tra le città del mondo per creare occasioni di unità e di dialogo. Sull’esempio di La Pira, non manchi al laicato cattolico italiano questa capacità “organizzare la speranza”. Questo è un compito vostro, di organizzare. Organizzare anche la pace e i progetti di buona politica che possono nascere dal basso. Perché non rilanciare, sostenere e moltiplicare gli sforzi per una formazione sociale e politica che parta dai giovani? Perché non condividere la ricchezza dell’insegnamento sociale della Chiesa? Possiamo prevedere luoghi di confronto e di dialogo e favorire sinergie per il bene comune. Se il processo sinodale ci ha allenati al discernimento comunitario, l’orizzonte del Giubileo ci veda attivi, pellegrini di speranza, per l’Italia di domani. Da discepoli del Risorto, non smettiamo mai di alimentare la fiducia, certi che il tempo è superiore allo spazio. Non dimentichiamo questo. Tante volte pensiamo che il lavoro politico è prendere spazi: no! È scommettere sul tempo, avviare processi, non prendere luoghi. Il tempo è superiore allo spazio e non dimentichiamo che avviare processi è più saggio di occupare spazi. Io mi raccomando che voi, nella vostra vita sociale, abbiate il coraggio di avviare processi, sempre. È la creatività e anche è la legge della vita. Una donna, quando fa nascere un figlio, incomincia a avviare un processo e lo accompagna. Anche noi nella politica dobbiamo fare lo stesso.

Questo è il ruolo della Chiesa: coinvolgere nella speranza, perché senza di essa si amministra il presente ma non si costruisce il futuro. Senza speranza, saremmo amministratori, equilibristi del presente e non profeti e costruttori del futuro.

Fratelli e sorelle, vi ringrazio per il vostro impegno. Vi benedico e vi auguro di essere artigiani di democrazia e testimoni contagiosi di partecipazione. E per favore vi chiedo di pregare per me, perché questo lavoro non è facile. Grazie.

Adesso, preghiamo insieme e vi darò la benedizione.

[Recita del Padre Nostro]

Chiesadituttichiesadeipoveri News

img_7859noi amiamo l’Ungheria, non perché l’ama la signora Meloni e nemmeno perché Salvini è entusiasta di raggiungere Orban nel nuovo gruppo di destra, “I Patrioti” del Parlamento europeo. Amiamo invece l’Ungheria perché era quello l’obiettivo da distruggere assegnato all’Italia, per mezzo dei missili nucleari installati a Comiso, nella distribuzione internazionale del lavoro tra i Paesi dell’area atlantica, nel caso fosse scoppiata la guerra atomica. Chissà perché proprio l’Ungheria. Fatto sta che, pur non sapendo che l’obiettivo fosse l’Ungheria, un imponente movimento popolare insorse in Italia contro i missili di Comiso. Solo in Sicilia, per sloggiare i Cruise, furono raccolte un milione di firme. Infine quei missili non furono sparati, l’Ungheria fu salva e anche noi.

La crisi della democrazia, che oggi vede crescere al suo interno le forze che vorrebbero stravolgerla, è superabile rilanciando con determinazione i valori e l’impegno che l’hanno conquistata e questo è un problema tutto politico, di impegno, di determinazione e di lotta. Non è un problema di tecniche costituzionali ma di enorme spessore politico.

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Il sangue amaro “versato a Reggio Emilia è sangue di
noi tutti”. Dal governo Tambroni al governo Meloni

di Alfiero Grandi (1° Luglio 2024)

Il 7 luglio ricorre il 64° anniversario della manifestazione antifascista del 1960 a Reggio Emilia durante la quale la polizia sparò e uccise 5 persone, la crisi più acuta di un periodo inquietante per l’Italia. Dobbiamo ricordare anzitutto i morti in difesa delle libertà democratiche, conquistate a caro prezzo con la Liberazione del 1945.
Dice la canzone sui morti di Reggio Emilia: “Lauro Farioli è morto (uno dei 5) per riparare al torto di chi s’è già scordato di Duccio Galimberti”, eroe della Resistenza.

Rotta l’unità antifascista, era nato il governo Tambroni
Ricordare i morti di Reggio vuol dire tornare sul significato del governo Tambroni nato con l’appoggio del Movimento Sociale, partito che si richiamava al ventennio fascista. Il governo Tambroni rappresentò una grave sbandata politica della Democrazia Cristiana, che portò alla rottura dell’unità antifascista aprendo al Msi che cercava una legittimazione fino a quel momento negata.
L’antifascismo fino a Tambroni era il fondamento della nostra Repubblica democratica. In quel momento la democrazia italiana rischiò di deragliare e questo, senza parallelismi forzati, può aiutare a capire meglio alcune sfide attuali.
Il nucleo in sofferenza nel 1960 è antifascismo, Costituzione, democrazia. In modi diversi la sofferenza oggi riguarda gli stessi punti.
Non tutto quanto si muove all’estrema destra si richiama al fascismo, tuttavia ci sono organizzazioni come Casa Pound dichiaratamente fasciste che lavorano indisturbate e restano ambiguità preoccupanti in altri.
E’ più che mai necessaria una capacità di reazione politica e sociale capace di isolare, sconfiggere la parte incompatibile con la democrazia così duramente conquistata in Italia. Le rivelazioni di Fanpage su riti e raduni di Gioventù Nazionale viene sottovalutata, ridotta a folklore giovanile, ma è un errore, anche per la destra. Le giustificazioni del Ministro Ciriani in parlamento sui comportamenti di settori di Gioventù nazionale sono un inaccettabile e miope tentativo di sminuire questi episodi, che rappresenta un netto passo indietro rispetto alla svolta di Fini a Fiuggi.

La vittoria drogata delle destre
Il problema dei conti con il fascismo non è solo dichiararsi antifascisti, su cui ci sono le note difficoltà di Giorgia Meloni, ma assumere orientamenti e comportamenti che contrastino antiche tentazioni autoritarie della destra.
Oggi facciamo i conti con la vittoria elettorale delle destre nel settembre 2022 che è stata “drogata” da un premio di maggioranza del 15%, perchè le destre hanno ottenuto solo il 44% dei voti che hanno fruttato il 59% dei parlamentari, grazie ad una legge elettorale incostituzionale che altera il principio della parità di voto degli elettori. Alterazione ancora più grave perché avendo votato il 63% degli aventi diritto il 59% dei deputati e dei senatori è stato ottenuto dalle destre con il 28% del corpo elettorale.
Questa vittoria, avvenuta nel rispetto della legge vigente, avrebbe dovuto consigliare prudenza e moderazione, invece le destre, ad egemonia di Fratelli d’Italia hanno deciso di modificare la Costituzione usando in modo spregiudicato il vantaggio del premio di maggioranza per imporre le loro scelte, mettendo nel mirino la Costituzione del 1948 con l’obiettivo di introdurre una nuova fonte di legittimazione individuata nella delega ad una persona, ad un capo, a decidere.

