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Che succede?

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ROSE BIANCHE PER DAVID. IL LAVORO SOSTENIBILE
18 Gennaio 2022 su C3dem.
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IL QUIRINALE E POI
18 Gennaio 2022 su C3dem
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Salute nel Mondo e in Italia

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IN PRIMO PIANO
Pandemia e scenario sanitario internazionale
17-09-2021 – di: Nicoletta Dentico su Volerelaluna*

A quasi due anni dall’inizio del contagio che piega il mondo, e delle inequivocabili pedagogie che assimilano l’emergenza umana all’emergenza sanitaria del pianeta, la salute domina la scena come scacchiera di una partita geopolitica aspra e confusa. L’annunciato nuovo coronavirus – che oramai tanto nuovo non è più – non avrebbe mai dovuto diventare una pandemia. Lo ha dichiarato senza fronzoli il rapporto del Panel Indipendente della Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms): la comunità internazionale aveva tutte le competenze tecniche e le regole operative vincolanti per serrare i confini del primo focolaio virale e farne una epidemia circoscritta geograficamente. Non lo ha fatto. La catastrofe sanitaria in cui ci troviamo ancora, con la fame acuita e la crisi socio-economica che fanno da corollario pandemico, è il frutto avvelenato della incapacità dei governi di aderire alle norme del diritto internazionale e di cooperare, come pur accadeva in passato durante la guerra fredda, sul terreno della salute.

Forse sulla scia di questa responsabilità storica non propriamente interiorizzata, la comunità internazionale continua a incontrarsi – non si sono mai visti tanti appuntamenti multilaterali sulla salute globale come nel 2021 – ma nella totale incapacità di andare oltre le formule di circostanza, che sono il metronomo della nostra vita pubblica. Il sostanziale rigetto di un impulso universalistico, sotto l’egida delle istituzioni internazionali deputate a governarlo, si è infilato come un virus nella Babele di iniziative individuali e di strutture che germinano come schegge di un multilateralismo in frantumi.

Qualche esempio? L’Europa ha avviato a gennaio una demarche a favore di un trattato pandemico in seno all’Oms; a maggio la Svizzera ha lanciato il suo BioHub e la Germania il suo l’Hub globale per la intelligence pandemica ed epidemica. A giugno il consigliere scientifico della Casa Bianca, Eric Lander, è partito con l’idea che un vaccino debba essere pronto in 100 giorni dallo scoppio della prossima pandemia e solo qualche giorno fa il presidente Joe Biden, assai poco propenso all’idea di negoziare un trattato, ha proposto un summit internazionale sul Covid-19 e sulle vaccinazioni in concomitanza con la Assemblea dell’ONU a New York. È notizia recente anche il piano di USA ed Europa di resuscitare l’esplosivo Transatlantic Trade and Investment Partnership (notorio come TTIP), dissotterrando il negoziato seppellito nel 2016 per ripescare l’alleanza atlantica in versione anti-Cina. La posta in palio della nuova rotta bilaterale, annunciata prima del G7, non punterà più solo a specifici settori dell’industria, ma all’intelligenza artificiale, alla governance dei dati, agli standard industriali tout court. Il primo incontro del Trade and Tech Council fra Bruxelles e Washington è previsto a Pittsburgh il 29 settembre .

La pandemia insomma ha ridisegnato i contorni dell’ordine internazionale, non solo sanitario, con impreviste forme di protagonismo e pigli di potere debitamente mascherati dalla retorica della interdipendenza, della cooperazione. La comunità internazionale si proietta in un futuro pandemico come fosse un destino a cui non può più sottrarsi. Vero: altre pandemie prosperano silenziose – ad esempio la antibiotico-resistenza, per cui l’Italia vanta il record di casi nel contesto europeo; incombe il pericolo di nuovi salti di specie dei virus, in linea di continuità con le incalzanti zoonosi che hanno marchiato l’inizio del millennio – visto che nessuno sembra intenzionato a mettere in discussione il conflitto irriducibile fra capitalismo e sostenibilità ecologica.

Ma la costruzione di uno scenario di “preparazione e risposta alle pandemie” (pandemic preparedness and response), al posto di una loro futura prevenzione, serve eccome a riconfigurare gli assetti della governance sanitaria mondiale. È una prospettiva munifica di benefici per quanti indirizzano la salute verso pratiche sempre più securitarie e personalizzate grazie a soluzioni tecnologiche non più obiettabili, perché considerate la strada più economica e affidabile per intercettare ogni avvisaglia futura. I cantori di questa strategia, tutt’altro che neutrale, apparecchiano danni ambientali non trascurabili ma soprattutto non trascurabili profitti per l’industria digitale che nessuno controlla, men che meno in tempo di pandemia.

Dal canto loro, è chiaro che le aziende che producono vaccini non hanno alcun interesse ad eradicare la pandemia, casomai puntano a endemizzarla, così da prolungare al massimo la grande abbuffata che Covid-19 ha servito su un piatto d’argento. Uno tsunami di investimenti pubblici e zero rischi d’impresa: in un anno la pandemia ha generato 8 nuovi miliardari farmaceutici, 5 dei quali afferiscono alla start up americana Moderna. L’idea di un Global Health Threats Board and Fund per gestire le emergenze sanitarie, avanzata dal Panel indipendente dell’Oms e dal G20 con la benedizione della amministrazione americana, va dritta in questa direzione: l’ennesimo dispositivo multi-stakeholder per una nuova immuno-politica farmaco-digitale. Con lauti finanziamenti pubblici, l’industria farmaceutica terrà ben stretto il coltello dalla parte del manico per sfornare le tecnologie bioinformatiche e le soluzioni biomediche per future pandemie.

Nell’aprile 2020, la creazione dell’Access to Covid-19 Tool Accelerator (ACT-A) per la ricerca e distribuzione globale dei rimedi contro il Covid – proposto dalla Fondazione Gates con l’estatica accoglienza della Commissione Europea e della presidenza francese, e l’imprimatur della Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) – ha decretato la scelta della comunità internazionale di affidare a partnership pubblico-private la gestione internazionale della prima crisi di salute planetaria. Sono entità di diritto privato e densamente popolate da Big Pharma come Global Alliance for Vaccine Immunization (GAVI) e Coalition for Epidemic Preparedness and Innovation (CEPI), che detengono la conduzione operativa della emergenza su scala globale, finanziata dai governi. Con inspiegabile euforia, l’analista brasiliano Carlos Federico Pereira da Silva Gama scrive che il pilastro vaccinale di ACT-A, COVAX, è il trampolino di lancio della nuova governance della salute globale dopo la pandemia. Peccato che COVAX sia «una sorta di banca d’affari che usa capitali pubblici per conformare l’industria della preparazione dei vaccini e il mercato dei consumatori nel Sud del mondo», con grave vulnus per la cooperazione multilaterale, secondo l’ex diplomatico Harris Gleckman.

Nella retrocessione e deformazione del ruolo dello Stato, i governi dei paesi più influenti non risultano quasi più distinguibili dal settore privato, ingabbiati come sono in politiche che generano iniquità, ma condite di parole positive che vengono di volta in volta profanate, sfigurate: People, Planet, Prosperity, Peace and Partnership. L’adesione governativa alle classiche istituzioni sanitarie multilaterali si è friabilizzata con la progressiva istituzionalizzazione degli interessi privati degli ultimi venti anni.

Oggi la surreale incapacità di un impegno governativo adeguato alla razionale pedagogia di Covid-19 non risparmia nessuno. Ne è un recente esempio la sessione ministeriale del G20 salute tenutasi a Roma il 5 e 6 settembre con il banner ufficiale “Together Today for a Healthier Tomorrow” (“Insieme oggi per un domani in miglior salute”). Questa si è conclusa con il cosiddetto “Patto di Roma”, un documento di undici pagine infarcite di aspirazioni altisonanti sistematicamente smentite dalla realtà di apartheid sanitario nella gestione della pandemia. Il ministro Roberto Speranza ha dichiarato che il Patto di Roma «manda un messaggio fortissimo al mondo: che il globo è unito». Ma le fonti raccolte alla vigilia dell’incontro, e il suo svolgimento seguito in diretta dai colleghi del G-20, raccontano di tensioni insanabili all’interno. Soprattutto, ma non solo, fra Stati Uniti e Cina. Tali per cui non si va oltre i luoghi comuni e la vaghezza operativa.

Così, nel secondo anno pandemico, la salute resta terreno di un confronto aspro. D’altronde, la disuguaglianza nella distribuzione e somministrazione globale dei vaccini restituisce una realtà molto netta: la solidarietà resta un miraggio, impigliata com’è nei fili spezzati di un multilateralismo di facciata. L’IMF-WHO COVID-19 Supply Tracker, il dispositivo che fornisce i dati aggiornati sulle linee di approvvigionamento certe o attese di vaccini in rapporto alla popolazione, spiega come Canada, Australia, Nuova Zelanda, Gran Bretagna e Stati Uniti si siano assicurati dosi per una copertura stimata tra 200 e 400% della loro popolazione. Ursula von der Leyen ha annunciato il 70% di copertura in Europa a fine agosto. Ma le 5,3 miliardi di dosi somministrate finora hanno raggiunto solo l’1,6% della popolazione del Sud del mondo, con la prima iniezione. E così 3,5 miliardi di persone attendono la prima vaccinazione, in uno scenario tecnicamente complicato da vaccini Covid inadatti ai paesi con scarse strutture sanitarie – si pensi alla improbabile catena del freddo, o alla necessità della doppia dose in assenza di registri vaccinali centralizzati.

Si contano 4,6 milioni di decessi a causa di Covid-19, ma il numero reale potrebbe essere almeno il doppio, visto che la pandemia è sempre più concentrata nei paesi del Sud globale. Così, mentre COVAX rivede al ribasso le proiezioni di fine anno per la distribuzione dei vaccini, lo iato tra accaparramento vaccinale dei paesi ricchi – oggi concentrati sulla terza dose – e la radicale penuria di vaccini nei paesi impoveriti si aggrava, soprattutto in Africa.

Si stima che la popolazione africana raggiungerà il 60% di copertura vaccinale solo nella metà del 2023 – con una perdita di PIL calcolata in ragione di 2,3 miliardi di miliardi di dollari tra il 2022 e il 2025. Nella sola Italia a presidenza G20 (60,36 milioni di abitanti) sono stati somministrati più vaccini di quanto non siano stati iniettati in tutto il continente africano (1,3 miliardi di persone). Come all’inizio, questa condizione spiana la strada alla cinetica del virus, più ostica in forza delle nuove varianti. E infatti i casi, le ospedalizzazioni, le morti stanno in risalita in molte parti del pianeta. Israele, la nazione apripista per le spregiudicate strategie vaccinali dell’inizio 2021, si ritrova in piena ripresa del contagio con la variante Delta dominante e la Mu che emerge sulla scena: 1.000 casi su 1 milione di abitanti, il numero più elevato al mondo.

Ma il G20 salute non demorde. Neppure il rutilante Patto di Roma, in cui i paesi del G20 si impegnano a fare di tutto, si azzarda a osare un minimo accenno alla concreta misura politica, prevista dal diritto internazionale, che riguarda la sospensione temporanea dei diritti di proprietà intellettuale (TRIPS Waiver). Fra i suoi Stati membri, il G20 annovera India e Sudafrica promotori della proposta: in febbrile discussione mentre scriviamo al Consiglio dei TRIPS, al WTO. Non basta l’insistenza di diversi governi del G20 in favore del waiver per trovarne un riferimento nel documento della ministeriale: la stucchevole retorica sul vaccino bene comune si incaglia per la seconda volta, dopo il summit sulla salute globale del G20 del 21 maggio, nel silenzio tombale su questa ipotesi di lavoro sostenuta da oltre cento paesi dell’Organizzazione Mondiale del Commercio e da molte istituzioni internazionali.

La sospensione dei diritti di proprietà intellettuale forzerebbe una transizione verso la logica di cooperazione tra Stati, spesso del tutto inconsapevoli dei meccanismi che regolano l’industria farmaceutica. Indicherebbe una possibilità di nuove rotte per immunizzare la comunità internazionale dal feudalismo della economia della conoscenza. Ma no: questo waiver non s’ha da fare, secondo il G20. Né ora né mai.

