Risultato della ricerca: ITI Is Mirrionis
Riusiamo l’Italia. Riusiamo la Sardegna. Praticando l’obbiettivo, noi ripartiamo simbolicamente dalla Scuola Popolare di Is Mirrionis
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Con i giovani amici di Arkimastria del Dipartimento di Architettura di Alghero (nella foto, al centro, la presidente Adele Pinna e il vice presidente Pasquale Lotto) e con il prof. Aldo Lino sosteniamo il “Comitato promotore della Consulta Is Mirrionis-Scuola Popolare” per la partecipazione al Bando Culturability. Abbiamo un buon progetto per la “rigenerazione” del nucleo di quartiere dove c’è lo stabile che ospitò la Scuola Popolare di Is Mirrionis negli anni ’70. Quello che progettò Maurizio Sacripanti e che fu realizzato negli anni Cinquanta. Lo porteremo avanti con il pieno coinvolgimento della popolazione dei quartiere e della città. Di seguito alcune elaborazioni (tratte dal sito “riusiamolitalia”) di cui si avvale il progetto allo stato in fase di definizione.
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DOCUMENTAZIONE da RIUSIAMOL’ITALIA
CANTIERE ANIMATO: NUOVI APPROCCI ALLA PROGETTAZIONE
La progettazione del riabitare uno spazio pubblico si basa sempre più su percorsi che attivano incontri tra persone (spesso giovani) interessati al riuso a fini culturali e sociali di spazi vuoti ed Enti proprietari interessati a questo tipo di “rigenerazioni”, anche temporanee.
Oggi i territori vivono una situazione del tutto nuova, con una crescita smisurata di spazi che vengono progressivamente lasciati vuoti, privi di una loro funzione dʼuso. Eʼ un fenomeno particolare che vede il passaggio da “persone senza spazi” a “spazi senza persone”. Ciò sia nelle aree urbane, che nei territori rurali, dove lʼIstat ha mappato (ad aprile 2015) ben 6.000 “paesi fantasma”, intesi come agglomerati abitativi abbandonati.
Molte esperienze in Italia segnalano già il riuso di questi spazi come esperienza di creazione di valore sociale, culturale ed anche economico /occupazionale. Esistono però sia barriere che difficoltà allʼincontro tra giovani (ed in generale cittadini) interessati a questa rigenerazione e chi ha la proprietà / disponibilità di questi beni (nonostante diverse leggi ed in particolare lʼart. 24 dello Sblocca Italia).
Per favorire questi processi, nei Comuni e/o nei quartieri (comprese le periferie) in cui le relazioni e gli incontri tra persone ed istituzioni sono ancora possibili e fondati su un capitale fiduciario, si possono promuovere percorsi di riuso di questi spazi, affinché diventino “beni comuni”. Un concetto diverso sia da quello di bene di proprietà pubblica, che privata, interessante perché dà meno importanza a questa dimensione per privilegiarne la fruizione d’uso che lo spazio assume (“rivolta alla gente comune”). I “beni comuni” sono quindi spazi di proprietà pubblica (o del Terzo settore, ma anche di privati), affidati però – nella gestione – ad organizzazioni esterne. Ciò sempre garantendo una funzione pubblica – da mandato iniziale – occupandosi della governance della gestione / fruizione del bene.
Quando proprietario del bene è l’Ente Pubblico, proprio per garantirne una funzione pubblica, il ruolo diventa quello di partner del soggetto gestore, partecipe delle attività, grazie all’istituzione di una “cabina di regia pubblica / privata”, che si creerebbe ad hoc per la gestione. In questi percorsi possono nascere anche associazioni temporanee o di scopo, fondazioni di partecipazione, ecc. Non solo: se non partono dal basso e spontaneamente questi percorsi di riuso, l’Ente Pubblico assume il ruolo di attivatore di percorsi e la progettazione diventa la gestione del progetto, l’attesa della trasformazione, la programmazione del “frattempo”, in cui succedono però già delle cose. La rigenerazione non è quindi un’opera pubblica, ma diviene un percorso partecipato, che spesso è anche di co-realizzazione di alcune azioni di riuso (es. pulizia, manutenzioni semplici, ecc.).
Lʼottica di queste operazioni di riuso è di permettere prevalentemente (ma non solo) a “giovani appassionati e competenti” di farne una occasione occupazionale. Ciò facilitando il riuso di questi spazi vuoti in tempi brevi (anche temporaneamente) nell’ottica di start up culturali e sociali, con “low budget”. LʼEnte Pubblico infatti si trova generalmente in carenza di risorse, ma può sostenere la progettazione finalizzata ad azioni di fund raising.
Rispetto ad eventuali capitali, i team di giovani possono accedere ad un programma di finanziamento di istituti finanziari del Terzo settore, su logiche di “capitale paziente” proprio per sostenere questi “cantieri di rigenerazione”. Ma possono guardare anche al fund raising, al crowdfunding, ai bandi pubblici e/o di Fondazioni.
Queste operazioni di riuso sono infatti azioni di rigenerazione (rurale o urbana), di aggregazione pubblica, di partecipazione attiva e di cittadinanza, oltre che di inclusione sociale, sempre in ottica di sviluppo occupazionale. Il Terzo settore (o No profit) infatti in questi anni è stato un ambito che è cresciuto dal punto di vista occupazionale, soprattutto coinvolgendo giovani, in prevalenza qualificati. Queste operazioni di riuso spesso diventano anche azioni di sviluppo locale, soprattutto là dove riprendono temi legati al turismo leggero, alla valorizzazione del territorio, al food, alle tradizioni, allʼarte e cultura.
Questi percorsi partono dalla condivisione interna alla P.A. sulle modalità e condizioni di esternalizzazione e procedono poi con la loro promozione, con lʼavvio di un percorso pubblico animativo di formazione / promozione del riuso dello spazio e si concludono con lʼassegnazione della gestione dello spazio, sempre con una evidenza pubblica e con una modalità trasparente. Viene elaborato anche uno “studio di fattibilità” ai fini di individuare – sempre in modo coprogettato – vocazione, funzioni dʼuso, analisi investimenti e sostenibiltà della gestione, elementi per un piano di marketing, reti e partner, nuovi pubblici.
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Il riuso però non è detto che parta sempre e solo dall’Ente pubblico. L’attivatore, a seconda dei territori, può essere un soggetto portatore di un bisogno (es. Terzo settore), un gruppo di persone che si unisce per una causa, un’organizzazione particolarmente sensibile alle questioni.Di conseguenza, anche il percorso di riuso / rigenerazione, può avere più dimensioni, dinamiche diverse, tempi più o meno lunghi.
Nel 2016, le buone prassi sviluppate grazie al lavoro diretto degli autori di “Riusiamo l’Italia” sono state l’avvio del co-working/incubatore a Tortona con Impact Hub in una ex Scuola/spazio pubblico vuoto, a Varese Vitamina-C, il social hub promosso da ACSV in una “terrazza” non utilizzata, a Formigine (Mo) la riprogettazione partecipata di un nuovo spazio per i giovani in uno spazio sotto utilizzato ed in Valle Sabbia (Bs), l’avvio di un nuovo fab lab in un ex convento. Oltre alla co-progettazione, decisivo è stato l’accompagnamento all’avvio della gestione di questi nuovi spazi.
giovanni.campagnoli@riusiamolitalia.it
PERCORSI DI PROGETTAZIONE DI RI-USI PUBBLICI DI SPAZI VUOTI: LO STUDIO DI FATTIBILITÀ E LʼACCOMPAGNAMENTO ALLO START UP
Percorsi di progettazione di ri-usi pubblici di spazi vuoti: lo studio di fattibilità e lʼaccompagnamento allo start up
Oggi si assiste ad una situazione nuova nel rapporto luoghi/territori. Ci si trova infatti di fronte a contesti dove sempre più gli spazi sono vuoti superano le richieste per eventuali e diverse funzioni dʼuso. Luoghi produttivi dismessi, aree abbandonate, edifici pubblici e para-pubblici vuoti, ma anche Oratori, Stazioni FFSS, cinema, locali commerciali… Sintetizzando, si potrebbe affermare che le politiche giovanili, quelle culturali e quelle urbanistiche dovrebbero darsi lʼobiettivo di riempire questi spazi vuoti con idee e talenti individuali e collettivi, contribuendo alla rinascita delle città e dei territori con nuove energie. A partire da aree interne e periferie. Questa strategia prevede un forte coinvolgimento degli attori locali, anche al fine di valorizzare saperi, tradizioni e know how del territorio, attualizzando magari antiche vocazioni e generando nuovo capitale sociale, indispensabile allo
sviluppo dei territori.
Il punto di partenza è quindi lʼelaborazione, con una fase di ricerca sociale, di uno studio di fattibilità vero e proprio. Finalità di questo lavoro sono quelle di guidare il percorso che porti questi spazi ad essere luoghi di innovazione ed eccellenza nellʼambito specifico delle politiche locali “site specific”, ma comparabili con quelle europee, in quanto pensate e gestite seguendo le linee guida della UE in materia.
A conclusione della fase di ricerca e studio, la fase successiva di questo lavoro è quella di un percorso di accompagnamento con soggetti committenti e gestori. Infatti, una volta definite le caratteristiche, le funzioni dʼuso, il piano marketing ed il budget grazie allo studio di fattibilità, prende avvio la fase di implementazione. Si tratta di un percorso dove formazione, consulenza, accompagnamento, supervisione, analisi di situazioni critiche, si fondono costantemente, in un servizio di tutoring a metà tra momenti dʼaula e lavoro a distanza, con supporto anche rispetto a materiali necessari allo start up del Centro (es. contratti tipo con organizzazioni giovanili, budget dei costi delle attrezzature, selezione dei fornitori, grafiche, ecc.).
2 Lo studio di fattibilità
Lo studio di fattibilità, nell’ambito della progettazione sociale, non sostituisce la redazione del progetto, ma fornisce spunti e indicazioni delle quali chi progetta può tenere conto per organizzare il proprio lavoro.
Per predisporre lo studio, vanno anzitutto raccolti dati, utilizzando diverse fonti informative:
– dati descrittivi del territorio (quanti giovani ci sono, che caratteristiche hanno,quali interessi e competenze, quali sono le attività produttive presenti, ecc…);
– colloqui con testimoni significativi individuati sul territorio (es.: rappresentanti di istituzioni, associazioni, figure educative, operatori economici, gestori di locali, ecc…);
– incontro aperto con tutte le persone potenzialmente interessate all’apertura del Centro;
sopralluogo della struttura, delle sue caratteristiche e della sua collocazione.
Utilizzando i dati raccolti si elabora uno studio di fattibilità ad hoc. Il documento, una volta “approvato” dal committente, viene poi presentato pubblicamente e messo a disposizione
dei soggetti locali interessati, anche alla gestione del Centro. Lo studio diventa, ad esempio per le Amministrazioni locali, il documento progettuale di riferimento in base al quale valutare le offerte in eventuali bandi pubblici.
Lo Studio di fattibilità viene commissionato infatti per definire se un progetto (o un programma) o un’idea di massima:
• produce utilità sociale e culturale;
• può essere realizzato/migliorato dal punto di vista tecnico;
• risulta sostenibile dal punto di vista economico.
Lo studio riguarda una dimensione di futuro (“pro-jecuts”, “verso cosa”) e si basa quindi su delle valutazioni, più che su elementi certi, per cui si devono adottare criteri chiari e trasparenti, in modo da garantire l’obiettività dello studio e dei suoi risultati.
Il prodotto finale dello studio è costituito da un insieme di conclusioni e di raccomandazioni sulla possibile realizzazione e sulla delimitazione degli ambiti, offrendo indicazioni utili a orientarne le priorità, le linee di azione, le strategie e le modalità di lavoro, la pianificazione economica e temporale, le procedure amministrative ed i criteri di valutazione per lʼassegnazione della gestione. Diventa quindi, per il committente, uno strumento conoscitivo utile a supportare le valutazioni relative allʼopportunità di adottare scelte in particolare per quel che riguarda lʼambito di operatività. Infine, oltre alle linee guida per un piano di marketing operativo, lo studio offre un budget degli investimenti necessari alla gestione del centro, insieme ad un budget triennale di gestione, quale strumento utile per accompagnare la fase di start up dello spazio.
Come detto, questo lavoro di ricerca ed elaborazione dello studio di fattibilità deve essere preceduto da un lavoro di analisi sia sulla eventuale documentazione già presente (ad esempio relativa allʼiter di questi centri), sia di ricerca di definizioni e buone prassi inerenti questi spazi, che possano fungere da modelli di confronto. Ma non solo: incontri ed interviste ad hoc, sono le modalità tipiche di lavoro, che prevede incontri/confronti costanti con i committenti e le realtà coinvolte, per la validazione delle ipotesi e/o la
successiva modifica/integrazione.
Infine, ultimo step di questo lavoro, sono i momenti pubblici di divulgazione dei risultati.
