Risultato della ricerca: Interventi territoriali integrati

Documentazione

LEGGE 26 giugno 2024, n. 86 Disposizioni per l’attuazione
dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai
sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione
(GU Serie Generale n.150 del 28-06-2024)
Entrata in vigore del provvedimento: 13/07/2024
[in aggiornamento]

RAS. Le dichiarazioni programmatiche della presidente Alessandra Todde.

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[Dal sito web della RAS] Cagliari, 10 maggio 2024 – La presidente della Regione Alessandra Todde ha reso note oggi, in Consiglio regionale, le dichiarazioni programmatiche sul programma di governo.
Di seguito la traccia del suo intervento.

“Signor Presidente, onorevoli Consigliere e Consiglieri,

Benessere

660eee48-1dee-46b3-a0f8-639626d79b6aUna politica nuova per gli anziani e le RSA a Milano
26 Settembre 2021 by c3dem_admin | su C3dem
c3dem_banner_04[C3dem]Pubblichiamo un interessante documento, frutto della ricerca e della riflessione del gruppo Demos di Milano che, dell’analisi delle condizioni di vita degli anziani più fragili e di come riformare i servizi di cura e di sostegno loro rivolti, ha fatto uno dei temi centrali del suo impegno politico
[segue]

L’innovazione nella politica ritrovata nel passato.

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Il partito sociale. Un’idea sempre attuale
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23 Luglio 2021 by c3dem_admin | Su C3dem.
di Sandro Antoniazzi.
E’ un vero peccato e una grande perdita per la coscienza collettiva del paese che la rigida separazione tra ideologie contrapposte abbia a lungo impedito di apprezzare adeguatamente l’apporto culturale di persone appartenenti a file avverse.
Molte prevenzioni sembrano oggi cadute congiuntamente al parallelo venir meno delle ideologie.
In questo spirito vorrei richiamare l’attenzione sull’esperienza di Osvaldo Gnocchi Viani, socialista umanitario vissuto a Milano nella seconda metà dell’ottocento e nei primi anni del novecento, il cui rilevante contributo di pensiero merita di essere conosciuto e valorizzato ancora oggi.
Gnocchi Viani (Viani è il cognome della madre che Gnocchi, femminista ante-litteram, aveva aggiunto a quello del padre) non è certo una figura di secondo piano: è stato il fondatore della Camera del Lavoro di Milano, della Società Umanitaria, delle Università Popolari e del Partito Operaio Italiano (predecessore del Partito Socialista).
Aveva una visione molto ampia del socialismo, che considerava rivolto all’intera umanità; era in questo un socialista integrale (integralista, nel linguaggio del tempo): lo era innanzitutto sul piano delle diverse correnti, che lui chiamava scuole, e che, a suo parere, potevano tutte concorrere democraticamente alla comune battaglia (era però critico della corrente “autoritaria” – quella marxista – perché temeva la centralizzazione e analogamente, dopo aver visitato la Germania, diffidava del socialismo tedesco, rigido e gerarchico, mentre le sue preferenze andavano a un socialismo articolato e decentrato).
Era poi socialista integrale perché pensava che il socialismo riguardasse ogni aspetto della vita umana (filosofia, religione, diritto, economia, arte, politica) e per realizzare tale progetto riteneva che non fosse sufficiente la classe lavoratrice; un obiettivo così grande richiedeva il concorso di una pluralità di forze.
Comprendeva l’importanza del fattore economico, ma era reticente ad attribuirgli un ruolo preminente e considerava un pericoloso errore motivare l’iniziativa delle masse con la leva degli interessi materiali.
Per lui la questione operaia era solo una parte della più ampia questione sociale: le classi lavoratici non sono tutto il consorzio umano e non solo i lavoratori sono “irredenti”.
Il fine ultimo era quello, enunciato dall’Internazionale, della realizzazione di un’unica Grande Famiglia Umana, una visione ottimistica di affratellamento e di cooperazione, che confliggeva con la tesi darwiniana della lotta permanente fra gli uomini per la loro sopravvivenza.
Per perseguire questo scopo era importante partire dal basso, trasformando la coscienza dei lavoratori e dei cittadini.
Non si trattava solo di elevare il livello di istruzione, ma di dotare i lavoratori di una capacità critica, per essere in grado di comprendere il funzionamento della società, resistere all’ambiente intellettuale dominante e non essere subalterni ai capi politici, compresi quelli socialisti.
Occorreva contrastare un ambiente sociale che condiziona le persone e che forma la “sedicente opinione pubblica”, vero ostacolo al rinnovamento sociale.
Per essere un soggetto attivo la classe lavoratrice aveva bisogno di una cultura alternativa e anche di una morale che non fosse quella individualistica imperante.
La borghesia si era affermata perché era riuscita a imporre la propria cultura; per cambiare la società era necessario affermare una moralità diversa, perché solo un’umanità migliore avrebbe potuto realizzare una società migliore.
Così Gnocchi Viani non teme di sostenere che è necessario un rinnovamento interiore (pensiero tanto caro ai cattolici) e dimostrare una coerenza di vita: gratuità, disinteresse, sobrietà, sacrificio.
E’ decisamente contrario alla scuola autoritaria perché, con una visione lungimirante del futuro, riteneva che la dittatura di una classe tendeva sempre a risolversi nella dittatura di pochi, se non di uno solo.
Ma era anche critico della visione, propria dei parlamentari socialisti, della conquista del potere, perché essa limita l’orizzonte ideale e politico a ciò che si riesce a ottenere in sede parlamentare, facendo venir meno la forza insostituibile del movimento, cioè l’iniziativa e la volontà di riscatto dei lavoratori.
La sua concezione dei partiti politici (partito socialista compreso) è del tutto concorde con le critiche odierne: formano una casta (usa proprio questo termine), sono separati dalla base, limitano l’intera azione politica alle sole manovre parlamentari.
I partiti hanno una logica gerarchica, perché il governo è sempre governo di pochi.
Il partito politico soprattutto è lontano dalla questione sociale, non è in grado di gestirla, mentre la questione sociale è il fondamento della politica della classe lavoratrice.
Per questo Gnocchi Viani oppone al partito politico, il partito sociale, che ha alla sua base il principio associativo, il quale è orizzontale, solidaristico, cooperativo, federativo.
Il partito sociale è quello che ha il popolo come fine e dunque è per il potere diffuso e opera nella vita “pubblica”, non in quella “politica”, che è propria dei partiti politici e del loro modo di agire verticistico.
E ancora: i partiti politici pensano alla demolizione della vecchia società, sostenendo i principi liberali e individualisti propri dell’illuminismo, mentre i partiti sociali si dedicano a un’opera innovativa, la costruzione della società di domani.
E poiché l’alienazione economica e quella politica e culturale dei lavoratori vanno tutte assieme, altrettanto devono andare assieme la liberazione economica, l’autogoverno e l’arricchimento delle idee proprie.
La sua visione ideale rifuggiva pertanto dalle visioni governative e stataliste (considerava lo Stato “una bottiglia di vino cattivo”) per preferire, in alternativa, un sistema federativo di Amministrazioni comunali, nelle quali sarebbe stata possibile una partecipazione attiva dei cittadini.
Sarebbero molte le considerazioni che si potrebbero fare sulla nostra realtà attuale, stimolati dalle idee di Gnocchi Viani. In questa sede mi limito a due.
Innanzitutto, mi sembra che siamo troppo succubi di come funziona il sistema attuale: globalizzazione, comunicazioni di massa, multinazionali, Google, Amazon, ecc…; diamo tutto per scontato e rischiamo così di perdere la grande tradizione delle nostre municipalità.
Se è giusto accogliere e affrontare la dimensione mondiale come componente ormai normale della nostra vita, questo non deve avvenire negando e distruggendo la realtà umana, civile e culturale delle nostre città e dei nostri territori.
In secondo luogo, mi sembra che ci sia troppa arrendevolezza sul piano culturale e dei valori, quasi ormai rassegnati, per la sproporzione di forze, ad accettare di tutto.
Forse Gnocchi Viani era troppo idealista e viveva in una società più semplice.
Ma non è ora di riprendere una battaglia culturale più critica rispetto a tante tendenze che si diffondono?
Quando in Francia, all’inizio dell’ottocento, Pierre Leroux coniava la parola “socialista” non aveva in mente un partito, ma semplicemente un termine che era il contrario di “individualista”.
Si trattava di due parole equivalenti: l’individualista è colui che guarda all’interesse proprio, il socialista colui che guarda all’interesse comune, collettivo.
Non si potrebbe ritornare oggi all’uso originale e vedere di formare più “socialisti” e meno “individualisti”?