Anzi, la politica è in piena fase regressiva su questa materia. Covid ha dato alla UE il pretesto per rivedere il Piano di Azione sulla proprietà intellettuale a sostegno della strategia di Ripresa e Resilienza, per indirizzarlo al sconcertante rafforzamento della proprietà intellettuale e alla promozione sperticata delle licenze volontarie come «la via maestra per la condivisione della conoscenza». La stessa cosa sta facendo in Italia il MISE con il piano di riforma della proprietà industriale. Non deve dunque sorprendere la sindrome da rimozione del G20 e del Patto di Roma. Il documento cita sì la necessità di diversificare e rafforzare le produzioni medicali nel Sud del mondo, abbattendo però solo gli ostacoli commerciali e doganali. Il G20 prevede un complesso meccanismo di spinta pubblica alle aziende farmaceutiche perché trasferiscano le loro tecnologie con licenze volontarie che lasciano intatti i monopoli della scienza medica. Uno scenario che si sta dinamizzando da qualche mese, ma anche con vicende paradossali. Alla vigilia del G20 Salute, Ursula von der Leyen ha accettato alla fine di rimandare in Africa milioni di dosi di vaccini anti-Covid prodotti dalla joint venture di Johnson & Johnson e la sudafricana Aspen Pharmacare: erano stati esportati in Europa!

Intanto le decisioni del G20 che contano sulla salute saranno forse prese nella sessione congiunta salute-finanze di fine ottobre. Il sito del ministero della Salute lo annuncia: sarà la sede «per affrontare in particolare la questione fondamentale di come migliorare l’architettura globale della sanità». Spetta dunque alle logiche finanziarie sancire le priorità sanitarie da sostenere, in uno schema di gioco che rischia di ripetere quanto già visto dagli anni ’90 in poi con Banca Mondiale e FMI. Non c’è di che stare tranquilli: uno studio della Initiative for Policy Dialogue della Columbia University segnala uno tsunami di politiche di austerity in arrivo. Le analisi delle proiezioni fiscali del Fondo Monetario Internazionale (FMI) indicano che nuove misure di austerity sono attese in 154 paesi nel 2021 e in 159 paesi entro il 2022 – una pandemia finanziaria che si abbatte su 6,6 miliardi di persone, l’85% della popolazione mondiale, e con una tendenza patologica destinata a durare fino al 2025.

David Quammen ha scritto che non eravamo preparati alla pandemia per mancanza di immaginazione. Forse è questo il vero virus che uccide molto più di Covid.

*L’articolo, tratto dal sito di Sbilanciamoci!, è ripubblicato da Volerelaluna, con cui è in atto un accordo di collaborazione.
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Il Servizio sanitario nazionale è arrivato impreparato all’appuntamento con il COVID-19, penalizzato da anni di de-finanziamento, di tagli dei posti letto e del personale e da politiche che hanno inciso negativamente sulla tenuta dei servizi territoriali e di prevenzione. Ha mostrato le sue debolezze e fragilità. Rapidamente si è sviluppato un generale consenso politico sulla necessità di rafforzare il servizio sanitario nazionale. Ma passata la fase acuta della pandemia, la sanità è ben presto tornata a occupare la parte bassa della classifica delle priorità̀ del paese.
La conferma che non fosse in vista alcun rafforzamento del SSN è arrivata già lo scorso aprile quando il Governo ha reso note le previsioni di andamento della spesa sanitaria pubblica. Se dal 2017 al 2020 questa percentuale era rimasta ferma al 6,6% del PIL (tra le più̀ basse in Europa), impennandosi al 7,3% nel 2021 a causa delle spese COVID, la tendenza programmata negli anni successivi mira decisamente al ribasso: 6,7% nel 2022; 6,6% nel 2023 e addirittura 6,3% nel 2024.
Un pessimo segnale che indica il ritorno allo scenario che, a partire dal 2011, ha penalizzato il SSN, riducendo risorse umane e strutturali, tagliando l’offerta pubblica di servizi, provocando lo scandaloso allungamento delle liste d’attesa e favorendo l’espansione dell’offerta privata, trainata anche dalla diffusione di varie forme di assicurazioni integrative aziendali. La lezione della pandemia non è servita.
Diversi indizi stanno anzi a indicare che è sempre più attuale il disegno di privatizzare la sanità italiana, iniettandovi generose dosi di mercato.
Primo indizio: il personale del SSN al palo
Mentre si registra un grande attivismo per garantire ai soggetti privati l’accesso ai finanziamenti europei nessuna buona notizia arriva dal fronte del personale del SSN che nell’ultimo decennio ha subito una drastica riduzione. E non c’è alcun segnale di inversione di tendenza dati i limiti previsti nella spesa corrente e la mancata rimozione dei vincoli che limitano le assunzioni stabili. Infatti le assunzioni di medici e infermieri, effettuate in emergenza Covid, sono state tutte a tempo determinato. Ed è anche necessario un maggior impegno affinché le Università adeguino la loro offerta formativa alle esigenze della popolazione.
Nel frattempo continua la fuga all’estero del nostro personale sanitario. Nell’ultimo decennio sono 10mila i medici italiani migrati all’estero, che arrivano a rappresentare il 50% dei medici stranieri presenti in Europa. Questa è la priorità assoluta: formare ed assumere alcune migliaia di medici e infermieri nei servizi pubblici.
Secondo indizio: la lentezza nella ripresa dell’attività ordinaria
Durante la pandemia gran parte dei servizi sono stati ridotti o addirittura sospesi, con ricadute negative sulla salute delle persone. La ripresa delle attività ordinarie fatica ora a vedersi, e i pazienti si stanno abituando a evitare le strutture pubbliche, per lo più in ristrutturazione e riorganizzazione. Si ricorre quindi al privato che al contrario, avendo partecipato solo marginalmente alle attività emergenziali, non ha bisogno di grandi ricostruzioni. Il rischio è che i 500 milioni messi a disposizione per smaltire le liste di attesa siano destinati tutti al privato, anziché a rinforzare la ripresa delle attività nel SSN, indebolendo ulteriormente l’offerta pubblica e aumentando il potere di mercato di molti soggetti privati. Così come, i fondi del PNRR per l’assistenza domiciliare integrata rischiano di essere destinati a erogatori privati anziché a rafforzare la presa in carico globale e integrata da parte dei servizi pubblici.

Terzo indizio: concorrenza sleale
Nel marzo del 2021, l’Autorità̀ Garante della Concorrenza e del Mercato rivolgendosi al Presidente del Consiglio dei Ministri con la sua annuale Segnalazione di Proposte di riforma concorrenziale ha sollecitato: “… una maggiore apertura all’accesso delle strutture private all’esercizio di attività sanitarie non convenzionate grazie a … una più intensa integrazione fra pubblico e privato volta ad incentivare la libera scelta di medici, assistiti e terzo pagante”. Vi è anche l’invito a eliminare “… il vincolo della verifica del fabbisogno regionale di servizi sanitari, prevedendo che l’accesso dei privati all’esercizio di attività̀ sanitarie non convenzionate con il SSN sia svincolato dalla verifica del fabbisogno regionale di servizi sanitari”.
Ci auguriamo che il Governo respinga – come accaduto nel passato – una raccomandazione pericolosa che assimila gli ospedali alle imprese. Certamente si tratterebbe di concorrenza sleale il comportamento di un Governo che da una parte apre i rubinetti della concorrenza tra pubblico e privato e dall’altra lega le gambe al competitore pubblico.
Quarto indizio: il modello lombardo è OK
La lezione della pandemia avrebbe dovuto produrre profonde correzioni a un modello di sistema sanitario (dimostratosi fallimentare nella lotta al Covid) che aveva cancellato la rete dei servizi territoriali pubblici, affidando l’erogazione delle prestazioni domiciliari ad agenzie private, e instaurato in campo ospedaliero una concorrenza tra settore pubblico e settore privato, fortemente squilibrata a favore del secondo. Tale modello era il frutto di riforme avviate fin dal 1995 dalla presidenza Formigoni e proseguite con la riforma Maroni del 2015. Tale riforma aveva carattere sperimentale e soggetta, dopo 5 anni, alla valutazione da parte del Ministero della salute, che ha deciso di delegare tale funzione all’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali. Con una stringata lettera del 30 luglio scorso Agenas da il suo OK preventivo alla riforma, dopo che ne sono state annunciate minime, cosmetiche correzioni.
Alla vigilia della predisposizione della legge di bilancio 2022 e della annunciata legge sulla concorrenza, è indispensabile correggere questi indizi e la nostra Associazione presenterà un documento più dettagliato di analisi e proposte per intraprendere la strada giusta che permetta di rafforzare il sistema sanitario pubblico.
14 settembre 2021.
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Il documento presentato in conferenza stampa dall’associazione Salute Diritto fondamentale. Per maggiori informazioni potete utilizzare il sito: https://salutedirittofondamentale.it/.
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In homepage l’immagine “E guarirai da tutte le malattie… ed io, avrò cura di te” (Dio smaterializza la struttura molecolare del Coronavirus COVID-19 sull’Italia e sul mondo per porre fine alla pandemia del 2019-2020), china su graphia, opera dell’artista Giovanni Guida, 2020, tratta da Wikimedia Commons

Che succede?

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PROTEGGERE I RIFUGIATI E’ UN OBBLIGO. AIUTARE TUNISI. IL GOVERNO E LA SCUOLA
28 Luglio 2021 by Giampiero Forcesi | su C3dem.
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L’ACUTO DI RATZINGER. LA SELEZIONE DEI PRETI. PROCESSO IN VATICANO. LA FAME
27 Luglio 2021 by Giampiero Forcesi | su C34dem.
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Scelte energetiche per la Sardegna con (pretendiamo) o senza (disgraziatamente ma non lo consentiremo) i sardi.

294f7eb6-67ee-406a-9442-0058c855972c1925cdb5-9028-42c2-b2d1-5fa37eabad7f Ma lo vogliamo dire – senza ipocrisie, greenwashing e fumo negli occhi che la Sardegna (con la Sicilia) sarà il prossimo “hub energetico del Mediterraneo”? Ma stavolta qualcuno s’è almeno degnato di informare i cittadini sardi (e siciliani) e di chiedere il loro parere?” [S.D.]. lampadadialadmicromicro132 Riportiamo integrale l’intervento di Stefano Deliperi, autorevole esperto e militante ambientale, sulla questione delle scelte energetiche sarde, pubblicato oggi su il manifesto sardo. Come sempre documentato e approfondito. Condividiamo tutte le sue preoccupazioni e l’esortazione al governo sardo e alla classe dirigente sarda (e a tutti i sardi) di non restare a guardare, di non consentire che le scelte passino sopra le loro teste. Tuttavia l’intervento di Stefano appare non solo prudente, come è giusto, ma eccessivamente attendista e timoroso di schierarsi sulle scelte di fondo (le rinnovabili, per semplificare) sulle quali rammentiamo che si è sempre espresso chiaramente, personalmente e a nome del GIG*, quando forse la compagnia che le condivideva non comprendeva adesioni sospette (?). Per quanto ci riguarda, con tutte le precisazioni del caso, abbiamo espresso una nostra chiara opinione a favore delle rinnovabili e delle scelte energetiche del Governo (e di Terna/Enel) che riguardano la Sardegna (e non solo), pur con tutte le richiamate cautele e condizioni – peraltro in sintonia con le associazioni ambientaliste sarde riunite nell’alleanza “Sardegna rinnovabile” – alla quale rinviamo. A proposito della posizione della citata alleanza, contrariamente a quanto sostiene Deliperi (“Alcune di quest’ultime già arruolate per sostenere la Sardegna green senza se e senza ma”) ne apprezziamo la tempestività e la chiarezza, che non esclude la vigilanza e l’esercizio della critica. Lo verificheremo nel tempo che viene. Intanto registriamo una presa di posizione di comitati e amministratori , dando informazione di una “nota stampa che riporta le conclusioni dell’assemblea dei comitati, degli amministratori locali, delle associazioni e formazioni politiche, dei sindacati di base e identitari, riunita a Bauladu il giorno 4 luglio 2021”. Si richiede una “moratoria contro tutti i nuovi progetti per la realizzazione di grandi impianti fotovoltaici ed eolici previsti in aree agricole e contro la realizzazione delle infrastrutture per l’approvvigionamento, il trasporto e la distribuzione del gas”. Ma ci torneremo. Una cosa è certa: il dibattito va portato avanti con determinazione e senza infingimenti. Nel nostro piccolo noi ci siamo e ci impegnamo.
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La Sardegna sta per essere assoggettata alla servitù energetica fra silenzi, greenwashing e fumo negli occhi
16 Luglio 2021 su il manifesto sardo.
[Stefano Deliperi]
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DIBATTITO sul Ceta: 2) Chi non si oppone e richiede scelte ponderate

lampada aladin micromicroSu Aladinpensiero online: https://www.aladinpensiero.it/?s=Ceta+Vanni+Tola
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In argomento ripubblichiamo l’articolo di Vanni Tola, su Aladinpensiero del 19 luglio 2018.
header-home-ceta_00sedia di VannitolaLa sedia
di Vanni Tola.
Trattati internazionali per regolamentare gli scambi commerciali. Il governo “naviga a vista” rischiando di andare a sbattere. Il caso del trattato con il Canada (CETA) che ha finora favorito l’export italiano e che il governo non intende ratificare.
Negli ultimi decenni si sono attivate nel mondo complesse manovre di riposizionamento delle grandi potenze capitalistiche intercontinentali che hanno al centro la questione di una nuova regolamentazione dei commerci transnazionali, l’allargamento dei mercati, la ridefinizione di quelle che un tempo si chiamavano “aree d’influenza” delle grandi nazioni. Tale processo ha dato origine alla programmazione e stipulazione di diversi trattati commerciali intercontinentali i più noti dei quali sono certamente il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) e il più recente CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement) del quale sentiremo parlare in Italia in questi giorni. [segue]