2.1 Obiettivi
Obiettivi specifici della fase di ricerca e studio di fattibilità sono:
a livello generale, se si tratta di spazi giovanili, applicare nel contesto locale le linee guida degli di “matrice europea” secondo quanto contenuto nei principali e recenti testi normativi in materia di gioventù;
se si tratta di spazi “ a vocazione indecisa”, seguire i criteri e linee guida delle progettazioni di riuso / rigenerazione contenute nella letteratura più innovativa in materia di rigenerazione / riuso;
– individuare – facendo emergere desideri e bisogni locali, tramite la ricerca sociale – l’identità/mission (o “vocazione”) dello, “costruirla” in un percorso di condivisione, comunicarla e renderla comprensibile alla comunità locale (giovani e non solo);
– predisporre, a questo fine, un adeguato piano di marketing e comunicazione;
– elaborare uno studio di fattibilità individuando le condizioni di equilibrio tra sostenibilità economica (budget triennale di gestione e di investimenti) ed utilità sociale dello specifico centro, le relative linee guida di un piano marketing e quelle per un procedimento amministrativo utile allʼindividuazione di un soggetto gestore. La gestione dello spazio, ai fini stessi dellʼefficienza economica, dovrà essere caratterizzata dal costante coinvolgimento dei soggetti ospitati e di nuove proposte, ottenendo valore economico dai processi aggregativi.
Il tutto parte da una fase di studio dei documenti istitutivi o storiografici dei progetti di realizzazione già redatti dalle realtà locali e/o dallʼanalisi di ricerche ad hoc già disponibili.
2.2 Precisazioni necessarie
Lʼapproccio metodologico adottato tende ad essere “generativo” ovvero punta a determinare un equilibrio più virtuoso tenendo conto da una parte del calo progressivo di risorse pubbliche da dedicare e dallʼaltra delle potenzialità e capacità di generare flussi di ricavi ed appropriate economie di scala da affidare a profili gestionali di tipo imprenditoriale.
Ne risulta automaticamente che lʼanalisi degli spazi, delle funzioni da introdurre, degli usi da adottare porti sempre a risultati diversi da quelli per i quali erano stati progettati. Ciò avviene non solo con le strutture le cui funzioni originarie sono cessate, modificate e trasferite in altre sedi, ma anche con contenitori nuovi, di recente e qualificata costruzione, dove le destinazioni dʼuso erano di fatto già riconducibili in tutto o in parte a quelle della nuova vocazione.
Nella conduzione di uno studio di fattibilità e nella gestione del dialogo con lʼente committente ci si trova di fronte a due modelli molto diversi: quello del passato che postulava la capacità del soggetto pubblico di gestire la struttura secondo una specifica visione pianificata e programmata e quello del presente che tenta invece di innescare meccanismi di “leva” economica in tutto o in parte finanziati da soggetti utilizzatori e /o gestori degli spazi.
Nonostante questa diversità di presupposti, lʼesigenza di modifiche agli organismi edilizi solitamente viene ipotizzata a livelli minimi e strettamente indispensabili (anche per il massimo contenimento dei costi), per fattori variegati quali principalmente:
• lʼadeguamento normativo necessario per lʼintroduzione di alcuni funzioni generatrici di reddito (es. il bar e servizi igienici connessi);
• lʼintroduzione di funzioni speciali tipicamente collegate ai target di nuovo pubblico che si intende coinvolgere (es. gli universi giovanili e non sempre presenti nei programmi funzionali originari, ad es. spazi per laboratori ed attività artistiche ed espressive in genere,
skatepark, sale prove musica, ecc.);
• la valorizzazione di alcune soluzioni spaziali di particolare appeal spaziale o emozionale: soppalchi, visuali, rapporto interno/esterno, verde, elementi di design, colori, ecc.;
• conferimento di elasticità e flessibilità ad alcuni specifici comparti del complesso edilizio, anche in termini di arredi e funzionalità varie;
• particolari esigenze di dimensionamento collegata al raggiungimento di standard funzionali o target prestazionali indispensabili per gli specifici obiettivi gestionali.
Si tenga anche conto che proprio in quanto studi di fattibilità, lʼanalisi dello stato dei luoghi e degli spazi avviene attraverso sopralluoghi ed analisi degli elaborati grafici di progetto. Da questo punto di vista, le soluzioni proposte possono essere suscettibili di insufficienti approfondimenti di tipo strutturale e impiantistico. È quindi opportuno ricomprendere prima o durante lʼelaborazione degli studi di fattibilità momenti di confronto con, a seconda dei
casi, i progettisti, i manutentori o i detentori della memoria storica della costruzione e dei luoghi. Partendo dalla condivisione di dati e informazioni ed assicurando un buon livello di dialogo tra i vari portatori di conoscenze si possono ottenere i migliori risultati. Infine, anche lʼanalisi ed i budget delle soluzioni tecniche proposte in riferimento ad arredi ed attrezzature, deriva da elementi di altre realtà che già hanno adottato quanto proposto e che sono comunque comparabili con quelle oggetto di studio. Di conseguenza, tutte le
soluzioni proposte devono poi essere oggetto di approfondimento in sede di acquisto.
3 L’accompagnamento allo start up
In questo ambito, è utile prevedere un accompagnamento formativo/consulenziale alle fasi di start up del centro giovani, con il coinvolgimento attivo delle persone responsabili dellʼorganizzazione che si occupa della gestione, gli operatori, gli “attivi”, altro personale
professionale, referenti istituzionali. Il percorso formativo è molto calato nella situazione e prevede metodologie di apprendimento attivo, sperimentazioni, visite guidate, bench marking, innovazione sociale per arrivare ad una gestione di “successo” di un nuovo modello di centro giovani, su base delle recenti indicazioni europee in materia di gioventù.
3.1 Il contesto
Uno spazio giovani (nuovo o che si rinnova) in fase di avvio, affronta una serie di tappe delicate in quanto incidono e connotano le fasi ed i tempi successivi dello sviluppo del centro.
I requisiti base per il successo nella fase dellʼavvio di uno spazio sono lʼalta partecipazione di cittadini (e/o giovani) – fin dalla fase iniziale – ed una start up giovanile o una organizzazione “matura” in grado di garantire gli aspetti fiscali/gestionali/amministrativi, oltre che alla presenza attenta delle istituzioni.
La presenza contemporanea di questi elementi è il punto di partenza per lʼavvio degli spazi: la sfida è che da queste premesse nasca un progetto operativo gestionale che porti a garantire lʼapertura e lʼavvio del nuovo spazio o nel più breve tempo possibile, definendone anche aspetti di microprogettazione, quali la scelta di arredo ed attrezzatura, programmazione, attività, comunicazione, apertura, nuove azioni sperimentali, ecc.
Lʼipotesi base è che lʼavvio avvenga fin da subito con il coinvolgimento di operatori professionisti, giovani attivi e responsabili istituzionali.
Di conseguenza gli attori coinvolti in questo progetto sono i giovani stessi, gli operatori dellʼorganizzazione che ha la mission di avviare il centro, i responsabili istituzionali delle Amministrazioni coinvolte.
Il progetto si articola su un doppio binario:
– lʼaccompagnamento allʼavvio del centro (con supervisione anche nellʼattrezzaggio, marketing e comunicazione, microprogettazione, supervisione alla fasi gestionali)
– percorso formativo parallelo impostato sullʼacquisizione di conoscenze e competenze relative alla gestione di un centro giovani, alla assunzione di un ruolo, alla condivisione di obiettivi e finalità comuni.
Il percorso formativo prevede quindi momenti dʼaula comuni ed “assetti variabili”, visite guidate ad altre esperienze con alcune sperimentazioni in situazione, bench marking.
I contenuti del percorso devono essere veramente innovativi: ed il progetto formativo prevede quindi che sia garantito un accompagnamento ed una formazione allo start up di questi spazi, affinché diventino “luoghi” significativi per la comunità locale (a partire dai giovani), con un forte ruolo di “attrattore” per le nuove generazioni, unito a quelle capacità di progettazione che sanno cogliere le innovazioni di cui i giovani (e/o gli start uppers sociali e culturali) sono naturali “portatori” e che vengono richieste a chi “sa stare” ogni giorno con loro.
Va quindi tradotta in nuova progettualità tutta la “freschezza e l’attualità”, le novità, le mode, le innovazioni, i bisogni e desideri che si colgono in questi percorsi di partecipazione. Si vede come oggi i tempi sono maturi affinché le comunità locali, i territori, si impegnino invece a gestire situazioni di crisi e difficoltà, sapendo recuperare risorse e valori, per costruire nuovi “beni comuni”, attualizzando le domande ed organizzando risposte in modo innovativo ed al tempo stesso sostenibile, prevedendo – per questi luoghi – anche un investimento iniziale, un piano di rientro e sviluppando al contempo una funzione di “fund raising” locale.
3.2 Le attività da realizzare
Le attività da realizzare riguardano momenti formativi e consulenziali al gruppo, seguendo lʼavvio del centro, dalle prime fasi pre apertura, fino allʼinaugurazione ed allʼavvio. Questa supervisione riguarda il team di cui si è detto prima.
Il percorso formativo è basato su “assetti variabili” e, prevedendo anche momenti di visite, la partecipazione varia a seconda dei temi trattati, pur mantenendo il nucleo di partecipanti legati alla consulenza, attorno al quale – in questa fase formativa “non convenzionale” – possono appunto ruotare altri start uppers, operatori, referenti di istituzioni.
Il percorso si articola in un numero contenuto di incontri ed in breve lasso di tempo (ad es. 12 incontri in sei mesi) sei mesi.
3.3 Contenuti del percorso di accompagnamento allʼavvio di un nuovo spazio
Il team di lavoro che si occupa di un percorso di questo tipo, deve comprendere formatori con competenze diverse, dallʼanimazione sociale alla cultura, dalla creatività al welfare. I contenuti in relazione alle fasi sono:
Microprogettazione
> Individuazione del luogo: caratteristiche interne e localizzazione
> Il business plan, il budget dellʼinvestimento, la sostenibilità ed il punto di pareggio
> Realizzazione dello spazio: progettazione interna e co-progettazione con il territorio
> Attrezzature tecniche, strumentazioni ed allestimento interno
> Il marketing degli spazi rigenerati: il valore del brand, l’investimento in comunicazione e promozione ed obiettivi di ritorno sullʼinvestimento
> Naming, arredi, colori, lay out, attrezzature da interni (e da esterni) da prevedere nella progettazione egli spazi giovanili. La tecnica del “rendering” condiviso e le professionalità da coinvolgere
> I ruoli, le funzioni ed i compiti per la gestione dello spazio. L’avvio e la gestione
> La formula di gestione: diretta, concessione e partnership con altre organizzazioni.
> Dall’avvio all’evento di inaugurazione, dalla progettazione dello spazio, alla programmazione delle attività
> Processi di comunicazione e creazione di valore nella progettazione e sviluppo di spazi giovanili: ricerca di visibilità nella comunità locale
> Informazione e comunicazione, tra free cards e social networks
> La stima dei costi e degli investimenti in promozione e comunicazione, nelle varie fasi di sviluppo dello spazio
> Costruire reti di partnership, dalla comunità locale all’Europa, e con le realtà già presenti. La ricerca del coinvolgimento e della partecipazione diretta, dall’aggregazione al lavoro.
> Fund raising, crown funding, locale, marketing e Pubbliche relazioni a sostegno degli spazi giovanili nella comunità locale
> Finanziare la rigenerazione: opportunità nazionali, europee e locali. Il ruolo ed i finanziamenti dei programmi europei. La funzione di “fund raising” locale. Il ricorso al microcredito ed al prestito diffuso
> Entrare e stare nelle reti di spazi giovanili: costi e ritorno sugli investimenti. Verifica e valutazione
> Riprogettare spazi ed interventi generativi di utilità sociale e di risorse economiche
> La definizione e la valutazione valore sociale ed economico creato
> La valutazione come processo di attribuzione di significato, come momento di condivisione e riprogettazione.
Beni Comuni Urbani: perché non si ricupera al quartiere e alla città lo stabile della Scuola Popolare di Is Mirrionis? L’ITI Is Mirrionis-San Michele può prevederlo
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Azione 9.6.6. Interventi di recupero funzionale e riuso di vecchi immobili in collegamento con attività di animazione sociale e partecipazione collettiva, inclusi interventi per il riuso e la rifunzionalizzazione dei beni confiscati alle mafie
Descrizione della tipologia e degli esempi di azioni da sostenere.
(…) Si intende, quindi, favorire il recupero funzionale e il riuso di vecchi immobili pubblici da destinare a spazi di relazione per il quartiere e l’intera comunità locale, nella piena convinzione che la rifunzionalizzazione di spazi pubblici dismessi o sottoutilizzati in stretto collegamento con attività di animazione sociale e partecipazione attiva, possa rispondere a una duplice finalità: da un lato evitare l’ulteriore degrado dell’area, dall’altro rappresentare una leva di coesione sociale.