Sandro Antoniazzi
luglio 2021
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Sulla figura di Osvaldo Gnocchi Viani ha molto indagato Pino Ferraris. Di queste ricerche diamo conto in diversi articoli del nostro periodico: https://www.aladinpensiero.it/?s=Pino+Ferraris
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Contributi al dibattito su “Crisi del Welfare ed economia civile”. Il pensiero di Pino Ferraris
ferraris pino LIBROape-innovativa Proseguiamo nel riproporre le riflessioni di Pino Ferraris (anche con la mediazione di altri che ne hanno studiato il pensiero), utilizzando la documentazione pubblicata dalla news online “Controlacrisi” per ricordarne la figura all’indomani della sua morte avvenuta il 2 febbraio 2012. I contributi teorici di Pino Ferraris mantengono una straordinaria validità per affrontare oggi la crisi che attraversiamo drammaticamente e che è crisi insanabile del capitalismo, indirizzandoci nella ricerca di soluzioni diverse anche da quelle in buona parte fallimentari dei modelli storicamente attuati del socialismo reale. Pino Ferraris negli anni 70 frequentava spesso la Sardegna, spendendosi generosamente nei movimenti della sinistra alternativa, apportando la sua capacità di teorico e ricercatore appassionato e rigoroso, maestro per molti di noi giovani (allora) militanti della nuova sinistra sarda.
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PINO FERRARIS SULLE PRATICHE DI NEO MUTUALISMO E AUTORGANIZZAZIONE

Pino Ferraris fto microConclusione di Pino Ferraris al Convegno sulla Mutualità promosso dalla Società di Mutuo Soccorso d’Ambo i Sessi “Edmondo De Amicis” di Torino –

L’ultimo intervento del rappresentante della Società Operaia di Orbassano ha portato un importante contributo di chiarezza nel dibattito in corso. Evitiamo – egli ha affermato – di identificare le Società di Mutuo Soccorso con le “mutue”.
In questo caso, di fronte alla realizzazione della riforma sanitaria come diritto dei cittadini alla salute, il loro compito sarebbe residuale, modestamente integrativo o pericolosamente sostitutivo di diritti fondamentali.
Nel corso della prima sessione del convegno intitolata “Che cosa ci insegna la storia della mutualità”, Marco Revelli ha parlato di questa esperienza come di una grande scuola di auto-organizzazione e come anello di congiunzione tra la cultura dei mestieri e i problemi degli ambiti di vita e infine come uno storico movimento di costruzione di nuove relazioni sociali basate sul principio di solidarietà. Occorre non perdere mai il senso di questa profonda ed ampia ispirazione delle società di mutuo soccorso.
Nella seconda sessione del convegno dedicata a “Crisi del Welfare ed economia civile” è stata sollevata una domanda molto pertinente: perché oggi c’è una ripresa del mutualismo? Quarant’anni fa si parlava di altre cose. Questo ritorno rappresenta soltanto un tentativo di risposta alla crisi del welfare oppure ha una valenza politica?
Revelli ha affermato che il movimento operaio del 900 ha vissuto di rendita sulla grande ondata istituente di nuove forme associative suscitate nella seconda metà dell’800: il mutuo soccorso, le leghe di resistenza, la cooperazione, le case del popolo, il partito di massa.
Il 900 non ha solo ereditato la rendita di queste risorse associative, ma a partire dalla tragica esperienza della Prima guerra mondiale esso ha anche operato una torsione burocratica, politicista e statalista del patrimonio del movimento operaio ottocentesco.
Qui sta la ragione principale del mancato riconoscimento storiografico del mutualismo: con esso si è rimossa la sua ispirazione autogestionaria, il suo radicalismo democratico, la sua affermazione delle autonomie del sociale.
Il ritorno del mutualismo significa anche e soprattutto ricerca di nuove vie della politica dopo la crisi di socialismi autoritari, di sistemi politici oligarchici e autoreferenziali, dopo le deviazioni del welfare verso forme di paternalismo statale selettivo e clientelare.
Dentro lo sviluppo del volontariato, di movimenti di cittadinanza attiva, di buone pratiche di cittadinanza negli anni 80 e nei primi anni 90, si aprivano possibilità di sussidiarietà circolare (Cotturri) tra istituzioni e associazioni in grado di far emergere una sfera pubblica sociale (che non è il cosiddetto privato-sociale). La stagione dei “nuovi sindaci” prometteva l’articolazione di un welfare locale. Tutto ciò sembrava rompere la rigidità, la selettività, la freddezza burocratica dell’offerta di welfare e aprire varchi all’intervento attivo, competente e propositivo della domanda sociale, rendendo visibili ed esigibili diritti negati o elusi dei cittadini.
E’ possibile rompere il nesso assistenza-dipendenza? E’ possibile che i “destinatari” dell’offerta di welfare diventino anche attori proponenti di una domanda sociale nuova e appropriata? E’ possibile che l’”oggetto” delle pratiche di tutela politica e amministrativa possa entrare sulla scena pubblica come “soggetto”?
E’ in questa ottica che per anni con altri amici e compagni abbiamo lavorato non per tamponare una “crisi” del welfare ma per realizzare un nesso tra “riforma” ed “estensione” del welfare e i valori di autonomia sociale, le pratiche di partecipazione e di solidarietà di un neo-mutualismo.
Oggi sono più prudente nel privilegiare questo rapporto neo-mutualismo e welfare. Non solo perché questo riferimento al welfare mi pare riduttivo, ma anche perché su questo terreno le strade si sono fatte oggi più strette e i percorsi quasi impraticabili.
Come si colloca il neo-mutualismo dentro quell’insieme di pratiche sociali che vengono sommariamente riassunte nella definizione del “terzo settore”?

Recentemente a Roma si è tenuto un convegno dal titolo significativo: Terzo settore, fine di un ciclo. La relazione era di don Vinicio Albanesi, fondatore della Comunità di Capo d’Arco, altre relazioni erano di Giovanni Nervo, di Giuseppe De Rita, di Carniti. Concludeva Giulio Marcon.
De Rita in poche parole ha fissato la situazione: “Oggi il volontariato è in qualche modo uno spazio per anziani generosi, mentre la dimensione più giovanile e anche quella più settorializzata va verso un’altra direzione che approda alla cooperazione di servizi, alle imprese sociali, che sono una cosa molto diversa dal volontariato.”
Una riforma del Welfare richiede non solo la capacità di dare rilevanza sociale e politica al lato attivo, competente e propositivo della domanda sociale, come avvenne con il volontariato degli anni 80 e primi anni 90, ma esige in primo luogo un forte impegno politico generale nel rendere giusta la solidarietà fiscale, nel rendere equa la solidarietà assicurativa. Solo così la solidarietà quotidiana può evitare il pericolo di decadere in una supplenza di diritti negati.
[segue]

Una Casa comunità e un Ospedale di comunità nell’’ex Ospedale San Giovanni di Dio? Potrebbero essere realizzate sulla base degli indirizzi (e considerati i finanziamenti) del PNRR. Parliamone.

ospedale-sangiovannididio Approfondimenti.
La Casa della comunità
di Alvaro Bucci su Agire politicamente.
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Salute e Sanità

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Ripensare la sanità. Per un umanesimo della cura
24 Giugno 2021 by c3dem_admin | su C3dem.

Nel corso della “tre giorni” che l’associazione Agire Politicamente ha tenuto ad Assisi nella seconda metà di giugno è stato discusso un documento sulla Sanità redatto da un gruppo di lavoro coordinato da Massimo De Simone e Domenico Rogante. Il documento è aperto al parere ed all’eventuale apporto di tutti. In seguito, sarà rielaborato e presentato in diverse sedi
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Nel corso della drammatica emergenza sanitaria conseguente alla diffusione del Covid-19, anche nel nostro Paese sono emerse questioni riguardanti in particolare il futuro del nostro sistema sanitario su cui si è già aperto un articolato dibattito.

C’è innanzitutto la questione della vulnerabilità di una organizzazione concepita per far fronte alla domanda della salute che era tipica del secolo scorso, e che ha subito forti tagli lineari specialmente negli ultimi dieci anni fino a raggiungere un definanziamento complessivo di circa 37 miliardi. Ne ha sofferto il numero di posti letto negli ospedali (ne abbiamo la metà di quelli su cui possono contare i tedeschi) e, in modo particolare, quelli per terapia intensiva. Ed abbiamo pochissimi infermieri ed altri operatori sanitari; anche se il numero dei medici non è inferiore rispetto alle medie comunitarie, dei quali però si prevede una grave carenza nei prossimi anni, frutto di una errata programmazione nell’ambito del sistema del numero chiuso che respinge sei studenti su sette.

Le altre questioni, sulle quali nel prossimo futuro dovranno farsi più attente analisi e proposte di eventuali necessari cambiamenti per superare le criticità emerse durante questa emergenza pandemica, riguardano l’assetto istituzionale, l’organizzazione integrata tra servizi ospedalieri e medicina territoriale ed il rapporto tra pubblico e privato.

È bene ricordare che il Servizio sanitario nazionale nacque nel 1978 per superare il sistema mutualistico. Aveva tra gli obiettivi principali quelli l’equità (uguali prestazioni per tutti), la partecipazione democratica (gestione affidata ai comuni e partecipazione dei cittadini nelle Unioni sanitarie locali), la globalità degli interventi (prevenzione, cura, riabilitazione), la territorialità dei servizi (prossimità al luogo di manifestazione del bisogno), l’organizzazione del distretto sanitario (erogazione dei servizi di primo livello e di primo intervento), la centralità della prevenzione.

Negli anni successivi, si è andati sempre di più verso un’aziendalizzazione della sanità per rispondere alle pressanti esigenze finanziarie, con l’introduzione di una concezione di assistenza pubblica in cui la spesa sociale e sanitaria doveva essere proporzionata alla effettiva realizzazione delle entrate e non più unicamente all’ entità dei bisogni. Concezione ulteriormente fortificata dalla privatizzazione di alcuni servizi e quindi dalla competizione tra pubblico e privato.

Successivamente, con la regionalizzazione del sistema, la tutela della salute è divenuta materia di legislazione concorrente Stato-Regioni: lo Stato determina i Livelli essenziali di assistenza (LEA); le Regioni hanno competenza esclusiva nella regolamentazione e organizzazione dei servizi sanitari e nel finanziamento delle Aziende Sanitarie. Questa organizzazione ha creato differenze sostanziali nei servizi offerti da ciascuna Regione, in particolare sui ticket per le prestazioni, sui prontuari farmaceutici, sul costo dei materiali.

