Risultato della ricerca: Pietro Greco
Diario di un Pellegrinaggio in Terrasanta
Terra Santa – Diario di un Pellegrinaggio solidale.
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Terra Santa – Diario di un Pellegrinaggio solidale.
Oggi mercoledì 29 giugno 2022 San Pietro e Paolo
Buon onomastico ai Pietro e ai Paolo
- El Greco, Gli Apostoli Pietro e Paolo – 1587-92 – olio su tela – Hermitage, San Pietroburgo.
- San Pietro in carcere visitato da san Paolo è un affresco di Filippino Lippi che decora la Cappella Brancacci nella chiesa di Santa Maria del Carmine a Firenze. L’opera (230×88 cm) è databile al 1482-1485 circa.
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[Da Aladinpensiero online 29 giugno 2022]
Appello
RIDIAMO LA PAROLA AI CITTADINI ITALIANI da il manifesto.
Ridiamo la parola ai cittadini italiani
APPELLO. Da oltre un mese l’Italia è sotto assedio. Il popolo ucraino, cui va tutta la nostra incondizionata solidarietà, è martoriato dalle bombe russe, noi dalla propaganda di un sistema informativo […]
*** 21/04/2022
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Che succede?
VITTORIO E. PARSI: “LA LIBERTÀ DI OGNUNO È LA SOLA GARANZIA PER LA LIBERTÀ DI TUTTI”
16 Aprile 2022 by Giampiero Forcesi | su C3dem.
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Chi sono i Protestanti?
Si avvia il cammino sinodale.
IL POLIEDRO
protestanti
di Brunetto Salvarani su Rocca.
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Oggi martedì 29 giugno 2021
Buon onomastico ai Pietro e ai Paolo
- El Greco, Gli Apostoli Pietro e Paolo – 1587-92 – olio su tela – Hermitage, San Pietroburgo.
- San Pietro in carcere visitato da san Paolo è un affresco di Filippino Lippi che decora la Cappella Brancacci nella chiesa di Santa Maria del Carmine a Firenze. L’opera (230×88 cm) è databile al 1482-1485 circa.
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Grillo/Conte: un confronto complicato, ma tutto è nato da Grillo
29 Giugno 2021
Andrea Pubusa su Democaziaoggi.
Il confronto fra Grillo e Conte non è solo frutto di temperamenti diversi. Anche di questo. Ma la questione è più complessa, riguarda nel profondo la storia del M5S e la vicenda politica dei due protagonisti.
Grillo ha compiuto un’opera straordinaria, per molti versi unica, nella storia della politica in regime parlamentare. Ha in pochi […]
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Evento segnalato dalla Casa del quartiere Is Mirrionis, sulla pagina fb di ITI Is Mirrionis. La STORIA INFINITA dell’Hangar di Is Mirrionis come registrata nelle pagine di Aladinpensiero online.
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Auguri
Auguri di un Buon Anno e di Buon Lavoro per il nuovo Anno. Pace nel mondo!
IL CENSIMENTO
di Raniero La Valle
Care amiche ed amici,
al sopraggiungere di quest’anno 2021, quando Biden, Dio sa come, è presidente degli Stati Uniti, Conte è fortunosamente presidente del Consiglio in Italia, Johnson è il disastroso premier del Regno Unito e Angela Merkel, la donna tra i potenti che piange sui morti, è cancelliera della Germania federale, si deve fare un censimento di tutta la Terra, per dare a tutti il vaccino che li salvi dalla pandemia. È come il censimento che, secondo il racconto di Luca, Cesare Augusto ordinò che si facesse in tutto l’Impero, quando Quirino era governatore della Siria e nacque Gesù. Ma c’è una differenza. Quello di Augusto fu fatto per discriminare i cittadini non romani rispetto ai romani, mentre questo deve includere tutti. In quel tempo si pagava caro non essere cittadini romani: per esempio a Gesù costò essere giustiziato mediante la croce, supplizio a cui erano sottratti i Romani perché considerato troppo infamante per loro; a Paolo invece essere civis romanus fruttò potersi appellare a Cesare ed essere tradotto a Roma per esservi giudicato, anche se poi quella non apparve una così grande garanzia, se a Roma egli fu tenuto prigioniero e ucciso alla prima persecuzione utile.
Il fatto è che c’è censimento e censimento; a David fu rimproverato il suo perché era fatto solo per sapere di quanti uomini armati egli disponesse per la guerra, la Schindler list servì a salvare quanti più Ebrei dai lager, le liste anagrafiche sono usate spesso per escludere i poveri e negare il permesso agli stranieri, le mailing list rubate sul web servono ad ammassare consumatori.