Torniamo al luglio 1960
Il luglio 1960 è un’epoca lontana, forse sconosciuta a tanti. E’ stato un tornante importante per almeno una generazione perchè in quel periodo è entrata in sofferenza
la democrazia antifascista dell’Italia.
Nel 1960 si sono presentati pericoli che si stanno ripresentando, sia pure in forma diversa, e l’atteggiamento verso la Costituzione ne rappresenta la cartina di tornasole democratica ed antifascista.
Ad esempio: l’antifascismo è un optional o invece è effettivamente – come dovrebbe essere secondo la Costituzione – una pregiudiziale per potere governare ?
Dopo la 2° guerra mondiale e la sconfitta del nazifascismo fu eletta nel 1946 l’assemblea Costituente – per la prima volta in Italia votarono anche le donne – che ebbe il compito di elaborare una Costituzione per la Repubblica italiana, liberata dalla dittatura fascista. Inoltre il voto del 1946 scelse la Repubblica e bocciò la monarchia, compromessa con il fascismo.
La Costituzione aveva il compito di guidare la nuova Repubblica verso una società democratica dopo gli orrori e i disastri della guerra. I padri e le madri costituenti furono all’altezza del compito e scrissero una Costituzione antifascista, profondamente democratica, fondata sulla centralità del parlamento e sulla divisione dei poteri, in modo da evitare in radice il ripresentarsi il rischio di una dittatura e in particolare la dipendenza da un capo che tutto decide.
I diversi poteri dello Stato hanno garantita la loro autonomia e hanno le condizioni per impedire straripamenti degli altri poteri. Questa è la svolta rispetto alla dittatura fascista.

La Costituzione nel mirino
Anche a sinistra sulla Costituzione ci sono state troppe incertezze e tentazioni di cambiamento discutibili. Le modifiche approvate a volte hanno fatto danni come la riforma del titolo V del 2001, che ha dato vita ad un contenzioso mai visto tra Stato e Regioni e ha fornito alibi a Calderoli per l’autonomia differenziata. In sostanza ci si è fatti prendere dalla sindrome di attribuire alla Costituzione responsabilità che in realtà erano difetti ed errori della politica, cioè compiti dei governi e delle maggioranze.
Basta pensare alle promesse elettorali impossibili da mantenere per il loro impianto reazionario inadeguato a rispondere ai problemi. Per questo la Costituzione torna prepotentemente nel mirino e le vengono attribuite responsabilità e inadeguatezze che non le appartengono.
La Costituzione prevede il voto libero delle elettrici e degli elettori per il parlamento, per scegliere da chi farsi rappresentare, e lo fa salvaguardando l’equilibrio tra i poteri, ad esempio l’autonomia della magistratura, ed impedendo l’accentramento di tutto il potere nelle mani di una sola persona, chiarendo che non tutto può essere cambiato. Ad esempio la forma repubblicana non è disponibile, nemmeno se votasse diversamente la maggioranza degli elettori.
Il voto è fondamentale e deve essere libero ma non può legittimare qualunque scelta portando al deragliamento dai valori della Costituzione, come sembrava ritenere Berlusconi, che attribuiva al voto il ruolo di un salvacondotto totale.
La Costituzione italiana è un insieme di principi fondamentali come il diritto uguale per tutti alla salute, all’istruzione, al lavoro, alla tutela della vita sul lavoro, ecc. e, afferma, che la Repubblica è impegnata a rimuovere gli ostacoli che impediscono a tutti di esigere il rispetto di questi ed altri diritti fondamentali.

Chi vuol sostenere le élite economiche e finanziarie?
Settori economici e finanziari, internazionali e nazionali, da tempo premono per cambiare precetti costituzionali considerati ostacoli al libero movimento dei capitali nel pianeta e alla pretesa di plasmarlo a loro piacimento. Da questo pulpito è venuta una pressione per affermare il potere e i dettami delle èlites economiche e finanziarie, per condizionare la vita delle persone, al punto da considerare privatizzabili e di mercato diritti che dovrebbero essere
invece non disponibili per la speculazione privata. Basta pensare alla salute, all’istruzione, ecc.
Le destre nella loro ansia di andare oltre la Costituzione antifascista sembrano non rendersi conto che finiscono con l’essere subalterne alle ideologie che puntano a mutuare le regole di governo accentrato ed autoritario delle imprese, rasentando il ridicolo quando affermano di
muoversi contro i poteri forti. Abbiamo visto cosa è accaduto con la vantata tassazione degli extraprofitti delle banche: ritirata totale con perdite.
La Costituzione del 1948 è stata contrastata dall’inizio da un’area politica e sociale sostanzialmente nostalgica del ventennio fascista. Il tentativo di Fini
a Fiuggi di superare definitivamente queste posizioni è purtroppo sostanzialmente fallito. Non a caso resistono a destra posizioni contro la Costituzione, le cui libertà sono viste perfino come un’occasione da usare per sovvertirne i fondamenti.
La democrazia è certamente in crisi di credibilità e forza, ma vanno distinti i tentativi di affossarla da interventi necessari per ridarle qualità e slancio e
guarda caso gli obiettivi di fondo ancora da realizzare sono proprio quelli scritti nella nostra Costituzione.

Le destre vogliono una Terza repubblica al di là della Costituzione
Le destre al governo, trainate da Fratelli d’Italia, puntano ad arrivare a qualcosa di nuovo e diverso, definito come la terza repubblica italiana, evocando un modello decisionale accentrato ed autoritario, con l’obiettivo di uscire dall’alveo della Costituzione del 1948 per trovare altre fonti di legittimazione. In questo caso un voto popolare che tutto decide, senza neppure vincoli e controlli, ed elegge un capo a cui delega tutto, senza contrappesi e contropoteri.
In sostanza l’obiettivo è costruire una vera e propria capocrazia.
La fonte di legittimazione è individuata nel voto diretto per il Presidente del Consiglio (un succedaneo del Presidenzialismo) proposta a cui la destra è stata spinta dalla grande popolarità di Mattarella che rende difficile scontrarsi con un’opinione pubblica largamente favorevole al ruolo del Presidente della Repubblica, diventato centrale nel risolvere crisi difficili. Ma se andasse in porto il premierato voluto da Giorgia Meloni la conseguenza sarebbe che il
potere concentrato nel Presidente del Consiglio renderebbe marginale il ruolo del Presidente della Repubblica.
La differenza balza agli occhi, il Presidente della Repubblica oggi punta ad evitare che la crisi di un governo, di una coalizione diventino la crisi politica della legislatura. Nel premierato di Giorgia Meloni se il capo viene sconfessato si torna a votare, il parlamento è eletto con lui e dovrebbe cadere con lui.