Si ridefiniva inoltre il distretto ampliandone la matrice organizzativa tecnico-gestionale, ma se ne esaltava la versione burocratico-amministrativa del sistema, a discapito di quella di assistenza territoriale diretta, per la quale si affidava alla Regione la scelta tra soggetti pubblici o anche privati. Successivamente i piani sanitari nazionali 94/96 e 98/2000 hanno indicato la necessità dell’integrazione tra attività distrettuali, assistenza di base dei medici di medicina generale e assistenza domiciliare.

Con il decreto Balduzzi (2012) si tentò di dare concretezza al ruolo del territorio e della medicina generale, stabilendo modelli aggregativi dei medici di medicina generale e pediatri di libera scelta monoprofessionali (AFT) e multiprofessionali (UCCP), per garantire la continuità assistenziale, dall’ospedale verso i territori, con il distretto competente a garantirla. Si determinava la necessità del ruolo unico delle figure professionali mediche della medicina territoriale, con la previsione di utilizzo, negli studi dei medici di famiglia, di tecnologia di primo livello e strumenti di telemedicina.

Dai cenni indicati si può desumere che non mancasse la consapevolezza della rilevanza dell’integrazione complessiva dall’ospedale al territorio o, meglio, viceversa, ma i fatti sembrano contraddirla. Infatti, la riconversione degli ospedali e la rapida definizione degli standard dell’assistenza territoriale permettevano di superare il mito del posto-letto a favore della valorizzazione di una rete di servizi territoriali ed ospedalieri considerati in modo unitario.

Oggi si può affermare che la disfunzione più grave del sistema sanitario è imputabile al fatto che i principi della riforma del ‘78 sono stati abbandonati o non attuati, senza che sia dimostrata la loro obsolescenza. Il sistema sanitario pubblico non sembra, almeno esplicitamente, messo in discussione, per quanto oggi stia diventando sempre più una consuetudine appaltare alcuni servizi ai privati. Questo, a nostro avviso, rischia di minare quelle che sono le fondamenta del nostro Sistema sanitario nazionale, che prevede il ricorso al privato solo come integrazione dei servizi, sulla base delle esigenze dovute alla programmazione, senza che debba mai sostituire completamente il servizio pubblico, anche perché vorrebbe dire un aggravio delle spese a carico dei cittadini.

L’aspetto che viene messo maggiormente in discussione è la capacità sul lungo periodo, da parte di questo sistema, di mantenere, se non di migliorare, il livello dell’assistenza, soprattutto con un trend di invecchiamento della popolazione sempre crescente che rischia di superare la soglia di sostenibilità.

Ciò che sicuramente si è dimostrato indispensabile è l’attuazione di una continuità assistenziale dall’ospedale al territorio, per la quale necessita l’integrale implementazione della Riforma Balduzzi, ruolo unico dei medici di base compreso. A tal proposito è da notare che non a caso la relativa previsione, che risale al 2012, non ha avuto concretizzazione. Forse non si tratta solo di resistenze corporativistiche, forse c’è da riflettere su quale possa essere il ruolo e la natura stessa del medico di base, per l’oggi e per il futuro. È un bene prezioso il rapporto di fiducia tra il medico, la persona e la famiglia; il medico di base deve essere una figura di primo piano nella medicina del futuro. Occorre assicurare il permanere di quel rapporto anche se inserito nel ruolo unico, che ne realizzi una identità nuova ed esaltante in una struttura di prossimità. Occorre poi una riflessione sul ruolo complessivo che il distretto può giocare se mantenuto in dimensioni tali da conservare la prossimità al territorio.

Il rapporto Stato – Regioni dopo la pandemia

L’emergenza Covid-19 ha messo in luce la vulnerabilità dell’organizzazione/articolazione istituzionale del sistema, acutizzando le ben note criticità esistenti nel rapporto tra Stato- Regioni. In questi mesi molte regioni hanno dato cattiva prova di sé nella gestione amministrativa della pandemia. Il continuo rivendicare la propria autonomia, più per esigenze politiche che per altro, non ha fatto altro che creare ulteriore confusione e disservizi, in una situazione che invece richiedeva necessariamente interventi centralizzati da parte dello Stato. La stessa Corte Costituzionale, con la sentenza 37, ha dovuto chiarire che: “a fronte di malattie altamente contagiose in grado di diffondersi a livello globale, ragioni logiche, prima che giuridiche radicano nell’ordinamento costituzionale l’esigenza di una disciplina unitaria, di carattere nazionale, idonea a preservare l’uguaglianza delle persone nell’esercizio del fondamentale diritto alla salute e a tutelare contemporaneamente l’interesse della collettività.”

Per queste ragioni, l’esperienza di questi mesi deve servire per tentare un nuovo approccio al tema del rapporto tra lo Stato e le Regioni e le autonomie differenziate, inquadrandolo in una riflessione più ampia del ruolo dell’amministrazione centrale e dell’indirizzo politico di ciascuna regione, rafforzando gli strumenti di coordinamento e collaborazione tra il governo e le autonomie, con la consapevolezza che lo Stato deve esercitare funzioni di indirizzo e coordinamento delle attività amministrative regionali in materia sanitaria e che può anche esercitare il potere sostitutivo in caso di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica. Sarà importante avviare questa riflessione anche alla luce del processo in corso sul federalismo fiscale, cui fa riferimento il PNRR, che deve comportare la ridefinizione dei criteri di ripartizione delle entrate e delle spese, per evitare di aggravare in maniera definitiva il divario tra il Nord ed il Sud del Paese.

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza: un’occasione da non perdere

Tra le novità più importanti emerse in questo ultimo anno così difficile, rappresenta sicuramente una fonte di speranza per il futuro l’iniziativa denominata Next Generation Eu (NGEU) con cui l’Unione europea assegnerà agli Stati membri fondi finalizzati a favorire la ripresa economica e sociale dopo la pandemia, ricorrendo alla combinazione di due linee di sostegno: il Recovery and Resilience Facility (Dispositivo europeo per la ripresa e la resilienza) e il REACT-EU (Assistenza alla ripresa per la coesione e i territori d’Europa), all’insegna della transizione ecologica, della digitalizzazione, della competitività, della formazione e dell’inclusione sociale, territoriale e di genere.

Entro il 30 Aprile 2021 ogni stato membro ha presentato il proprio Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, cominciando così un’interlocuzione formale con le autorità europee che porterà all’approvazione dei piani per sbloccare la prima parte delle risorse e finalmente dare l’avvio alla realizzazione.

La parte del piano presentato dall’Italia, riguardante i fondi per la Sanità. è rappresentata dalla Missione 6 Salute, per un finanziamento complessivo di 15,63 miliardi di euro. A questi si aggiungono le risorse del REACT-EU e del Fondo Nazionale Complementare per ulteriori 4,6 miliardi, per un totale di 20,22 miliardi da spendere nel periodo 2021-2026.

Ulteriori finanziamenti provenienti dal bilancio statale integrano la Missione Salute del PNRR con altri 3,72 miliardi nel quinquennio.

I finanziamenti si articolano in due componenti: circa 9 miliardi per il potenziamento delle reti di prossimità, delle strutture e della telemedicina per l’assistenza territoriale, e circa 11 miliardi per l’innovazione, la ricerca e la digitalizzazione del Servizio sanitario nazionale.

La sfida del Recovery Plan rappresenta una nota positiva che contribuisce ad invertire la rotta che ormai da decenni si era intrapresa, ovvero quella di considerare la sanità il “comparto da sacrificare” per far quadrare i conti dello Stato. Importanti segnali di cambiamento in questo senso sono desumibili dal fatto che per la prima volta i finanziamenti complessivi per la sanità territoriale superano quelli per la sanità ospedaliera, un orientamento che ci sentiamo di condividere largamente dopo anni di depauperamento delle risorse sanitarie territoriali. Inoltre, la componente ospedaliera della Missione Salute del PNRR è beneficiaria di 1,67 miliardi destinati alla digitalizzazione del Servizio sanitario (FSE e sistema informativo del Ministero della Salute) che coinvolge orizzontalmente non solo gli ospedali ma tutta l’organizzazione sanitaria.

L’entusiasmo che ci coglie nel prendere atto di questo cambiamento epocale alla quale il nostro paese si prepara, non ci impedisce di rilevare alcune criticità che emergono dalla lettura della Piano realizzato dal governo. Un aspetto che balza subito agli occhi è l’assenza di finanziamenti diretti per la riorganizzazione e il potenziamento del settore della prevenzione, alla quale sono destinati solo piccoli finanziamenti statali. Riteniamo che ogni tipo di riorganizzazione e miglioramento del Servizio Sanitario non possa prescindere dal potenziamento dei dipartimenti di prevenzione per far fronte a rischi attuali e future pandemia. Per questo, auspichiamo che si possa porre rimedio a questa grave carenza, tenuto conto che anche a livello internazionale, sono attesi provvedimenti di riorganizzazione della rete dei servizi di prevenzione proprio per contrastare i rischi di pandemie globali.

Un altro aspetto sulla quale ci sembra opportuno richiamare l’attenzione è che il PNRR attualmente provvede solo in piccola parte a finanziare le spese gestionali relative al personale, ma sembra ovvio che per far funzionare i nuovi servizi occorrerà assumere il personale e finanziare i suoi costi insieme a tutti gli altri necessari per avviare le nuove attività.

In generale, le maggiori perplessità derivano dal fatto che quando finiranno le risorse del Recovery Plan, il piano di potenziamento dell’assistenza territoriale sarà a regime e dovrà essere sostenuto dai finanziamenti nazionali. Il personale aggiuntivo delle Case della Comunità, dell’ADI e degli Ospedali di Comunità costerà circa 2 miliardi l’anno e ad oggi sarebbero coperti solo con circa 745 milioni (art. 1 del D.L 34/2020), mentre la restante parte della spesa, secondo il governo, dovrebbe essere coperta dall’attuazione di un Piano di sostenibilità.