Gli interventi infrastrutturali saranno funzionali alle attività di animazione sociale che sul territorio si intenderà promuovere, per diventare dei luoghi fisici di partecipazione attiva dei cittadini, degli spazi in cui sviluppare un lavoro di prossimità. Tali iniziative dovranno fungere da catalizzatore per la costruzione di nuove reti di relazione e rappresentare dei luoghi in cui si potranno intercettare i problemi sociali della famiglia, degli anziani, delle persone inoccupate e disoccupate in cerca di lavoro, e diventare delle vere e proprie “case di quartiere”, in grado di offrire servizi alla collettività (supporto alla genitorialità, sostegno alla legalità, prevenzione di fenomeni di devianza giovanile e/o abbandono scolastico).
(…) – Approfondimenti - SEGUE
OGGI giovedì 9 marzo 2017
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Marianna Bussalai, “Signorina Mariannedda de sos Battor Moros”
Editoriale di Francesco Casula dell’8 marzo 2017 su Aladinews.
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Spopolamento dei piccoli centri: con i soliti schemi non si va da nessuna parte.
Vito Biolchini su vitobiolchini.it blog
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Calo demografico. La mancanza di politiche di contrasto forse non spiega tutto.
Nicolò Migheli su SardegnaSoprattutto.
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La trincea dello spopolamento .
Franco Mannoni su SardegnaSoprattutto.
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Cari Pigliaru ed Erriu, la provincia di Carbonia ha sede a Cagliari! Che follia, senza vergogna!
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
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Come progettare. La comunità al centro delle perferie.
Carlo Ratti su La Stampa di oggi, giovedì 9 marzo.
- Articolo ripreso dalla pagina fb della Scuola Popolare di Is Mirrionis.
- segue -
ITI San Michele – Is Mirrionis
A che punto siamo? Lo chiediamo al Sindaco di Cagliari.
Ieri presso la parrocchia di S.Eusebio si è svolto un incontro del “Comitato Is Mirrionis Scuola Popolare”. Uno degli argomenti è stato proprio l’ITI. Nessuno dei presenti conosceva lo “stato dell’arte” e non si va oltre la documentazione (in certa parte ermetica, da tradurre in italiano comprensibile per tutti) presente nei siti web. Sarebbe il caso che il Comune procedesse a superare questo deserto informativo, cosa che peraltro è un suo obbligo, anche espressamente previsto dal progetto.
Per l’omissione di informazioni e di coinvolgimento dei cittadini, il Comune meriterebbe l’apertura di una “procedura di infrazione” da parte dell’Unione Europea.
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Il piano finanziario sul sito della Ras: http://www.regione.sardegna.it/documenti/1_46_20160531150616.pdf
- ITI San Michele Is Mirrionis, la documentazione su Aladinews.
I fondi per Cagliari città Ok! Mancano quelli per Cagliari Città Metropolitana: cosa è successo?
Va bene il finanziamento per Cagliari (circa 18 milioni di euro) anche per l’ottimo progetto curato dal Dipartimento di Ingegneria e Architettura dell’Università di Cagliari, seppur lamentiamo un deficit di coinvolgimento della popolazione (di cui è responsabile il Comune di Cagliari). Ma i soldi per la “Città metropolitana di Cagliari”?. Sostiene, tra l’altro Mauro Pili nella sua nota veemente sul suo blog: “(…) Dall’elenco manca appunto la città metropolitana di Cagliari a cui vengono a mancare 40 milioni di euro che, invece, sono stati destinati a 11 città metropolitane su 14. (…)”. Cosa è successo?
Lo vogliamo sapere.
Ecco l’elenco a cui si riferisce Pili: http://www.ediltecnico.it/wp-content/uploads/2017/01/Bando-periferie-urbane-graduatoria.pdf
Le città metropolitane in Italia sono 15, comprendendovi anche Trieste. Risulta che solo 11 hanno presentato progetti rispondendo a un apposito Bando. E le altre 4, tra cui Cagliari? Evidentemente non hanno partecipato al citato bando. Perché? Problemi organizzativi. Per quanto riguarda la Città Metropolitana di Cagliari, di cui è presidente il Sindaco di Cagliari Massimo Zedda, occorre un’immediata risposta. I cittadini dell’area metropolitana ne hanno diritto.
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Documentazione
Le città metropolitane in Italia: http://www.tuttitalia.it/citta-metropolitane/
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E a proposito di finanziamenti per le periferie e partecipazione popolare alle scelte pubbliche: come sta andando la realizzazione dell’ITI San Michele-Is Mirrionis?
Giovedì 9 febbraio 2017
Legge elettorale: proporzionale e maggioritario a confronto.
Fernando Codonesu su Democraziaoggi.
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A chi appartiene la legge elettorale
di Gustavo Zagrebelsky, su La Repubblica 7 febbraio 2017
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Oggi, giovedì 9 febbraio 2017, alle ore 18.30, presso i locali della PARROCCHIA di SANT’EUSEBIO a Cagliari, in via Quintino Sella
verrà presentato il libro
“Lo studio restituito agli esclusi. Gli anni della scuola popolare di Is Mirrionis”
Saranno presenti:
➢ I curatori del libro FRANCO MELONI, OTTAVIO OLITA e GIORGIO SEGURO
➢ EX LAVORATORI-STUDENTI del QUARTIERE ed EX INSEGNANTI che vissero l’ESPERIENZA
➢ DON FERDINANDO CASCHILI (attuale Parroco)
➢ DON GIANNI SANNA (vice Parroco dell’epoca)
Coordinano: GIANNI LOY e GIACOMO MELONI.
Bologna, per esempio
REGOLAMENTO SULLA COLLABORAZIONE TRA CITTADINI E AMMINISTRAZIONE PER LA CURA
E LA RIGENERAZIONE DEI BENI COMUNI URBANI
CAPO I – Disposizioni generali
Art. 1 – (Finalità, oggetto ed ambito di applicazione)
Art. 2 – (Definizioni)
Art. 3 – (Principi generali)
Art. 4 – (I cittadini attivi)
Art. 5 – (Patto di collaborazione)
Art. 6 – (Interventi sugli spazi pubblici e sugli edifici)
Art. 7 – (Promozione dell’innovazione sociale e dei servizi collaborativi)
Art. 8 – (Promozione della creatività urbana)
Art. 9 – (Innovazione digitale)
CAPO II – Disposizioni di carattere procedurale
Art. 10 – (Disposizioni generali)
Art. 11 – (Proposte di collaborazione)
CAPO III – Interventi di cura e rigenerazione di spazi pubblici
Art. 12 – (Interventi di cura occasionale)
Art. 13 – (Gestione condivisa di spazi pubblici)
Art. 14 – (Gestione condivisa di spazi privati ad uso pubblico) Art. 15 – (Interventi di rigenerazione di spazi pubblici)
CAPO IV – Interventi di cura e rigenerazione di edifici
Art. 16 – (Individuazione degli edifici)
Art. 17 – (Gestione condivisa di edifici)
CAPO V – Formazione
Art. 18 – (Finalità della formazione)
Art. 19 – (Il ruolo delle scuole)
CAPO VI – Forme di sostegno
Art. 20 – (Esenzioni ed agevolazioni in materia di canoni e tributi locali)
Art. 21 – (Accesso agli spazi comunali)
Art. 22 – (Materiali di consumo e dispositivi di protezione individuale)
Art. 23 – (Affiancamento nella progettazione)
Art. 24 – (Risorse finanziarie a titolo di rimborso di costi sostenuti)
Art. 25 – (Autofinanziamento)
Art. 26 – (Forme di riconoscimento per le azioni realizzate)
Art. 27 – (Agevolazioni amministrative)
CAPO VII – Comunicazione, trasparenza e valutazione
Art. 28 – (Comunicazione collaborativa)
Art. 29 – (Strumenti per favorire l’accessibilità delle opportunità di collaborazione)
Art. 30 – (Rendicontazione, misurazione e valutazione delle attività di collaborazione)
CAPO VIII – Responsabilità e vigilanza
Art. 31 – (Prevenzione dei rischi)
Art. 32 – (Disposizioni in materia di riparto delle responsabilità)
Art. 33 – (Tentativo di conciliazione)
CAPO IX – Disposizioni finali e transitorie
Art. 34 – (Clausole interpretative)
Art. 35 – (Entrata in vigore e Sperimentazione)
Art. 36 – (Disposizioni transitorie)
CAPO I – Disposizioni generali
Art. 1 (Finalità, oggetto ed ambito di applicazione)
1. Il presente regolamento, in armonia con le previsioni della Costituzione e dello Statuto comunale, disciplina le forme di collaborazione dei cittadini con l’ammini- strazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani, dando in particolare attuazione agli art. 118, 114 comma 2 e 117 comma 6 Costituzione.
2. Le disposizioni si applicano nei casi in cui l’intervento dei cittadini per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani richieda la collaborazione o risponda alla solleci- tazione dell’amministrazione comunale.
3. La collaborazione tra cittadini e amministrazione si estrinseca nell’adozione di atti amministrativi di natura non autoritativa.
4. Restano ferme e distinte dalla materia oggetto del presente regolamento le previ- sioni regolamentari del Comune che disciplinano l’erogazione dei benefici economici e strumentali a sostegno delle associazioni, in attuazione dell’art. 12 della legge 7 agosto 1990 n. 241.
Art. 2 (Definizioni)
1. Ai fini delle presenti disposizioni si intendono per:
a) Beni comuni urbani: i beni, materiali, immateriali e digitali, che i cittadini e l’Am- ministrazione, anche attraverso procedure partecipative e deliberative, riconoscono essere funzionali al benessere individuale e collettivo, attivandosi di conseguenza nei loro confronti ai sensi dell’art. 118 ultimo comma Costituzione, per condividere con l’amministrazione la responsabilità della loro cura o rigenerazione al fine di migliorar- ne la fruizione collettiva.
b) Comune o Amministrazione: il Comune di Bologna nelle sue diverse articolazioni istituzionali e organizzative.
c) Cittadini attivi: tutti i soggetti, singoli, associati o comunque riuniti in formazioni sociali, anche di natura imprenditoriale o a vocazione sociale, che si attivano per la cura e rigenerazione dei beni comuni urbani ai sensi del presente regolamento.
d) Proposta di collaborazione: la manifestazione di interesse, formulata dai cittadini attivi, volta a proporre interventi di cura o rigenerazione dei beni comuni urbani. La proposta può essere spontanea oppure formulata in risposta ad una sollecitazione del Comune.
e) Patto di collaborazione: il patto attraverso il quale Comune e cittadini attivi defini- scono l’ambito degli interventi di cura o rigenerazione dei beni comuni urbani.
f) Interventi di cura: interventi volti alla protezione, conservazione ed alla manuten- zione dei beni comuni urbani per garantire e migliorare la loro fruibilità e qualità.
g) Gestione condivisa: interventi di cura dei beni comuni urbani svolta congiuntamen- te dai cittadini e dall’amministrazione con carattere di continuità e di inclusività.
h) Interventi di rigenerazione: interventi di recupero, trasformazione ed innovazione dei beni comuni, partecipi, tramite metodi di coprogettazione, di processi sociali, eco- nomici, tecnologici ed ambientali, ampi e integrati, che complessivamente incidono sul miglioramento della qualità della vita nella città.
i) Spazi pubblici: aree verdi, piazze, strade, marciapiedi e altri spazi pubblici o aperti al pubblico, di proprietà pubblica o assoggettati ad uso pubblico.
l) Rete civica: lo spazio di cittadinanza su internet per la pubblicazione di informazioni e notizie istituzionali, la fruizione di servizi on line e la partecipazione a percorsi inte- rattivi di condivisione.
m) Medium civico: il canale di comunicazione – collegato alla rete civica – per la rac- colta, la valutazione, la votazione e il commento di proposte avanzate dall’Ammini- strazione e dai cittadini.
Art. 3 (Principi generali)
1. La collaborazione tra cittadini e amministrazione si ispira ai seguenti valori e prin- cipi generali:
a) Fiducia reciproca: ferme restando le prerogative pubbliche in materia di vigilanza, programmazione e verifica, l’Amministrazione e i cittadini attivi improntano i loro rapporti alla fiducia reciproca e presuppongono che la rispettiva volontà di collabora- zione sia orientata al perseguimento di finalità di interesse generale.
b) Pubblicità e trasparenza: l’amministrazione garantisce la massima conoscibilità del- le opportunità di collaborazione, delle proposte pervenute, delle forme di sostegno assegnate, delle decisioni assunte, dei risultati ottenuti e delle valutazioni effettuate. Riconosce nella trasparenza lo strumento principale per assicurare l’imparzialità nei rapporti con i cittadini attivi e la verificabilità delle azioni svolte e dei risultati otte- nuti.
c) Responsabilità: l’amministrazione valorizza la responsabilità, propria e dei cittadi- ni, quale elemento centrale nella relazione con i cittadini, nonché quale presupposto necessario affinché la collaborazione risulti effettivamente orientata alla produzione di risultati utili e misurabili.
d) Inclusività e apertura: gli interventi di cura e rigenerazione dei beni comuni devono essere organizzati in modo da consentire che in qualsiasi momento altri cittadini inte- ressati possano aggregarsi alle attività.
e) Sostenibilità: l’amministrazione, nell’esercizio della discrezionalità nelle decisioni che assume, verifica che la collaborazione con i cittadini non ingeneri oneri superiori ai benefici e non determini conseguenze negative sugli equilibri ambientali.
f) Proporzionalità: l’amministrazione commisura alle effettive esigenze di tutela degli interessi pubblici coinvolti gli adempimenti amministrativi, le garanzie e gli standard di qualità richiesti per la proposta, l’istruttoria e lo svolgimento degli interventi di collaborazione.
g) Adeguatezza e differenziazione: le forme di collaborazione tra cittadini e ammini- strazione sono adeguate alle esigenze di cura e rigenerazione dei beni comuni urbani e vengono differenziate a seconda del tipo o della natura del bene comune urbano e delle persone al cui benessere esso è funzionale.
h) Informalità: l’amministrazione richiede che la relazione con i cittadini avvenga nel rispetto di specifiche formalità solo quando ciò è previsto dalla legge. Nei restanti casi assicura flessibilità e semplicità nella relazione, purché sia possibile garantire il rispet- to dell’etica pubblica, così come declinata dal codice di comportamento dei dipendenti pubblici e dei principi di imparzialità, buon andamento, trasparenza e certezza.
i) Autonomia civica: l’amministrazione riconosce l’autonoma iniziativa dei cittadini e predispone tutte le misure necessarie a garantirne l’esercizio effettivo da parte di tutti i cittadini attivi.