Il censimento da fare oggi è invece sacrosanto, per la prima volta si deve fare in tutta la Terra per raggiungere tutti gli uomini e le donne di cui è preziosa la vita minacciata dal virus. Poveri e ricchi, come ha detto il papa, che il mercato sia d’accordo o no. Questo è stato il messaggio di Natale: “Gesù, è ‘nato per noi’: un noi senza confini, senza privilegi né esclusioni”. Contro il virus dell’individualismo, ha detto il papa, vaccini per tutti. “Non posso mettere me stesso prima degli altri, mettendo le leggi del mercato e dei brevetti di invenzione sopra le leggi dell’amore e della salute dell’umanità. Chiedo a tutti: ai responsabili degli Stati, alle imprese, agli organismi internazionali, di promuovere la cooperazione e non la concorrenza, e di cercare una soluzione per tutti: vaccini per tutti, specialmente per i più vulnerabili e bisognosi di tutte le regioni del Pianeta. Al primo posto, i più vulnerabili e bisognosi!”
Mai c’è stato, in tutto il messaggio natalizio, una distinzione tra chi fosse cristiano e chi cristiano non è, mai un minimo indizio che il papa pensasse ai “suoi”, o almeno ai credenti, e non a tutti. Queste “luci di speranza”, come egli ha chiamato i vaccini, “devono stare a disposizione di tutti”. Ormai il papa, che è conosciuto come il capo di una “cristianità”, sa di non essere mandato a una parte, a una selezione, a una Chiesa, sa che la sua udienza è per tutti, anche quando in piazza san Pietro o nell’Aula delle Benedizioni non c’è nessuno, in odio al contagio; ma sa anche perché, sa perché l’udienza deserta diventa comunione universale. La ragione è antica, ma la sua presentazione è nuova, mai si è predicato così, questa è la riforma della Chiesa e anzi delle religioni: è che il Padre ha reso tutti fratelli, tutti figli nel Figlio: “grazie a questo Bambino, tutti possiamo chiamarci ed essere realmente fratelli: di ogni continente, di qualsiasi lingua e cultura, con le nostre identità e diversità, eppure tutti fratelli e sorelle”; ma, ha aggiunto il papa, deve essere “una fraternità basata sull’amore reale, capace di incontrare l’altro diverso da me, di con-patire le sue sofferenze, di avvicinarsi e prendersene cura anche se non è della mia famiglia, della mia etnia, della mia religione; è diverso da me ma è mio fratello, è mia sorella. E questo vale anche nei rapporti tra i popoli e le nazioni: fratelli tutti!”. Anche se non è della mia religione. E se la fraternità non arriva a tutti, perché si ferma sulla porta di Caino, occorre andare oltre e riconoscere l’altro come prossimo, e qui non ci sono più frontiere perché il prossimo, come lo identifica Isaia e poi il Samaritano fino all’enciclica “Fratelli tutti”, è colui che è “della mia stessa carne”: “una caro”, come tra l’uomo e la donna. L’unità umana, voluta dal Padre, scende dalle alture spiritualistiche, si fa nella carne.
Perciò il vaccino deve essere per tutti: ma può esserlo solo come un bene comune, come l’aria, l’acqua, il sole, non una merce che produrrebbe ricchezze sconfinate a pochi, e lascerebbe fuori milioni di censiti in tutta la Terra. Il papa ha osato dirlo, attentando al principio supremo del profitto, e subito il Corriere della Sera col suo Ernesto Galli della Loggia ha superato ogni remora, ha decretato che la Chiesa è finita, col suo Francesco non andrà lontano, non ha più ragione di esistere.
Per contro proprio a questo dovrebbe provvedere una Costituzione della Terra che riconosca il diritto universale alla salute e lo munisca di garanzie e di istituzioni operative efficaci. Se ci fosse voluta ancora una prova per dimostrare quanto questo nuovo passo della civiltà e del diritto sia necessario ed urgente, la pandemia l’ha fornita. Ma intanto, mancando ancora tali istituzioni, la fornitura dei vaccini a tutti deve avvenire per decisione unanime degli attuali poteri economici e politici. Lo faranno?
Anche se questo accadrà, quando l’ultimo vaccino sarà stato portato dall’esercito, resteranno da raggiungere le persone reali, non un corpo che scompare dal video, non un viso travisato da una maschera, non un distanziato sociale, ma un volto da riconoscere, da carezzare, da amare.
C’è una riflessione molto profonda di Umberto Baldocchi su come uscire dalla pandemia; dice che il distanziamento è come l’inferno, e che il virus è funzionale al nichilismo; non se ne esce con la tecnologia, ma con un più di umanesimo, secondo la lezione del Boccaccio e dell’umanesimo italiano dopo la peste del 1348. Ve la proponiamo (Le nuove tecniche bastano a riumanizzare il mondo?) come pure pubblichiamo un appello di “Camminare insieme” di Trieste (Non possiamo tacere) per fermare il genocidio del popolo dei migranti nel Mediterraneo:
Con i migliori auguri per il nuovo anno.
(Non possiamo tacere) per fermare il genocidio del popolo dei migranti nel Mediterraneo: Con i migliori auguri per il nuovo anno.