Per salvare la nostra Casa, la Terra! Un’alleanza per il clima, la Terra e la giustizia sociale

coordinamento-democraziaPubblichiamo il documento Laudato Si’, risultato di un lavoro a molte voci, su iniziativa della Casa della carità di Milano. Un lavoro aperto perché è possibile tuttora avanzare suggerimenti, proposte e perché le varie posizioni non sono giustapposte, ma convivono l’una a fianco dell’altra e come ricorda Maria Agostina Cabiddu non c’è un prendere o lasciare di tutto il documento.
- Il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, che ce lo ha inviato, sottolinea di essere interessato a questo lavoro, in cui tanti si sono impegnati come singoli e come associazioni.
- Questo documento è presentato da brevi scritti di Raniero La Valle e di Maria Agostina Cabiddu, entrambi componenti del direttivo nazionale del Cdc, che hanno partecipato al lavoro di costruzione del documento.
- La Valle in particolare pone un problema politico fondamentale: trovare le modalità per attuare politiche che non sono realizzabili senza un salto di qualità di strumenti e di iniziative.
- Può sembrare un’utopia. In realtà le utopie sono necessarie per individuare percorsi nuovi, per avere una nuova stella polare istituzionale e politica. Basta ricordare che per regolare I rapporti tra i mercati nazionali è stata costruita una struttura sovranazionale come il WTO, come del resto ne sono state costruite altre.
- Oppure sono stati ipotizzati trattati tra grandi aree del mondo per regolare i commerci, come quello tra Europa e Canada.
- Perché mai i mercati debbono potere proporre e attuare discutibili proposte di regolazione, che arrivano a mettere sullo stesso piano gli Stati e le multinazionali, mentre se si tratta di cambiare in profondità il sistema economico, le sue relazioni, i suoi obiettivi tutto questo viene liquidato come una utopia ?
- In fondo il milione di giovani e ragazze che ha manifestato per il clima e l’ambiente in tutto il mondo, proseguendo l’impegno e il protagonismo proposto da Greta Thumberg pone esattamente il problema della svolta politica ed istituzionale di cui c’è bisogno.
- La Valle con la consueta lucidità pone il problema, ipotizza delle soluzioni. La soluzione concreta dipenderà da tutti noi e quindi è bene che se ne discuta.

Per La Presidenza di CdC
Alfiero Grandi
28/5/2019
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logo-laudato_sii_homeDOCUMENTI UTILI

- La Valle – presentazione.pdf

- Cabiddu – Commento.pdf

- Un’alleanza per il clima, la Terra e la giustizia sociale 13 maggio 2019.pdf

CETA. Il governo “naviga a vista” rischiando di andare a sbattere

header-home-ceta_00sedia di VannitolaLa sedia
di Vanni Tola.
Trattati internazionali per regolamentare gli scambi commerciali. Il governo “naviga a vista” rischiando di andare a sbattere. Il caso del trattato con il Canada (CETA) che ha finora favorito l’export italiano e che il governo non intende ratificare.
Negli ultimi decenni si sono attivate nel mondo complesse manovre di riposizionamento delle grandi potenze capitalistiche intercontinentali che hanno al centro la questione di una nuova regolamentazione dei commerci transnazionali, l’allargamento dei mercati, la ridefinizione di quelle che un tempo si chiamavano “aree d’influenza” delle grandi nazioni. Tale processo ha dato origine alla programmazione e stipulazione di diversi trattati commerciali intercontinentali i più noti dei quali sono certamente il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) e il più recente CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement) del quale sentiremo parlare in Italia in questi giorni. [segue]

EuropaCheFare?

sardegnaeuropa-bomeluzo44-300x211L’Europa è in crisi perenne: ecco cinque punti (necessari) per uscirne
Perché i documenti e i proclami di unità non vengano disattesi dai fatti e dalla storia è necessario che alcuni punti del patto che unisce i paesi europei siano rivisti: dall’idea di EU a più velocità, alle politiche di difesa
di Francesco Grillo
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«L’Europa sarà forgiata dalle sue crisi e sarà la somma delle soluzioni trovate per risolvere tali crisi»: Jean Monnet, primo presidente della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio e padre del progetto di cui si sono appena celebrati i sessanta anni, spiegò – meglio di chiunque altro – che la forza dell’Unione Europea era nella sua precarietà. E nel fatto di non avere alternative.

Ma quali sono oggi le soluzioni disponibili all’Europa alle prese con la sua crisi più acuta? Quali soluzioni concrete riusciamo a intravedere dietro la valanga di parole, comprese quelle di una dichiarazione firmata a Roma che rassicura che “l’Europa è indivisa ed indivisibile” proprio quattro giorni prima che all’Europa arrivi ufficialmente, per la prima volta, la richiesta di uno dei propri membri di separarsi dagli altri? Io credo che siano tre gli elementi che stanno emergendo e che, forse, fanno una proposta sulla quale cominciare a costruire un progetto politico transnazionale. Rinunciando ad una retorica – priva di risultati – che è, forse, il nemico peggiore di un sogno che appartiene a tutti.

Anche tra i paesi fondatori dell’Unione Europea esistono vere e proprie faglie, come quelle che hanno messo l’Italia contro la Germania sulle politiche di austerità, e focolai di dissenso nei confronti dell’Europa (come quelli che in Francia fanno del Fronte Nazionale il primo partito)

Più che a “multi velocità”, l’Europa del futuro sarà a “piani”. A ciascuno, però, dovrà corrispondere una condivisione di poteri piena e senza più ambiguità. L’idea delle “diverse velocità” è, in effetti, sbagliata in partenza. Sbagliata perché fa pensare che tutti si dirigono verso lo stesso obiettivo, distinguendo però tra Soci “d’oro” ed altri di caratura più bassa. E gettando, quindi, basi solide per ulteriori liti nel club. Ma sbagliata anche perché ipotizza che tra quelli di Serie A, ci siano, necessariamente, tutti e sei i Paesi fondatori (come ha precisato Gisgard D’Estaing) trascurando che, invece, anche tra i fondatori esistono vere e proprie faglie (come quelle che hanno messo l’Italia contro la Germania sulle politiche di austerità) e focolai di dissenso nei confronti dell’Europa (come quelli che in Francia fanno del Fronte Nazionale il primo partito).

Più interessante, invece, è ipotizzare (come fa l’Economist) che l’Europa accentui quella che è già una sua caratteristica: a diverse tipologie di politiche da condividere, corrispondono diverse aggregazioni. Succede già con l’Unione che è a 27 membri, ma che nel “mercato comune” arriva a 32 e scende a 19 con l’Euro. La differenza, però, è che, da questo momento, le scelte volontarie, dovranno essere chiare e non ambigue.

Far parte di una Schengen riformata, non potrà che comportare – per ragioni logiche e valoriali – l’accettazione di una frontiera comune, con un’unica polizia doganale e, ovviamente, un unico diritto d’asilo. Continuare a far parte dell’Euro non potrà che significare, mettere insieme le politiche fiscali ed economiche ed avere un unico Ministro responsabile di fronte ai contribuenti. Lo stesso varrà per le politiche di sicurezza o di difesa che sono tecnicamente impossibili se non rispondono ad un unico comando e ad apparati che condividono informazioni. Un’Europa fatta di scelte serie ma a geometria variabile; capace di superare i limiti dell’idea stessa hegeliana) di Stato moderno (indivisibile); ma anche di estendersi ulteriormente a chi non ne fa parte (ad Israele o alla Tunisia che, forse, sarebbero più forti se più vicini).

Continuare a far parte dell’Euro non potrà che significare, mettere insieme le politiche fiscali ed economiche ed avere un unico Ministro responsabile di fronte ai contribuenti. Lo stesso varrà per le politiche di sicurezza o di difesa che sono tecnicamente impossibili se non rispondono ad un unico comando

La scelta di far parte dell’Europa (in una delle sue configurazioni) dovrà, però, essere anche pienamente democratica. È impensabile pensare di continuare ad andare avanti con gli sherpa. Così come è impensabile costruire una qualsiasi delle integrazioni che abbiamo appena citato, senza fare la fatica di coinvolgere i cittadini. Sono loro i beneficiari, il motore e i difensori di ultima istanza di un progetto che non può più appartenere ad élite che hanno fallito. È, dunque, velleitaria qualsiasi ulteriore ipotesi di integrazione se non ci porremo – subito – il problema di incoraggiare lo sviluppo di un’opinione pubblica capace di aggregarsi sui grandi temi in movimenti transnazionali (come proverà a fare Varoufakis). Di istituire per il Parlamento Europeo collegi elettorali non più su basi nazionali (e con un forte utilizzo di voto elettronico). Di investire in un demos europeo, a partire dalle generazioni più giovani per le quali occorre rendere ERASMUS immediatamente disponibile a tutti.

Infine, poi, a ciascun matrimonio dovrà corrispondere una realistica possibilità di divorzio. Le unioni peggiori sono, proprio, quelle che non si possono sciogliere. Perché trasformano l’amore in una spirale di ricatti. Come è successo con la Grecia. L’Unione del futuro dovrà avere anche questa forma di flessibilità. Proprio per rendere meno traumatiche le crisi e le scelte iniziali; più liberi i suoi contraenti e più capaci di reinventare le ragioni per stare insieme senza litigare. Ovviamente non è pensabile che – all’improvviso – si possa sciogliere una politica di difesa comune. E, tuttavia, deve essere ipotizzabile che – dopo un certo periodo di tempo, più o meno lungo a seconda della politica – gli alleati abbiano la possibilità di verificare i termini dell’accordo e, eventualmente, uscire secondo regole pre-definite.

L’Europa attuale ovviamente non si butta domani. Ma va studiato un percorso per arrivare ad una configurazione molto più flessibile e concreta. E, dunque, capace nei fatti di traghettare nel ventunesimo secolo un sogno che cominciò mettendo insieme le industrie del carbone e dell’acciaio. Più del populismo, il nemico è l’inerzia: rischia di portarci, all’improvviso, in quella dimensione che stanno sperimentando milioni di giovani inglesi ed europei che studiano e lavorano a Londra e che si sono trovati in una situazione che non avevano, mai, seriamente preso in considerazione.
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Il vero argine ai populisti si chiama papa Francesco
Nessuno a Roma a marciare contro o a favore dell’Europa. Tutti a Milano per il pontefice, che si scaglia contro l’Europa della paura. Il successo di folla del Papa “pop” mostra il disorientamento in cui sono caduti sia il populismo, sia la politica “tradizionale”, sia il sistema dell’informazione
di Flavia Perina

C’è una durissima lezione per la politica e per i media nel week end appena trascorso, una lezione data dal confronto – che tutti hanno notato – tra le colossali folle mobilitate dal Papa nella sua giornata milanese e la risibile partecipazione popolare alle manifestazioni anti-europee indette a Roma, che pure erano state preannunciate come temibili, enormi, probabilmente violente e avevano beneficiato di un battage pubblicitario intensissimo.
Non è la prima volta che succede. Da molto tempo le persone, le folle – le masse, si sarebbe detto una volta – si muovono all’improvviso per eventi imprevedibili e imprevisti, del tutto fuori dall’agenda dei partiti e del sistema della comunicazione. Secondo questa agenda, al centro della preoccupazione e quindi della mobilitazione popolare, dovrebbero esserci in questa fare i temi dettati dal populismo e dal cosiddetto sovranismo, di destra e di sinistra: insicurezza, immigrazione, ma soprattutto critica all’Europa, e talvolta odio per l’Europa. Un sentimento che si rappresenta come travolgente e diffuso fino al punto che persino i leader di partiti di governo, da Matteo Renzi a Silvio Berlusconi, hanno giudicato indispensabile negli ultimi anni inseguirlo, farsene partecipi talvolta con proposte strampalate pur di recuperare consenso.