Art. 4 (I cittadini attivi)
1. L’intervento di cura e di rigenerazione dei beni comuni urbani, inteso quale concreta manifestazione della partecipazione alla vita della comunità e strumento per il pieno sviluppo della persona umana, è aperto a tutti, senza necessità di ulteriore titolo di legittimazione.
2. I cittadini attivi possono svolgere interventi di cura e di rigenerazione dei beni co- muni come singoli o attraverso le formazioni sociali in cui esplicano la propria perso- nalità, stabilmente organizzate o meno.
3. Nel caso in cui i cittadini si attivino attraverso formazioni sociali, le persone che sottoscrivono i patti di collaborazione di cui all’art. 5 del presente regolamento rap- presentano, nei rapporti con il Comune, la formazione sociale che assume l’impegno di svolgere interventi di cura e rigenerazione dei beni comuni.
4. L’efficacia dei patti di collaborazione di cui all’art. 5 del presente regolamento è condizionata alla formazione secondo metodo democratico della volontà della forma- zione sociale che assume l’impegno di svolgere interventi di cura e rigenerazione dei beni comuni.
5. I patti di collaborazione di cui all’art. 5 del presente regolamento riconoscono e valorizzano gli interessi, anche privati, di cui sono portatori i cittadini attivi in quanto contribuiscono al perseguimento dell’interesse generale.
6. Il Comune ammette la partecipazione di singoli cittadini ad interventi di cura o ri- generazione dei beni comuni urbani quale forma di riparazione del danno nei confronti dell’ente ai fini previsti dalla legge penale, ovvero quale misura alternativa alla pena detentiva e alla pena pecuniaria, con le modalità previste dalla normativa in materia di lavoro di pubblica utilità.
7. Gli interventi di cura e rigenerazione dei beni comuni urbani possono costituire progetti di servizio civile in cui il Comune può impiegare i giovani a tal fine selezionati secondo modalità concordate con i cittadini.
Art. 5 (Patto di collaborazione)
1. Il patto di collaborazione è lo strumento con cui Comune e cittadini attivi con- cordano tutto ciò che è necessario ai fini della realizzazione degli interventi di cura e rigenerazione dei beni comuni.
2. Il contenuto del patto varia in relazione al grado di complessità degli interventi concordati e della durata della collaborazione. Il patto, avuto riguardo alle specifiche necessità di regolazione che la collaborazione presenta, definisce in particolare:
a) gli obiettivi che la collaborazione persegue e le azioni di cura condivisa;
b) la durata della collaborazione, le cause di sospensione o di conclusione anticipata della stessa;
c) le modalità di azione, il ruolo ed i reciproci impegni dei soggetti coinvolti, i requisiti ed i limiti di intervento;
d) le modalità di fruizione collettiva dei beni comuni urbani oggetto del patto;
e) le conseguenze di eventuali danni occorsi a persone o cose in occasione o a causa degli interventi di cura e rigenerazione, la necessità e le caratteristiche delle coperture assicurative e l’assunzione di responsabilità secondo quanto previsto dagli artt. 31 e 32 del presente regolamento, nonché le misure utili ad eliminare o ridurre le interferenze con altre attività;
f) le garanzie a copertura di eventuali danni arrecati al Comune in conseguenza della mancata, parziale o difforme realizzazione degli interventi concordati;
g) le forme di sostegno messe a disposizione dal Comune, modulate in relazione al va- lore aggiunto che la collaborazione è potenzialmente in grado di generare;
h) le misure di pubblicità del patto, le modalità di documentazione delle azioni re- alizzate, di monitoraggio periodico dell’andamento, di rendicontazione delle risorse utilizzate e di misurazione dei risultati prodotti dalla collaborazione fra cittadini e amministrazione;
i) l’affiancamento del personale comunale nei confronti dei cittadini, la vigilanza sull’andamento della collaborazione, la gestione delle controversie che possano insor- gere durante la collaborazione stessa e l’irrogazione delle sanzioni per inosservanza del presente regolamento o delle clausole del patto;
l) le cause di esclusione di singoli cittadini per inosservanza del presente regolamento o delle clausole del patto, gli assetti conseguenti alla conclusione della collaborazione, quali la titolarità delle opere realizzate, i diritti riservati agli autori delle opere dell’in- gegno, la riconsegna dei beni, e ogni altro effetto rilevante;
m) le modalità per l’adeguamento e le modifiche degli interventi concordati.
3. Il patto di collaborazione può contemplare atti di mecenatismo, cui dare ampio rilievo comunicativo mediante forme di pubblicità e comunicazione dell’intervento realizzato, l’uso dei diritti di immagine, l’organizzazione di eventi e ogni altra forma di comunicazione o riconoscimento che non costituisca diritti di esclusiva sul bene comune urbano.
Art. 6 (Interventi sugli spazi pubblici e sugli edifici)
1. La collaborazione con i cittadini attivi può prevedere differenti livelli di intensità dell’intervento condiviso sugli spazi pubblici e sugli edifici, ed in particolare: la cura occasionale, la cura costante e continuativa, la gestione condivisa e la rigenerazione.
2. I cittadini attivi possono realizzare interventi, a carattere occasionale o continua- tivo, di cura o di gestione condivisa degli spazi pubblici e degli edifici periodicamente individuati dall’amministrazione o proposti dai cittadini attivi. L’intervento è finaliz- zato a:
- integrare o migliorare gli standard manutentivi garantiti dal Comune o migliorare la vivibilità e la qualità degli spazi;
- assicurare la fruibilità collettiva di spazi pubblici o edifici non inseriti nei programmi comunali di manutenzione.
3. Possono altresì realizzare interventi, tecnici o finanziari, di rigenerazione di spazi pubblici e di edifici.
Art. 7 (Promozione dell’innovazione sociale e dei servizi collaborativi)
1. Il Comune promuove l’innovazione sociale, attivando connessioni tra le diverse ri- sorse presenti nella società, per creare servizi che soddisfino bisogni sociali e che nel contempo attivino legami sociali e forme inedite di collaborazione civica, anche attra- verso piattaforme e ambienti digitali, con particolare riferimento alla rete civica.
2. Il Comune promuove l’innovazione sociale per la produzione di servizi collaborativi. Al fine di ottimizzare o di integrare l’offerta di servizi pubblici o di offrire risposta alla emersione di nuovi bisogni sociali, il Comune favorisce il coinvolgimento diretto dell’u- tente finale di un servizio nel suo processo di progettazione, infrastrutturazione ed erogazione. La produzione di servizi collaborativi viene promossa per attivare processi generativi di beni comuni materiali, immateriali e digitali.
3. Il Comune persegue gli obiettivi di cui al presente articolo incentivando la nascita di cooperative, imprese sociali, start-up a vocazione sociale e lo sviluppo di attività e progetti a carattere economico, culturale e sociale.
4. Gli spazi e gli edifici di cui al presente regolamento rappresentano una risorsa fun- zionale al raggiungimento delle finalità di cui al presente articolo. Il Comune riserva una quota di tali beni alla realizzazione di progetti che favoriscano l’innovazione socia- le o la produzione di servizi collaborativi.
Art. 8 (Promozione della creatività urbana)
1. Il Comune promuove la creatività, le arti, la formazione e la sperimentazione arti- stica come uno degli strumenti fondamentali per la riqualificazione delle aree urbane o dei singoli beni, per la produzione di valore per il territorio, per la coesione sociale e per lo sviluppo delle capacità.
2. Per il perseguimento di tale finalità il Comune riserva una quota degli spazi e degli edifici di cui al presente regolamento allo svolgimento di attività volte alla promozione della creatività urbana e in particolare di quella giovanile.
3. Il Comune promuove la creatività urbana anche attraverso la valorizzazione tem- poranea di spazi e immobili di proprietà comunale in attesa di una destinazione d’uso definitiva. I suddetti beni possono essere destinati a usi temporanei valorizzandone la vocazione artistica, evitando in tal modo la creazione di vuoti urbani e luoghi di conflitto sociale.
Art. 9 (Innovazione digitale)
1. Il Comune favorisce l’innovazione digitale attraverso interventi di partecipazione all’ideazione, al disegno e alla realizzazione di servizi e applicazioni per la rete civica da parte della comunità, con particolare attenzione all’uso di dati e infrastrutture aperti, in un’ottica di beni comuni digitali.
2. Al tal fine il Comune condivide con i soggetti che partecipano alla vita e all’evoluzio- ne della rete civica e che mettono a disposizione dell’ambiente collaborativo e del me- dium civico competenze per la coprogettazione e realizzazione di servizi innovativi, i dati, gli spazi, le infrastrutture e le piattaforme digitali, quali la rete e il medium civici.
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Beni comuni, de iure condendo…
Commissione Rodotà – per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici (14 giugno 2007) – Proposta di articolato Commissione Rodotà – elaborazione dei principi e criteri direttivi di uno schema di disegno di legge delega al Governo per la novellazione del Capo II del Titolo I del Libro III del Codice Civile nonché di altre parti dello stesso Libro ad esso collegate per le quali si presentino simili necessità di recupero della funzione ordinante del diritto della proprietà e dei beni (14 giugno 2007).
——————- De iure condendo…
(Delega al Governo per la modifica del Capo II del Titolo I del Libro III del Codice Civile).
1. Il Governo è delegato ad adottare, entro dieci mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, un decreto legislativo per la modifica del Capo II del Titolo I del Libro III del Codice Civile nonché di altre parti dello stesso Libro per le quali si presentino simili necessità di riforma del diritto della proprietà e dei beni.
2. Le disposizioni della presente legge delega e quelle delegate, in quanto direttamente attuative dei principi fondamentali di cui agli articoli 1, 2, 3, 5, 9, 41, 42, 43, 97, 117 della Costituzione possono essere derogate o modificate solo in via generale ed espressa e non tramite leggi speciali o concernenti singoli tipi di beni.
3. Il decreto delegato è adottato, realizzando il necessario coordinamento con le disposizioni vigenti, nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi generali:
a) Revisione della formulazione dell’art. 810 del codice civile, al fine di qualificare come beni le cose, materiali o immateriali, le cui utilità possono essere oggetto di diritti.
b) Distinzione dei beni in tre categorie: beni comuni, beni pubblici, beni privati.
c) Previsione della categoria dei beni comuni, ossia delle cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona. I beni comuni devono essere tutelati e salvaguardati dall’ordinamento giuridico, anche a beneficio delle generazioni future. Titolari di beni comuni possono essere persone giuridiche pubbliche o privati. In ogni caso deve essere garantita la loro fruizione collettiva, nei limiti e secondo le modalità fissati dalla legge.
Quando i titolari sono persone giuridiche pubbliche i beni comuni sono gestiti da soggetti pubblici e sono collocati fuori commercio; ne è consentita la concessione nei soli casi previsti dalla legge e per una durata limitata, senza possibilità di proroghe. Sono beni comuni, tra gli altri: i fiumi i torrenti e le loro sorgenti; i laghi e le altre acque; l’ aria; i parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi e i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate. La disciplina dei beni comuni deve essere coordinata con quella degli usi civici. Alla tutela giurisdizionale dei diritti connessi alla salvaguardia e alla fruizione dei beni comuni ha accesso chiunque. Salvi i casi di legittimazione per la tutela di altri diritti ed interessi, all’esercizio dell’azione di danni arrecati al bene comune è legittimato in via esclusiva lo Stato. Allo Stato spetta pure l’azione per la riversione dei profitti. I presupposti e le modalità di esercizio delle azioni suddette saranno definite dal decreto delegato.
d) sostituzione del regime della demanialità e della patrimonialità attraverso l’introduzione di una classificazione dei beni pubblici appartenenti a persone pubbliche, fondata sulla loro natura e sulla loro funzione in attuazione delle norme Costituzionali di cui all’Art 1. 2 così articolata: 1) beni ad appartenenza pubblica necessaria. 2) beni pubblici sociali. 3) beni pubblici fruttiferi.