Una deriva che va contrastata in tutti i modi
Non è fascismo inteso come mero ritorno al passato, ma un forte accentramento autoritario sì, perché porta al superamento della divisione dei poteri e in particolare riduce il parlamento ad un ruolo subalterno e servente del governo, da cui sarebbe del tutto dipendente.
Contro queste scelte occorre usare tutte le possibilità offerte dallo stato democratico e dalla Costituzione, compreso il referendum, per contrastare una deriva che porterebbe nel tempo ad una cesura.
La crisi della democrazia, che oggi vede crescere al suo interno le forze che vorrebbero stravolgerla, è superabile rilanciando con determinazione i valori e l’impegno che l’hanno conquistata e questo è un problema tutto politico, di impegno, di determinazione e di lotta. Non è un problema di tecniche costituzionali ma di enorme spessore politico.

La ribellione di Genova, e non solo
Nel 1960 il governo Tambroni si reggeva sull’astensione del MSI che cercava una legittimazione malgrado fosse un partito che si richiamava apertamente al ventennio fascista e cercava di uscire allo scoperto con manifestazioni pubbliche e un congresso nazionale a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, che si ribellò. Ci furono scontri e tensioni fortissime. A Bologna a fine maggio 1960 fu sciolta con la forza una manifestazione in piazza Malpighi. La parte più drammatica fu il 7 luglio con i 5 uccisi a Reggio Emilia nel corso di una manifestazione repressa con violenza dalla polizia. Episodio
figlio del clima di rivalsa della destra, dell’atteggiamento repressivo della polizia che all’epoca aveva non pochi inquinamenti del passato, di un pericoloso sbandamento della Democrazia Cristiana che pure era stata tra i fondatori della nuova Italia democratica.
Quella maggioranza e quel governo erano una rottura con la Resistenza e l’antifascismo che era la base comune delle forze che avevano dato vita alla
Costituzione e alla Repubblica.
Come altri giovani della mia generazione decisi in quei giorni di impegnarmi politicamente, di manifestare lo sdegno per quanto accaduto, contro l’antiautoritarismo e la repressione. I morti a Reggio Emilia per molti giovani furono il momento della scelta, in tanti capimmo che dovevamo impegnarci, che era in corso un duro scontro sulla democrazia che ci riguardava e che andava riconquistato il discrimine antifascista.

Torniamo ancora alla Costituzione
Il governo Tambroni dopo i morti di Reggio Emilia restò in carica poche settimane.
L’eccidio di Reggio Emilia fu uno spartiacque nella vita di tanti, portò ad un impegno politico, una scelta di vita, di partecipazione, in continuità con la convinzione che il compito di ciascuno di noi è agire come cittadini protagonisti della democrazia in Italia.
Questo ci è stato consegnato dalla democrazia conquistata a caro prezzo dalla Resistenza e questo impegno deve continuare nel tempo perché nasce da quelli che Berlinguer definiva gli ideali della sua gioventù.
Anche ora occorre tornare ai fondamenti della Repubblica, della democrazia, della Costituzione, questa è la posta in gioco, certo in forme e condizioni diverse dal 1960.
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mattarella-3Come ricordava Norberto Bobbio – le condizioni minime della democrazia sono esigenti: generalità ed eguaglianza del diritto di voto, la sua libertà, proposte alternative, ruolo insopprimibile delle assemblee elettive e, infine, non da ultimo, limiti alle decisioni della maggioranza, nel senso che non possano violare i diritti delle minoranze e impedire che queste possano, a loro volta, divenire maggioranza.
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Intervento del Presidente della Repubblica alla cerimonia di apertura della 50^ edizione della Settimana Sociale dei Cattolici in Italia
Trieste, 03/07/2024

Rivolgo un saluto di grande cordialità al Presidente della Conferenza Episcopale, ai Vescovi presenti, al Nunzio Apostolico; alle autorità di questa splendida parte dell’Italia, il Presidente della Regione, il Sindaco, gli altri Sindaci presenti; a tutti voi, ringraziandovi per l’invito e, soprattutto, per quello che fanno le Settimane Sociali.

Democrazia.

Parola di uso comune, anche nella sua declinazione come aggettivo.
È ampiamente diffusa. Suggerisce un valore.

Le dittature del Novecento l’hanno identificata come un nemico da battere.

Gli uomini liberi ne hanno fatto una bandiera.

Insieme una conquista e una speranza che, a volte, si cerca, in modo spregiudicato, di mortificare ponendone il nome a sostegno di tesi di parte.

Non vi è dibattito in cui non venga invocata a conforto della posizione propria.

Un tessuto che gli avversari della democrazia pretenderebbero logoro.

L’interpretazione che si dà di questo ordito essenziale della nostra vita appare talora strumentale, non assunto in misura sufficiente come base di rispetto reciproco.

Si è persino giunti ad affermare che siano opponibili tra loro valori come libertà e democrazia, con quest’ultima artatamente utilizzabile come limitazione della prima.

Non è fuor di luogo, allora, chiedersi se vi sia, e quale, un’anima della democrazia.

O questa si traduce soltanto in un metodo?

Cosa la ispira?

Cosa ne fa l’ossatura che sorregge il corpo delle nostre Istituzioni e la vita civile della nostra comunità?

È un interrogativo che ha accompagnato e accompagna il progresso dell’Italia, dell’Europa.

Alexis de Tocqueville affermava che una democrazia senz’anima è destinata a implodere, non per gli aspetti formali, naturalmente, bensì per i contenuti valoriali venuti meno.

Intervenendo a Torino, alla prima edizione della Biennale della democrazia, nel 2009, il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, rivolgeva lo sguardo alla costruzione della nostra democrazia repubblicana, con la acquisizione dei principi che hanno inserito il nostro Paese, da allora, nel solco del pensiero liberal-democratico occidentale.