Da molto tempo le persone, le folle – le masse, si sarebbe detto una volta – si muovono all’improvviso per eventi imprevedibili e imprevisti, del tutto fuori dall’agenda dei partiti e del sistema della comunicazione

E’ una percezione della realtà che appare, alla luce degli eventi del week end, di scarsissimo fondamento. E non c’entra solo l’innegabile carisma di Francesco. Nel settembre dello scorso anno si scoprì all’improvviso, grazie a colossali manifestazioni in Germania – un Paese poco aduso alla protesta – che un tema laterale e giudicato “specialistico” come il Ttip, il trattato di libero scambio Europa-Usa, era in realtà ben conosciuto e assai inviso a larghissime fasce della popolazione, pronte a scendere in piazza per fermare i governi (che infatti si fermarono). Il 26 novembre scorso, qui da noi, in Italia, centomila donne invasero Roma per una protesta contro la violenza, un corteo di cui nessuno aveva previsto la consistenza, poco pubblicizzato, non sostenuto dalle consuete “macchine della partecipazione” sindacali o poliche che in quel momento erano occupate col referendum costituzionale. E allo stesso modo, in anni precedenti, la politica e i media furono stupiti da fenomeni di massa come gli Indignados, o Occupy Wall Street, che da un giorno all’altro rivelavano l’esistenza di sentimenti così radicati e forti da rompere l’abituale disincanto del Villaggio Globale e spingere le persone a vestirsi, uscire di casa, partecipare “fisicamente” a qualcosa anziché limitare l’adesione a qualche click.

Ora, a sorprenderci, sono le masse che si muovono per ascoltare di persona Francesco. Ed il suo discorso per i sessant’anni dell’Europa – quello in cui mette in guardia contro la cultura della paura, dell’egoismo, della difesa piccina del proprio orto – non è solo il più “alto” e convincente, ma anche il più partecipato. Quello che può rivendicare il maggiore e più visibile consenso popolare, mentre i sedicenti “portavoce del popolo” restano isolati nelle loro nicchie rancorose o nella loro sterile visibilità social. La politica avrebbe il dovere di approfondire, anziché limitarsi alla spiegazione consolatoria del “Papa Pop” (come titola l’ultimo numero di Rolling Stones, mettendolo in copertina in una posa alla Fonzie). Dovrebbe, ad esempio, interrogarsi consenso effettivo dei cosiddetti populismi e sovranismi, e più in generale dell’intero racconto anti-europeo: quanto di esso corrisponde davvero a un sentimento diffuso, e quanto è legato a una resa culturale delle elìtes, al loro “dare per scontato” che quello sia il campo dove competere?

La politica avrebbe il dovere di approfondire, anziché limitarsi alla spiegazione consolatoria del “Papa Pop” (come titola l’ultimo numero di Rolling Stones, mettendolo in copertina in una posa alla Fonzie)

Angelo Panebianco ci ha spiegato, di recente, che le egemonie politico-culturali non nascono necessariamente dalla forza e dall’intelligenza di chi le costruisce e le cavalca con spregiudicatezza, ma assai spesso dalla resa di chi dovrebbe coltivare un pensiero critico e suggerire altre strade, altre soluzioni. In Italia questa resa è più palese che altrove perché non c’è area che si sottragga all’inseguimento della xenofobia, dell’approccio securitario ai problemi, della logica del sospetto e della paura, e naturalmente al racconto dell’Europa matrigna, nella convinzione che il consenso ormai si possa conquistare solo così, parlando alle famose “pance del Paese”. Dopo la giornata di sabato, dopo aver visto da una parte il populismo senza popolo e dall’altra le colossali folle radunate intorno a questo Papa e al suo messaggio totalmente controcorrente, qualche dubbio bisognerebbe cominciare a porselo.
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SardegnaCheFare?
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DIBATTITO. Questa Europa è in crisi e la Sinistra non riesce a trovare proposte convincenti per un’altra Europa

bandiera-SardegnaEuropa1eddyburgSOCIETÀ E POLITICA
Europa, la minaccia della disintegrazione
«Dalla Brexit alla divisione tra Nord e Sud alle politica in materia di migrazioni. La crisi del processo di integrazione europeo nel rapporto Euromemorandum 2017 che verrà presentato a Roma il 16 marzo».
Sbilanciamoci info, 2 marzo 2017 (c.m.c.)

La crisi del processo di integrazione europeo ha molte sfaccettature e si è aggravata negli ultimi anni. Il sintomo più visibile è stato il referendum britannico sull’uscita dalla Ue, ma questo non è certo l’unico indicatore del diffondersi delle tendenze disgregatrici e delle crescenti contestazioni alle politiche europee.

Brexit

La disintegrazione dell’Unione è stata introdotta esplicitamente nell’agenda politica dal referendum britannico. Si può inquadrare il risultato del referendum nel contesto globale delle rivolte contro le élite politiche. La crescita delle diseguaglianze, l’insicurezza economica, la stagnazione o diminuzione del reddito subita da larghi strati di popolazione, insieme alla riduzione dei servizi pubblici, sono i fattori alla base di questo malcontento, le cui espressioni politiche variano enormemente.

In Gran Bretagna, come in molte altre nazioni, gli immigrati sono diventati i capri espiatori, accusati di aver causato problemi economici, quando in realtà la mobilità dei capitali, non del lavoro, è stata una delle principali cause della riduzione degli standard di vita medi e dell’erosione dei diritti dei lavoratori e della protezione sociale. In Gran Bretagna un altro capro espiatorio è stato trovato nei più bisognosi e sia i conservatori che i laburisti, prima del cambio nella leadership del partito, hanno invocato un’ulteriore riduzione dei già inadeguati livelli di protezione sociale.

Durante la coalizione tra conservatori e liberal-democratici, nel 2010-2015, i demagoghi dell’Independence Party britannico (Ukip), sono riusciti a indirizzare il malcontento popolare contro la Ue e a fomentare un nazionalismo xenofobo, che individua i nemici nei lavoratori provenienti dagli altri Paesi dell’Unione. La crescente forza dell’Ukip ha allarmato i partiti tradizionali. Ciò che ne è seguito è stato, almeno in parte, guidato dal caso.

Per cercare di fermare l’avanzata politica dell’Ukip, il primo ministro britannico David Cameron ha promesso un referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione, in un momento nel quale la coalizione al governo sembrava destinata a continuare a governare il Paese; poiché i liberal-democratici non avrebbero mai potuto condividere la decisione di tenere il referendum, i conservatori erano sicuri che tale promessa non avrebbe potuto realizzarsi nella pratica. Tuttavia, l’inaspettata vittoria di una maggioranza conservatrice alle elezioni ha costretto Cameron a rispettare l’impegno preso.

Il trionfo della campagna del leave (uscire dalla Ue) ha coinvolto due grandi correnti politiche: da una parte il nazionalismo xenofobo promosso dall’Ukip; dall’altra la corrente ultra-liberale interna ai conservatori. Michael Gove e John Redwood, due conservatori membri del parlamento britannico, hanno visto l’Europa come un ostacolo al capitalismo globale deregolamentato di cui sono promotori. Nigel Lawson, ministro dell’economia britannico negli anni ottanta, sostenitore di questa corrente scrisse “la Brexit completerà la rivoluzione economica iniziata da Margaret Thatcher”.

Queste due correnti sono potenzialmente in conflitto, poiché la radicale deregolamentazione proposta dai conservatori porterebbe, con molta probabilità, ad accrescere la precarietà economica della maggior parte della popolazione. Sino a oggi tale conflitto è, tuttavia, rimasto sopito. D’altra parte, però, è già scoppiato un aperto conflitto all’interno del governo post-Brexit di Theresa May. Alcuni ministri, influenzati da potenti gruppi di interesse – quelli finanziari innanzitutto – sono preoccupati per le possibili conseguenze dell’uscita del Regno Unito dal Mercato Unico e dai rischi di instabilità economica, che hanno portato a un forte deprezzamento della sterlina. Essi stanno adoperandosi per una ligth-Brexit, una interpretazione minimalista dell’uscita dall’Unione, che preservi il più possibile lo status quo. Altri, invece, sono determinati nel dare seguito alle richieste populiste di controlli sull’immigrazione, anche a costo di distruggere i rapporti con la Ue. Non è ancora chiaro quale delle due strade verrà seguita.

Le posizioni e le argomentazioni del movimento laburista sono state quasi ininfluenti nel dibattito referendario. La posizione accettata quasi unanimemente dal partito è stata che l’Europa, per come è adesso, non fa gli interessi dei lavoratori, ma un’uscita dall’Unione associata a un programma politico xenofobo e a un’agenda che punta alla deregolamentazione non può certo migliorare la situazione. Nonostante questa posizione fosse più che ragionevole, la debolezza del partito laburista, unita alla posizione pro-Brexit della stampa di destra, ha fatto sì che essa risultasse marginale nel dibattito.

La Brexit ha reso concreta la minaccia che forze centrifughe possano erodere, o forse addirittura distruggere, il progetto europeo. In particolare, il trionfo, con la Brexit, di due portati della destra radicale – liberismo economico estremo e nazionalismo xenofobo – rafforzano le tendenze disgregatrici in tutta Europa. Il fallimento dei leader europei nel rispondere al malessere sociale, che trova invece una distorta espressione in queste forze distruttrici, aumenta certamente le minacce per l’Unione. La passività con cui essa sta affrontando l’avanzata delle forze nazionaliste in tutta Europa è in evidentemente contrasto con la durezza e determinazione con le quali è stata schiacciata la proposta, razionale e pro-europea, di superamento dell’austerità in Grecia.

La divisione Nord e Sud nell’area euro

Non è stato solo il primo ministro britannico Cameron a spargere il seme della discordia in Europa. A suo modo, il ministro delle finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, ha fatto lo stesso quando, a luglio dello scorso anno, confrontandosi con il governo greco, non ha dato alternative se non accettare l’austerità e le riforme strutturali richieste o lasciare l’area euro. Schäuble, che già nel 1994 aveva proposto un’Europa caratterizzata da un nucleo centrale, ha chiarito che l’appartenenza all’Unione dei Paesi (quelli periferici!) è reversibile, se questi non si adeguano ai cambiamenti strutturali e all’austerità fiscale e salariale.

Il governo guidato da Syriza non era pronto ad affrontare l’uscita dall’euro e, sotto fortissima pressione, ha accettato le condizioni imposte dagli altri Stati membri dell’area euro, guidati dalla Germania. A causa della continua contrazione della domanda interna, nel 2015 il Pil greco è diminuito ancora dello 0.2%, mentre il tasso di disoccupazione è rimasto attorno al 25%. Se le politiche restrittive hanno abbassato il deficit della bilancia commerciale, senza peraltro affrontarne le cause, hanno però peggiorato i problemi legati al debito greco. Negli ultimi mesi, il conflitto tra Europa e Fondo Monetario Internazionale sulla sostenibilità del debito pubblico greco e la necessità di un suo taglio si è intensificato. I Paesi dell’Europa centrale, tra cui la Germania, sono particolarmente riluttanti all’idea di tagliare il debito greco, nonostante i loro governi siano pienamente coscienti del fatto che ciò sarà inevitabile.