1) I beni ad appartenenza pubblica necessaria sono quelli che soddisfano interessi generali fondamentali, la cui cura discende dalle prerogative dello Stato e degli enti pubblici territoriali. Non sono ne’ usucapibili ne alienabili. Vi rientrano fra gli altri: le opere destinate alla difesa; le spiagge e le rade; la reti stradali, autostradali e ferroviarie; lo spettro delle frequenze; gli acquedotti; i porti e gli aeroporti di rilevanza nazionale ed internazionale. La loro circolazione può avvenire soltanto tra lo Stato e gli altri enti pubblici territoriali. Lo Stato e gli enti pubblici territoriali sono titolari dell’azione inibitoria e di quella risarcitoria. I medesimi enti sono altresì titolari di poteri di tutela in via amministrativa nei casi e secondo le modalità che verranno definiti dal decreto delegato.
2) Sono beni pubblici sociali quelli le cui utilità essenziali sono destinate a soddisfare bisogni corrispondenti ai diritti civili e sociali della persona. Non sono usucapibili. Vi rientrano tra gli altri: le case dell’edilizia residenziale pubblica, gli edifici pubblici adibiti a ospedali, istituti di istruzione e asili; le reti locali di pubblico servizio. È in ogni caso fatto salvo il vincolo reale di destinazione pubblica. La circolazione è ammessa con mantenimento del vincolo di destinazione. La cessazione del vincolo di destinazione è subordinata alla condizione che gli enti pubblici titolari del potere di rimuoverlo assicurino il mantenimento o il miglioramento della qualità dei servizi sociali erogati. Il legislatore delegato stabilisce le modalità e le condizioni di tutela giurisdizionale dei beni pubblici sociali anche da parte dei destinatari delle prestazioni. La tutela in via amministrativa spetta allo Stato e ad enti pubblici anche non territoriali che la esercitano nei casi e secondo le modalità definiti dal decreto delegato. Con la disciplina dei beni sociali andrà coordinata quella dei beni di cui all’art 826, comma 2, del codice civile, ad esclusione delle foreste, che rientrano nei beni comuni.
3) Sono beni pubblici fruttiferi quelli che non rientrano nelle categorie indicate dalle norme precedenti. Essi sono alienabili e gestibili dalle persone pubbliche con strumenti di diritto privato. L’alienazione ne è consentita solo quando siano dimostrati il venir meno della necessità dell’utilizzo pubblico dello specifico bene e l’impossibilità di continuarne il godimento in proprietà con criteri economici. L’alienazione è regolata da idonei procedimenti che consentano di evidenziare la natura e la necessità delle scelte sottese alla dismissione. I corrispettivi realizzati non possono essere imputati a spesa corrente. e) definizione di parametri per la gestione e la valorizzazione di ogni tipo di bene pubblico. In particolare:
1) Tutte le utilizzazioni di beni pubblici da parte di un soggetto privato devono comportare il pagamento di un corrispettivo rigorosamente proporzionale ai vantaggi che può trarne l’ utilizzatore individuato attraverso il confronto fra più offerte.
2) Nella valutazione delle offerte, anche in occasione del rinnovo, si dovrà in ogni caso tenere conto dell’ impatto sociale ed ambientale dell’ utilizzazione.
3) La gestione dei beni pubblici deve assicurare un’adeguata manutenzione e un idoneo sviluppo anche in relazione al mutamento delle esigenze di servizio.
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Le Scuole Popolari oggi più che mai. Oggi il dibattito a La Collina
La Scuola Popolare di Is Mirrionis a La Collina
Oggi, mercoledì 14 dicembre, sarà presentato a La Collina di Serdiana il libro sulla Scuola Popolare di Is Mirrionis “Lo studio restituito agli esclusi” . Nel volume è inserita un’intervista a don Ettore Cannavera, a cura di Ottavio Olita, che per gentile concessione dell’Editore del libro, pubblichiamo di seguito.
Cosa può insegnare quell’esperienza?
(Ottavio Olita a colloquio con don Ettore Cannnavera)
La tempesta di piombo che sconvolse l’Italia nel secolo scorso, da metà degli anni ’70 in poi, tra i vari risultati conseguiti ne ebbe anche uno non del tutto secondario: cancellare dalla storia di quel decennio quel che di buono era stato costruito. E quando parlo di piombo non mi riferisco solo a quello dei proiettili dei terroristi rossi e neri.
Penso anche al piombo usato per la stampa di tanti quotidiani che vollero a tutti i costi far derivare quella terribile stagione di violenza e di morte dalle grandi mobilitazioni di lavoratori e studenti che spingevano perché il Paese diventasse più democratico e attento ai diritti: quello progettato dai Padri Costituenti, non certo quello sporco del sangue di vittime innocenti usato come alibi nelle loro ‘risoluzioni’ da quanti si erano appena trasformati in brutali assassini.
Diritto allo studio e diritto al lavoro non rimasero solo slogan scanditi a gran voce nei cortei. In molti casi divennero occasione di forte impegno sociale che pose le basi per favorire l’aggregazione di tanti giovani provenienti dalla più diverse esperienze.
Così avvenne a Cagliari, come è stato raccontato con passione, ma anche con un pizzico di autoironia, in questo libro.
Cosa spinse ragazzi formatisi nelle parrocchie, sui libri di storia, filosofia e sociologia, o sulle pagine di Marx ed Engels, o anche esaltati dai pensieri del libretto rosso di Mao e dalle imprese eroiche e mitizzate di Ernesto Che Guevara a trovare una strada comune, una voglia di collaborazione disinteressata finalizzata a far conseguire un titolo di studio, a quell’epoca ancora indispensabile, a tanti uomini e donne che da ragazzi erano stati esclusi dalla scuola?
Le assemblee, gli incontri, i dibattiti interminabili che si ripetevano a ritmo incalzante nelle aule universitarie e nelle scuole superiori non erano vissuti come esercizi retorici. Molti di quanti vi partecipavano lo facevano con la voglia di trovare un percorso che traducesse nella pratica le lunghe elaborazioni relative soprattutto all’uguaglianza tra i cittadini.
Il primo terreno pratico per un lavoro comune venne individuato con sorprendente, entusiastica spontaneità in un’iniziativa, quella che ben presto venne individuata come la Scuola Popolare di Is Mirrionis. Essa pose a quei giovani seri problemi organizzativi e di didattica, oltre che, in particolare alle ragazze, la definizione di un nuovo rapporto all’interno della famiglia, soprattutto con i genitori.
E poi procurarsi i materiali, la sede, le attrezzature, in un quadro di partecipazione sempre più complessa. Oltre alla gestione delle relazioni interpersonali.
Giovani universitari o appena laureati, quindi ventenni o poco più, a contatto con operai, commessi e commesse, casalinghe, molto più grandi d’età e con problemi quotidiani complessi ai quali proporre testi di studio su cui prepararsi per poi affrontare un esame in una scuola pubblica. E le discussioni su temi di attualità collocati in un corretto contesto storico-culturale.
Tante le ore dedicate alla preparazione delle ‘lezioni’, alla scelta dei testi e dei metodi di lavoro comune, con un confronto costante con i lavoratori per cercare di rendere interessanti materie che da ragazzi li avevano spaventati tanto da farli allontanare dalle aule. Facendo ricorso ad un punto di riferimento solidissimo: don Lorenzo Milani e la sua scuola di Barbiana, insieme con l’insostituibile “Lettera ad una professoressa”.
Come affrontare lo studio della Storia? E quello della Matematica? E che fare con le nozioni di Lingua Straniera? Rispettare i programmi ministeriali per le prove d’esame, oppure avere il coraggio di aprire un contenzioso con i presidi su come dovessero svolgersi quelle stesse prove?
L’analisi politica doveva fare per forza i conti con la realtà pratica e questa fu la lezione più importante che quei giovani appresero.
Cosa rimane, oggi, a quarant’anni dalla fine di quell’esperienza? C’è oggi, nella nostra società sempre più egoistica e chiusa nel proprio privato qualcosa di paragonabile a quella partecipazione, a quella voglia di solidarietà, a quel mettere al servizio della collettività le proprie conoscenze? E soprattutto: perché i giovani non sono più protagonisti attivi della vita sociale; perché accettano senza reagire il ruolo passivo che la società dei consumi assegna loro? Perché sono sempre meno cittadini e sempre più privati consumatori?
Domande senza risposta? Ecco cosa ne pensa don Ettore Cannavera, instancabile animatore della Comunità di Recupero ‘La Collina’ di Serdiana.
«L’esperienza avuta, e che continuo ad avere, è che la persona bombardata da bisogni materiali e dalla negazione di sé, va a finire in situazioni che io definisco devianti: non realizza ciò che c’è di più profondo nell’essere umano. ‘Io sono in quanto sono con gli altri e per gli altri’. L’esperienza di quegli anni rispondeva ad un’esigenza profonda dell’essere umano che voi, giovani di allora, avevate colto perfettamente: nel mettersi a disposizione per far crescere culturalmente gli altri, si otteneva in contemporanea un beneficio per se stessi perché si creava una solidarietà concreta con chi aveva fatto un percorso meno ricco culturalmente del proprio. Venivano messi nelle condizioni, attraverso la cultura, attraverso la consapevolezza del senso profondo della vita – che avviene solo per mezzo della cultura –, di potersi sentire realizzati in questo mondo.
Io questa cosa l’ho capita molto bene da un libro che mi sta molto a cuore, per me rivoluzionario. E’ di Paulo Freire, pedagogista brasiliano morto quindici anni fa, dal titolo ‘Pedagogia degli oppressi’.
Freire sosteneva l’importanza del rapporto scolarizzazione-coscientizzazione-politicizzazione. In buona sostanza: se io riesco attraverso la scuola a sviluppare tutte le mie capacità intellettive, di pensiero, di riflessione, che mi fanno consapevole del senso della vita, devo per forza approdare alla politicizzazione, in un impegno di solidarietà nei confronti degli altri. Questo vuol dire che voi – giovani come te e gli altri – avete avuto allora la sensibilità di capire che il fare, il dare il vostro tempo e le vostre competenze serviva a rendere gli altri consapevoli, come voi eravate, della realizzazione del senso della vita e dell’umanità di ciascuno di noi».
Come giudichi il rapporto che si creò, allora, tra una schiera di giovani studenti o neolaureati, provenienti dalle più diverse formazioni religiose, politiche, ideologiche e gli adulti estromessi dalla scuola? E come valuti quel che accade oggi nelle relazioni sociali?
«Quella scuola di quarant’anni fa rispondeva a un bisogno personale di chi si metteva a disposizione e corrispondeva ai bisogni di chi non aveva fatto quel percorso culturale, scolastico, di consapevolezza, di coscientizzazione. Era arrivato ad una certa età – adulto – senza avere un titolo di studio e soprattutto senza quegli strumenti culturali assolutamente necessari per rendersi nel mondo persone capaci, competenti, persone coscienti.
Cosa sta avvenendo, oggi, a distanza di quarant’anni? Lo sviluppo economico ha generato una sorta di individualismo che porta a pensare che la realizzazione di se stessi sia soltanto nella contrapposizione agli altri, nell’essere al di sopra degli altri, nell’essere più benestanti degli altri, nell’avere un ruolo sociale migliore degli altri. Ha fomentato sempre di più l’egocentrismo, l’individualismo, l’egoismo, uccidendo quello che è il bisogno fondamentale: la relazione con gli altri. E voglio sottolineare che ne parlo a livello antropologico, non religioso. La mia convinzione, che mi deriva dai miei studi, è che la realizzazione di sé avviene solo se sono capace di entrare in relazione con gli altri, perché degli altri io ho bisogno, per poter essere qualcuno.
L’esperienza di allora, quindi, è servita sia a chi si è messo a disposizione, sia agli adulti che non avevano avuto prima la possibilità di ‘rendersi capaci di…’. Ecco perché solo la scuola, la cultura consente questo.
Don Milani – visto che anche voi avete fatto riferimento a quell’esperienza utilizzando ‘Lettera ad una professoressa’ – aveva capito che quei ragazzi che avevano solo la zappa in mano, dovevano invece impossessarsi della penna. Bisognava dar loro gli strumenti per entrare nel mondo della cultura. Solo lo sviluppo delle capacità intellettive realizza pienamente l’umanità. Don Milani ci ha insegnato questo».
Come valuti quel che accade oggi nei campi della socializzazione, della politica, della solidarietà?