Dopo la “costrizione” ossessiva del regime fascista soffiava “l’alito della libertà”, con la Costituzione a intelaiatura e garanzia dei diritti dei cittadini.

L’alito della libertà, anzitutto, come rifiuto di ogni obbligo di conformismo sociale o politico, come diritto all’opposizione.

La democrazia, in altri termini, non si esaurisce nelle sue norme di funzionamento, ferma restando, naturalmente, l’imprescindibilità della definizione e del rispetto delle “regole del gioco”.

Perché – come ricordava Norberto Bobbio – le condizioni minime della democrazia sono esigenti: generalità ed eguaglianza del diritto di voto, la sua libertà, proposte alternative, ruolo insopprimibile delle assemblee elettive e, infine, non da ultimo, limiti alle decisioni della maggioranza, nel senso che non possano violare i diritti delle minoranze e impedire che queste possano, a loro volta, divenire maggioranza.

È la pratica della democrazia che la rende viva, concreta, trasparente, capace di coinvolgere.

Quali le ragioni del riferimento all’alito della libertà parlando di democrazia?

Non è democrazia senza la tutela dei diritti fondamentali di libertà, che rappresentano quel che dà senso allo Stato di diritto e alla democrazia stessa.

Il tema impegnativo che avete posto al centro della riflessione di questa Settimana sociale interpella quindi, con forza, tutti.

La democrazia, infatti, si invera ogni giorno nella vita delle persone e nel mutuo rispetto delle relazioni sociali, in condizioni storiche mutevoli, senza che questo possa indurre ad atteggiamenti remissivi circa la sua qualità.

Si può pensare di contentarsi che una democrazia sia imperfetta?

Di contentarsi di una democrazia a “bassa intensità”?

Si può pensare di arrendersi, “pragmaticamente”, al crescere di un assenteismo dei cittadini dai temi della “cosa pubblica”?

Può esistere una democrazia senza il consistente esercizio del ruolo degli elettori? Per porre mente alla defezione, diserzione, rinuncia intervenuta da parte dei cittadini in recenti tornate elettorali.

Occorre attenzione per evitare di commettere l’errore di confondere il parteggiare con il partecipare.

Occorre, piuttosto, adoperarsi concretamente affinché ogni cittadino si trovi nelle condizioni di potere, appieno, prender parte alla vita della Repubblica.

I diritti si inverano attraverso l’esercizio democratico.

Se questo si attenua, si riduce la garanzia della loro effettiva vigenza.

Democrazie imperfette vulnerano le libertà: ove si manifesta una partecipazione elettorale modesta. Oppure ove il principio “un uomo-un voto” venga distorto attraverso marchingegni che alterino la rappresentatività e la volontà degli elettori.

Ancor più le libertà risulterebbero vulnerate ipotizzando democrazie affievolite, depotenziate da tratti illiberali.

Ci soccorre anche qui Bobbio, quando ammonisce che non si può ricorrere a semplificazioni di sistema o a restrizioni di diritti “in nome del dovere di governare”.

Una democrazia “della maggioranza” sarebbe, per definizione, una insanabile contraddizione, per la confusione tra strumenti di governo e tutela della effettiva condizione di diritti e di libertà.

Al cuore della democrazia – come qui leggiamo – vi sono le persone, le relazioni e le comunità a cui esse danno vita, le espressioni civili, sociali, economiche che sono frutto della loro libertà, delle loro aspirazioni, della loro umanità: questo è il cardine della nostra Costituzione.

Questa chiave di volta della democrazia opera e sostiene la crescita di un Paese, compreso il funzionamento delle sue Istituzioni, se al di là delle idee e degli interessi molteplici c’è la percezione di un modo di stare insieme e di un bene comune.

Se non si cede alla ossessiva proclamazione di quel che contrappone, della rivalsa, della delegittimazione.

Se l’universalità dei diritti non viene menomata da condizioni di squilibrio, se la solidarietà resta il tessuto connettivo di una economia sostenibile, se la partecipazione è viva, diffusa, consapevole del proprio valore e della propria necessità, della propria essenziale necessità.

Nel cambiamento d’epoca che ci è dato di vivere avvertiamo tutta la difficoltà, e a volte persino un certo affanno, nel funzionamento delle democrazie.

Oggi constatiamo criticità inedite, che si aggiungono a problemi più antichi.

La democrazia non è mai conquistata per sempre.

Anzi, il succedersi delle diverse condizioni storiche e delle loro mutevoli caratteristiche, ne richiede un attento, costante inveramento.

Nella complessità delle società contemporanee, a elementi critici conosciuti, che mettono a rischio la vita degli Stati e delle comunità, si aggiungono nuovi rischi epocali: quelli ambientali e climatici, sanitari, finanziari, oltre alle sfide indotte dalla digitalizzazione e dall’intelligenza artificiale.

Le nostre appaiono sempre più società del rischio, a fronteggiare il quale si disegnano, talora, soluzioni meramente tecnocratiche.

È tutt’altro che improprio, allora, interrogarsi sul futuro della democrazia e sui compiti che le sono affidati, proprio perché essa non è semplicemente un metodo, bensì costituisce lo “spazio pubblico” in cui si esprimono le voci protagoniste dei cittadini.

Nel corso del tempo, è stata più volte posta, malauguratamente, la domanda “a cosa serve la democrazia?”. La risposta è semplice: a riconoscere – perché preesistono, come indica l’art. 2 della nostra Costituzione – e a rendere effettive le libertà delle persone e delle comunità.

Karl Popper ha indicato come le forme di vita democratica realizzino, essenzialmente, quella “società aperta” che può massimizzare le opportunità di costituzione di identità sociali destinate a trasferirsi, poi, sul terreno politico e istituzionale.

La stessa esperienza italiana degli ultimi trent’anni ne è un esempio.

Nei settantotto anni dalla scelta referendaria del 1946, libertà di impronta liberale e libertà democratica hanno contribuito, al “cantiere aperto” della nostra democrazia repubblicana, con la diversità delle alternative, le realtà di vita e le differenti mobilitazioni che ne sono derivate.

La libertà di tradizione liberale ci richiama a un’area intangibile di diritti fondamentali delle persone, e alla indisponibilità di questi rispetto al contingente succedersi di maggioranze e, ancor più, a effimeri esercizi di aggregazione di interessi.

La libertà espressa nelle vicende novecentesche, con l’irruzione della questione sociale, ha messo poi a fuoco la dinamica delle aspettative e dei bisogni delle identità collettive nella società in permanente trasformazione.