L’auspicio è che si possa provvedere con largo anticipo a reperire tutti i finanziamenti necessari per garantire la prosecuzione dei servizi già attivati, assumere il personale e avviare i servizi che partiranno dal 2027, per evitare di vanificare le speranze che stanno nascendo intorno a questo importante progetto.

Al netto delle criticità alla quale abbiamo fatto riferimento, è importante sottolineare che questi fondi costituiscono un’importante opportunità di crescita e di innovazione del sistema. Ci auguriamo che si crei un proficuo dialogo tra le istituzioni, gli enti che saranno chiamati ad attuare questo piano, i cittadini, le associazioni e le categorie interessate, affinché si possa arrivare a realizzare un Servizio sanitario che sia sempre più vicino ai bisogni della gente ed in particolari ai più fragili.

La nostra Associazione, con questo modesto contributo, intende porre l’attenzione su alcune questioni che riteniamo essere prioritarie e dalla quale bisognerà partire se si vuole immaginare una sanità che sia più a misura del paziente.

Verso un nuovo sistema sanitario nazionale

La Sanità territoriale: il nuovo centro del SSN

Come abbiamo già anticipato, la maggior parte dei fondi presenti nella Missione 6 del PNRR sono destinati al potenziamento della Sanità del territorio, che nel periodo pandemico ha mostrato tutta la sua inadeguatezza. La mancanza di una reale alternativa di cura territoriale in questi anni non ha fatto altro che peggiorare l’offerta dei servizi per i pazienti, con il problema delle liste d’attesa che rappresenta ormai una “piaga sociale” non più tollerabile. Una delle conseguenze di queste carenze è stata quella di rendere provvedimenti come il D.M 70 inadatti e molto spesso dannosi per i territori, in quanto percepiti come un‘imposizione dall’alto di un numero minimo di posti letto che non teneva conto della reale domanda che veniva dai cittadini. L’esperienza di questi mesi ha ribadito che quando si parla della salute dei cittadini non possono essere applicati i canoni ferrei dell’economia industriale ove esiste un prodotto finale. Nella sanità vengono prodotti servizi non valutabili nel breve periodo, in quanto il prodotto finale di valutazione è l’outcome di salute della popolazione che ha un tempo di analisi ampio e quindi esula da tutti i canoni economici di valutazione. Perciò, prima di introdurre dei parametri di riferimento per l’allocazione delle strutture, è necessario introdurre un’analisi dei flussi e una verifica dei processi della domanda di assistenza.

“Delineare quella prossimità al mondo degli anziani, che sino ad oggi è stato scartato dall’attenzione pubblica” (Papa Francesco, Fratelli Tutti)
[segue]

PNRR sotto la lente del Forum delle disuguaglianze e diversità

logo-pnrr-aladinlogo-forumdd-x74988 COSA PENSIAMO DEL PIANO INVIATO ALL’UE E “CHE FARE ORA”?
1. Gli spazi per fare la cosa giusta e un requisito: monitoraggio aperto
11 maggio 2021 su ForumDD.
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (235,1 miliardi di euro, di cui 204,5 di Next Generation EU) è all’attenzione formale della Commissione Europea. Dopo avere lavorato dal luglio 2020 per orientarne le scelte, per noi ForumDD, come per tanti altri, è arrivato il momento di prendere atto che questo è quanto le nostre istituzioni sono in grado di fare. Sull’esito pesano l’infelice avvio – a partire dalla raccolta dei progetti esistenti – e la scelta, immodificata da un governo all’altro, di assoluta chiusura al dialogo sociale. Pesa, da ultimo, anche la scelta della classe dirigente europea di anteporre l’obiettivo di “chiudere” i Piani alla presenza di tutti gli elementi di garanzia per il raggiungimento degli obiettivi dichiarati. E allora, se questo è “ciò che passa il convento”, ci sono tre cose da fare: apprezzare alcuni progressi compiuti; segnalare i seri limiti (molti già presenti in gennaio), osando augurarci che alcuni di essi siano superati nel confronto con la Commissione Europea; e poi, comunque, a Piano dato, individuare gli spazi che abbiamo, come società attiva e ricerca, per cavarne il massimo in termini di sviluppo giusto e sostenibile, di giustizia sociale e ambientale, insomma, il nostro “che fare” dei prossimi mesi.
Queste tre cose proviamo a fare in queste note. Lo facciamo, nonostante la valutazione sia resa difficile dal fatto che il Governo non ha ancora reso pubblici al Paese e al Parlamento le informazioni su “Targets e Milestones”, che immaginiamo la Commissione Europea abbia, visto che sono parte integrante del Piano da essa richiesto, e che circolano da poco in modo informale e non facilmente intellegibile. Ma prima un’osservazione generale. [segue]

Coronavirus. Pensare, analizzare, agire. Il contributo dei redattori della rivista Rocca, della Pro Civitate Christiana di Assisi su ANZIANI, DISUGUAGLIANZE, MIGRANTI, SCIENZA

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ANZIANI
gli scarti di un sistema

di Ritanna Armeni su Rocca.

E’ stata la presidente della commissione europea Ursula Von der Lyen a lanciare per prima l’idea.
Per combattere efficacemente i coronavirus è bene che gli anziani rimangano in quarantena fino alla fine del 2020. Non è chiaro se per anziani si intende chi ha superato i sessantacinque o i settanta anni di età, ma l’idea è piaciuta anche in Italia. Sono due mesi che il paese è fermo, è necessario riprendere l’attività produttiva, allentare le prescrizioni, ma occorre farlo gradualmente e allora – si dice – restino a casa gli anziani, quelli che sono più deboli, più soggetti alla malattia e alla morte.
Parte consistente dell’opinione pubblica ha approvato. Sì, gli anziani a casa. Gli altri fuori a lavorare o a cercare un lavoro, a studiare, a viaggiare, i più vecchi possono farne a meno. In fondo che cosa costa un altro po’ di carcere domiciliare a chi non è produttivo?
C’è voluto poco e quella che sembrava un’ipotesi come tante si è trasformata in un dibattito aspro e cattivo.
L’ipotesi di tenere a casa ancora per qualche mese gli anziani è diventata in parte dell’opinione pubblica necessaria e utile; il motivo della scelta è pian piano cambiato: non più la protezione della loro debolezza, ma la loro inutilità, anzi il danno che possono procurare al già debole stato sociale del paese.
Soprattutto nei social che – piaccia o meno – sono in gran parte lo specchio del paese.
In essi si riflette la gente per quello che è, fuori da ogni mediazione culturale, quindi anche con le brutture, gli eccessi, le forme d’inciviltà. E nei social il dibattito si è sviluppato con virulenza, la verità si è trasformata nel suo contrario, la polemica è dilagata.
Gli anziani da soggetti da proteggere si sono trasformati in pericolosi portatori del contagio, da vittime di un sistema sanitario, evidentemente impreparato e non all’altezza, in pericoli per la salute degli altri, dei giovani, dei produttivi.
Se si ammalano – qualcuno ha detto – occupano un posto in terapia intensiva e lo tolgono ai giovani. Gli ospedali devono essere decongestionati, i vecchi devono lasciare il posto.
Il fatto che gli anziani aspirino, come tutti alla libertà di movimento, a godere di una primavera o di un estate, a frequentare librerie, è segno di egoismo.
Fatto il primo passo se ne sono fatti altri. I vecchi che vogliono uscire e che vorreb- bero, come dice la Costituzione, avere gli stessi diritti e doveri di tutti i cittadini, sono stati trasformati in facili bersagli. Hanno avuto già tutto, si è detto: il lavoro che oggi scarseggia, i diritti che sono stati quasi del tutto annullati, la pensione che i precari se la sognano.
E poi ancora. Hanno distrutto il paese portando il debito a livelli insopportabili. Sono state le cicale del benessere e ora sono diventati i parassiti della crisi.
Per un curioso cortocircuito che si verifica spesso nelle vicende italiane, i fautori de «gli anziani a casa» non hanno cercato l’obiettivo vero delle proprie difficoltà, frustrazioni e disperazioni, hanno individuato quello più a portata di mano. E anche se non è giusto pazienza.
È avvenuto altre volte, anzi avviene quasi sempre. Non siamo ancora usciti da anni in cui i danni e le tragedie prodotte da una globalizzazione senza controllo poli- tico e sociale sono stati attribuiti alla corruzione della politica e poi alla politica tout court. Le conseguenze le paghiamo ancora. Ci sono stati anni in cui un pensiero mainstream, anche di sinistra, ha contrap- posto i garantiti, anche quando erano lavoratori manuali con salari bassissimi ai non garantiti, i giovani disoccupati. E questo è bastato per renderci ciechi sulle vere cause della fine di tante importanti garan- zie sociali. Per non capire che la disoccupazione era fatto strutturale su cui inter- venire e non una contrapposizione fra salariati e disoccupati.
Poi è venuto il momento in cui si sono contrapposti gli onesti e laboriosi italiani agli immigrati parassiti pur di non affrontare e risolvere i problemi epocali dell’immigrazione. Potrei continuare. Oggi si tirano in ballo gli anziani per nascondere i fallimenti della lotta all’epidemia, le man- canze enormi del servizio sanitario nazionale, l’incapacità di reazione immediata al virus della comunità scientifica, la mediocrità della classe politica, i ritardi e soprattutto le difficoltà di una ripresa economica e sociale in un paese in ginocchio. Quando s’iniziano queste guerre il primo a morire è il buon senso. Si dimentica ad esempio che l’epidemia è dilagata proprio nelle zone produttive del paese, dove i contatti e quindi i contagi sono maggiori e gli anziani ne sono stati vittime anche se loro presumibilmente non frequentavano i luoghi di maggior contagio. Che sono morti perché più deboli in un paese che non ha saputo curarli. Sì, il buon senso sparisce e lascia posto alla ricerca del nemico chiunque esso sia, purché vicino e ci eviti lo sforzo di pensare un po’ di più, di acuire il nostro senso critico, di guardare alla realtà. È più facile essere cattivi che intelli- genti. Ed è facilissimo essere cattivi quando il terreno è stato ampiamente preparato. Sono anni che in Italia i politici al governo – tutti i governi – attaccano i cosiddetti privilegi degli anziani, che riducono le loro pensioni, che li indicano come i privilegiati di un sistema di garanzie, che contrappongono la loro vita «facile» e sicura a quella precaria e incerta dei giovani.
Sono anni. È stato comodo, molto comodo. Adesso un altro passo è stato fatto. Sono diventati pericolosi per la salute, scarti di un sistema che per andare avanti deve metterli da parte.
Non vi chiedete più per favore se da questa tragica epidemia usciremo migliori o peggiori. È evidente che siamo già peggiori.
Ritanna Armeni
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DISEGUAGLIANZE
il virus
non colpisce tutti in modo uguale