«Oggi viviamo una grave situazione di crisi, in cui ognuno si sta chiudendo nel proprio mondo. Non c’è più partecipazione politica, la gente non va più nemmeno a votare. Ci stanno rendendo un mondo sempre più egoistico; anzi, forse la definizione più corretta è sempre più ego centrato, perché forse non è un egoismo consapevole. Si sta pensando che richiudersi in se stessi, nei propri interessi, anche solo familiari, serva a realizzarsi. Mentre invece l’esperienza vostra ha insegnato a voi e agli adulti che vi hanno seguito che solo aprendosi agli altri, che solo con la conoscenza, con la consapevolezza, con la coscientizzazione, si è poi in grado di sfociare nella politica. Il mancato impegno politico è la negazione della nostra umanità. E’ per questo che quell’esperienza può e deve dare tanti insegnamenti all’oggi, tempo nel quale c’è un allontanamento, un’astensione dall’impegno politico. Impegno politico che non è solo andare a votare – cosa che comunque sarebbe già un passo – ma che deve essere inteso come la possibilità di aiutare gli altri, a diventare consapevoli dei bisogni più profondi che ci vengono soffocati da tutto il mercato, da tutti gli interessi delle multinazionali, da chi ha i soldi, in cui l’uomo viene utilizzato come strumento di arricchimento per altri. Rispondendo a quel bisogno dell’ ‘avere’, senza capire che prima ancora c’è il bisogno dell’ ‘essere’: Erich Fromm ‘Avere o Essere?’.
L’essere viene soffocato perché non c’è quel cammino culturale, scolastico necessario. La società è incentrata sull’ ‘avere’. Siamo convinti che la nostra realizzazione dipenda da quante più cose possediamo o possiamo avere. E alla fine restiamo soffocati da queste cose. In fondo la mia visione antropologica si realizza con lo strumento delle cose, con lo strumento della ricchezza, ma questa non deve diventare la finalità dell’esistenza».
L’ossessione della realizzazione di sé, dei consumi – dell’ ‘Avere’ – è massicciamente veicolata dai mezzi di comunicazione di massa, in particolare dalla televisione. Soprattutto per i più giovani diventa problematico, difficile, se non impossibile, rendersi conto di questa realtà per valutarla, criticarla, eventualmente contrastarla. Luoghi di aggregazione, come questo da te guidato consentono importanti momenti di riflessione collettiva. Ma il resto della società è abbandonato a se stesso. Grave è anche la responsabilità del mondo politico. Secondo te perché non se ne occupa, perché non interviene per operare quella coscientizzazione di cui tu hai parlato in modo ampio e approfondito? Non se ne rende conto, o ci sguazza perché, in fin dei conti, gli conviene?
«Quanti hanno il potere non hanno interesse, anzi ostacolano la consapevolezza, la politicizzazione. Fanno in modo che la gente si concentri su altri interessi e li lascino decidere e governare da soli. Questo processo come si origina? Evitando che i ragazzi, i giovani – fin da bambini – si rendano conto del sistema sociale, di come funziona la comunità. La stessa scuola si è limitata, e io ne ho avuto esperienza come docente, a parlare dei problemi passati: degli egiziani, della storia romana, ma non si arriva mai a parlare della storia di oggi. Anche la scuola ha questo grosso limite; altro che la vostra scuola in cui si parlava dei problemi della quotidianità, degli ultimi! Dalla problematizzazione dell’oggi si deve partire – proprio come sosteneva Paulo Freire – per arrivare allo studio del passato. Occuparsi di lavoro, partecipazione, democrazia oggi, per poter poi poter attingere e fare un confronto con la storia del passato.
Quello che oggi il potere fa, consapevolmente, è di realizzare un tipo di scuola nel quale l’insegnante viene valutato su quello che sa della storia del passato, o della filosofia, ad esempio, ma non dà la possibilità di andare ad analizzare le problematiche odierne. Al potere non interessa che la gente si renda conto di quali sono i meccanismi che regolano la sua vita. Non parla di problemi concreti, parla di temi astratti. La gente viene tenuta fuori, quel che conta è la delega: ‘Ci penso io, dai a me il voto, che poi risolvo io i problemi’.
Bisogna quindi tornare ad un tipo di scuola come quello vostro. E se non si può più fare la Scuola Popolare, bisogna comunque dare consapevolezza agli insegnanti, fin dalle elementari e medie, o creare momenti di doposcuola, proprio per poter dare ai ragazzi strumenti di analisi, di conoscenza di quanto sta avvenendo, oggi, nella società, dalle disparità, alla disoccupazione, alle conflittualità, alle guerre.
Cosa sanno i nostri giovani del terribile scenario nel quale viviamo quotidianamente che ci fa temere una possibile terza guerra mondiale? Perché non vengono resi coscienti dei meccanismi di sfruttamento che ci sono dietro? Perché i rifugiati vengono qui? Perché stanno scappando dai loro Paesi? Cosa sanno dei problemi che il mondo occidentale ha creato per decenni, se non per secoli, nelle loro terre, sfruttandole e producendo così la causa principale della loro fuga? Di questo nella scuola non si parla. Anche per questo i ragazzi non possono essere partecipativi, collaborativi, consapevolizzati».
Alla luce di questa tua analisi si capisce meglio il problema della dispersione scolastica, così grave in Sardegna. Quel ‘titolo di studio’ che una volta serviva a trovar lavoro, oggi è carta straccia. Se a questo si aggiunge che i giovani non trovano interesse in quel che studiano, per quale ragione dovrebbero continuare a frequentare?
«Io contesto la parola ‘dispersione’, perché in pratica si dà ai ragazzi la colpa di essersene andati dai banchi. Eh no. Io devo capire perché lo hanno fatto. Non sono loro che hanno deciso di andarsene, ma quella scelta è una conseguenza del fatto che la scuola non risponde ai loro bisogni di fondo. Se io sto in un posto in cui i miei bisogni hanno spazio, certo che ci rimango. Se me ne sono andato sto condannando quel tipo di scuola che non mi dice e non mi dà niente. E’ la scuola che si deve interrogare su quell’altissima percentuale del 25 per cento di abbandono. E si deve interrogare sul fatto che ha una metodologia didattica che non risponde al bisogno fondamentale dell’essere umano: la conoscenza dei problemi, la consapevolezza delle situazioni culturali, sociali, politiche. Non mi serve un’istruzione che poi non potrò utilizzare perché tanto so che fuori non c’è lavoro.
La scuola deve provvedere innanzi tutto alla formazione umana della persona, a dare ai ragazzi il senso della vita, a capire che il lavoro è il luogo in cui mi realizzo, ma la cosa più importante che la scuola mi deve dare è aiutarmi nella conoscenza di me stesso e del mondo. Insomma, è inutile che tu mi parli del Tigri o dell’Eufrate. Se proprio vuoi parlare di quei territori, illustrami i problemi che si vivono in quella regione che un tempo era denominata Mesopotamia e delle responsabilità che io, come occidentale, ho avuto nell’esplosione dei conflitti in quel territorio. Devi creare una coscienza di presenza nel mondo, per esserci e dare un contributo proprio in modo da poter incidere.
Io, paradossalmente, sostengo che i ragazzi che in questa situazione abbandonano gli studi sono i più sani perché fuggono da un luogo nel quale non trovano più interesse, non si sentono appagati. Devono capire le ragioni dello studio, a cosa serve. Se studiare serve soltanto ad ottenere un voto o una promozione, non so proprio che farmene. Vanno via e sfruttano meccanismi formativi esterni alla scuola, come gli strumenti informatici.
Bisogna quindi rivedere come si fa scuola. E qui ritorna, importante, l’esperienza della Scuola Popolare. Perché quegli adulti la frequentavano? Non erano obbligati a farlo. Avevano però capito che oltre a poter conseguire un titolo di studio, era un’occasione importante per diventare consapevoli della propria storia. C’erano le ragioni per studiare. E dava loro una diversa prospettiva di relazione con gli altri, oltre che di un nuovo inserimento nella società».
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- La pagina fb dell’evento.
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Scuola: se la salviamo ci salva. Una priorità anche per la Sardegna
La parola chiave sia “cura”, non successo, non competitività, non occupabilità
di Franco Meloni, su Aladinews del 10 ottobre 2016.
Ogni anno all’apertura dell’anno scolastico i media ci ricordano che la scuola italiana non gode di buona salute: molti edifici vetusti e non “a norma”, ritardi burocratici nelle nomine dei docenti, nonché precariato diffuso e instabilità delle sedi per gli stessi, e così via. La situazione della scuola sarda è ancor più preoccupante in relazione ai dati allarmanti della dispersione scolastica. Il Rapporto Crenos 2016 afferma che il tasso di abbandono scolastico è, infatti, tra i più elevanti in Italia, e la percentuale di giovani inattivi, in costante crescita. Nel 2014, il 29,6% dei ragazzi e il 17% delle ragazze in età 18-24 anni ha abbandonato gli studi e oltre il 27% dei giovani tra i 15 e i 24 anni (30,6 per i ragazzi e 24,7% per le ragazze) non studia e non lavora (i c.d. NEET – Not in Education, Employment nor Training ).
A fronte di questa situazione la Regione ha messo in campo nel passato diversi programmi, sostenuti da ingenti finanziamenti (comunitari, governativi, regionali), tutti dimostratisi inefficaci. Speriamo ora nell’ultimo progetto, denominato “Iscol@”, recentemente avviato. Prevede investimenti nell’edilizia scolastica, l’ampliamento dell’offerta formativa e professionale. Avrà durata triennale e i fondi a disposizione ammontano a 358,2 milioni. Il progetto è stato aperto al confronto sul web e in presenza – coinvolgendo cittadini, docenti e famiglie, Agenzie formative, Comuni e altri enti locali – che in qualche modo lo ha migliorato. Allo stato non è possibile un’attendibile valutazione per capire se si è riusciti a escogitare qualcosa di efficace o se si registrerà l’ennesimo fallimento.
Per evitarlo, non ci aiutano certo le politiche di “dimensionamento” degli interventi in materia di utilizzo delle sedi scolastiche stabilite dalla Giunta regionale, laddove per ragioni di risparmio si chiudono le scuole dei piccoli paesi, concentrando le classi in quelli più grossi. Con queste politiche si contribuisce allo spopolamento dei paesi della Sardegna. Più degli amministratori lo hanno capito le mamme dei bambini che si oppongono alla chiusura delle scuole. In tema, l’economista Paolo Savona ha espresso tempo fa un concetto che sembra proprio dar loro ragione, sostenendo che “una buona scuola oggi vale perfino più di una buona azienda per la disseminazione degli effetti positivi che essa crea”.
Ma al di là delle pur importanti rivendicazioni di strutture adeguate e di maggiori risorse per la scuola, con Fiorella Farinelli, giornalista di Rocca, concordiamo che le domande di fondo che tutti dovremmo porci sono altre. “Perché, nelle condizioni date, i ragazzi di oggi dovrebbero apprezzare la scuola e l’apprendimento che gli viene imposto? Perché dovrebbero farlo se quella stessa scuola e quegli stessi apprendimenti sono con tutta evidenza poco apprezzati dai loro stessi insegnanti? Perché dovrebbero appassionarsi a contenuti culturali proposti spesso in modi ripetitivi, freddi, senza inventiva e fantasia didattica, senza un rapporto con la loro esperienza, le loro domande, le loro inquietudini? Perché dovrebbero credere in una scuola che promette un ascensore sociale che la società e il mondo del lavoro non sono più in grado di assicurare? E poi, come utilizzare l’esperienza scolastica per crescere in autonomia e responsabilità quando la scuola attuale non permette scelte o percorsi individualizzati e non assicura nessuna flessibilità di funzionamento?”. Allora è necessaria una critica di fondo delle politiche scolastiche di questi anni, nel ricupero dei valori che devono informare la scuola. In questa prospettiva “ è «cura» la parola chiave, non successo, non competitività, non occupabilità. Ed è il come si può fare, e dove e con chi. Nelle scuole e nei territori, con gli insegnanti e con il privato sociale, con il mondo produttivo e con l’associazionismo. Con la musica, il teatro, le università, la ricerca scientifica, le botteghe artigiane, il lavoro, il volontariato, la cooperazione, la solidarietà. Ci vuole intelligenza, certo. E anche professionalità. Ma la risorsa più importante, forse, è la passione educativa, la convinzione che è su questo terreno più che su altri che si giocano le partite decisive”. E in Sardegna c’è spazio e voglia di lavorare in questa direzione? Il progetto Iscol@ può servire allo scopo? Cerchiamo insieme le risposte e teniamo vivo il dibattito.
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E’ on line Rocca del 1° gennaio 2017!
Oggi mercoledì 14 dicembre 2016
Punta de billete per oggi mercoledì 14 dicembre La Scuola Popolare di Is Mirrionis a La Collina.
- La pagina fb dell’evento.
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SARDEGNA NEL POST REFERENDUM. IL DIBATTITO IN RETE.
Le contorsioni di Franciscu Sedda indipendentista-alleato di Pigliaru, il più genuflesso dei governatori che la Sardegna ricordi dal tempo dei romani
Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi.
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Una nuova agenda politica per la Sardegna
di Alessandro Mongili
By sardegnasoprattutto/ 13 dicembre 2016/ Società & Politica/
La Sardegna alza la testa
I sardi hanno sommerso di NO il Presidente della Regione
di Massimo Dadea
By sardegnasoprattutto/ 12 dicembre 2016/ Società & Politica/
L’Italia ha bocciato Renzi, la Sardegna ha bocciato i “professori”. I sardi hanno sommerso di NO il Presidente della Regione che, durante la campagna referendaria, si è speso in prima persona per svendere la nostra Autonomia speciale. La differenza è che Renzi si è dimesso, Pigliaru ha invece accolto la bocciatura con una ineffabile alzata di spalle.