È questione nota al movimento cattolico, se è vero che quel giovane e brillante componente dell’Assemblea Costituente, che fu Giuseppe Dossetti, pose il problema del “vero accesso del popolo e di tutto il popolo al potere e a tutto il potere, non solo quello politico, ma anche a quello economico e sociale”, con la definizione di “democrazia sostanziale”.

A segnare in tal modo il passaggio ai contenuti che sarebbero stati poi consacrati negli articoli della prima parte della nostra Costituzione. Fra essi i diritti economico-sociali.

Una riflessione impegnativa con l’ambizione di mirare al “bene comune” che non è il “bene pubblico” nell’interesse della maggioranza, ma il bene di tutti e di ciascuno, al tempo stesso; di tutti e di ciascuno, secondo quanto già la Settimana Sociale del ’45 volle indicare.

Il percorso dei cattolici – con il loro contributo alla causa della democrazia- non è stato occasionale né data di recente, eppure va riconosciuto che l’adesione dottrinaria alla democrazia fu condizionata dalla “questione romana”, con il percorso accidentato della sua soluzione.

Ma già l’ottava Settimana Sociale, a Milano, nel 1913, non aveva remore nell’affermare la fedeltà dei cattolici allo Stato e alla Patria – quest’ultima posta più in alto dello Stato – sollecitando, contemporaneamente, il diritto di respingere – come venne enunciato – ogni tentativo di “trasformare la Patria, lo Stato, la sua sovranità, in altrettante istituzioni ostili… mentre sentiamo di non essere a nessuno secondi nell’adempimento di quei doveri che all’una e all’altro ci legano”. Una espressione di matura responsabilità.

Il tema che veniva posto, era fondamentalmente un tema di libertà – anche religiosa – e questo riguardava tutta la società, non esclusivamente i rapporti tra Regno d’Italia e Santa Sede.

Ho poc’anzi ricordato la 19^ edizione della Settimana, a Firenze, nell’ottobre 1945. In quell’occasione, nelle espressioni di un giurista eminente – poi costituente – Egidio Tosato, troviamo proposto il tema dell’equilibrio tra i valori di libertà e di democrazia, con la individuazione di garanzie costituzionali a salvaguardia dei cittadini.

La democrazia come forma di governo non basta a garantire in misura completa la tutela dei diritti e delle libertà: essa può essere distorta e violentata nella pretesa di beni superiori o di utilità comuni. Il Novecento ce lo ricorda e ammonisce.

Anche da questo si è fatta strada l’idea di una suprema Corte Costituzionale.

Tosato contestò l’assunto di Rousseau, in base al quale la volontà generale non poteva trovare limiti di alcun genere nelle leggi, perché la volontà popolare poteva cambiare qualunque norma o regola.

Lo fece Tosato con parole molto nette: “Noi sappiamo tutti ormai che la presunta volontà generale non è in realtà che la volontà di una maggioranza e che la volontà di una maggioranza, che si considera come rappresentativa della volontà di tutto il popolo può essere, come spesso si è dimostrata, più ingiusta e oppressiva che non la volontà di un principe”. Esprimeva un fermo no, quindi, all’assolutismo di Stato, a un’autorità senza limite, potenzialmente prevaricatrice.

La coscienza dei limiti è un fattore imprescindibile per qualunque Istituzione, a partire dalla Presidenza della Repubblica, per una leale e irrinunziabile vitalità democratica.

Guido Gonella, personalità di primo piano del movimento cattolico italiano, e poi statista insigne nella stagione repubblicana, relatore anch’egli alla Settimana di Firenze del ’45, non ebbe esitazioni nel rinvenire nelle Costituzioni, una “forma di vita – come disse – più alta e universale”, con la presenza di elementi costanti, “categorie etiche” le definì, e di elementi variabili, secondo le “esigenze storiche”, ponendo in guardia dei rischi posti da una eccessiva rigidezza conservatrice e da una troppo facile flessibilità demagogica che avrebbe potuto caratterizzarle, con il risultato di poter passare con indifferenza dall’assolutismo alla demagogia, per ricadere indietro verso la dittatura.

Su questo si basa la distinzione tra prima e seconda parte della nostra Costituzione.

Il messaggio fu limpido: sbagliato e rischioso cedere a sensibilità contingenti, sulla spinta delle tentazioni quotidiane della contesa politica. Come avviene con la frequente tentazione di inserire richiami a temi particolari nella prima parte della Costituzione, che del resto – per effetto della saggezza dei suoi estensori – regola tutti questi aspetti comunque, in base ai suoi principi e valori di fondo.

La Costituzione seppe dare un senso e uno spessore nuovo all’unità del Paese e, per i cattolici, l’adesione ad essa ha coinciso con un impegno a rafforzare, e mai indebolire, l’unità e la coesione degli italiani.

Spirito prezioso, come ha ricordato di recente il Cardinale Zuppi, perché la condivisione intorno ai valori supremi di libertà e democrazia è il collante irrinunciabile della nostra comunità nazionale.

Pio XII, nel messaggio natalizio del 1944, era stato ricco di indicazioni importanti e feconde.

Permettetemi di soffermarmi su quel testo per richiamarne l’indicazione che, al legame tra libertà e democrazia, unisce il tema della democrazia connesso a quello della pace.

Perché la guerra soffoca, può soffocare, la democrazia.

L’ordine democratico, ricordava il Papa, include la unità del genere umano e della famiglia dei popoli. “Da questo principio – diceva – deriva l’avvenire della pace”. Con l’invocazione “guerra alla guerra” e l’appello a “bandire una volta per sempre la guerra di aggressione come soluzione legittima delle controversie internazionali e come strumento di aspirazioni nazionali”.

Un grido di pace oggi rinnovato da Papa Francesco.

Non si trattava di un dovuto “irenismo”, di uno scontato ossequio pacifista della Chiesa di fronte alla tragedia della Seconda Guerra Mondiale.

Era, piuttosto, una ferma reazione morale che interpreta la coscienza civile, presente certamente nei credenti – e, comunque, nella coscienza dei popoli europei – destinata a incrociarsi con le sensibilità di altre posizioni ideali.

Prova ne è stata la generazione delle Costituzioni del Secondo dopoguerra, in Italia come in Germania, in Austria, in Francia.

Per l’Italia gli art. 10 e 11 della nostra Carta, volti a definire la comunità internazionale per assicurare e pervenire alla pace.