Newsletter n. 211 del 30 dicembre 2020 www.chiesadituttichiesadeipoveri.it”>
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Come uscire dalla pandemia
LE NUOVE TECNICHE BASTANO A RIUMANIZZARE IL MONDO?
30 DICEMBRE 2020 / EDITORE / DICE LA STORIA / su chiesadituttichiesadeipoveri.
Enciclica di Papa Francesco Fratelli tutti
CAPITOLO TERZO
PENSARE E GENERARE UN MONDO APERTO
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E’ morto Pietro Greco, giornalista tra i più grandi divulgatori scientifici italiani
Ci è giunta questo pomeriggio la notizia della morte di Pietro Greco. Siamo per questo immensamente tristi e dispiaciuti.
Lo avevo conosciuto nel 2007 quando venne a Cagliari per aiutare l’Università a organizzare un master in Comunicazione scientifica. Giornalista professionista, massimo esperto di divulgazione scientifica, convinto sostenitore della Terza missione dell’Università, quella del trasferimento dei saperi sul territorio, a favore del loro sviluppo sociale, economico, culturale. Da tempo lo seguivo nei suoi articoli sempre di grandissimo spessore e interesse sulla rivista Rocca, quindicinale della Pro Civitate Christiana. Ultimamente, in occasione del Festival della Scienza, tenutosi a Cagliari dal 5 all’8 novembre, ho seguito alcuni webinar da lui coordinati sempre con grande professionalità e competenza scientifica sulle materie trattate.
Che grande perdita! Condoglianze e vicinanza alla famiglia, alla comunità scientifica che lo ha annoverato come un grandissimo comunicatore e divulgatore, a coloro che lo hanno apprezzato e gli hanno voluto bene. Per ricordarlo ripubblico un suo articolo, per me memorabile, apparso su l’Unità il 12 marzo 2007, che mi fece conoscere le sue idee, prima che lo incontrassi di persona a Cagliari, in due occasioni: nel 2007, come detto, e nel 2008, quando mi capitò di intervistarlo https://www.aladinpensiero.it/?p=57782 (fm).
- Su Wired,
- Su Il dispari quotidiano di Ischia.
- Su Repubblica online.
- Su Festival della Scienza fb.
- Su Il Corriere della sera online.
- Su La Stampa online.
- Su il mattino online.
- Su fanpage online.
Intervista a Pietro Greco 1° marzo 2008: https://youtu.be/lPXDpiogHw4?t=125
“Dalla parte del pianeta” XIII Cagliari FestivalScienza
Dal 5 all’8 novembre si è svolto a Cagliari il XIII Festival della Scienza, intitolato “Dalla parte del pianeta”, in edizione digitale. Tutte le video-conferenze sulle tematiche della Manifestazione nonché gli eventi connessi, come le premiazioni, sono disponibili in rete, fruibili in modo molto semplice, come segnalano gli organizzatori, che poi sono in grande parte “organizzatrici”, tutti/e bravissimi/e. Ben volentieri anche noi consigliamo la fruizione online della pregevole documentazione prodotta.
TI SEI PERSO LE DIRETTE DEL CAGLIARI FESTIVALSCIENZA 2020?
Non ti preoccupare puoi vederle e rivederle quando vuoi e con chi vuoi
UNITÀ ED EGUAGLIANZA UMANA
15 FEBBRAIO 2020 / COSTITUENTETERRA / L’UNITÀ UMANA /
Non c’è più né Giudeo né Greco
(Gal. 3, 28)
Relazione tenuta da Raniero La Valle a Portici il 6 ottobre 2018 alla Festa Multiculturale “Pane nostro”del Coordinamento Campano contro le camorre e le mafie.
di Raniero La Valle
Vi potrà stupire che ci sia una citazione biblica come titolo di questo mio intervento , quando né le citazioni bibliche né il cristianesimo sembrano oggi molto di moda, e anzi si sta cercando di dare una spallata per abbatterli.
Però a ben vedere anche il titolo di questa vostra Festa multiculturale è una citazione biblica, “Pane nostro”, anzi è addirittura una citazione del “Padre nostro”. E in sostanza le due citazioni vogliono dire la stessa cosa: e cioè che non c’è nulla di nostro, nemmeno il pane, che non sia anche degli altri, che non sia un nostro di tutti. E se non c’è né Giudeo né Greco è perché non c’è un mondo di soli cittadini e non anche di stranieri, non c’è da una parte un’Europa comunitaria e dall’altra un mondo barbarico di extracomunitari, non c’è un’Italia di residenti che non sia anche un’Italia di immigrati, di fuggiaschi e di nomadi.