Nel frattempo la giunta e la maggioranza di centro sinistra, sovranista e, pare, indipendentista, hanno iniziato a perdere pezzi e già si preannuncia una serrata contrattazione tra i partiti per definire il preannunciato rimpasto. Tutta la vicenda certifica la distanza che separa il governo regionale dalla Sardegna reale. Un distacco che è proprio di chi è abituato a guardare alla società sarda attraverso le lenti deformanti di un cannocchiale, per di più impugnato al contrario.
La Sardegna, i sardi, con il loro NO, hanno voluto difendere l’Autonomia speciale, o almeno quello che di essa rimane, nella convinzione che questo sia l’unico modo per poter definire un assetto istituzionale più avanzato e più rispondente ai bisogni di autogoverno e di autodeterminazione che si agitano all’interno della società. Ecco perché il risultato del referendum deve rappresentare un punto di partenza e non di arrivo.
Appare oramai ineludibile l’avvio di una nuova fase costituente, con un programma finalizzato ad ammodernare il nostro assetto istituzionale. Intanto la riconferma del titolo V della Costituzione impone alla giunta e al consiglio regionale di dare concreta attuazione all’articolo 15 dello Statuto (così come modificato dal titolo V).
Ad iniziare dalla predisposizione di una legge “fondamentale” Statutaria che consenta di riscrivere parti importanti del nostro Statuto senza doverle contrattare con il Parlamento. Una legge che definisca la forma di governo, il rapporto tra esecutivo e legislativo, la partecipazione dei cittadini attraverso i referendum, l’ineleggibilità e la incompatibilità, il conflitto d’interessi, la partecipazione paritaria di uomini e donne.
Il secondo adempimento è l’approvazione di una nuova legge elettorale che spazzi via la “porcata” voluta nella scorsa legislatura dal PD e dal PDL. Una legge vergognosa studiata per escludere nuove aggregazioni e nuovi movimenti, per marginalizzare le donne. Un artifizio legislativo, o meglio un “trucco”, che nega la rappresentanza ad una parte importante della società sarda.
Il terzo è la riscrittura dello Statuto. Senza impantanarsi nella eterna diatriba su quale sia lo strumento più adatto – la Consulta Statutaria o l’Assemblea costituente – la nuova carta costituzionale dei sardi deve essere espressione dell’intera società sarda, anche di quella parte che non si sente rappresentata da questo Consiglio regionale.
Il quarto è legato alla necessità di mettere mano alla obsolescenza della legislazione regionale. Un solo esempio. L’organizzazione della Amministrazione regionale, la composizione della giunta, il numero e le competenze degli assessorati, sono normati da una legge che risale alla seconda metà del secolo scorso: la n. 1 del 1977. Una legge pensata in un’epoca storica in cui non c’erano ancora i computer, non c’era la Rete, non c’era Internet e la televisione era in bianco e nero. Alla faccia della modernità e della innovazione.
Una fase costituente che porti a compimento, attraverso un pieno coinvolgimento delle forze vive della società sarda, poche, indifferibili cose che potrebbero dare un senso ad una legislatura che, sino ad oggi, un senso non l’ha avuto.
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La Scuola Popolare di Is Mirrionis a La Collina
Mercoledì 14 dicembre il libro sulla Scuola Popolare di Is Mirrionis “Lo studio restituito agli esclusi” sarà presentato a La Collina di Serdiana. Nel volume è inserita un’intervista a don Ettore Cannavera, a cura di Ottavio Olita, che per gentile concessione dell’Editore del libro, pubblichiamo di seguito.
Cosa può insegnare quell’esperienza?
(Ottavio Olita a colloquio con don Ettore Cannnavera)
La tempesta di piombo che sconvolse l’Italia nel secolo scorso, da metà degli anni ’70 in poi, tra i vari risultati conseguiti ne ebbe anche uno non del tutto secondario: cancellare dalla storia di quel decennio quel che di buono era stato costruito. E quando parlo di piombo non mi riferisco solo a quello dei proiettili dei terroristi rossi e neri.
Penso anche al piombo usato per la stampa di tanti quotidiani che vollero a tutti i costi far derivare quella terribile stagione di violenza e di morte dalle grandi mobilitazioni di lavoratori e studenti che spingevano perché il Paese diventasse più democratico e attento ai diritti: quello progettato dai Padri Costituenti, non certo quello sporco del sangue di vittime innocenti usato come alibi nelle loro ‘risoluzioni’ da quanti si erano appena trasformati in brutali assassini.
Diritto allo studio e diritto al lavoro non rimasero solo slogan scanditi a gran voce nei cortei. In molti casi divennero occasione di forte impegno sociale che pose le basi per favorire l’aggregazione di tanti giovani provenienti dalla più diverse esperienze.
Così avvenne a Cagliari, come è stato raccontato con passione, ma anche con un pizzico di autoironia, in questo libro.
Cosa spinse ragazzi formatisi nelle parrocchie, sui libri di storia, filosofia e sociologia, o sulle pagine di Marx ed Engels, o anche esaltati dai pensieri del libretto rosso di Mao e dalle imprese eroiche e mitizzate di Ernesto Che Guevara a trovare una strada comune, una voglia di collaborazione disinteressata finalizzata a far conseguire un titolo di studio, a quell’epoca ancora indispensabile, a tanti uomini e donne che da ragazzi erano stati esclusi dalla scuola?
Le assemblee, gli incontri, i dibattiti interminabili che si ripetevano a ritmo incalzante nelle aule universitarie e nelle scuole superiori non erano vissuti come esercizi retorici. Molti di quanti vi partecipavano lo facevano con la voglia di trovare un percorso che traducesse nella pratica le lunghe elaborazioni relative soprattutto all’uguaglianza tra i cittadini.
Il primo terreno pratico per un lavoro comune venne individuato con sorprendente, entusiastica spontaneità in un’iniziativa, quella che ben presto venne individuata come la Scuola Popolare di Is Mirrionis. Essa pose a quei giovani seri problemi organizzativi e di didattica, oltre che, in particolare alle ragazze, la definizione di un nuovo rapporto all’interno della famiglia, soprattutto con i genitori.
E poi procurarsi i materiali, la sede, le attrezzature, in un quadro di partecipazione sempre più complessa. Oltre alla gestione delle relazioni interpersonali.
Giovani universitari o appena laureati, quindi ventenni o poco più, a contatto con operai, commessi e commesse, casalinghe, molto più grandi d’età e con problemi quotidiani complessi ai quali proporre testi di studio su cui prepararsi per poi affrontare un esame in una scuola pubblica. E le discussioni su temi di attualità collocati in un corretto contesto storico-culturale.
Tante le ore dedicate alla preparazione delle ‘lezioni’, alla scelta dei testi e dei metodi di lavoro comune, con un confronto costante con i lavoratori per cercare di rendere interessanti materie che da ragazzi li avevano spaventati tanto da farli allontanare dalle aule. Facendo ricorso ad un punto di riferimento solidissimo: don Lorenzo Milani e la sua scuola di Barbiana, insieme con l’insostituibile “Lettera ad una professoressa”.
Come affrontare lo studio della Storia? E quello della Matematica? E che fare con le nozioni di Lingua Straniera? Rispettare i programmi ministeriali per le prove d’esame, oppure avere il coraggio di aprire un contenzioso con i presidi su come dovessero svolgersi quelle stesse prove?
L’analisi politica doveva fare per forza i conti con la realtà pratica e questa fu la lezione più importante che quei giovani appresero.
Cosa rimane, oggi, a quarant’anni dalla fine di quell’esperienza? C’è oggi, nella nostra società sempre più egoistica e chiusa nel proprio privato qualcosa di paragonabile a quella partecipazione, a quella voglia di solidarietà, a quel mettere al servizio della collettività le proprie conoscenze? E soprattutto: perché i giovani non sono più protagonisti attivi della vita sociale; perché accettano senza reagire il ruolo passivo che la società dei consumi assegna loro? Perché sono sempre meno cittadini e sempre più privati consumatori?
Domande senza risposta? Ecco cosa ne pensa don Ettore Cannavera, instancabile animatore della Comunità di Recupero ‘La Collina’ di Serdiana.
«L’esperienza avuta, e che continuo ad avere, è che la persona bombardata da bisogni materiali e dalla negazione di sé, va a finire in situazioni che io definisco devianti: non realizza ciò che c’è di più profondo nell’essere umano. ‘Io sono in quanto sono con gli altri e per gli altri’. L’esperienza di quegli anni rispondeva ad un’esigenza profonda dell’essere umano che voi, giovani di allora, avevate colto perfettamente: nel mettersi a disposizione per far crescere culturalmente gli altri, si otteneva in contemporanea un beneficio per se stessi perché si creava una solidarietà concreta con chi aveva fatto un percorso meno ricco culturalmente del proprio. Venivano messi nelle condizioni, attraverso la cultura, attraverso la consapevolezza del senso profondo della vita – che avviene solo per mezzo della cultura –, di potersi sentire realizzati in questo mondo.
Io questa cosa l’ho capita molto bene da un libro che mi sta molto a cuore, per me rivoluzionario. E’ di Paulo Freire, pedagogista brasiliano morto quindici anni fa, dal titolo ‘Pedagogia degli oppressi’.
Freire sosteneva l’importanza del rapporto scolarizzazione-coscientizzazione-politicizzazione. In buona sostanza: se io riesco attraverso la scuola a sviluppare tutte le mie capacità intellettive, di pensiero, di riflessione, che mi fanno consapevole del senso della vita, devo per forza approdare alla politicizzazione, in un impegno di solidarietà nei confronti degli altri. Questo vuol dire che voi – giovani come te e gli altri – avete avuto allora la sensibilità di capire che il fare, il dare il vostro tempo e le vostre competenze serviva a rendere gli altri consapevoli, come voi eravate, della realizzazione del senso della vita e dell’umanità di ciascuno di noi».
Come giudichi il rapporto che si creò, allora, tra una schiera di giovani studenti o neolaureati, provenienti dalle più diverse formazioni religiose, politiche, ideologiche e gli adulti estromessi dalla scuola? E come valuti quel che accade oggi nelle relazioni sociali?
«Quella scuola di quarant’anni fa rispondeva a un bisogno personale di chi si metteva a disposizione e corrispondeva ai bisogni di chi non aveva fatto quel percorso culturale, scolastico, di consapevolezza, di coscientizzazione. Era arrivato ad una certa età – adulto – senza avere un titolo di studio e soprattutto senza quegli strumenti culturali assolutamente necessari per rendersi nel mondo persone capaci, competenti, persone coscienti.
Cosa sta avvenendo, oggi, a distanza di quarant’anni? Lo sviluppo economico ha generato una sorta di individualismo che porta a pensare che la realizzazione di se stessi sia soltanto nella contrapposizione agli altri, nell’essere al di sopra degli altri, nell’essere più benestanti degli altri, nell’avere un ruolo sociale migliore degli altri. Ha fomentato sempre di più l’egocentrismo, l’individualismo, l’egoismo, uccidendo quello che è il bisogno fondamentale: la relazione con gli altri. E voglio sottolineare che ne parlo a livello antropologico, non religioso. La mia convinzione, che mi deriva dai miei studi, è che la realizzazione di sé avviene solo se sono capace di entrare in relazione con gli altri, perché degli altri io ho bisogno, per poter essere qualcuno.
L’esperienza di allora, quindi, è servita sia a chi si è messo a disposizione, sia agli adulti che non avevano avuto prima la possibilità di ‘rendersi capaci di…’. Ecco perché solo la scuola, la cultura consente questo.
Don Milani – visto che anche voi avete fatto riferimento a quell’esperienza utilizzando ‘Lettera ad una professoressa’ – aveva capito che quei ragazzi che avevano solo la zappa in mano, dovevano invece impossessarsi della penna. Bisognava dar loro gli strumenti per entrare nel mondo della cultura. Solo lo sviluppo delle capacità intellettive realizza pienamente l’umanità. Don Milani ci ha insegnato questo».
Come valuti quel che accade oggi nei campi della socializzazione, della politica, della solidarietà?
«Oggi viviamo una grave situazione di crisi, in cui ognuno si sta chiudendo nel proprio mondo. Non c’è più partecipazione politica, la gente non va più nemmeno a votare. Ci stanno rendendo un mondo sempre più egoistico; anzi, forse la definizione più corretta è sempre più ego centrato, perché forse non è un egoismo consapevole. Si sta pensando che richiudersi in se stessi, nei propri interessi, anche solo familiari, serva a realizzarsi. Mentre invece l’esperienza vostra ha insegnato a voi e agli adulti che vi hanno seguito che solo aprendosi agli altri, che solo con la conoscenza, con la consapevolezza, con la coscientizzazione, si è poi in grado di sfociare nella politica. Il mancato impegno politico è la negazione della nostra umanità. E’ per questo che quell’esperienza può e deve dare tanti insegnamenti all’oggi, tempo nel quale c’è un allontanamento, un’astensione dall’impegno politico. Impegno politico che non è solo andare a votare – cosa che comunque sarebbe già un passo – ma che deve essere inteso come la possibilità di aiutare gli altri, a diventare consapevoli dei bisogni più profondi che ci vengono soffocati da tutto il mercato, da tutti gli interessi delle multinazionali, da chi ha i soldi, in cui l’uomo viene utilizzato come strumento di arricchimento per altri. Rispondendo a quel bisogno dell’ ‘avere’, senza capire che prima ancora c’è il bisogno dell’ ‘essere’: Erich Fromm ‘Avere o Essere?’.