Sarebbe stato il professor Pergolesi, sempre a Firenze 1945, ad affermare il diritto del cittadino alla pace, interna ed esterna, con la proposta di inserimento di questo principio nelle Costituzioni, dando così vita a una concezione nuova dei rapporti tra gli Stati.

Se in passato la democrazia si è inverata negli Stati – spesso contrapposti e comunque con rigidi, insormontabili frontiere – oggi, proprio nel continente che degli Stati è stato la culla, si avverte l’esigenza di costruire una solida sovranità europea che integri e conferisca sostanza concreta e non illusoria a quella degli Stati membri. Che consenta e rafforzi la sovranità del popolo disegnata dalle nostre Costituzioni ed espressa, a livello delle Istituzioni comunitarie, nel Parlamento Europeo.

Il percorso democratico, avviato in Europa dopo la sconfitta del nazismo e del fascismo, ha permesso di rafforzare le Istituzioni dei Paesi membri e di ampliare la protezione dei diritti dei cittadini, dando vita a quella architrave di pace che è stata prima la Comunità europea e adesso è l’Unione.

Una più efficace unità europea – più forte ed efficiente di quanto fin qui siamo stati capaci di realizzare – è oggi condizione di salvaguardia e di progresso dei nostri ordinamenti di libertà e di uguaglianza, di solidarietà e di pace.

Tornando alla riflessione sui cardini della democrazia, va sottolineato che la democrazia comporta il principio di eguaglianza – poc’anzi richiamato dal Cardinale Zuppi – perché riconosce che le persone hanno eguale dignità.

La democrazia è strumento di affermazione degli ideali di libertà.

La democrazia è antidoto alla guerra.

Quando ci chiediamo se la democrazia possiede un’anima, quando ci chiediamo a cosa serva, troviamo agevolmente risposte chiare.

Lo sforzo che, anche in questa occasione, vi apprestate a produrre per la comunità nazionale, richiama le parole con cui il Cardinale Poletti, nel 1988, alla XXX assemblea generale Conferenza Episcopale, accompagnò, dopo vent’anni, la ripresa delle Settimane Sociali: “diaconia della Chiesa italiana al Paese”.

Con il vostro contributo avete arricchito, in questi quasi centoventi anni dalla prima edizione, il bene comune della Patria e, di questo, la Repubblica vi è riconoscente.

La nostra democrazia ha messo radici, si è sviluppata, è divenuta un tratto irrinunciabile dell’identità nazionale – mentre diveniva anche identità europea – sostenuta da partiti e movimenti, che avevano raggiunto la democrazia nel corso del loro cammino e su di essa stavano rifondando la loro azione politica nella nuova fase storica.

Oggi dobbiamo rivolgere lo sguardo e l’attenzione a quanto avviene attorno a noi, nel mondo sempre più raccolto e interconnesso.

Accanto al riproporsi di tentazioni neo-colonialistiche e neo-imperialistiche, nuovi mutamenti geopolitici sono sospinti anche dai ritmi di crescita di Stati-continente in precedenza meno sviluppati, da tensioni territoriali, etniche, religiose che, non di rado sfociano in guerre drammatiche, da andamenti demografici e giganteschi flussi migratori.

Attraversiamo fenomeni – questi e altri – che mutano profondamente le condizioni in cui si viveva in precedenza e che è impossibile illudersi che possano tornare.

Dalla dimensione nazionale dei problemi – e delle conseguenti sfere decisionali – siamo passati a quella europea e, per qualche aspetto, a quella globale.

È questa la condizione della quale siamo parte e nella quale dobbiamo far sì che a prevalere sia il futuro dei cittadini e non delle sovrastrutture formatesi nel tempo.

All’opposto della cooperazione fra eguali si presenta il ritorno alle sfere di influenza dei più forti o meglio armati – che si sta praticando e teorizzando, in sede internazionale, con la guerra, l’intimidazione, la prevaricazione – e, in altri ambiti, di chi dispone di forza economica che supera la dimensione e le funzioni degli Stati.

Risalta la visione storica e la sagacia di Alcide De Gasperi con la scelta di libertà del Patto Atlantico compiuta dalla Repubblica nel 1949 e con il suo coraggioso apostolato europeo.

Venti anni fa, a Bologna, la 44^ Settimana si poneva il tema dei nuovi scenari e dei nuovi poteri di fronte ai quali la democrazia si trovava.

È necessario misurarsi con la storia, porsi di fronte allo stato di salute delle Istituzioni nazionali e sovranazionali e dell’organizzazione politica della società.

Nuovi steccati sono sempre in agguato a minare le basi della convivenza sociale: le basi della democrazia non sono né esclusivamente istituzionali né esclusivamente sociali, interagiscono fra loro.

Cosa ci aiuta? Dare risposte che vedono diritti politici e sociali dei cittadini e dei popoli concorrere insieme alla definizione di un futuro comune.

Vogliamo riprendere per un attimo l’Enciclica “Populorum progressio” di Paolo VI: “essere affrancati dalla miseria, garantire in maniera più sicura la propria sussistenza, salute, una partecipazione più piena alle responsabilità, al di fuori di ogni oppressione, al riparo da situazioni che offendono la loro dignità di uomini, godere di una maggiore istruzione, in una parola fare conoscere e avere di più per essere di più: ecco l’aspirazione degli uomini di oggi – diceva -, mentre un gran numero di essi è condannato a vivere in condizioni che rendono illusorio questo legittimo desiderio”.

Vi è qualcuno che potrebbe rifiutarsi di sottoscrivere queste indicazioni?

Temo di sì, in realtà, anche se nessuno avrebbe il coraggio di farlo apertamente.

Anche per questo l’esercizio della democrazia, come si è visto, non si riduce a un semplice aspetto procedurale e non si consuma neppure soltanto con la irrinunziabile espressione del proprio voto nelle urne nelle occasioni elettorali. Presuppone lo sforzo di elaborare una visione del bene comune in cui sapientemente si intreccino – perché tra loro inscindibili – libertà individuali e aperture sociali, bene della libertà e bene dell’umanità condivisa. Né si tratta di una questione limitata ad ambiti statali.

Mons. Adriano Bernareggi, nelle sue conclusioni della Settimana Sociale del ’45, – l’abbiamo poc’anzi visto nelle immagini – argomentò, citando Jacques Maritain, che una nuova cristianità si affacciava in Europa.

L’unità da raggiungere nelle comunità civili moderne non aveva più un’unica “base spirituale”, bensì un bene comune terreno, che doveva fondarsi proprio sull’intangibile “dignità della persona umana”.