Questa è la tesi del nostro discorso. Ma perché cominciare proprio dal mettere insieme Giudei e Greci? Per la buona ragione che nella nostra società non c’è più posto per l’antisemitismo. È vero che per arrivarci ci sono voluti milioni di morti, ma ormai su questo, a parte i negazionisti e gli acciecati, sono tutti d’accordo. Allora è bene partire da una posizione da tutti condivisa, per affermarne un’altra altrettanto sacrosanta, e cioè che come non c’è Giudeo e Greco, così non c’è Italiano e Straniero; e questa affermazione è invece oggi fieramente contestata, quando si dice “prima gli Italiani” o addirittura “solo gli Italiani”, come si dice “prima l’America” o “la Francia per prima”. L’altra sera in TV la signora Santanchè diceva che i migranti devono essere respinti in quanto delinquenti, e anche sotto questo profilo doveva valere il motto “prima gli Italiani”, anzi in questo caso il messaggio era “solo gli Italiani, vogliamo solo i delinquenti italiani”; e questi ce li dobbiamo tenere almeno fino a quando non si riuscirà a togliere la cittadinanza anche a loro, come prevede il decreto sicurezza del ministro Salvini.
Allora qui bisogna sapere che è in gioco una grande questione, che ha attraversato tutta la storia, e su cui si decide tutto il nostro futuro: è la questione della diseguaglianza.
La storia della diseguaglianza
Dire non c’è più Giudeo né Greco, come dissero Paolo e il cristianesimo nascente, era una rivoluzione epocale anzitutto perché gli stessi Ebrei sostenevano una differenza invalicabile tra sé e gli stranieri, che non potevano neanche entrare nel recinto del Tempio, gli uni essendo eletti gli altri dannati; ma era una novità straordinaria anche perché il pensiero della diseguaglianza dominava non solo l’immaginario religioso, ma tutta la cultura dell’umanità, e non solo nel sentire comune e nell’opinione del volgo, ma ai livelli più alti della filosofia e del pensiero. Quella che dominava era infatti l’antropologia di Aristotile che divideva la società in signori e servi, e i servi erano tali per natura, “naturaliter servi”, come traducevano i latini. Questa diseguaglianza non dipendeva da contingenti condizioni economiche e sociali, ma era una diseguaglianza originaria; in termini colti si potrebbe dire una diseguaglianza ontologica, per essenza, e quindi umanamente irrimediabile. È la stessa cosa che valeva e vale ancora oggi per le caste in India, per cui mai lì si potrà passare dalla casta dei mercanti o dei servi alla casta dei guerrieri o dei brahamani: l’unica possibilità di cambiare casta è di morire e ricominciare un’altra vita. E non parliamo poi dei dalit, o intoccabili e “fuori casta”, con cui le caste superiori non devono nemmeno venire in contatto; anzi per la strada essi devono camminare al centro per non offuscare con la loro ombra le mura delle case delle caste alte.
In Occidente Aristotele spiegava che come per natura si uniscono maschio e femmina per la riproduzione, così deve esserci “chi per natura comanda e chi è comandato al fine della conservazione” (“Politica”, libro I), e questo rapporto di dominio si fondava su una diseguaglianza originaria, per cui si nasce liberi o schiavi, maschio e femmina, “l’uno per natura superiore, l’altra inferiore, l’uno comanda, l’altra è comandata”, e da qui scendevano a cascata le altre diseguaglianze, sociali, di classe ed etniche, per cui erano contrapposti padroni e servi, liberi dal lavoro e costretti ai lavori necessari, cittadini e non cittadini, greci e barbari, nativi e meteci (che erano poi i meticci, gli immigrati).
Fu perciò una grande rivoluzione religiosa e antropologica che Gesù, in nome di Dio Padre nostro, padre di tutti, rompesse il muro di separazione tra Giudei e Greci, tra Ebrei e Gentili e affermasse la radicale eguaglianza di tutti gli esseri umani, fino a dire con Paolo non solo che non c’è più né Giudeo né Greco, ma non c’è più maschio e femmina, non c’è Barbaro o Scita, schiavo e libero, e non c’è più circoncisione e incirconcisione (Col. 3, 11): e questo voleva dire abrogare quella divisione tra eletti e scartati che, secondo le Scritture ebraiche era addirittura di diritto divino, tanto da essere poi per sempre impressa nella carne dei membri del popolo eletto mediante la circoncisione.
Ora questa radicale unità ed eguaglianza di tutti gli uomini e le donne che Gesù ha affermato e realizzato attraverso la croce veniva ad adempiere quelle promesse messianiche, che già nell’Antico Testamento avevano prefigurato l’unità di tutte le famiglie della terra; basta pensare alla profezia di Isaia che annunciava che dalle loro spade fabbricheranno vomeri, dalle loro lance falci, nessuna nazione alzerà più la spada contro l’altra e non impareranno più l’arte della guerra (Is. 2, 4), o la profezia di Michea che annunciava che potranno sedersi ciascuno tranquillo sotto la sua vite e sotto il suo fico senza nessuno che li spaventi, e addirittura che tutti i popoli avrebbero camminato insieme ognuno nel nome del suo Dio (Mich. 4, 4-5): cioè tutte le discriminazioni sarebbero cadute, mentre tutte le identità sarebbero state salvate. La novità del Cristo, che poi significa Messia, portava cioè quel cambiamento radicale che doveva segnare il passaggio dall’età della profezia, dell’annuncio, a quella della realizzazione delle promesse messianiche.