I programmi di adeguamento strutturale sostenuti dalla Commissione Europea e dai governi del nucleo centrale europeo, non hanno affrontato la profonda divisione che corre tra Nord e Sud, né il problema della debolezza delle strutture produttive e della deindustrializzazione nella periferia Ue. Il deprezzamento dell’euro, unito al trasferimento del turismo di massa da Egitto, Turchia e Tunisia ai Paesi dell’ovest del Mediterraneo, ha alleviato la situazione di Spagna e Portogallo.

Analogamente, la riduzione del grado di restrittività delle politiche macro deciso sia dal governo provvisorio della destra in Spagna, sia dal neo eletto governo progressista portoghese, con la sua aperta politica anti austerità, hanno contribuito a una qualche, lieve ripresa economica. Nonostante i due governi non abbiano rispettato le regole di bilancio imposte dalla Commissione Europea, in autunno 2016 non sono stati sanzionati. Anche il governo tedesco ha sostenuto questa decisione, il che ha lasciato margine di manovra al partito popolare spagnolo, importante alleato del tedesco Cdu/Csu, in uno scenario politico particolarmente incerto. Tuttavia la flessibilità concessa non deve essere interpretata come un cambio di direzione generale.

Sebbene i Paesi del nord Europa godano di un tasso di disoccupazione più basso rispetto a quelli del sud, sono anche loro esposti ai pericoli causati dagli squilibri presenti nell’economia europea. Ad esempio, essi sono, data la loro apertura economica e commerciale, particolarmente vulnerabili all’eventualità di una recessione indotta dalla Brexit in Gran Bretagna e nei maggiori Paesi europei. La crescita delle esportazioni (misurate in valore per includere il petrolio norvegese), dopo una lieve ripresa successiva alla crisi, è stata bassa in tutti i Paesi del nord (con l’eccezione dell’Islanda).

La situazione in Svezia e Norvegia è stata in qualche modo alleggerita grazie alla variabilità del tasso di cambio delle rispettive monete, mentre la Finlandia, facendo parte anche dell’Unione Monetaria, non ha potuto far fronte con il deprezzamento della moneta agli specifici shock che l’hanno colpita – i problemi della Nokia e le sanzioni alla Russia in particolare –, la qual cosa sarebbe stata particolarmente necessaria per sostenere l’industria del legno e dell’acciaio.

Analogamente, in Danimarca l’ancoraggio della moneta all’euro ha contribuito alla stagnazione delle esportazioni, sin dal 2010. Sebbene il flusso dei migranti abbia causato una crescita della spesa pubblica in Svezia, tale politica attiva discrezionale non è stata usata per aumentare l’occupazione; in Finlandia, invece, la crisi è stata ulteriormente aggravata dalle politiche di correzione fiscale mirate a soddisfare le richieste europee. In generale, l’ortodossia economica non ha permesso politiche di bilancio attive e solo la politica monetaria fortemente espansiva della Bce e delle banche centrali svedesi e norvegesi, con il loro pericoloso impatto sui prezzi delle case, ha permesso alla spesa interna di compensare, almeno parzialmente, la bassa domanda di esportazioni.

I rifugiati e la rottura dell’area Shengen

L’arrivo di un gran numero di rifugiati dal Medio Oriente e dai Paesi africani nel 2015 e a inizio 2016 ha evidenziato le spaccature interne alla Ue. Mentre le procedure non formalizzate utilizzate per gestire la crisi hanno portato a scaricare il peso sui Paesi periferici, la regolamentazione Ue sui rifugiati – derivante dalla Convenzione di Dublino – indica esplicitamente che a farsi carico dei migranti devono essere i Paesi di primo ingresso nell’Unione, tipicamente i più poveri. Nel 2015 questa scelta ha messo particolarmente in difficoltà la Grecia. Nell’estate del 2015 è apparso evidente che il governo greco – già affamato dalle politiche di austerità – era ormai sopraffatto dall’emergenza.

La decisione del governo tedesco di accogliere i rifugiati di guerra, particolarmente siriani, ha aiutato la Grecia, ma ha comportato problemi con altri governi, dall’Ungheria alla Svezia. Essa, assunta senza previa consultazione degli altri Paesi, ha riconosciuto implicitamente il fallimento degli accordi di Dublino. Da settembre 2015 a marzo 2016 sono state adottate soluzioni temporanee, non previste dalla normativa in vigore, come quella dei corridoi umanitari tra Germania e Croazia, attraverso i quali ai rifugiati è stato consentito di raggiungere l’Europa centrale.

Queste misure sono state, però, fortemente avversate da forze nazionaliste conservatrici come il governo di Fidesz in Ungheria. Esse si sono fortemente mobilitate per chiudere le frontiere agli immigrati e costruire muri. Queste istanze hanno trovato risonanza nei partiti cristiano-democratici e, addirittura, in alcuni partiti social-democratici. Rappresentanti di alto rango di governi come quello ungherese e austriaco sono andati in visita in Macedonia – Paese candidato a entrare nell’Unione – elogiando come questa stesse difendendo i confini “europei”. Implicitamente, hanno così mostrato come ci sia un Paese considerato “ridondante” nell’area Shengen – ancora una volta la Grecia.

I Paesi Ue si sono dimostrati incapaci di trovare una nuova formula per distribuire gli oneri associati alla crisi dei migranti. Invece di un più che giustificato approccio umanitario associato a circostanze eccezionali, hanno optato per esternalizzare la gestione del problema. A tal fine, il 10 marzo 2016 è stato siglato un accordo con la Turchia, che prevede che essa accetti i rifugiati in cambio di soldi, mentre la Ue si impegna a ricevere un numero limitato di rifugiati siriani provenienti dalla Turchia; inoltre, è prevista l’accelerazione dei negoziati di accesso della Turchia all’Unione e l’abolizione del visto per l’ingresso nella Ue dei cittadini turchi. In pratica, il governo turco ha bloccato i rifugiati in Turchia, impedendogli di raggiungere la Ue, in cambio dell’acquiescenza europea rispetto al carattere sempre più repressivo del regime che governa quel Paese.

L’imposizione del Comprehensive Trade and Economic Agreement col Canada (Ceta)

Alla fine di ottobre 2016 la Commissione e, più in generale, tutte le forze liberiste hanno utilizzato tutti gli strumenti a loro disposizione per far sottoscrivere a tutti gli Stati membri il trattato Ceta con il Canada. Il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, ha elogiato questo accordo di libero scambio come “il più progressivo” mai siglato dall’Unione. Forti correnti interne ai partiti di sinistra, ai sindacati e ai movimenti sociali hanno, però, visto in questo accordo molti elementi regressivi dal punto di vista della democrazia e dello stato di diritto.

Una delle clausole più controverse riguarda la creazione di un tribunale che permetterebbe agli “investitori” (le grandi multinazionali) di citare in giudizio i governi per ottenere compensazioni economiche nei casi in cui ritengano che la regolamentazione nazionale leda i loro diritti, così precostituendo un privilegio legale per le imprese multinazionali. Altri elementi di preoccupazione riguardano, fra gli altri, i servizi pubblici e gli standard sanitari. Accordi commerciali come il Ceta scolpiscono nella roccia le regole liberiste, riducendo grandemente lo spazio per una ri-regolamentazione democratica. Le negoziazioni per il Ceta sono rimaste riservate a lungo, nascoste all’ombra delle trattative per la Transatlantic Trade and Investment Partnership (il Ttip), basata sulla stessa filosofia.

Quando le negoziazioni per il Ttip sono saltate, viste le forti resistenze, le forze del libero mercato hanno messo l’approvazione del Ceta fra le loro priorità. Di fatto, molte società americane hanno sedi in Canada e possono, perciò, comunque avvalersi del Ceta. In un certo senso, il Ceta è un sotterfugio per imporre comunque le regole del Ttip. Sebbene in Germania le proteste contro il Ttip e il Ceta siano state particolarmente accese, i social-democratici hanno ceduto alle pressioni dei conservatori loro alleati, del mondo degli affari e di Bruxelles.

Il partito social-democratico austriaco ha negoziato una dichiarazione interpretativa di alcuni punti critici, che verrà allegata al trattato. L’ultimo ostacolo alla firma è venuto dalle regioni belghe della Vallonia e di Bruxelles. La Vallonia, in particolare, aveva evidenziato già un anno prima le sue obiezioni alla Commissione ma, ciononostante, quest’ultima ha scelto di fissare comunque la data della cerimonia per la firma. Ciò si è rivelato in parte un errore di calcolo, in quanto il governo regionale ha fatto slittare la data prevista, cedendo, infine, solo dopo aver negoziato una dichiarazione speciale.

Il commissario europeo Günther Oettinger ha reagito alle controversie sul Ceta chiedendo che i governi nazionali non interferiscano con le politiche commerciali europee. L’intento di questa dichiarazione è, evidentemente, quello di contrastare l’opposizione al trattato tramite la centralizzazione. Il percorso di ratifica del Ceta da parte dei parlamenti nazionali si preannuncia, tuttavia, accidentato. Di fatto, il modo in cui l’Europa ha insistito per l’approvazione del Ceta aggrava la crisi di legittimità europea e fomenta le tendenze disgregatrici.

Le relazioni Ue-Usa dopo l’elezione di Trump

L’ascesa dei partiti nazionalisti di estrema destra non è rimasta confinata all’Europa. Negli Usa, l’oligarca Donald Trump ha vinto con un margine ristrettissimo le elezioni presidenziali, grazie al supporto di varie forze di destra. Gli elementi chiave della sua campagna sono stati un’aggressiva retorica anti-immigrati, la promessa di abbassare le tasse e la fine di trattati commerciali come il Ttip. Se realizzate, le promesse di interrompere le negoziazioni per il Ttip e di ridurre le spese americane a sostegno della Nato cambieranno significativamente le relazioni tra Usa e Ue.

Dopo l’elezione di Trump, si è riacceso il dibattito sulla formazione di una “difesa comune”. In un contesto di “cooperazione strutturale permanente”, la cooperazione militare tra gli Stati membri non può che aumentare. In effetti, sia i deputati europei cristiano-democratici che quelli social-democratici hanno chiesto un aumento della spesa militare da parte dei singoli Paesi: in un contesto dove molteplici sono gli elementi di crisi, emerge dunque un ampio consenso, che va dai social-democratici alle destre nazionaliste, per una maggiore militarizzazione dell’Unione e una politica estera più aggressiva. Questa spinta militarista deve essere contrastata con decisione dalle forze di sinistra e dai movimenti per la pace.

Idee e strategie per leggere le tendenze disgregative

L’ampio consenso tra i cristiano-democratici, i social-democratici e i nazionalisti di destra non va oltre la militarizzazione della politica estera. Le élite europee hanno intrapreso percorsi differenziati per fronteggiare le molteplici crisi e le tendenze disgregative. Queste strategie sono strettamente legate ai differenti scenari futuri considerati e ai diversi modi di guardare all’Europa. Come nel caso della Brexit in Gran Bretagna, anche in Europa sono le forze di destra che dominano il dibattito sul futuro dell’Unione.

Cercare di sopravvivere in qualche modo: questo è il modo prevalente di gestione delle molte crisi che affliggono l’Europa. È l’approccio privilegiato dalla maggior parte dei cristiano-democratici, come dei social-democratici e dei liberali. Si tratta di una strategia che punta a proseguire nell’attuazione del modello neoliberista di integrazione e a preservare l’attuale configurazione geografica dell’Unione Monetaria e dell’area Shengen. È un approccio che ottiene il supporto delle maggiori multinazionali, ma che non fa in alcun modo i conti né con le divisioni tra centro e periferia dell’Unione, né con la sua perdita di legittimazione agli occhi delle classi popolari. Nonostante questa strategia abbia la pretesa di preservare il processo di integrazione europeo e i suoi confini geografici, la mancanza di elementi di promozione della coesione non potrà che accelerare il processo di disgregazione europeo.

Vanno anche evidenziate due sotto-varianti di questa strategia.

Cercare di sopravvivere con un po’ più di flessibilità fiscale e maggiori investimenti pubblici. È la strategia perseguita principalmente dai social-democratici e, in parte, dalle forze di sinistra in Francia e nei Paesi mediterranei. Essa punta a integrare l’approccio sopra descritto con una combinazione di flessibilità fiscale e investimenti pubblici. Si cerca di ampliare lo spazio per gli interventi di politica economica alleggerendo le regole fiscali. Questa strategia è caratterizzata da una qualche maggiore attenzione ai problemi di coesione dell’Unione rispetto alla variante principale.