Questa la consapevolezza che è stata alla base di una stagione di pace così lunga – che speriamo continui – nel continente europeo.

Continuava l’allora Vescovo di Bergamo, “la democrazia non è soltanto governo di popolo, ma governo per il popolo”.

Affrontare il disagio, il deficit democratico che si rischia, deve partire da qui.

Dal fatto che, in termini ovviamente diversi, ogni volta si riparte dalla capacità di inverare il principio di eguaglianza, da cui trova origine una partecipazione consapevole.

Perché ciascuno sappia di essere protagonista della storia.

Don Lorenzo Milani esortava a “dare la parola”, perché “solo la lingua fa eguali”. A essere, cioè, alfabeti nella società.

La Repubblica ha saputo percorrere molta strada, ma il compito di far sì che tutti prendano parte alla vita della sua società e delle sue Istituzioni non si esaurisce mai.

Ogni generazione, ogni epoca, è attesa alla prova della “alfabetizzazione”, dell’inveramento della vita della democrazia.

Prova, oggi, più complessa che mai, nella società tecnologica contemporanea.

Ebbene, battersi affinché non vi possano essere più “analfabeti di democrazia” è causa primaria e nobile, che ci riguarda tutti. Non soltanto chi riveste responsabilità o eserciti potere.

Per definizione, democrazia è esercizio dal basso, legato alla vita di comunità, perché democrazia è camminare insieme.

Vi auguro, mi auguro, che si sia numerosi a ritrovarsi in questo cammino.
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Documentazione

LEGGE 26 giugno 2024, n. 86 Disposizioni per l’attuazione
dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai
sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione
(GU Serie Generale n.150 del 28-06-2024)
Entrata in vigore del provvedimento: 13/07/2024
[in aggiornamento]

Chiesadituttichiesadeipoveri News

img_7569Cari amici,
Un vento di destra spira sull’Europa, ed è questo l’allarme che viene dalle urne, in un’Europa che appare oggi come la nave dei folli che dai suoi governanti è spinta verso la tempesta. Però la guerra, che questi governanti suicidi le avevano apparecchiato, almeno per ora l’elettorato è riuscito a fermarla, rovesciando in Francia e Germania i più pericolosi fautori del disastro.

Europa, Europa

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E’ ARRIVATA L’ONDATA DI DESTRA, MA REGGONO I FRANGIFLUTTI
di GIANCARLO INFANTE su PoliticaInsieme.
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Jun 10, 2024 – 07:26:33 – CEST – PoliticaInsieme

Così è arrivata l’ondata di destra, ma, al di là di alcuni risultati eclatanti come in Francia e in Germania, non riesce a superare i frangiflutti europeisti.

Il risultato finale dovrebbe far trovare alle destre un po’ più di 130 seggi nel Parlamento di Strasburgo che, però, ne ha 720 [dato relativo alla legislatura 2024-2029]. I conservatori della Meloni crescono di un solo seggio. 9 in più per quelli della Le Pen e Salvini. Troppo poco per scalfire l’attuale maggioranza.

Si è trattato di un’ondata controversa e dipendente dalle situazioni nazionali. I conservatori della Meloni non avanzano dappertutto e lo stesso è accaduto all’altra destra della Le Pen e Salvini. Per non parlare dello schiaffone ricevuto a casa sua da Orban. Cui, poveretto, si è aggiunta la beffa di vedere eletta a Strasburgo quella Ilaria Salis detenuta in Ungheria in maniera davvero barbara.

Bisognerà attendere i numeri finali della distribuzione dei seggi per capire esattamente quali le conseguenze concrete sulla spiaggia. In più, c’è da considerare l’incertezza determinata dal fatto che un consistente numero degli eletti sarà formato da quelli che non indossano alcune casacca di una delle grandi famiglie politiche europee. In ogni caso, dopo l’abbuffata elettorale, in tanti dovranno tornare con i piedi per terra e a ragionare sulle cose realmente imposte dai numeri, più che dai titoli dei giornali o dalle speculazioni espresse nel corso dei nostri dibattiti televisivi.

L’onda della destra viene comunque da lontano. Sin da quando molto centro e molta sinistra si sono messi a seguire e compiacere le politiche della finanziarizzazione a scapito dell’economia reale. Così, oggi, si pagano le abdicazioni a condurre politiche sociale e a riprendere quel percorso europeo caratterizzato soprattutto dallo spirito della solidarietà, della coesione e dell’inclusione.

Certo, molto hanno influito la stagione del Covid e l’invitabile conseguente distruzione dell’economia mondiale e la vera e propria esplosione dell’inflazione. Poi, la guerra d’Ucraina. Nel futuro, gli studiosi di sociologia e gli storici dell’antropologia ci diranno quanto questi fattori hanno contribuito, e contribuiranno ancora, a determinare un clima simile a quello che ci fu tra le due guerre mondiali del secolo scorso, caratterizzato da un’analoga ondata di destra.

E il problema dell’emigrazione, mal gestito, ha avuto pure la sua parte. Sia pure soprattutto, per la gran parte, in una dimensione psicologica e molto strumentalizzata dalla destra più estrema e xenofoba.

Oggi, tutto questo ha presentato il conto. Soprattutto a Macron e ai socialdemocratici tedeschi. Il primo, addirittura, ha deciso di sciogliere l’Assemblea nazionale ed andare ad elezioni anticipate perché convinto che la Francia non sia ancora pronta per dare un piena maggioranza interna alla Le Pen.

Comunque, la sinistra , più che mai e un po’ dappertutto, dovrà davvero decidere cosa fare nel futuro. E riflettere sui tanti perché di una sconfitta che non ammette repliche.

Il risultato di questa settimana di voto chiamerà ad una grande responsabilità soprattutto il Partito popolare europeo confermato come la principale formazione nel Parlamento di Strasburgo.

Il dato elettorale ci dice che i suoi più diretti competitori non sono solamente i socialisti, ma anche l’estrema destra. Nei prossimi giorni, allora, il Ppe dovrà esprimere il meglio della propria tradizione democratica, di equilibrio e di lungimiranza. Ben ha fatto Ursula von der Leyen ad assicurare l’intenzione di voler contrastare tutti gli estremisti, di destra e di sinistra. Dalle sue prime dichiarazioni si è avuta la conferma che vuole andare avanti con la stessa coalizione che cinque anni fa prese il suo nome: “Ursula”. Ha parlato di una coalizione la più ampia possibile e, dunque, le si porrà il problema del veto che socialisti e verdi hanno chiaramente espresso verso ogni forma di coinvolgimento delle destre, conservatori della Giorgia Meloni compresi.