Purtroppo però questa antropologia nuova non è entrata di fatto nella storia successiva, e nemmeno, se non con molta fatica, nello stesso cristianesimo. È vero che, come dice la seconda lettera di Pietro un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno al cospetto di Dio (2Pt 3,8), ma fatto sta che il pensiero della diseguaglianza ha continuato a dominare la storia. Ed è stata questa cultura della diseguaglianza che ha fondato e legittimato le società signorili e feudali, e innumerevoli forme storiche concrete di società inegualitarie, castali, razziste, sessiste e classiste.
La conquista dell’America
Per venire a tempi più recenti, possiamo dire che questa cultura della diseguaglianza è all’opera e produce il massimo della sua capacità discriminatoria agli albori della modernità, quando, con la conquista dell’America, gli europei si imbattono negli Indios, e parte la grande vicenda della colonizzazione. Nel 1500 si ricorre infatti all’antropologia di Aristotile, per dire che vi sono uomini e collettività che non essendo per limiti innati dotati di ragione sufficiente, sono incapaci di essere liberi e padroni di se stessi e quindi giustamente assoggettati dagli Spagnoli. È la tesi che Francisco De Vitoria confuterà nella sua famosa Relectio de Indis: ma intanto gli Indios vengono assoggettati e questo pensiero della diseguaglianza arriverà fino ad Hegel, a Croce, a De Gobineau e ai razzismi del Novecento europeo.
È proprio a partire dalla conquista dell’America che si sviluppa infatti nella filosofia dell’Occidente la concezione che teorizza una diseguaglianza per natura tra gli esseri umani, come dirà apoditticamente il grande dizionario Larousse alla fine del XIX secolo: “Nul ne contestera que la race blanche ne soit superieure à toutes les autres”. L’idea antica che tra gli esseri umani ci fossero i superiori e gli inferiori, i perfetti e i malriusciti, trova nella percezione europea degli Indios “scoperti” o incontrati in America la conferma irrefutabile. Se ci sono uomini e meno uomini, gli Indios ne forniscono la prova. Comincia Colombo, che non riconosce “l’altro” (come ha mostrato Cvetan Todorov in «La conquista dell’America: il problema dell’”altro”») non riconosce colui che a suo parere non “sa parlare” (in verità non sa parlare lo spagnolo), e poi c’è il conquistatore Francisco Pizarro che ha ben ragione di sentirsi superiore dal momento che con soli 168 soldati riesce a prevalere su un esercito di 80.000 uomini, e prende prigioniero Atahualpa, il re degli Inca, nella città andina di Cajamarca, uccidendo settemila Indios (ma la verità è che aveva i cavalli, non ancora domesticati nel continente americano, e perciò aveva la cavalleria, e i fucili e l’acciaio delle corazze e delle spade e delle lance, ancora ignoti agli indiani che combattevano potendo ferire, ma non uccidere); e poi c’è Hernan Cortés, che impone con la violenza il meticciato facendo sposare agli spagnoli le più belle indiane e sposando lui stesso una principessa indiana, la Malinche, che poi naturalmente ripudia, per popolare le terre conquistate con una razza nuova, non più di indigeni, ma di mestizos, cioè di indiani spagnolizzati. Ci penserà poi la teologia di Juàn de Sepùlveda a suggellare l’inferiorità degli Indios, ma purtroppo questa teorizzazione della diseguaglianza non resta isolata, si pianta nella cultura europea fino ad essere espressa nel punto più alto della filosofia occidentale, cioè nell’opera di Hegel. Il grande filosofo tedesco ha delle pagine terribili sulla presunta inferiorità degli Indios. “Dal tempo in cui gli Europei sono approdati in America, gli indigeni sono scomparsi a poco a poco, al soffio dell’attività europea”, dice nelle “Lezioni sulla filosofia della storia”, e lo spiega così: “Della civiltà americana quale si era venuta evolvendo specialmente nel Messico e nel Perù… sappiamo solo che essa era del tutto naturale, e che doveva quindi scomparire al primo contatto con lo spirito”. Ma lo scarto tra lo spirito e la natura è anche uno scarto nella stessa natura; la scomparsa degli indigeni dipende dunque per Hegel “dall’inferiorità di questi individui sotto ogni aspetto, perfino quanto a statura”.