Cercare di sopravvivere restringendo e rendendo più rigida l’area Schengen. Questa variante invoca il ritorno temporaneo dei controlli alle frontiere nell’area Schengen e vuole escludere dall’area i Paesi che non sono disposti a tenere rifugiati e migranti “indesiderati” fuori dai confini nazionali. Quest’approccio è perseguito soprattutto dalle correnti nazionaliste interne ai partiti cristiano-democratici dei Paesi del nucleo centrale europeo e dei Paesi più orientali dell’Europa centrale, ma esso gode del sostegno anche di alcuni partiti social-democratici. De facto questa strategia sta già prendendo piede, come dimostrato, ad esempio, dalla reintroduzione di controlli temporanei alle frontiere e dalla costruzione di barriere fisiche di confine all’interno della stessa area Schengen.

Core Europe: la costruzione di un nucleo centrale europeo. L’Europa è già caratterizzata da differenti gradi di integrazione. Tradizionalmente, il concetto di Europa core è stato finalizzato a intensificare l’integrazione neoliberista tra i Paesi che ne dovrebbero farne parte. Per questo come area di riferimento si guarda a un insieme di Paesi più ristretto e omogeneo all’interno dell’area euro. Questa visione è stata ampiamente dibattuta all’interno dei circoli cristiano-democratici dei Paesi interessati. I partiti della destra nazionalista che propongono questa visione, come Freiheitliche Partei Osterreichs (Fpö) o Alternative fur Deutschland (AfD), puntano soprattutto a rendere l’Unione più piccola e omogenea, vogliono liberarsi dei Paesi periferici che ritengono un peso. Le proposte delle forze di destra dei Paesi periferici, come in Italia la Lega Nord o, in modo più lieve, il Movimento 5 Stelle, puntano ad abbandonare l’eurozona e sono dunque complementari a quelle che mirano alla costruzione del nucleo centrale.

L’Europa delle nazioni. Alcuni partiti della destra nazionalista sostengono che il processo di integrazione europeo debba focalizzarsi sul Mercato Unico e la relativa regolazione economica. I partiti della destra nazionalista nell’Europa dell’est, come Fidesz in Ungheria o Prawo i Sprawiedliwość (PiS), in Polonia ritengono, invece, fondamentali anche gli apporti dei fondi europei per lo sviluppo regionale. Tuttavia, essi invocano negli altri campi più libertà per gli Stati nazionali, in parte per realizzare strategie competitive, in parte per promuovere un’agenda politica nazionalista e conservatrice (ad esempio, in ambiti quali l’identità sessuale o le politiche sociali). Alcune forze della destra nazionalista, come il Front National in Francia, hanno formulato vaghe idee di “un’altra Europa”, tanto poco definite da non apparire sostanzialmente distinte da quelle che mirano alla completa dissoluzione dell’Unione.

Idee e strategie per la sinistra

Un’altra Europa: un federalismo europeo di sinistra: il concetto di un’altra Europa è stato usato anche da alcune forze di sinistra, ma con un significato completamente diverso. Il fine è quello di rifondare democraticamente la Ue, gettando le basi per un federalismo democratico europeo e per un’integrazione più equilibrata. Il punto è che i presupposti politici per l’attuazione di questa agenda sono particolarmente difficili da realizzare, sarebbe necessario un largo consenso generale e tra gli Stati membri, un contesto, insomma, opposto a quello che sembra prevalere attualmente.

A fronte del manifestarsi di forti disequilibri di potere fra i Paesi Ue e dopo l’esperienza greca, un crescente numero di forze di sinistra chiede ora l’attuazione di esplicite politiche di promozione sociale, che contemplino il non rispetto delle regole europee e, laddove necessario per intraprendere politiche progressiste, anche l’abbandono della moneta unica.

I due differenti approcci della sinistra differiscono principalmente nel giudizio su cosa sia politicamente realizzabile all’interno dell’Unione e su cosa potrebbe essere realizzato attraverso le singole politiche economiche nazionali.

Entrambe le prospettive appaiono di difficile realizzazione senza una maggiore unità politica e un maggiore incidenza elettorale della sinistra rispetto all’attuale. Malgrado contestazioni radicate negli specifici contesti nazionali costituiscano la più immediata forma di sfida alle politiche attuali, EuroMemo continua a ritenere indispensabile una prospettiva internazionale e a sostenere la necessità di un approccio coordinato a livello europeo per promuovere la ripresa economica e la giustizia sociale.

Oggi sabato 28 gennaio 2017

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USA E GETTAChi è Trump e dove ci porterà (se resterà)
Il neopresidente è un fenomeno. Tutto interno alla crisi del capitalismo finanziario. La sua linea non è ancora definita. Come non lo è la sua cultura [Giulietto Chiesa]. Su megachip.
- Per correlazione. Trump: attenti alle esche avvelenate. Frenetica attività del neo Presidente. Vanni Tola su Aladinews.
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democraziaoggiPigliaru sui superstipendi ai supermanager Asl fa vedere le palle al governo!
- Amsicora su Democraziaoggi.
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L’ANPI e la Giornata della Memoria in Sardegna
Marco Sini su Democraziaoggi.
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Trump: attenti alle esche avvelenate. Frenetica attività del neo Presidente

USA E GETTAsedia di VannitolaLa sedia
di Vanni Tola

Trump: attenti alle esche avvelenate. Frenetica attività del neo Presidente.

Il presidente americano, dopo il giuramento non ha perduto tempo. Si è insediato alla Casa Bianca, ha salutato Obama che partiva in elicottero e si è tuffato a capofitto nell’attività ordinaria per dare attuazione al proprio programma elettorale. In pochissimi giorni ha adottato una serie di provvedimenti decisamente in discontinuità con quelli della precedente amministrazione. Ha eliminato la riforma sanitaria (Obamacare) che ha rappresentato uno dei punti di forza del programma di Obama. Ha stabilito un robusto giro di vite contro l’immigrazione “economica” e contro quella proveniente dalla Siria e dai paesi mussulmani . Ha minacciato di pesanti rappresaglie economiche gli industriali che avevano in atto o pensavano di trasferire le produzioni al di fuori dell’America. Ha messo in discussione le linee fondamentali della politica per limitare il riscaldamento del pianeta affermando semplicemente che tale fenomeno non esiste, con buona pace del mondo scientifico internazionale e del noto accordo di Parigi recentemente sottoscritto anche dagli Usa. E non si è fermato qui. Dopo aver più volte attaccato il movimento delle donne durante la campagna elettorale ha ordinato al proprio esecutivo di sospendere i finanziamenti pubblici federali per le associazioni che favoriscono la pratica della interruzione di gravidanza. Ma le ciliegine sulla torta del funambolo della Casa Bianca sono state certamente la sospensione della partecipazione americana ai grandi trattati commerciali per il libero scambio e l’avvio della costruzione del muro ai confini con il Messico. Da oggi l’America ritira la propria partecipazione al trattato di libero scambio nell’area del pacifico TPP ( Parternariato Trans Pacifico ) che mirava a favorire le multinazionali degli scambi di merci e a contenere il crescente potere commerciale di Cina e India. Trump ha pure promesso di fare carta straccia anche di tutti gli altri trattati internazionali per il commercio ancora in discussione, a partire dal TTIP (Transatlantic Trade and Investiment Pertnership). Panico tra le multinazionali che su tali trattati contavano per estendere il loro potere economico e commerciale in vaste aree del mondo con il superamento dei vincoli doganali e delle norme nazionali sui commerci dei paesi contraenti, in nome della libertà pressoché assoluta del libero scambio.
Come interpretare la frenetica attività del Presidente? Direi che per comprendere il disegno strategico di Trump sia necessario sgombrare il campo da alcuni pregiudizi che potrebbero rivelarsi fuorvianti. Al di là dell’aspetto fisico, delle smargiassate plateali, degli attacchi forsennati contro i “nemici” di turno (la stampa, i servizi di intelligence, il movimento delle donne, i migranti e i mussulmani), giova ricordare che Trump non è il senatore Razzi un po’ più grande. Non è uno stupido, anche se certi suoi atteggiamenti potrebbero autorizzare a pensarlo. E non è neppure un populista poco preparato alla Salvini. Trump in realtà conosce perfettamente il sistema economico americano, il mondo degli affari, il modo di pensare e la psicologia dei ampi strati della società americana che per questo lo hanno sostenuto. Vanta poi una formidabile conoscenza dei mezzi di comunicazione di massa che ha mostrato di sapere influenzare a suo favore nonostante il fuoco di sbarramento predisposto in campagna elettorale dai suoi oppositori e perfino da una parte consistente del suo stesso partito. Trump, come tutti gli uomini soli al governo di un paese, è pure consapevole di avere un consenso non sufficientemente ampio per poter realizzare il suo programma. Ed è per tale motivo che sta adottando una spregiudicata ma efficace strategia politica per aumentare il suo personale livello di consenso del quale ha oggettivamente bisogno. Per lui è indispensabile sbaragliare movimenti e gruppi di potere che gli sono ostili, rimescolare le carte della battaglia politica, trovare nuovi alleati, disseminare lungo il suo percorso politico “bocconi avvelenati” per tutti e contro tutti. Pensiamoci un attimo. Abolisce i trattati sul libero scambio internazionale e si mette contro le grandi multinazionali del commercio, ma potrebbe anche ricavare consensi all’interno del vasto movimento che tali Trattati ha duramente contestato. Elimina il piano di assistenza sanitaria di Obama creando un prevedibile malcontento tra gli strati meno abbienti della popolazione ma si presenta come paladino della vita agli occhi dei movimenti integralisti e cattolici da sempre antiabortisti. Minaccia gli industriali che vorrebbero investire in altri paesi ma promette loro incentivi e meno vincoli ambientali per le produzioni in loco. Autorizza la ripresa dei lavori per la realizzazione di due giganteschi oleodotti (Keystone XL e quello del Dakota) che tante proteste aveva suscitato soprattutto tra gli Indiani e promette il ritorno alle fonti energetiche fossili ormai messe ai margini dalle scelte ambientaliste della precedente amministrazione. Direi che è più che fondata l’ipotesi che il neo presidente Trump non sia un improvvisatore, un pazzoide scatenato che tira fuori conigli dal cilindro magico sperando di imbambolare il pubblico. Trump ha una sua idea ben precisa e chiara, un piano strategico molto raffinato per la gestione del potere e il governo della più grande potenza mondiale. Un piano nel quale la democrazia, i diritti di tutti, l’uguaglianza degli individui diventano degli optional e i riferimenti politici, culturali, economici e sociali sono altri. E questo non è che l’inizio. Attendiamo di scoprire che cosa ha in mente Trump per la politica estera del suo paese, dai rapporti con l’Europa a quelli con Putin e con la Gran Bretagna del dopo brexit. Si preannuncia una quadriennio presidenziale molto originale e movimentato.