Resta, in conclusione, la valutazione del voto italiano. Non è cambiato nulla riguardo un tema che non interessa a nessuno, ma che, invece, vale la pena sempre di sottolineare: l’elettorato è andato al mare. E non solo per il bel tempo. Si è tenuto lontano dalle urne, con ben il 52% di astenuti. Soprattutto per il voto europeo, visto che qualcuno in più si è presentato ai seggi per partecipare al concomitante rinnovo regionale in Piemonte e di numerosi comuni. Si rinnova, insomma, il forte, diffuso e generalizzato giudizio negativo per l’intera nostra classe politica, in generale, ma anche per chi è al governo, in particolare. Sappiamo che nessuno ne farà tesoro perché l’importante è festeggiare una vittoria che, stando ai dati sull’affluenza, con buona ragione possiamo definire “dimezzata”.

La mancata partecipazione ha confermato, dunque, una generale disaffezione per il “bipolarismo” e di tutto ciò che esso comporta, e cioè una politica rissosa e non costruttiva. Al tempo stesso, ha continuato paradossalmente a premiare quelli che di bipolarismo vivono e ne traggono i principali vantaggi, a scapito degli “assenti”. Così, i Fratelli d’Italia consolidano i risultati delle ultime politiche, ma il Pd cresce e diventa addirittura uno dei più consistenti nella sinistra di Strasburgo. Il defunto Terzo polo è più che mai tale e quelli che furono i suoi esponenti si confermano del tutto ininfluenti.

Come abbiamo già scritto numerose volte, resta il fatto che Giorgia Meloni deve fare i conti con ciò che conta davvero in Europa e soprattutto considerare che se, in Italia tiene, a Bruxelles non conterà perché leader di Fratelli d’Italia, bensì solo perché è alla guida del nostro Governo nazionale. Giacché l’ondata da lei promessa per tutto il Vecchio continente è stata fermata dai frangiflutti…

Giancarlo Infante
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ape-innovativaMentanamente
di Aladin 10/6/2024
Ieri notte Mentana a La7 ha fatto il “terrorista”. Sembrava che l’Europa fosse stata vinta al Totoelezioni dai nazi-fascisti. E mostrava una malcelata soddisfazione! E’ una sorta di raptus irrefrenabile che prende i giornalisti quando credono di essere arrivati per primi nel comunicare un evento, bello o brutto che sia. In realtà è vero che la destra avanza in tutta Europa, ma nonostante la situazione della Francia e della Germania (Macron e Scholz son stati puniti perché guerrafondai), l’Unione Europea e il suo Parlamento restano sotto il controllo delle forze democratiche di centro, liberali, verdi e di sinistra.
Non v’è dubbio, infatti, che il prossimo Parlamento Europeo potrà godere di una maggioranza solida, la medesima che ha governato l’Europa negli ultimi 5 anni. Infatti insieme i Popolari, i Liberali e i Socialisti europei possono contare su più di 400 seggi su un totale di 720. Ovviamente speriamo che l’Unione Europea possa abbandonare la politica guerrafondaia che purtroppo l’ha caratterizzata negli ultimi anni, per avere un ruolo decisivo nell’avviare processi di pace con riferimento alle guerre Ucraina-Russia e Israele-Palestina.
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L’Europa di Altiero Spinelli ha un futuro? Federare i paesi europei, eliminando l’assoluta sovranità degli Stati e i nazionalismi…
10 Giugno 2024 ripubblicato su Democraziaoggi.

di Maria Paola Patuelli – Ravennanotizie

L’Europa di Altiero Spinelli avrà un futuro? Non è un interrogativo retorico. È un interrogativo che mi pongo, quando l’esito delle elezioni europee ci dirà quale sarà il futuro dell’Europa. Una Europa che vede, fra i paesi aderenti, governi che sono in Europa con un disegno politico opposto a quello disegnato da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni, nel Manifesto scritto a Ventotene, dove si trovavano confinati, perché antifascisti militanti.
Anche in paesi, come il nostro, che all’Europa, per quanto ancora incompiuta, hanno dato fiducia, sono in crescita forze ostili all’unità europea. Credo che un ritorno fra di noi di Spinelli lo vedrebbe incredulo, smarrito. Cosa vogliono? L’Ungheria, per esempio, perché fa parte dell’Unione europea? Mi unirei a lui in questo interrogativo, e chissà, con la sua lucida intelligenza, forse potremmo venirne a capo. Perché io, da sola, ho grandi difficoltà a trovare una riposta che mi soddisfi. Che soddisfi il mio europeismo. Mi sento profondamente europea. Non solo perché è un dato di fatto, geografico. Ma perché sono convinta – e per questo sono europeista, significato distinto da europea – che quella di Spinelli non sia stata una infondata profezia, ma un programma politico di valore non inferiore alla nostra Costituzione.
L’Europa di oggi è sotto i nostri occhi. Le opinioni sullo stato dell’Europa sono inevitabilmente plurali. Ma è necessario che dell’Europa si abbia presente anche il percorso storico, di assai lunga durata. Un percorso raramente presente nel discorso pubblico. E questo è un guaio. Perché l’Europa non è nata ieri, né, tantomeno, con l’euro. Tempo fa, in occasione di alcuni incontri, ho ricostruito un po’di questa storia. … Per avvicinarci al nodo, da dove viene l’Europa? Quale la sua storia? […]

Un voto per Ilaria Salis. Una sarda al Parlamento europeo

img_7517Comunicato stampa
Appello del Comitato sardo per l’elezione di Ilaria Salis al Parlamento europeo
L’annuncio della candidatura della giovane antifascista sarda Ilaria Salis alle elezioni europee tra le fila della lista Alleanza Verdi e Sinistra può determinare una concreta possibilità della sua liberazione da quelle condizioni di arresto e detenzione al limite dell’inumano da parte di un regime autoritario, reazionario e amico dei fascisti.
Per questo motivo, a Cagliari si è costituito il Comitato sardo per l’elezione di Ilaria Salis composto da singole personalità, movimenti, partiti e organizzazioni sindacali e sociali che ritengono che il trattamento riservato alla Salis nell’Ungheria di Viktor Orbán sia lo stesso riservato a chiunque si opponga ai rigurgiti di rinascita delle estreme destre xenofobe e neofasciste in tutta Europa.