Nel rievocare queste pagine, il filosofo del diritto Luigi Ferrajoli sottolinea come esse abbiano fatto scuola, fino a Croce. Anche il patriarca della cultura italiana adotta infatti il criterio storiografico di un’opposizione tra popoli della natura e popoli dello spirito, e scrive: “Gli uomini si distinguono tra uomini che appartengono alla storia e uomini della natura, uomini capaci di svolgimento e uomini di ciò incapaci; e verso la seconda classe di esseri, che zoologicamente e non storicamente sono uomini, si esercita, come verso gli animali, il dominio, e si cerca di addomesticarli e di addestrarli, e in certi casi, quando altro non si può, si lascia che vivano ai margini… lasciando che di essa si estingua la stirpe, come accadde di quelle razze americane che si ritiravano e morivano (secondo l’immagine che piacque) dinanzi alla civiltà da loro insopportabile”[1].
E che la soluzione migliore per gli Indiani fosse lo sterminio, è stato teorizzato da eminenti studiosi. Nel 1782 a Pittsburgh il giurista e letterato H. Henry Brackenridge così si esprime a proposito degli Indiani: “Essi hanno l’aspetto umano e forse fanno parte della specie umana”; ma “la natura dell’indiano è feroce e crudele… Il loro sterminio sarebbe utile al mondo e onorevole per coloro che vi provvederanno”.
Ma purtroppo l’Indio è solo un prototipo; infatti la diseguaglianza teorizzata per loro riguarderà poi i neri, gli ebrei ed ogni altra categoria di diversi. Locke, all’inizio della rivoluzione industriale, assimilerà agli Indios i proletari: “un manovale non è in grado di ragionare meglio di un indigeno”. E Spencer, il promotore ottocentesco della società dell’utile, applicando alla sociologia e alla società la teoria darwiniana dell’evoluzione, scriverà nel suo “Sistema di filosofia sintetica”: Tutti gli uomini sono come sottoposti a un giudizio di Dio, “se sono realmente in grado di vivere, essi vivono, ed è giusto che vivano. Se non sono realmente in grado di vivere, essi muoiono, ed è giusto che muoiano”.
Il punto d’arrivo di questa linea di pensiero è Nietzsche, il vero teorico della società della selezione. Per Nietzsche non si può parlare di uomini “eguali”: questa è l’illusione dei deboli. In diversi punti delle sue opere Nietzsche mette sotto accusa l’eguaglianza, intesa come una grande follia. “Così parla a me la giustizia: gli uomini non sono tutti eguali. E neppure devono diventarlo!” (Zarathustra); l’eguaglianza “è volontà di negazione della vita, principio di dissoluzione e di decadenza” (Al di là del bene e del male). Di qui gli effetti, le conseguenze e gli scopi dell’eguaglianza: trasformare l’umanità in sabbia: tutti molto eguali, molto piccoli, molto tollerabili, molto noiosi”); essa porta a un “guazzabuglio sociale”, a una degenerazione della razza a .. sopprimere “la selezione” e rovinare la specie (Frammenti postumi). Il razzismo ha pertanto la sua copertura filosofica. Da tutto questo veniamo, altro che Salvini!
La svolta
Ma a un certo punto c’è una svolta epocale. La svolta arriva dopo i genocidi del Novecento, quello degli Armeni prima, e quello degli Ebrei poi, e arriva dopo quella tragedia della volontà di potenza che era stata la seconda guerra mondiale. L’umanità capisce il suo lungo errore, decide di cambiare pagina: sull’eguaglianza di tutti gli uomini e le donne e di tutte le Nazioni grandi e piccole è fondata l’ONU, viene messa fuori legge la guerra, il principio di eguaglianza è assunto come irrevocabile nella Costituzione italiana e nel costituzionalismo postbellico. Sembrava davvero l’inizio della realizzazione delle promesse messianiche. Invece è arrivata la guerra fredda, il terrore atomico, il riarmo nucleare; e quando i blocchi sono caduti e il comunismo è finito, il capitalismo, che era stato messo sotto scacco dalle politiche comuniste, socialdemocratiche, keynesiane e dalle stesse Costituzioni, ha preso la sua rivincita e ha potuto prendere il dominio del mondo nelle forme della globalizzazione. A questo punto la diseguaglianza è tornata a dominare la politica, l’economia e la finanza, e si è aperto il baratro di quella che papa Francesco chiama oggi la società dello scarto.
La società dello scarto
La nuova società dello scarto, che mette fuori gioco i non scelti, i non salvati, gli esuberi, i senza casa e i senza lavoro, è peggiore della vecchia società dello sfruttamento; lo ha spiegato il papa nella “Evangelli Gaudium” e lo ha ribadito nella recentissima intervista al Sole 24 ore (7 settembre 2018): “non si tratta semplicemente del fenomeno conosciuto come azione di sfruttamento e oppressione, ma di un vero e proprio fenomeno nuovo. Con l’azione dell’esclusione colpiamo nella sua stessa radice i legami di appartenenza alla società a cui apparteniamo dal momento che in essa non si viene semplicemente relegati negli scantinati dell’esistenza, nelle periferie, non veniamo privati di ogni potere, bensì veniamo sbattuti fuori. Chi viene escluso non è sfruttato, ma completamente rifiutato, cioè considerato spazzatura, avanzo, quindi spinto fuori della società. Non possiamo ignorare che un’economia così strutturata uccide perché mette al centro e obbedisce solo al denaro: quando la persona non è più al centro, quando fare soldi diventa l’obiettivo primario e unico, siamo al di fuori dell’etica e si costruiscono strutture di povertà schiavitù e di scarti”.