Trump e Trattati commerciali internazionali. La Cina è vicina

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di Vanni Tola.
Trump e il protezionismo, la rivoluzione nei commerci internazionali?
Ora che Donald Trump è diventato il presidente degli Stati Uniti e fa i conti con un ampio movimento popolare che non intende riconoscerlo come tale, cresce l’attenzione sul suo programma di governo. O meglio ci si interroga su quale e quanta parte degli obiettivi, indicati in campagna elettorale vorrà, dovrà e potrà realizzare. Uno dei temi forti della campagna elettorale del Presidente è stato il protezionismo. Trump ha manifestato esplicitamente di essere contrario agli accordi commerciali vigenti con il Messico e il Canada (Nafta) e con l’Asia (Tpp) e potrebbe mettere la parola fine alle trattative per la riforma dei commerci con l’Europa, assestando un colpo mortale al trattato Ttip, peraltro già in crisi ancora prima delle elezioni americane. Si cambia rotta, dunque. L’obiettivo del Presidente sarà proteggere e sviluppare le attività produttive e il lavoro dell’America prima di ogni altra cosa, con interventi, modalità e procedure ancora da definire o che si vanno delineando. La globalizzazione e l’istituzione di vaste aree di libero scambio, quindi, non saranno più il riferimento principale per gli Stati Uniti. I trattati internazionali diventano per Trump i nemici da battere. Sarebbero loro, a suo parere, gli strumenti di distruzione dell’industria e del lavoro americano. Appare evidente che tali propositi, se realizzati, potrebbero sconvolgere radicalmente il commercio internazionale invertendo i programmi di riorganizzazione degli stessi che i grandi trattati internazionali andavano definendo e perfezionando. Vediamo di comprendere meglio ciò che accade. L’elezione di Trump alla presidenza Usa è letta da molti analisti come la naturale conseguenza del progetto di globalizzazione dell’economia mondiale in atto (guidato dagli Stati Uniti) che sarebbe in crisi già dal lontano 2008. I commerci internazionali, infatti, vivono da allora una fase di crisi costante. Hanno cioè smesso di svolgere quel ruolo di promozione dello sviluppo della crescita che veniva loro attribuito. Da qui era nata la necessità di riconfigurare gli scambi commerciali internazionali con nuovi trattati. Trattati che il “trumpismo” mette seriamente in discussione, con buona pace dell’uscente Presidente Obama che, quei trattati, sperava di concluderli prima della scadenza del proprio mandato. Ci si avvia dunque verso una riedizione del protezionismo come negli anni Trenta? Potrebbe darsi ma non è detto. Non tutto ciò che Trump ha promesso col programma elettorale, potrà tradursi automaticamente in azioni concrete e coerenti col programma presentato. Il neopresidente dovrà, infatti, tenere conto di tanti altri fattori che potrebbero modificare i suoi proponimenti. Uno fra tutti il fatto che le multinazionali americane, che sono state le maggiori beneficiarie della globalizzazione, potrebbero avere molto da perdere da pratiche protezionistiche. Per tale motivo sono già iniziate le grandi manovre delle multinazionali con l’obiettivo palese di indurre il Presidente a rivedere o a contenere certi suoi orientamenti anti globalizzazione. Attraverso il Wall Street Journal, importante quotidiano economico-finanziario, sono state prospettate all’opinione pubblica e allo staff presidenziale, proposte e suggerimenti per “mitigare” lo spirito protezionista del neoeletto. In alternativa allo scontro “totale” contro i paesi concorrenti a colpi di dazi e barriere doganali, autorevoli e accreditati suggeritori del Presidente consigliano di avviare soltanto alcuni interventi mirati a difendere gli interessi americani ma con effetti meno devastanti di un rigido protezionismo diffuso. Per esempio misure anti dumping (strategia con cui i prodotti di un Paese sono immessi in commercio in un altro Paese a un prezzo inferiore al valore normale del prodotto) contro la Cina. Interventi contro i Paesi che praticano concorrenza sleale, la riforma dell’accordo Nafta con Messico e Canada, il rafforzamento degli accordi bilaterali con alcuni paesi maggiormente vicini agli interessi Usa quali Giappone e Regno Unito e la tutela del ruolo che gli Stati Uniti svolgono, in qualità di capo fila della politica dei mercati aperti. Soprattutto si tenta di richiamare l’attenzione di Trump sul fatto che il Tpp (Trans-Pacific Pertnership), l’accordo commerciale tra gli Usa e undici Paesi dell’area dell’oceano Pacifico – che mira alla realizzazione della più estesa area di libero scambio del mondo – è nato con l’obiettivo strategico di arginare la crescente influenza della Cina nell’area Asia-Pacifico. Rinunciare al Tpp quindi potrebbe significare lasciare alla Cina campo libero per i trattati commerciali nell’area asiatica e del Pacifico. Un problema non di poco conto per il neopresidente, uno dei tanti problemi che assillano il nuovo inquilino della Casa Bianca.

Noi e Trump. Trump, l’Europa e il Resto del Mondo (?) Ci serve tempo per pensare, confronto delle analisi del voto per capire

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di Vanni Tola
Elezione di Trump. Ci serve tempo per pensare, confronto delle analisi del voto per capire.
Delusione e stupore per l’elezione di Trump, molti non credevano che potesse realizzarsi. Non soltanto i comuni mortali, ma anche i sondaggisti, i media internazionali, i grandi opinionisti conoscitori dell’America non credevano che lo “strano” personaggio, alla fine sarebbe riuscito a diventare Presidente degli Stati Uniti d’America. Non c’era molto entusiasmo per la candidatura della Clinton ma prevaleva la convinzione che, alla fine della lunga compagna elettorale, il popolo americano avrebbe sostenuto il candidato “meno peggio” fra i due. Ora ci serve tempo per pensare e capire. L’unica certezza è che non stiamo riuscendo a comprendere e interpretare adeguatamente la realtà, in particolare l’evolversi delle scelte delle masse che appaiono “strane e controtendenza” soltanto perché noi non riusciamo a leggerle e comprenderle secondo i nostri vecchi parametri di riferimento. Occorrono dei nuovi occhiali attraverso i quali osservare il mondo abbandonando la tendenza a trincerarsi dietro luoghi comuni banali e inconsistenti del tipo “gli americani sono strani e un po’ matti” e simili. E comprendere che sta succedendo nel nostro piccolo-grande mondo è fondamentale perché sta cambiando la scenografia, cambiano i personaggi, si riscrive la trama della storia del Mondo. Pensate soltanto ad alcuni macro problemi. L’America non ha più il ruolo di superpotenza nell’universo mondo né vuole continuare a difendere tale ruolo. In termini economici, per esempio, è fortemente contrastata dalla crescita della Cina e dell’India. Intanto che l’Europa si interroga timidamente sulla possibilità di intervenire in Africa per favorire lo sviluppo e contrastare il fenomeno migratorio verso il vecchio mondo, la Cina sta realizzando colossali investimenti in quel continente diventando, nei fatti, un paese leader per le popolazioni africane. L’America, se realizzerà il programma del neo presidente Trump, potrebbe rimettere in discussione la maggior parte dei trattati commerciali in atto e di quelli in discussione ( es. TTIP) per realizzare una politica protezionistica dei propri prodotti. Uno sconvolgimento epocale dei commerci internazionali. La stessa politica di difesa della Nato, o meglio, il ruolo che nella Nato svolge l’America, potrebbe subire radicali mutamenti ponendo l’Europa di fronte alla necessità di riorganizzare al più presto le politiche e le strategie per la difesa del vecchio continente. La disponibilità a realizzare un nuovo rapporto di confronto e collaborazione – tempestivamente manifestata da Putin dopo l’elezione di Trump – può far pensare a nuovi rapporti, questa volta non conflittuali, tra la Russia che cerca una nuova collocazione nello scacchiere mondiale e gli Stati Uniti. Paradossalmente potrebbe perfino accadere che la politica estera di Trump, almeno per quanto riguarda il rapporto con l’Unione Sovietica, possa caratterizzarsi come azione orientata allo sviluppo della pace e del confronto anziché al prolungamento della “guerra fredda”. Tutte ipotesi da verificare, naturalmente. Infine l’Europa. L’Unione viene fuori da questa vicenda molto ridimensionata. Si vanno affermando in tutti i paesi dell’Unione forti stimoli antieuropeiste e nazionalitarie, in parte innescate dall’uscita della Gran Bretagna, che riceveranno nuovo impulso dal grande trionfo del populismo di Trump. Mai come ora è indispensabile e urgente che l’Unione Europea riscriva e ridefinisca i principi fondamentali del progetto di costruzione di un’Europa politica, della realizzazione degli Stati Uniti d’Europa. L’alternativa sarebbe l’uscita di scena dell’Unione e la disperata ricerca dei paesi che ora la compongono per ridefinire un proprio ruolo nazionale nel più ampio panorama della globalizzazione e del confronto tra le superpotenze, quelle tradizionali e quelle emergenti. Ci serve tempo per pensare, confronto delle analisi del voto per capire.

Ceta, la Vallonia ci ripensa

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di Vanni Tola.
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Trattato CETA: Il premier belga dichiara che c’è l’accordo per la ratifica dell’intesa Ue-Canada.
Dopo una lunga trattativa, la regione belga della Vallonia ha dato oggi il suo benestare all’accordo commerciale con il Canada. Una notizia nella quale molti speravano e che, anche a noi, era parsa probabile perché l’accordo CETA presenta notevoli e caratterizzanti differenze rispetto ai contenuti e alla logica di altri trattati analoghi e principalmente a quelli del trattato di riferimento per eccellenza, il TTIP, ampiamente contestato da un vasto movimento di opposizione. Una vicenda – questa dei grandi Trattati internazionali per gli scambi e i commerci – con la quale i cittadini europei devono confrontarsi impiegando una buona dose di disincanto e di sano realismo per formare un punto di vista obiettivo. Il capitalismo internazionale si va riorganizzando: è in atto la globalizzazione dell’economia. Questo è un dato incontrovertibile. Gli scambi commerciali tra paesi e aree geografiche anche molto vaste ne costituiscono l’asse portante. L’esigenza di regolamentare al meglio gli scambi commerciali internazionali tra Paesi e aree geografiche importanti è una necessità ineludibile. Da ciò deriva le necessità di stipulare Trattati per regolare un sistema di scambi internazionali finora regolato esclusivamente dalle leggi del cosiddetto libero mercato, che sono, di fatto, rappresentate dallo strapotere delle multinazionali dei commerci e dei servizi e da centri di potere internazionali palesi e, talvolta, occulti. Che poi i Trattati debbano essere equi ed equilibrati, tenere conto delle esigenze delle parti contraenti, salvaguardare diritti inalienabili quali la difesa della democrazia, della salute e della libertà degli individui, la difesa dell’ambiente, la sicurezza internazionale e tanto altro ancora, mi pare sia indiscutibile. Il Trattato CETA, a mio avviso, ha colto e superato molte delle gravi limitazioni imposte ai Paesi contraenti da altri trattati in fase di contrattazione e in particolare dal TTIP e, per tale motivo e pur con le necessarie cautele, appare degno di maggiore attenzione, fatte salve le necessarie verifiche e richieste di garanzie per tutti i Paesi che lo sottoscriveranno. Naturalmente, occorre ribadirlo, non si può dimenticare quella che è la natura stessa di un Trattato. Un accordo rappresenta sempre una limitazione dei diritti e dei poteri di ciascun contraente in funzione di un superiore rapporto conveniente per le parti. Fuori metafora, la posizione critica della Vallonia e di molti contestatori dei Trattati internazionali, “a prescindere”, è insostenibile quando si basa sui timori di una riduzione dell’autonomia o, meglio, della sovranità delle singole parti contraenti. Ciò è implicito nella logica di qualunque Trattato che si concluda con un accordo. Su quale sia poi il miglior modo di stipulare i Trattati nell’interesse di tutte le parti è altrettanto evidente che l’analisi, la trattativa e l’accordo debba essere il più ampio possibile.

Dibattiti sulla Sardegna e su Cagliari in Sardegna

povera patria sardaA Cagliari come a Roma, come a Wall Street, lo stesso pensiero, la stessa cattiva politica
di Massimo Dadea
By sardegnasoprattutto/ 20 ottobre 2016/ Società & Politica/

In Sardegna la cosiddetta riforma della Costituzione potrebbe portare alla cancellazione di diritti costituzionali che sono propri ed esclusivi dei cittadini sardi. Il nostro Statuto d’Autonomia rischia di essere spazzato via, e con esso il patto costituzionale che lega la Sardegna allo Stato italiano. La riscrittura del titolo V rappresenta una chiara svolta centralista. Ritornano in capo allo Stato competenze quali l’energia, l’ambiente, il paesaggio, i beni culturali; vengono eliminate le “materie concorrenti”.

Si introduce la “clausola di supremazia”, una norma ghigliottina che, in nome di un superiore “interesse nazionale”, fa prevalere la legge dello Stato su quella regionale. Significa che il governo nazionale potrà autorizzare trivellazioni, impianti fotovoltaici e termodinamici, inceneritori, a suo piacimento, infischiandosene delle proteste dei cittadini. Potrebbe persino decidere di localizzare in Sardegna il deposito delle scorie nucleari. Difronte a tutto questo il Presidente della giunta regionale di centrosinistra, sovranista e, pare, anche indipendentista, ha annunciato, orgoglioso, il suo SI’, convinto e incondizionato, al tentativo di stravolgere la nostra Carta Costituzionale.