di Roberta Carlini su Rocca

Inizialmente si era pensato a un virus che agiva come «a livella» di Totò, e che eravamo tutti uguali davanti al nemico sconosciuto, senza differenza tra ricchi e poveri. Anzi, una prima mappa della geografia del virus «privilegiava» le regioni più economicamente interconnesse, dalla metropoli industriale di Wuhan al fitto tessuto produttivo del Nord Italia. E poi, metropoli internazionali come Milano, Londra, New York in ginocchio. Manager, grandi attori, registi, intellettuali, usi a viaggiare per eventi, conferenze, commerci. Ma questi erano solo i vettori della diffusione di un virus destinato a colpire, oltre che il cuore, i meccanismi stessi della globalizzazione, che già era in pericolo per l’ondata di sovranismi e protezionismi, e adesso è minata dalla rottura di quelle «catene mondiali del valore» che caratterizzano l’economia dei giorni nostri. La risposta all’interrogativo sull’impatto del virus sull’altra grande malattia del nostro tempo, ossia la diseguaglianza, sta altrove. E va data in tre parti, cercando di capire quanto le diseguaglianze influiscono sulla letalità del Covid 19; qual è l’effetto delle politiche di contenimento della pandemia (i «lockdown») sulla diseguaglianza; e cosa succederà con l’arrivo della recessione mondiale che ne consegue.

la diseguaglianza da virus
Dei malati di Covid 19 in Italia non sappiamo niente. È vero, ogni giorno sono stati forniti i dati ufficiali, nel rito della conferenza stampa della Protezione civile delle 18. Ma erano solo i numeri sui tamponi, i contagia- ti, i guariti, i morti. Altri dati sono forniti dal ministero della salute, e ci dicono qual è l’età media dei deceduti (79 anni), la loro distribuzione per sesso (i due terzi sono uomini), la presenza di patologie pregresse al momento del ricovero (il 61,3% aveva altre 3 malattie, e solo il 3,6% non aveva alcuna altra patologia), la distribuzione geografica. Delle condizioni socio-economiche non sappiamo nulla. In altri posti questi dati sono disponibili: per esempio a Londra si sa che i quartieri più poveri hanno il triplo dei contagiati di quelli più benestanti. Una mappa del contagio – oltre che delle morti – che desse conto anche del lavoro, del titolo di studio, del reddito, della proprietà di case, o almeno della area di residenza, sarebbe molto utile, sia a scopi epidemiologici che per capire se il virus ha colpito maggiormente i più poveri.
Qualcosa però si può dedurre, dalle poche informazioni che abbiamo. La concomitanza di malattie pregresse è una di queste: la presenza di malattie croniche sale, ovviamente, con l’età, ma è legata anche alla condizione sociale delle persone. Come hanno notato i sociologi Giuseppe Costa e Antonio Schizzerotto, per esempio, «a Torino nel 2018, a sesso ed età identici, le persone con diabete di tipo 2 (una delle malattie croniche fortemente predisponenti per un esito infausto del contagio) ammontavano al 4,5 per cento dei laureati e al 13 per cento dei soggetti con la scuola dell’obbligo». Il legame tra la speranza di vita, la salute e la condizione socio-economica – dimostrato da molta letteratura scientifica – è evidente anche nella media generale che qualche tempo fa ha fornito l’Istat, secondo la quale la speranza di vita «si allunga» di tre anni per gli uomini laureati. Non abbiamo dati neanche sulle condizioni economiche degli anziani contagiati e morti nelle case di riposo – uno degli epicentri della tragedia del coronavirus, in Lombardia ma anche in tanti altre parti del mondo –, ma sappiamo che, almeno per l’Italia, nella maggioranza dei casi gli anziani che possono permettersi di mantenere una casa e un/una badante di solito preferiscono questa soluzione a quella della casa di riposo. Molto probabilmente, quando avremo dati più chiari e certi scopriremo quello che dalle cronache si può intuire, ossia che l’arrivo e la diffusione del virus possono essere casuali, ma la capacità di difendersi dal virus non è uguale per tutti. In altre parole, i più poveri sono più vulnerabili. E solo grazie alle rigide misure di distanziamento sociale decise il 9 marzo non abbiamo assistito – per fortuna – all’azione di un altro tipo di diseguaglianze, quelle territoriali: poiché il virus non è «sbarcato» in massa al sud, dove le condizioni di salute degli anziani sono mediamente peggiori, e dove la capacità degli ospedali di reggere l’urto sarebbero state ancora inferiori.

la diseguaglianza da lockdown
Un altro misuratore della «diseguaglianza da Covid» è legato proprio al «lockdown», ossia alla chiusura di attività e produzioni, scuole e università. L’Istat ne ha quantificato la portata sull’economia: dal 9 marzo ha chiuso i battenti il 34% della produzione, per un totale di circa 8 milioni di occupati (un terzo degli occupati totali in Italia). La chiusura ha avuto un impatto diverso a seconda delle varie situazioni: c’è stato chi ha perso una parte delle sue entrate – perché rientrava nelle categorie protette dallo scudo della cassa integrazione o dell’indennità di disoccupazione, che il governo ha allargato –, chi ha perso tutte le sue entrate – perché aveva un contratto a termine non rinnovato, o forme di lavoro ancora più precarie fino al «nero» –, chi ha perso anche l’investimento che aveva fatto nell’attività chiusa. Il Forum Diseguaglianze e Diversità ha fatto una stima del lavoro «fragile», quello più colpito dal lockdown e non protetto abbastanza dalla sicurezza sociale: in totale, 9-10 milioni di persone. Si tratta di lavoratori a termine, in somministrazione, a partita Iva, piccoli imprenditori di settori «non resilienti», ossia non in grado di reggere l’urto delle mancate entrate per un periodo così lungo. La conclusione è nell’aumento delle diseguaglianze da lavoro, ossia quelle che già c’erano tra persone che comunque lavoravano, non erano nella fascia «tradizionale» della povertà.
Ma di questi aspetti economici del lockdown si è discusso molto, anche se non sempre con decisioni conseguenti: gli ammortizzatori sociali, pur debitamente aumentati, non sono riusciti a coprire tutti. Eppure quegli strumenti, lascito del welfare del secolo scorso, si sono rivelati utili e maneggevoli, anche se ovviamente molto costosi per le finanze pubbliche.
Si è pensato meno, e si hanno meno stru- menti a disposizione, per un altro tipo di diseguaglianza enormemente esasperata nelle settimane in cui siamo stati tutti chiusi in casa. Quella che passa per le stesse mura di casa, gli spazi, le dotazioni; e quella che ha colpito i più giovani e piccoli, i ragazzi e i bambini che non sono potuti andare a scuola. In questo caso il virus è stato tutt’altro che «la livella» di Totò, ha colpito proprio in basso. Le nostre case non sono tutte uguali, e non solo per bellezza, ariosi- tà, presenza di un giardino o un terrazzo: parliamo delle condizioni di base, dello spazio. Nella media, oltre un quarto delle famiglie italiane – dice l’Istat – vive in sovraffollamento abitativo. La quota sale al 41,1% per le famiglie nelle quali ci sono minori. Che non avevano «una cameretta tutta per sé», e a volte neanche da condividere solo con il fratello o la sorella, per collegarsi con la maestra e fare lezione. A proposito: la stessa indagine dell’Istat dice che il 14,3% delle famiglie con almeno un minore non ha a casa un computer o un tablet. La scuola a distanza, bellissimo esperimento nel quale molti hanno scoperto qualcosa di nuovo e che potrà tornare utile in futuro, per almeno un decimo dei nostri studenti è semplicemente impossibile. Per- ché non hanno computer, o rete, o spazio vitale. La chiusura delle scuole, misura sanitaria obbligata, è da questo punto di vista un’ingiustizia sociale prima ancora che un pericolo educativo: e colpisce il fatto che nei dibattiti sui pro e contro della riapertura pochissimi abbiano parlato di scuola, e anzi che sia stato accettato in assenza di un qualsiasi dibattito pubblico il fatto che le scuole riapriranno per ultime, a settembre.