E noi possiamo aggiungere che mentre gli sfruttati almeno potevano lottare per riscattarsi, gli scartati non possono nemmeno lottare perché di fatto “non ci sono”. Non ci sono.
Il popolo dei migranti
Allo stesso modo non ci sono, non ci devono essere i migranti.
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Oggi 29 giugno Santi Pietro e Paolo.
Buon onomastico ai Pietro e ai Paolo
- El Greco, Gli Apostoli Pietro e Paolo – 1587-92 – olio su tela – Hermitage, San Pietroburgo.
- San Pietro in carcere visitato da san Paolo è un affresco di Filippino Lippi che decora la Cappella Brancacci nella chiesa di Santa Maria del Carmine a Firenze. L’opera (230×88 cm) è databile al 1482-1485 circa.
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CULTURA
di Pietro Greco, su Rocca
La pandemia Covid-19 che dall’inizio di gennaio sta squassando i fragili equilibri della sanità e dell’economia degli umani? È la natura che si vendica. Le stiamo facendo del male e lei, irritata, sta reagendo e ci punisce.
È questa una narrazione che ha assunto corpo nelle scorse settimane, da quando il coronavirus Sars-CoV-2 ha fatto il «salto di specie» e da qualche pipistrello è arrivato agli umani, con un’altra contagiosità e una moderata letalità che, dati i grandi numeri, si sta rivelando tragica assai. La narrazione non è stata proposta solo dai media, che, si sa, spesso utilizzano metafore fuorvianti, ma è stata proposta anche
da esperti e scienziati.
Ma la natura è davvero il giudice dei nostri comportamenti? O addirittura il «dio che atterra e suscita/che affanna e che consola» come scrive Alessandro Manzoni in una delle sue celeberrime poesie, Il cinque maggio? Ha davvero delle intenzioni «umane»? E davvero noi Homo sapiens dobbiamo «salvare il pianeta» se vogliamo evitare che lui, il pianeta, diventi insofferente e ci si rivolti contro?
A queste domande ha già risposto compiutamente, addirittura prima di Charles Darwin, un genio italico: Giacomo Leopardi. Conviene ricordare il suo Dialogo della natura e di un islandese, scritto nel 1824. È la natura che parla a un uomo, l’islandese appunto. Ecco cosa gli dice: «Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro che alla felicità degli uomini all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei».
Davvero geniale, Giacomo Leopardi. Perché questo brano ci dice tutto sul rapporto tra gli umani e la (il resto della) natura.
Noi siamo indifferenti alla (al resto della) natura. Non perché non siamo in grado di perturbarla, anche gravemente. Ma perché la (il resto della) natura non ha alcuna coscienza e tantomeno intenzionalità. Semplicemente non se ne avvede, come diceva il grande Giacomo. Quando lei ci diletta e ci riempie di benefici, lo fa ma non lo sa.
Né tantomeno lo vuole. Quando ci offende, come con il coronavirus, lo fa con risultati anche tragici, ma non la sa. Né tantomeno lo vuole. Se anche noi, Homo sapiens, dovessimo estinguerci, lo faremmo nella totale inconsapevolezza e indifferenza del resto della natura.
Il perché ce lo ha spiegato, in letteratura, un grande scrittore, come Mark Twain. La storia della vita sulla Terra lunga, come la Torre Eiffel. E noi sapiens siamo comparsi da poco in questa storia. Siamo l’ultimo strato di vernice su quella struttura d’acciaio che spalanca la vista su Parigi. Basta poco per scrostarlo, quell’ultimo strato e la Torre neppure se ne accorgerebbe.
In termini meno letterari e più scientifici, l’indifferenza della natura (del resto della natura) nei nostri confronti è stata spiegata da Darwin. Il quale non solo ha preso atto dell’evidenza: non c’è coscienza nella natura e tanto meno intenzionalità. Non c’è, a rigore, neppure indifferenza. Semplicemente la natura non sa di noi come non sa delle fastidiose zanzare o di SarsCoV-2. La natura – limitiamoci alla biosfera e non allarghiamo il discorso all’intero universo – è l’insieme dinamico delle popolazioni di milioni (forse decine di milioni) di specie viventi che a loro volta nascono, si sviluppano e muoiono immerse in un ambiente che a sua volta cambia nel tempo. La natura è, dunque, un sistema complesso dinamico privo di coscienza.
Questa è una deduzione logica che qualunque sapiens, in linea di principio, può fare e poteva già fare prima di Darwin.