A testimonianza che, per questo esecutivo e per questa maggioranza, parole come autonomia, sovranità e indipendenza, sono oramai parole vuote, suoni indistinti, privi di significato. Si dice anche che le regioni a Statuto Speciale sono escluse, almeno fino all’adeguamento dei loro statuti al nuovo dettato costituzionale. E’ del tutto evidente che si tratta di una furbata.

Quale possibilità di vincere avrebbe il fronte del SI’ se al corposo schieramento del No si aggiungessero le regioni a Statuto Speciale, assai poco disposte a rinunciare alle loro prerogative costituzionali? Come giustificare questo doppio regime istituzionale così fortemente differenziato? Perché lasciare in giro queste pericolose testimonianze di un decentramento che si vorrebbe cancellare? La verità è che all’indomani della vittoria del SI’, sulla spinta del consenso dato alla svolta centralista, le regioni a Statuto Speciale saranno spazzate via. Qualcuno dirà, ha ancora un senso battersi per una Autonomia ridottasi oramai ad un simulacro, ad una scatola vuota, priva di poteri?

Questa è una decisione che spetta prima di tutto ai cittadini sardi, dovranno essere loro a delineare quale forma istituzionale assumeranno le diffuse aspirazioni all’autodeterminazione e all’autogoverno. E’ certo comunque che il rilancio dell’idea autonomistica passa prima di tutto attraverso la sconfitta del SI: tertium non datur.

Senza indulgere ad uno stucchevole complottismo può essere utile chiedersi: da dove trae ispirazione la “riforma”? E’ figlia di un pensiero unico che propugna la verticalizzazione delle istituzioni, la centralizzazione dei livelli decisionali. Una struttura piramidale del potere che risponde ad un mantra: accentrare, concentrare, centralizzare. Una elaborazione sostenuta dalle grandi banche d’affari internazionali, dalle agenzie di rating: limitare la partecipazione popolare, puntare su esecutivi forti e su parlamenti deboli, modificare le Costituzioni nate dalla resistenza al nazifascismo perché contengono troppi elementi di socialismo.

Sono figli di questa concezione i trattati di libero scambio – il CETA e il TTIP con il Canadà e gli Stati Uniti – che di fatto esautorano gli Stati nazionali e la stessa Comunità Europea, a tutto vantaggio di organismi sovranazionali di natura privatistica. Un pensiero unico che si trasmette a cascata dal centro alla periferia.

La giunta regionale si è dimostrata tra le più ricettive. Alcuni esempi. La “riforma” della governance territoriale. Si cancellano le province e si accentra tutto nella Città metropolitana di Cagliari, con qualche briciola per la impalpabile Rete metropolitana di Sassari: tutto intorno il vuoto, il deserto. La “riforma” della sanità: si cancellano le otto ASL e si concentra tutto in un’unica ASL.

Una logica che, in nome dell’efficienza e del risparmio delle risorse, porterà ad una accelerazione dei processi di spopolamento e ad un impoverimento dei territori più deboli, a tutto vantaggio degli insediamenti urbani dove si concentrano maggiori investimenti, attività economiche e servizi essenziali. A Cagliari come a Roma, come a Wall Street, lo stesso pensiero, la stessa cattiva politica.

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In Sardegna quelli che…“contenti & compiaciuti”
di Andrea Sotgiu
By sardegnasoprattutto / 18 ottobre 2016/ Società & Politica/

Impressiona leggere le recenti interviste ad assessori e allo stesso presidente della Regione Sardegna. Se ne ricava che nell’isola esista un ceto padronale e feudatario a casa, gregario e subalterno oltre Tirreno; provinciale sempre, che si autorappresenta pienamente “contento & compiaciuto”.

La percezione che amici e parenti mi hanno sempre segnalato, condivisa da molti sardi, è diventata mia. Ho avuto la ventura di vivere in Sardegna per un periodo più lungo delle solite vacanze e dei frequenti fine settimana in una casa nel nord est, eredità di una nonna gallurese. Mi arrogavo un punto di vista ed uno sguardo più lucidi e più indipendenti di amici e parenti per le mie credenziali professionali e relazionali. Sono pertanto spesso intervenuto sugli accadimenti sardi cercando di non farmi condizionare dai loro giudizi.

Viverci però per mesi ridiscute il mio atteggiamento che talvolta forse è sembrato persino troppo critico. In realtà è stato fin troppo bonario ed oggi ho sentimenti contrastanti e posizioni certamente più dure, al limite dell’insofferenza.

Girare ed assistere ad iniziative, eventi, feste, o quotidianamente leggere i giornali e guardare le televisioni locali mi inducono ad essere più indulgente con alcuni sardi del passato, residenti fuori dall’isola, che se gli capitava di ritornare e risiedervi a lungo diventavano persino aggressivi. Ne sono rimaste tracce in articoli, saggi, romanzi. Intellettuali che non si nascondevano dietro le apparenze e che raccontavano la verità sui comportamenti di decisori ed in generale delle classi dirigenti. Che, evidentemente, continuano imperterriti

Non è che non volessero bene alla loro terra ma rimanevano piuttosto sconcertati non solo dai comportamenti ma anche da come venivano raccontati. Raramente capita anche oggi che qualcuno entri nel merito dell’interdipendenza tra chi gestisce il potere e chi lo rappresenta e racconta. L’atteggiamento dominante nell’isola tra chierici, di qualsiasi natura specie quelli della politica, è quella del tipo “contento & compiaciuto”. Sempre rivendicativi e revancisti. Mai una nota autocritica.

Tutti felicemente mimetizzati nella comune categoria neofeudataria che non comprende solo molti accademici, professionisti ed esponenti della politica – talvolta coincidenti- ma anche organizzatori di festival e di sagre dai titoli bizzarri. Un circo festoso e molto pubblicizzato perché a carico della Regione che attraverso sagre, pubblicità istituzionali, trasmissioni trasudanti bollini RAS, cerca il consenso.

Ma i temi sul tappetto ci sono tutti e tutti irrisolti. Quelli di sempre. Dalle politiche del lavoro a quelle dell’industria – in questa legislatura i relativi assessorati potevano essere anche aboliti – dal diritto allo studio a quello della salute in ogni sperduto borgo – col direttore unico ha ancora senso un assessorato regionale? -, dai trasporti al welfare e ai servizi alla persona di fatto inesistenti, ai rapporti con lo stato ed il governo – le vicende del Patto per la Sardegna o le esternazioni sul Sì del governatore denunciano ormai che autonomismo e sovranismo per questa maggioranza sono parole senza senso. Che dire della fuga dei giovani tra cui massicciamente universitari e laureati.

Un giunta povera di politiche e di concretezza ma ricchissima di annunci e di proclami, tavole rotonde e giri da un borgo all’altro. Mai un consuntivo su risultati. Meglio non proseguire ma le sue inconsapevolezza e distanza dalla realtà sono ben raccontate persino dall’invadente quantità di veline che occupano ogni spazio.

Auguri ai Sardi che in gran parte sono esclusi da tanta razza “contenta & compiaciuta”.

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DIBATTITO. Ripensare la città e il suo ruolo. Ma le dichiarazioni programmatiche del Sindaco Zedda non aiutano.
municipio 19 ott16Zedda: dichiarazioni programmatiche, un’occasione persa
di Roberto Mirasola, su il manifesto sardo
E’ risaputo che Voltaire non sia stato propriamente un ammiratore del filosofo tedesco Gottfried Leibniz l’autore del “il migliore dei mondi possibili”, tanto che per confutarne le tesi, a suo parere troppo ottimistiche, scrisse il noto capolavoro Candide. Ecco, leggendo le dichiarazioni programmatiche del sindaco Massimo Zedda per il quinquennio 2016/2021 mi sono sentito un po’ Voltaire, ho anch’io provato stupore, perplessità di fronte a tanti buoni ma confusi intenti, non suffragati da nessuna analisi di fondo. Sta proprio in questo il limite delle prospettive politiche di questa giunta, un insieme di buoni intenti mancanti di un filo conduttore dal quale possa emergere un’idea di città.
Si parla, e tanto, di sviluppo economico sostenibile, di creare le condizioni per l’insediamento di imprese, di una crescita inclusiva che possa promuovere un’economia con alto tasso di occupazione, ma l’unico metodo che emerge dalla lettura è che la strada da seguire sia l’utilizzo dei vari fondi europei senza però indicare su cosa precisamente si debba puntare. Nessun accenno ad esempio al porto di Cagliari che invece può e deve essere un volano di sviluppo economico. Come più volte detto il porto di Cagliari va messo a sistema con l’economia locale in un’ottica di sinergia turistica e di sviluppo del sistema crocieristico con l’agroalimentare e la cultura. Non è chiaro, poi, se si vuole puntare sul piccolo commercio e rivalorizzare dunque il centro storico oppure sui grandi centri commerciali. Cosa si intende fare al riguardo?
Si parla di turismo ma l’unica strategia che si intende mettere in campo è quella di realizzare un infopoint nel nuovo terminal crociere. Si parla di promuovere Cagliari come location ideale per le produzioni cinematografiche dando seguito alla Film Commission Comunale, dimenticandosi che il Comune di Cagliari ad oggi non aderisce ancora alla Fondazione Sardegna Film Commission e dunque non entra nelle scelte strategiche. Al contrario servirebbe un atteggiamento attivo capace di attuare una vera e propria pianificazione. Puntare sui finanziamenti europei non è sufficiente se non si risolve ad esempio il dramma dei trasporti in Sardegna. Certo la competenza non è del Comune, ma sarebbe opportuno quantomeno porsi il problema.
E’ pensabile attrarre investimenti senza creare le condizioni necessarie? E’ pensabile sostenere l’imprenditoria con la sola previsione di ampliamento degli orari di apertura al pubblico degli Uffici? E del tessuto di cui hanno bisogno le imprese? E degli incubatori di impresa? Niente, silenzio assoluto.
Il capitolo iniziale è dedicato al ruolo della città metropolitana di Cagliari e, tra le altre cose, si dice che si deve garantire l’integrazione tra le diverse culture. Come farlo non è dato sapere, nelle 58 pagine non vi è nulla riguardo l’ immigrazione. Nessuna parola né su che modello si debba seguire per le politiche di immigrazione attiva né tantomeno su come si debba gestire la prima accoglienza, che a questo punto sarà inevitabilmente una continua emergenza. Solo che gli sbarchi ormai si protraggono da diversi anni e sarebbe anche ora di dare adeguate risposte. Probabilmente si intende proseguire sul comodo scarica barile delle competenze tra Prefettura, Amministrazione Comunale e Regione, dimenticando che il problema riguarda la città e che sempre di più crescono i malumori sociali. Sino a quando non si darà una risposta precisa alle esigenze dei quartieri periferici allora non potranno che aumentare gli episodi di intolleranza nei confronti dell’altro, del diverso.
E’ grave dunque la totale assenza di una strategia su come si intenda procedere per la lotta alla povertà nei quartieri come Is Mirrionis e San Michele perché non può essere sufficiente un generico rimando alle concrete azioni di riqualificazione sociale dei quartieri. Quali sarebbero queste concrete azioni non è dato sapere.
Proseguendo nella lettura l’attenzione cade sul consumo del suolo zero e sulle critiche rivolte al passato incremento dell’espansione edilizia. Ci si chiede allora come si può coniugare tutto ciò con l’intervento edilizio sull’area di oltre 11 mila metri quadri tra la via Bacaredda e San Rocco con tanto di variante al PUC.
Non mancano infine le note curiose e divertenti. Come non sorridere alla lettura della necessità degli interventi sulle strade con la relativa messa in sicurezza delle reti sottostanti inadeguate a reggere le mutate condizioni meteorologiche? Come non pensare alla pavimentazione saltata in via Garibaldi all’accenno delle prime piogge?
Il Candido di Voltaire fu costretto a lasciare il suo paese e a girovagare per il mondo. Purtroppo anche da noi iniziano a essere tanti, troppi coloro che lasciano la nostra città perché non hanno una prospettiva di futuro, speriamo dunque che le nostre critiche servano a far riflettere e siano di buon auspicio a comprendere la drammaticità dei tempi attuali che devono essere necessariamente governati.
Roberto Mirasola
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IL DIBATTITO
Ripensare la città. Senza la partecipazione popolare non c’è presente e futuro accettabili

- Oltre i festival, per una nuova alfabetizzazione. Ottavio Olita, su il manifesto sardo
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Sardegna No dei sardi Mirasola1