la diseguaglianza da recessione
In passato, per precedenti epidemie o choc, si è parlato di un effetto inverso sulla diseguaglianza: eventi tragici come pandemie e guerre storicamente hanno ridotto le diseguaglianze poiché, causando una riduzione della forza lavoro, hanno fatto poi salire i salari al momento della ripresa. Molti economisti prevedono che stavolta non sarà così. Non solo per quanto detto finora – i primi effetti del virus e del lockdown – ma perché le previsioni sulle conseguenze economiche della pandemia contengono numeri senza precedenti. Quel che si teme è una recessione prolungata e profonda, che dunque lascerà senza lavoro molte persone e per molto tempo. Ridisegnerà interi settori economici, e – se le cose vanno bene – se ne uscirà con produzioni diverse o diversamente organizzate e lavori «nuovi», ma nella transizione molti potrebbero restare incastrati. La capacità e le risorse dei vari livelli di governo saranno determinanti, così come le capacità e le risorse individuali – che dipendono dal talento, ma anche e soprattutto dal «capitale familiare», dall’istruzione ricevuta, da quella che ci si potrà permettere di conquistare in tempi di crisi. Tutti motivi per ritenere che la recessione post-pandemia (o in corso di pandemia) può far deflagrare il problema della crescente diseguaglianza, a meno che non entrino in gioco potenti meccanismi di redistribuzione del peso e del rischio. Come ha scritto l’economista Maurizio Franzini, uno dei maggiori studiosi della diseguaglianza in Italia, «le politiche, a tutti i livelli, dovranno essere estremamente attente a frenare i rischi di aggravamento delle dinamiche che negli scorsi decenni hanno prodotto crescente disuguaglianza nei mercato e che possono trarre perverso alimento dalla pandemia, che di certo non produrrà un automatico miglioramento delle disuguaglianze. Se quelle politiche mancheranno il futuro per i ‘poveri’ potrebbe essere perfino peggiore del loro passato».
Roberta Carlini
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MIGRANTI
una risorsa fondamentale

di Fiorella Farinelli
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Trasformare il mondo per salvarlo. Il comune campo di impegno per l’umanità tracciato dalla Laudato si’ e dall’Agenda Onu 2030 sullo sviluppo sostenibile.

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di Franco Meloni
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Oggi incontro-dibattito su reddito di cittadinanza e dintorni

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Reddito di Cittadinanza, di Inclusione Sociale e dintorni. Materiale per il percorso laboratoriale.
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Reddito di Cittadinanza, di Inclusione Sociale e dintorni. Materiale per il percorso laboratoriale.

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Reddito di Cittadinanza, di Inclusione Sociale e dintorni. Materiale per il percorso laboratoriale.
Costituzione RICostituzione della Repubblica Italiana
Articolo 3
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale [cfr. XIV] e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di religione [cfr. artt. 8, 19], di opinioni politiche [cfr. art. 22], di condizioni personali e sociali.
E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Articolo 4
La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

Articolo 36
Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge.
Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi.

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Periferie. Pro memoria per i neo-parlamentari della Repubblica Italiana

lampada aladin micromicroCOMMISSIONE PARLAMENTARE DI INCHIESTA SULLE CONDIZIONI DI SICUREZZA E SULLO STATO DI DEGRADO DELLE CITTA’ E DELLE LORO PERIFERIE
LE LINEE EVOLUTIVE: INDIRIZZI E PROPOSTE
Estratto dalla Relazione conclusiva approvata in Commissione nella seduta del 14 dicembre 2017
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Dibattito

img_4649EDDYBURG » POSTILLE » PER COMPRENDERE
Le periferie, priorità nazionale: non è questo il modo
eddyburgdi SERGIO BRENNA, su eddyburg.

Una valutazione fortemente critica del modo in cui la camera dei deputati intendeva affrontare il problema delle periferie, vitale per la città d’oggi. Che deciderà il Parlamento che eleggeremo il 4 marzo? con postilla, su eddyburg. Estratto dalla Relazione finale.
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Per una critica in profondità alle attuali politiche sociali sulla base di un possibile diverso modello di riferimento

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Dal welfare attivo al welfare condizionale*

di Remo Siza**

1. Verso un modello unico di welfare
La cultura e l’operatività delle politiche di welfare stanno cambiando. I cambiamenti che sono avvenuti in questi anni oramai coinvolgono il sistema dei servizi alla persona nella sua interezza e buona parte dei servizi di welfare, coinvolgono quelle differenti sfere di azione e di vita che abbiamo imparato a valorizzare o a porre in discussione sin dalle prime ricerche e studi sul welfare mix: è cambiato il ruolo delle famiglia ed è cresciuta a dismisura la sua capacità di compensazione, è cambiato il ruolo e la consistenza della rete locale dei servizi, gli effetti delle prestazioni monetarie erogate direttamente dallo Stato, il ruolo del terzo settore, i processi di legittimazione e di riconoscimento del privato. Le politiche di welfare sono cambiate anche nelle rappresentazioni e nella percezione collettiva e ora il senso di quello che fanno le persone che operano nel sociale è sempre meno riconosciuto e valorizzato. Il welfare emergente riattualizza distinzioni che operatori e cittadini avevano reso obsoleti, quella tra poveri ritenuti meritevoli (deserving poor), vittime incolpevoli di circostanze e di crisi di carattere collettivo; e poveri i cui valori e comportamenti moralmente riprovevoli (undeserving poor) sono ritenuti la causa primaria del loro stato. Su questa base si differenzia la qualità delle prestazioni di welfare e si valuta il senso degli interventi e degli operatori sociali che li erogano. Il neoliberismo orienta per molti aspetti le possibili scelte e i valori sociali: ora non è più soltanto una concezione politica ed economica da condividere o a cui contrapporsi, ma è diventata una parte non secondaria del nostro senso comune, del nostro modo di osservare e di valutare le azioni e i comportamenti degli altri, delle persone in difficoltà
Le politiche di welfare sono tradizionalmente finalizzate a proteggere le persone dai rischi sociali della società industriale (prima modernità), come la disoccupazione, la malattia, la vecchiaia, la disabilità, e dai nuovi rischi delle società della seconda modernità quali la precarietà, la non autosufficienza, la fragilità delle reti primarie, le difficoltà crescenti che le persone incontrano nel conciliare la vita lavorativa con la vita familiare. Allo stesso tempo, le politiche di welfare intendono operare anche in una secondo versante, con una logica di investimento sociale che sposta l’asse delle politiche sociali dal presente al futuro (Morel et all. 2012), con politiche di attivazione finalizzate alla crescita delle persone e delle famiglie, della loro capacità di creare relazioni di benessere e di cura, alla prevenzione dei rischi connessi ai cambiamenti occupazionali; all’acquisizione di capacità di lavorare insieme per scopi comuni, di associarsi e di partecipare alle scelte collettive.
Per quanto riguarda il primo obiettivo le assenze sono numerose: troppi rischi sociali accompagnano le scelte individuali di vita che riguardano il lavoro, il reddito, la malattia, la maternità e in questo ultimo decennio molte tutele di welfare si sono ulteriormente indebolite. Sul versante dei processi di attivazione e di investimento sociale, l’arretramento è per certi versi ancora più significativo: la capacità delle politiche di welfare di operare nelle comunità, di valorizzare le competenze delle persone, di investire sull’infanzia e su politiche familiari, di creare valori comuni e nuove forme associative, si sono ridotte ulteriormente. Il riferimento del welfare italiano è diventato il modello adottato da molte nazioni europee in cui il sistema pubblico convive con un sistema privato molto dinamico e finanziato prevalentemente da fondi sanitari, fondi pensionistici, welfare aziendale, un modello che rafforza il ruolo dei soggetti privati che storicamente hanno avuto in Italia un ruolo marginale.
I welfare europei stanno andando in questa direzione attenuando sensibilmente le differenze tra i vari sistemi nazionali. Ciò che sta emergendo in Europa, sostanzialmente, è una sorta di modello unico di welfare, una configurazione che possiamo definire “ibrida” o “mista” che combina, in termini ritenuti finanziariamente più sostenibili, modalità d’intervento storicamente privilegiate dai sistemi di welfare liberale con modalità dei sistemi di welfare socialdemocratico, limitate risorse pubbliche e crescenti risorse private. Le risposte ai nuovi rischi sociali sono cercate nel proporre nuove soluzioni economiche di mercato o nuovi interventi pubblici. Tutto quello che è al di fuori di questa combinazione è ritenuto insignificante.

2. La crescente dualizzazione
Il sistema di welfare che si sta consolidando in Europa, tende a non riconoscere la rilevanza di risorse e relazioni di cura che si sviluppano nella famiglia, con minor frequenza promuove azioni per valorizzare le relazioni informali. Per rispondere ad una crescente domanda di servizi e prestazioni in una epoca in cui le risorse pubbliche diminuiscono, la soluzione diventa un utilizzo massic-cio di risorse private. Le relazioni intersoggettive non si ritiene che possano integrare, modificare le combinazioni tra stato mercato, ciò che accade in que-sta sfera di vita è sostanzialmente irrilevante per l’organizzazione dei servizi di welfare: si dà per scontato che la famiglia e le relazioni di aiuto informali si stiano indebolendo e che nulla possa essere fatto per invertire questa deriva. Si ragiona con una logica sostitutiva: nuovi modi di creare sostegno reciproco, di socialità, le innovative forme di domiciliarità e di abitare leggero che si stanno rapidamente diffondendo, non sono riconosciute nella loro rilevanza, non si avviano azioni per valorizzarle e sostenerle, ma per sostituirle con più consistenti e stabili risorse di mercato.
Il risultato complessivo di queste concezioni del welfare è il rafforzamento di alcuni principi, modi di intendere, valori, che chi opera nel sociale contrasta e stenta a riconoscere come propri, ma che nel loro insieme rischiano di diventare il nuovo quadro di riferimento delle politiche sociali.
Il modello emergente è un welfare dualizzato, in cui la maggioranza delle famiglie potrà contare su un sistema pubblico universalistico sempre meno efficiente e che garantisce una copertura dei rischi sempre meno estesa. Le famiglie con redditi e condizioni lavorative soddisfacenti potranno integrare le prestazioni pubbliche con assicurazioni private e con ulteriori benefici, quali il welfare aziendale, derivanti dalla loro posizione lavorativa. Le altre famiglie, invece, inevitabilmente potranno accedere in termini molto limitati alle prestazioni private. Il modello di riferimento delle trasformazioni auspicate da molte forze politiche e sociali è quello adottato da anni da molte nazioni europee in cui il sistema pubblico convive con un sistema privato molto più dinamico di quello italiano e finanziato prevalentemente da fondi assicurativi.
In Italia storicamente la dualizzazione del welfare ha riguardato essenzialmente soltanto due ambiti d’intervento: la protezione dalla perdita del lavoro e il sistema pensionistico. Per quanto riguarda il mercato del lavoro, le protezioni sono state sempre molto differenziate tra gli insiders – i dipendenti pubblici, i lavoratori delle grandi imprese ed alcuni settori dell’industria – e gli outsiders – gli occupati in piccole imprese, nel settore edile, nel commercio, una parte considerevole dei lavoratori autonomi – che ricevono misure di sostegno molto basse in caso di disoccupazione. Il sistema pensionistico non ha svolto storicamente una funzione redistributiva e si è limitato a riproporre queste distinzioni differenziando significativamente le prestazioni economiche garantite e avvantaggiando le categorie occupazionali più protette dai rischi di disoccupazione.
Ora la dualizzazione è diventata un principio sulla base del quale si riorganizzano tutti gli ambiti di vita (una differenziazione nel sistema dei trasporti dall’alta velocità ai treni dei pendolari, nell’organizzazione degli spazi urbani, nello sviluppo economico di aree territoriali differenti) e si costruisce una società dinamica e moderna, senza alcuna preoccupazione sulle troppo estese disuguaglianze e separazioni che inevitabilmente contribuisce a creare.