Come ha dimostrato, peraltro, Giacomo Leopardi. La novità che Charles Darwin ha introdotto in maniera chiara è che la dinamica del sistema complesso natura non è teleologica. Non ha alcun fine. Tantomeno quello di rendere più agevole (o disagevole) la nostra presenza, umana, sulla Terra.
Non era scontata, questa novità introdotta da Darwin con la sua teoria dell’evoluzione biologica per selezione naturale del più adatto. Nel pensiero occidentale evoluzionista prima dell’Origine delle specie (1859) era ben consolidata l’idea che la vita evolve in una direzione precisa: il progresso, di cui i sapiens sarebbero la massima espressione. Anzi, che tutto è predisposto perché, a un certo punto, sulla torre della vita di cui parla Mark Twain venga spalmato l’ultimo strato di vernice. È quella che gli esperti chiamano teleologia. Ancora oggi c’è, nell’ambiente scientifico, chi la pensa così. Stuart Kaufmann, per esempio, scienziato del Santa Fe Institute dove si studiano i sistemi complessi, ha scritto tempo fa un libro dal titolo eloquente: At Home in the Universe. Siamo di casa nell’universo. Eravamo attesi e non potevamo non apparire, a un certo punto della storia cosmica.
Charles Darwin ha invece dimostrato che l’evoluzione è cieca. Non va in una direzione precisa o addirittura predefinita.
Esplora lo spazio delle possibilità a naso, adattandosi al mutare delle condizioni ambientali. Come sosteneva uno dei più grandi biologici e storici della biologia evoluzionistica della seconda parte del XX
secolo, Stephen Jay Gould, se riavvolgessimo il film della vita e lo riproiettassimo non è detto che comparirebbe di nuovo Homo sapiens. E neppure un qualche essere a lui somigliante. Siamo il frutto del caso, della necessità e della contingenza.
Dunque, la natura (il resto della natura) è indifferente alle nostre sorti. Lei non è un dio che atterra e suscita, che affanna e che
consola. La natura è un meraviglioso gioco di bricolage (la metafora è del grande biologo Francois Jacob) che continuamente prende forma grazie alle mani di un artigiano cieco.
E allora se la natura non si cura delle nostre umane sorti, perché noi dovremmo curarci delle sorti della natura? Perché all’indifferenza dovremmo contrapporre un’amorevole attenzione?
Queste domande hanno fatto scorrere fiumi di inchiostro (o di bit, più di recente).
Non diamo conto di tutte le scuole di pensiero. Ma possiamo dare due risposte, niente affatto alternative: ci compete, ci conviene.
Premettiamo: qualsiasi cosa noi umani facciamo (almeno allo stato della potenza delle nostre tecnologie) la natura ci sopravvivrà. Certamente cambiata, ma non uccisa. E comunque, indifferente.
Perché ci compete, dunque, la cura della natura? Perché siamo il primo attore ecologico nella storia della vita che è cosciente – anzi, grazie alla scienza, ha una «coscienza enorme» – delle sue azioni e delle loro conseguenze. Quando i primi organismi fotosintetici avvelenarono la biosfera riempendola di un veleno micidiale, l’ossigeno, uccidendo la gran parte degli altri organismi viventi, generarono una catastrofe – non a caso chiamata «olocausto dell’ossigeno» – ma non ne erano coscienti. Un inciso, la vita non solo sopravvisse anche a quella immane catastrofe, ma ne fece il trampolino di lancio per esplorare vie inedite, adattandosi al veleno e trasformandolo in prezioso combustibile.
Noi siamo i beneficiari di quell’olocausto e siamo anche meno catastrofici dei primi organismi fotosintetici, ma a differenza loro siamo coscienti delle nostre azioni.
Sappiamo che stiamo accelerando i cambiamenti del clima ed erodendo la biodiversità. Queste conseguenze delle nostre azioni sono desiderabili, per noi e per il resto della natura presente? Sta a noi decidere. È questa decisione che in virtù della nostra coscienza ci compete.
Il secondo motivo è: ci conviene. Ci conviene come specie diminuire la nostra impronta sul resto della natura, evitare la depletion (l’esaurimento delle risorse) e minimizzare la pollution (l’inquinamento).
Ci conviene fare del nostro meglio affinché il clima resti il più possibile quello mite degli ultimi dodicimila anni. Ci conviene evitare la sesta estinzione di massa delle specie viventi. Perché in un mondo in cui abbiamo dissipato le risorse naturali, inquinato all’inverosimile, accentuato l’effetto serra e ucciso decine di migliaia di altre specie viventi, noi vivremmo male. Anzi malissimo. Tanto male che qualcuno già prefigura la possibile estinzione di Homo sapiens.
Certamente questo qualcuno esagera. Ma, se questo dovesse avvenire, dobbiamo sapere che non è perché la natura si sta vendicando. È solo per la nostra insipienza.
Perché, come Leopardi le fa dire, a lei, alla natura: «E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei».
Pietro Greco
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