3. La rilevanza delle politiche di controllo
Nelle strategie emergenti nei welfare europei, il welfare attivo si trasforma in un welfare condizionale in cui le relazioni di cura perdono rilevanza e prevalgono politiche di controllo nelle prestazioni di welfare, l’accesso ai servizi dipende dal comportamento responsabile del beneficiario. I beneficiari che non si comportano in modo responsabile (hanno comportamenti moralmente riprovevoli, non rispettano le prescrizioni, non si impegnano a cercare un lavoro, non accettano il lavoro offerto, non frequentano corsi di aggiornamento) subiscono la riduzione o la sospensione dei benefici previsti.
I beneficiari di prestazioni di welfare (dalle persone che abitano case popolari ai senza dimora) sono soggetti al rispetto di numerose condizioni, in termini di stringenti requisiti di accesso (reddito, condizioni occupazionali, disabilità), ma soprattutto devono assumere determinati comportamenti, in caso contrario si procede alla revoca parziale o totale del beneficio. Chi opera nel sociale esprime preoccupazione nei confronti del destino di coloro che perdono il lavoro e perdono, a causa di sanzioni, anche i benefici di welfare. Ma adottare questo modello di intervento è diventata una prassi scontata e indipendente dalla collocazione politica dei governi in carica, come se ci fossero delle consistenti e indiscutibili evidenze scientifiche che supportano queste scelte.
In Italia, le disposizioni del decreto istitutivo del Reddito di inclusione (REI) introducono una condizionalità significativa, prevedono sanzioni molto severe, sospensioni e decadenze dai benefici previsti per chi non rispetta accordi e prescrizioni. Eppure molte ricerche empiriche hanno evidenziato che questo sistema di sanzioni rischia di promuovere piuttosto che la crescita delle persone, distacchi e allontanamenti dalle relazioni di cura delle persone che presentano maggiori difficoltà e che persistono nell’assumere comportamenti riprovevoli. La scarsità delle risorse destinate al finanziamento del REI produce effetti sulle relazioni sociali non secondari: sono stati introdotti requisiti di accesso e priorità nella scelta dei beneficiari che non rappresentano indiscutibilmente condizioni di maggiore deprivazione, rischiando in questo modo di creare competizioni tra gruppi sociali che vivono condizioni simili e che temono scelte discrezionali, conflitti tra le persone che temono di essere escluse dal lavoro e anche dagli interventi di sostegno economico. In un welfare che marginalizza la qualità sociale delle relazioni di aiuto, i progetti personalizzati di attivazione previsti dal REI rischiano di subire una attuazione molto riduttiva, una loro riduzione a beneficio economico accompagnato da progetti personalizzati molto deboli, sbrigativi, che prevedono sanzioni più che articolate relazioni di sostegno. Il timore che emerga una sorta di “accanimento selettivo”, un’applicazione severa e punitiva delle norme e dei criteri di accesso alle prestazioni sociali che esclude le persone non affidabili né come lavoratori né come cittadini, mentre le persone con maggiori strumenti culturali e maggiori relazioni riescono comunque ad ottenere un’applicazione delle norme e dei criteri di accesso più favorevoli.

4. Lo sviluppo unidimensionale del welfare attivo
Il welfare condizionale è il punto di arrivo di una lunga evoluzione del welfare attivo, per certi versi ne risolve le ambiguità che storicamente lo hanno caratterizzato privilegiando decisamente una direzione. Un welfare attivo nasce da quadri di riferimento di politica sociale molto differenti – liberisti, socialdemocratici, comunitari – e può condurre a delineare prospettive di azione e, soprattutto, responsabilità sociali e impegni di cura per le famiglie e le persone molto differenti. L’attivazione del beneficiario è stata adottata come obiettivo prioritario dai sistemi di welfare europei sin dai primi anni Novanta, sollecitata da varie raccomandazioni e rapporti dell’OCSE, soprattutto in riferimento al mercato del lavoro. I welfare europei adottando questo approccio hanno enfatizzato, di volta in volta, differenti relazioni e sfere di vita: un’attivazione strettamente connessa alla partecipazione al mercato del lavoro; un’attivazione dei cittadini come clienti e consumatori di prestazioni di welfare, attraverso la loro libertà di scelta, la capacità di muoversi autonomamente nei servizi di welfare; oppure il riconoscimento del diritto dei familiari di svolgere una funzione attiva in termini di cure informali e di conciliare esigenze di vita ed esigenze di lavoro.
In questo ultimo decennio, gli orientamenti “attivanti” delle politiche sociali sono sempre più frequentemente esposti a sviluppi applicativi riduttivi, non sono intesi nelle pluralità delle dimensioni e nell’equilibrio delle sfere di vita che possono comprendere. Gli attuali sviluppi rischiano una standardizzazione su politiche di attivazione fondate sul lavoro, che adottano mezzi e tempi che non tutti riescono a condividere; frequentemente sono finalizzate ad attivare le abilità professionali, mentre le altre risorse di cui le persone dispongono in differente misura – affettive, relazionali, valoriali – diventano secondarie, almeno fin quando non interferiscono con la vita lavorativa e restano nell’ambito delle relazioni private.
Molti programmi di welfare, definiti “work first”, hanno come unico obiettivo quello di incoraggiare le persone disoccupate, soprattutto attraverso sanzioni, ad entrare nel mercato del lavoro il più velocemente possibile anche accettando un lavoro non appropriato rispetto alla qualifica posseduta. Spesso, però, le persone che sono quasi pronte ad entrare nel mercato del lavoro e possono essere inseriti in programmi come questi, costituiscono una piccola quota della popolazione disoccupata, mentre una crescente percentuale di essi presenta svantaggi e problematiche multidimensionali e il loro inserimento lavorativo, pertanto, richiede più intensivi programmi sociali di intervento (Dean 2003).

5. Le tre zone della coesione sociale
Il modello di welfare che si sta consolidando in Italia si basa su un’analisi semplificata della società italiana e delle condizioni economiche della famiglie italiane. Si immagina che maggior parte della popolazione possa essere progressivamente esclusa da una parte consistente delle prestazioni pubbliche di welfare in quanto, superati questi anni di crisi, potrà disporre di una parte del suo reddito per assicurarsi prestazioni sociali e sanitarie private di qualità, realmente protettive rispetto ai rischi della non autosufficienza, di una malattia prolungata.
La realtà è molto più articolata: la società italiana non riesce a rendere compatibile le esigenze dello sviluppo con la qualità del lavoro, i livelli retributivi e la qualità delle relazioni umane, a governare le dinamiche, gli squilibri e i nuovi raggruppamenti sociali che continuamente produce.
I risultati dell’indagine annuale Eu-Silc (ISTAT 2017) mostrano che nel 2016 il 30,0% delle persone residenti in Italia è a rischio di povertà o esclusione sociale, registrando un peggioramento rispetto all’anno precedente quando tale quota era pari al 28,7%. Il 20,6% (in aumento rispetto al 19,9% del 2015) delle per-sone risulta a rischio di povertà. Oltre la metà (53%) dei redditi individuali è compresa tra 10.001 e 30.000 euro lordi annui, circa un quarto (il 24,4%) è al di sotto dei 10.000 euro e il 18,5% è tra 30.001 e 70.000; solo nel 2,8% dei casi si superano i 70.000 euro.
Le tre zone di coesione sociale individuate da Robert Castel (2003) in suo saggio molto noto, possono essere utilizzate per rappresentare i cambiamenti intervenuti in Italia in questi ultimi decenni e i rischi sociali emergenti. Castel individua una “zona di integrazione” caratterizzata da contratti di lavoro a tempo pieno, possibilità di partecipazione alla vita sociale e benefici di welfare adeguati, una “zona di vulnerabilità”, la zona della precarietà, del lavoro temporaneo, dei lavori mal retribuiti, di insufficienti risorse di welfare e fragilità delle relazioni primarie. Secondo Castel, la zona di integrazione si sta riducendo, la zona di vulnerabilità e precarietà si sta espandendo e alimenta continuamente una terza zona, la “zona della disaffiliazione” o dell’esclusione (esclusi dal mercato del lavoro e spesso perdita di buona parte delle tutele sociali).
In Italia, fino alla prima metà degli anni Novanta, la zona dell’integrazione era molto estesa, comprendeva le persone con redditi elevati, le classi medie e buona parte della classe operaia. Se ci riferiamo agli studi più accreditati sulla stratificazione sociale, possiamo stimare che un 70 per cento della popolazione condivideva questa condizione di integrazione (Sylos Labini 1975). La stabilità lavorativa e le retribuzioni medie consentivano di soddisfare le tradizionali aspettative di queste famiglie: la proprietà della casa, l’accesso agevole alle cure sanitarie, l’istruzione per i componenti più giovani, opportunità di mobilità sociale, la sicurezza di una pensione adeguata, la possibilità di vacanze anche brevi. Le disuguaglianze nei redditi e nelle ricchezze ricominciava a risalire, ma ancora comunque non determinava una frammentazione elevata del tessuto sociale. Le prestazioni di welfare erano sostanzialmente stabili o crescenti. La seconda zona, quella della vulnerabilità si presentava sostanzialmente circoscritta (stimabile nel 20 per cento della popolazione) e riguardava i lavoratori con limitate tutele contrattuali, precarietà, condizioni di lavoro e retribuzioni molto inferiori da quelle condivise dai lavoratori protetti. Anche la zona dell’esclusione riguardava gruppi sociali ben individuabili (il restante 10 per cento), che vivevano condizioni di povertà per lungo tempo, esclusi dal mercato del lavoro, ma con qualche possibilità di rientro in lavori a bassa retribuzione e scarsamente qualificati.
In anni più recenti, e soprattutto dopo la crisi economica e finanziaria, la situazione è cambiata radicalmente, incidendo profondamente nella solidità delle tre sfere di vita (famiglia, lavoro, welfare) nelle quali si costruisce l’integrazione sociale. La zona dell’integrazione è diventata molto ridotta (può essere stimata nel 30 per cento della popolazione) e comprende le persone con redditi alti e una parte limitata della classe media (ISTAT 2017a; ISTAT 2017b; Siza 2017). In questa zona, la precarietà delle relazioni primarie non è vissuta mediamente come rischio incombente, talvolta è una scelta, i suoi effetti, nella maggioranza dei casi, rimangono nell’ambito della sfera affettiva. La zona della vulnerabilità è diventata, invece, molto estesa (attorno al 50 per cento della popolazione) comprende una parte rilevante delle classe media e quasi tutta la classe operaia. Processi di dualizzazione e la riduzione delle prestazioni di welfare hanno indebolito fortemente la capacità operativa del welfare. Questa parte della popolazione utilizza crescentemente prestazioni private nell’ambito della sanità, dell’istruzione: in molte regioni una applicazione dell’ISEE rigorosa ha escluso una parte significativa di queste famiglie dall’accesso agevolato a molti servizi comunali (asili nido, sostegno domiciliare, servizi residenziali). Precarietà e rottura delle relazioni diventano un rischio che coinvolge profondamente il vissuto delle persone, il reddito, l’abitazione e tutte le sfere di vita.
Infine la zona della esclusione e della povertà (il restante 20 per cento) composta dai gruppi sociali stabilmente esclusi dal mercato del lavoro, con possibilità di rientro molto basse, che hanno subito in questi anni una riduzione significativa di tutte le prestazioni welfare. Accanto alle povertà persistenti si consolida la presenza di famiglie e persone che vivono condizioni di povertà transitorie – di breve durata, occasionale oppure oscillante – con oscillazioni di reddito frequenti fra povertà e severe ristrettezze finanziarie, che vivono una fragilità delle condizioni di vita per il diffondersi di instabilità nel mercato del lavoro e nelle relazioni familiari, di isolamento dalle rete informali di aiuto. Persone che vivono situazioni particolarmente fluide, dai contorni non ben definiti, in cui tutti i soggetti sono consapevoli che le cose possono mutare, in un senso o in un altro, non sono stabilmente acquisite o stabilmente perse.
Le società italiana non ci appare a questo punto caratterizzata soltanto da una elevata povertà e disuguaglianza, polarizzata tra poveri e ricchi, ma anche una società caratterizzata dalla presenza di molte posizioni intermedie fortemente impoverite, con condizioni di vita instabili, che non costituiscono più un tessuto connettivo di relazioni e di valori su cui poggia il vivere sociale e il legame tra differenti gruppi sociali (come storicamente sono state la classe operaia e le classi medie). A queste esigenze il welfare risponde molto parzialmente, sebbene queste condizioni di vita costituiscano una delle criticità più rilevanti per la coesione sociale.

6. Conclusioni
Il benessere delle persone e la promozione delle responsabilità collettive non dipende soltanto dalle combinazioni fra stato e mercato, tra pubblico e privato, coinvolge i cittadini, la capacità di mobilitare le risorse di cura di cui dispongono. Relazioni informali, lavoro, welfare sono le tre sfere di vita nelle quali si costruisce l’integrazione sociale. Le politiche sociali non sono riducibili alle politiche del lavoro e il termine attivazione non significa soltanto formazione e inserimento nel mercato del lavoro. Il welfare to work può diventare l’accettazione obbligatoria di qualsiasi lavoro, pena l’interruzione di ogni forma di sostegno economico, un avvio forzoso a lavori scadenti, e la contestuale riduzione di tutte le altre spese di welfare. Oppure una politica sociale di accompagnamento e di responsabilizzazione che tenga conto delle differenze, l’avvio di un percorso di recupero alla vita sociale e lavorativa, che sostiene la persona e la sua famiglia nella pluralità delle sue esigenze. In questa seconda prospettiva, alle persone povere può essere richiesto di essere più responsabili, ma questo può essere l’obiettivo dell’intervento, nella prima prospettiva, invece, è il requisito per un primo accesso ai programmi di welfare.
L’esigenza è quella di contrastare la povertà e l’impoverimento con azioni realmente attivanti le capacità delle persone, con progetti di inserimento personalizzati, promuovere relazioni collaborative fra i cittadini, riaffermare interventi più ampi che riguardano i valori e le regole della convivenza. Per la maggioranza delle famiglie italiana si pone l’esigenza di difendere il principio universalistico che regola i più significativi settori del welfare italiano nella consapevolezza che un ulteriore indebolimento del welfare pubblico aggraverebbe le condizioni di vita della maggioranza delle famiglie italiane: sono famiglie che rischiano di non poter disporre di sufficienti servizi pubblici, che avranno scarse possibilità di accesso ad un welfare integrativo, non hanno lavoro o hanno inserimenti in aziende di piccole dimensioni che non assicurano ai loro dipendenti prestazioni di welfare, hanno condizioni lavorative difficilmente conciliabili con la vita familiare anche in presenza di un programma di sostegno.
Un welfare civile consistente e consapevole delle sue ragioni, può proporre e sostenere un’altra rappresentazione delle esigenze delle persone, può mettere in discussione la logica delle attuali combinazioni tra pubblico e privato, operando concretamente e proponendo in molto ambiti di welfare modalità di intervento che coinvolgono relazioni umane e le risorse di cura che esprimono. La crisi finanziaria ed economica che stiamo vivendo ha creato un disorientamento profondo, ma nel medio e nel lungo periodo potrebbe consentire il consolidamento di nuove relazioni collaborative e rappresentare nuove opportunità di crescita sociale e un nuovo modo di vedere il mondo.
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* Rielaborazione dell’intervento effettuato nel Convegno sul lavoro del 4-5 ottobre 2017, organizzato dal Comitato d’Iniziativa Costituzionale e Statutaria in collaborazione con Europe Direct Sardegna-

**Remo Siza svolge attività di ricerca e formazione in Italia e nel Regno Unito.
remo.siza@gmail.com

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Riferimenti bibliografici

Castel, R. (2007) La metamorfosi della questione sociale, Avellino: Sellino Editore.
Dean, H. (2003) Reconceptualising welfare to work for people with multiple problems and needs, Journal of Social Policy, n. 32, pp. 441-59.
Istat (2017a) Rapporto annuale 2017, Roma.
Istat (2017b) Condizioni di vita, reddito e carico fiscale delle famiglie nel 2016, Roma.
R. Siza e C. Deeming (a cura di) Il Declino della classe media: i limiti delle politiche sociali, numero speciale di Sociologia e politiche sociali, n. 2.
Sylos Labini, P. (1975) Saggio sulle classi sociali, Bari: Laterza.

Verso i Convegni sul Lavoro

phpy3j5YkDOCUMENTAZIONE.
MCL: un documento per la Settimana Sociale
(12/09/2017) Il Movimento Cristiano Lavoratori ha predisposto un documento di lavoro per portare avanti l’impegno con cui risponde alla sfida della 48a edizione delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani. “Il percorso in preparazione di questa edizione delle Settimane Sociali del Movimento Cristiano Lavoratori – si legge nel testo – è stato un’occasione per verificare, seguendo le indicazioni del Comitato Organizzatore, la bontà delle riflessioni sul lavoro e, allo stesso tempo, per far emergere tante esperienze presenti nel territorio”. Un percorso segnato da due eventi particolarmente significativi: il primo è stato la Winter School, organizzata con il Centro di Dottrina Sociale dell’Università Cattolica, “Il lavoro anzitutto. Verso la 48a Settimana Sociale dei Cattolici Italiani”; il secondo è stato l’annuale Seminario di studi del MCL che si è svolto venerdì 8 e sabato 9 settembre a Senigallia su “Il lavoro che vogliamo. Libero, creativo, partecipativo e solidale. Attraverso il lavoro, lo sviluppo dell’Italia e la crescita dell’Europa”. MCL documento Settimane Sociali