L’essere viene soffocato perché non c’è quel cammino culturale, scolastico necessario. La società è incentrata sull’ ‘avere’. Siamo convinti che la nostra realizzazione dipenda da quante più cose possediamo o possiamo avere. E alla fine restiamo soffocati da queste cose. In fondo la mia visione antropologica si realizza con lo strumento delle cose, con lo strumento della ricchezza, ma questa non deve diventare la finalità dell’esistenza».
L’ossessione della realizzazione di sé, dei consumi – dell’ ‘Avere’ – è massicciamente veicolata dai mezzi di comunicazione di massa, in particolare dalla televisione. Soprattutto per i più giovani diventa problematico, difficile, se non impossibile, rendersi conto di questa realtà per valutarla, criticarla, eventualmente contrastarla. Luoghi di aggregazione, come questo da te guidato consentono importanti momenti di riflessione collettiva. Ma il resto della società è abbandonato a se stesso. Grave è anche la responsabilità del mondo politico. Secondo te perché non se ne occupa, perché non interviene per operare quella coscientizzazione di cui tu hai parlato in modo ampio e approfondito? Non se ne rende conto, o ci sguazza perché, in fin dei conti, gli conviene?
«Quanti hanno il potere non hanno interesse, anzi ostacolano la consapevolezza, la politicizzazione. Fanno in modo che la gente si concentri su altri interessi e li lascino decidere e governare da soli. Questo processo come si origina? Evitando che i ragazzi, i giovani – fin da bambini – si rendano conto del sistema sociale, di come funziona la comunità. La stessa scuola si è limitata, e io ne ho avuto esperienza come docente, a parlare dei problemi passati: degli egiziani, della storia romana, ma non si arriva mai a parlare della storia di oggi. Anche la scuola ha questo grosso limite; altro che la vostra scuola in cui si parlava dei problemi della quotidianità, degli ultimi! Dalla problematizzazione dell’oggi si deve partire – proprio come sosteneva Paulo Freire – per arrivare allo studio del passato. Occuparsi di lavoro, partecipazione, democrazia oggi, per poter poi poter attingere e fare un confronto con la storia del passato.
Quello che oggi il potere fa, consapevolmente, è di realizzare un tipo di scuola nel quale l’insegnante viene valutato su quello che sa della storia del passato, o della filosofia, ad esempio, ma non dà la possibilità di andare ad analizzare le problematiche odierne. Al potere non interessa che la gente si renda conto di quali sono i meccanismi che regolano la sua vita. Non parla di problemi concreti, parla di temi astratti. La gente viene tenuta fuori, quel che conta è la delega: ‘Ci penso io, dai a me il voto, che poi risolvo io i problemi’.
Bisogna quindi tornare ad un tipo di scuola come quello vostro. E se non si può più fare la Scuola Popolare, bisogna comunque dare consapevolezza agli insegnanti, fin dalle elementari e medie, o creare momenti di doposcuola, proprio per poter dare ai ragazzi strumenti di analisi, di conoscenza di quanto sta avvenendo, oggi, nella società, dalle disparità, alla disoccupazione, alle conflittualità, alle guerre.
Cosa sanno i nostri giovani del terribile scenario nel quale viviamo quotidianamente che ci fa temere una possibile terza guerra mondiale? Perché non vengono resi coscienti dei meccanismi di sfruttamento che ci sono dietro? Perché i rifugiati vengono qui? Perché stanno scappando dai loro Paesi? Cosa sanno dei problemi che il mondo occidentale ha creato per decenni, se non per secoli, nelle loro terre, sfruttandole e producendo così la causa principale della loro fuga? Di questo nella scuola non si parla. Anche per questo i ragazzi non possono essere partecipativi, collaborativi, consapevolizzati».
Alla luce di questa tua analisi si capisce meglio il problema della dispersione scolastica, così grave in Sardegna. Quel ‘titolo di studio’ che una volta serviva a trovar lavoro, oggi è carta straccia. Se a questo si aggiunge che i giovani non trovano interesse in quel che studiano, per quale ragione dovrebbero continuare a frequentare?
«Io contesto la parola ‘dispersione’, perché in pratica si dà ai ragazzi la colpa di essersene andati dai banchi. Eh no. Io devo capire perché lo hanno fatto. Non sono loro che hanno deciso di andarsene, ma quella scelta è una conseguenza del fatto che la scuola non risponde ai loro bisogni di fondo. Se io sto in un posto in cui i miei bisogni hanno spazio, certo che ci rimango. Se me ne sono andato sto condannando quel tipo di scuola che non mi dice e non mi dà niente. E’ la scuola che si deve interrogare su quell’altissima percentuale del 25 per cento di abbandono. E si deve interrogare sul fatto che ha una metodologia didattica che non risponde al bisogno fondamentale dell’essere umano: la conoscenza dei problemi, la consapevolezza delle situazioni culturali, sociali, politiche. Non mi serve un’istruzione che poi non potrò utilizzare perché tanto so che fuori non c’è lavoro.
La scuola deve provvedere innanzi tutto alla formazione umana della persona, a dare ai ragazzi il senso della vita, a capire che il lavoro è il luogo in cui mi realizzo, ma la cosa più importante che la scuola mi deve dare è aiutarmi nella conoscenza di me stesso e del mondo. Insomma, è inutile che tu mi parli del Tigri o dell’Eufrate. Se proprio vuoi parlare di quei territori, illustrami i problemi che si vivono in quella regione che un tempo era denominata Mesopotamia e delle responsabilità che io, come occidentale, ho avuto nell’esplosione dei conflitti in quel territorio. Devi creare una coscienza di presenza nel mondo, per esserci e dare un contributo proprio in modo da poter incidere.
Io, paradossalmente, sostengo che i ragazzi che in questa situazione abbandonano gli studi sono i più sani perché fuggono da un luogo nel quale non trovano più interesse, non si sentono appagati. Devono capire le ragioni dello studio, a cosa serve. Se studiare serve soltanto ad ottenere un voto o una promozione, non so proprio che farmene. Vanno via e sfruttano meccanismi formativi esterni alla scuola, come gli strumenti informatici.
Bisogna quindi rivedere come si fa scuola. E qui ritorna, importante, l’esperienza della Scuola Popolare. Perché quegli adulti la frequentavano? Non erano obbligati a farlo. Avevano però capito che oltre a poter conseguire un titolo di studio, era un’occasione importante per diventare consapevoli della propria storia. C’erano le ragioni per studiare. E dava loro una diversa prospettiva di relazione con gli altri, oltre che di un nuovo inserimento nella società».
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Oggi martedì 13 dicembre 2016
Punta de billete per mercoledì 14 dicembre La Scuola Popolare di Is Mirrionis a La Collina.
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Mannaggia! L’Assemblea costituente sarda vorrei presiederla… ma non posso!
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
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Renzi, briglie strette su governo e Pd
Norma Rangeri su il manifesto
EDIZIONE DEL 13.12.2016
La Scuola Popolare di Is Mirrionis a La Collina
Mercoledì 14 dicembre il libro sulla Scuola Popolare di Is Mirrionis “Lo studio restituito agli esclusi” sarà presentato a La Collina di Serdiana. Nel volume è inserita un’intervista a don Ettore Cannavera, a cura di Ottavio Olita, che per gentile concessione dell’Editore del libro, pubblichiamo di seguito.
Cosa può insegnare quell’esperienza?
(Ottavio Olita a colloquio con don Ettore Cannnavera)
La tempesta di piombo che sconvolse l’Italia nel secolo scorso, da metà degli anni ’70 in poi, tra i vari risultati conseguiti ne ebbe anche uno non del tutto secondario: cancellare dalla storia di quel decennio quel che di buono era stato costruito. E quando parlo di piombo non mi riferisco solo a quello dei proiettili dei terroristi rossi e neri.
Penso anche al piombo usato per la stampa di tanti quotidiani che vollero a tutti i costi far derivare quella terribile stagione di violenza e di morte dalle grandi mobilitazioni di lavoratori e studenti che spingevano perché il Paese diventasse più democratico e attento ai diritti: quello progettato dai Padri Costituenti, non certo quello sporco del sangue di vittime innocenti usato come alibi nelle loro ‘risoluzioni’ da quanti si erano appena trasformati in brutali assassini.
Diritto allo studio e diritto al lavoro non rimasero solo slogan scanditi a gran voce nei cortei. In molti casi divennero occasione di forte impegno sociale che pose le basi per favorire l’aggregazione di tanti giovani provenienti dalla più diverse esperienze.
Così avvenne a Cagliari, come è stato raccontato con passione, ma anche con un pizzico di autoironia, in questo libro.
Cosa spinse ragazzi formatisi nelle parrocchie, sui libri di storia, filosofia e sociologia, o sulle pagine di Marx ed Engels, o anche esaltati dai pensieri del libretto rosso di Mao e dalle imprese eroiche e mitizzate di Ernesto Che Guevara a trovare una strada comune, una voglia di collaborazione disinteressata finalizzata a far conseguire un titolo di studio, a quell’epoca ancora indispensabile, a tanti uomini e donne che da ragazzi erano stati esclusi dalla scuola?
Le assemblee, gli incontri, i dibattiti interminabili che si ripetevano a ritmo incalzante nelle aule universitarie e nelle scuole superiori non erano vissuti come esercizi retorici. Molti di quanti vi partecipavano lo facevano con la voglia di trovare un percorso che traducesse nella pratica le lunghe elaborazioni relative soprattutto all’uguaglianza tra i cittadini.
Il primo terreno pratico per un lavoro comune venne individuato con sorprendente, entusiastica spontaneità in un’iniziativa, quella che ben presto venne individuata come la Scuola Popolare di Is Mirrionis. Essa pose a quei giovani seri problemi organizzativi e di didattica, oltre che, in particolare alle ragazze, la definizione di un nuovo rapporto all’interno della famiglia, soprattutto con i genitori.
E poi procurarsi i materiali, la sede, le attrezzature, in un quadro di partecipazione sempre più complessa. Oltre alla gestione delle relazioni interpersonali.
Giovani universitari o appena laureati, quindi ventenni o poco più, a contatto con operai, commessi e commesse, casalinghe, molto più grandi d’età e con problemi quotidiani complessi ai quali proporre testi di studio su cui prepararsi per poi affrontare un esame in una scuola pubblica. E le discussioni su temi di attualità collocati in un corretto contesto storico-culturale.
Tante le ore dedicate alla preparazione delle ‘lezioni’, alla scelta dei testi e dei metodi di lavoro comune, con un confronto costante con i lavoratori per cercare di rendere interessanti materie che da ragazzi li avevano spaventati tanto da farli allontanare dalle aule. Facendo ricorso ad un punto di riferimento solidissimo: don Lorenzo Milani e la sua scuola di Barbiana, insieme con l’insostituibile “Lettera ad una professoressa”.
Come affrontare lo studio della Storia? E quello della Matematica? E che fare con le nozioni di Lingua Straniera? Rispettare i programmi ministeriali per le prove d’esame, oppure avere il coraggio di aprire un contenzioso con i presidi su come dovessero svolgersi quelle stesse prove?
L’analisi politica doveva fare per forza i conti con la realtà pratica e questa fu la lezione più importante che quei giovani appresero.
Cosa rimane, oggi, a quarant’anni dalla fine di quell’esperienza? C’è oggi, nella nostra società sempre più egoistica e chiusa nel proprio privato qualcosa di paragonabile a quella partecipazione, a quella voglia di solidarietà, a quel mettere al servizio della collettività le proprie conoscenze? E soprattutto: perché i giovani non sono più protagonisti attivi della vita sociale; perché accettano senza reagire il ruolo passivo che la società dei consumi assegna loro? Perché sono sempre meno cittadini e sempre più privati consumatori?
Domande senza risposta? Ecco cosa ne pensa don Ettore Cannavera, instancabile animatore della Comunità di Recupero ‘La Collina’ di Serdiana.
«L’esperienza avuta, e che continuo ad avere, è che la persona bombardata da bisogni materiali e dalla negazione di sé, va a finire in situazioni che io definisco devianti: non realizza ciò che c’è di più profondo nell’essere umano. ‘Io sono in quanto sono con gli altri e per gli altri’. L’esperienza di quegli anni rispondeva ad un’esigenza profonda dell’essere umano che voi, giovani di allora, avevate colto perfettamente: nel mettersi a disposizione per far crescere culturalmente gli altri, si otteneva in contemporanea un beneficio per se stessi perché si creava una solidarietà concreta con chi aveva fatto un percorso meno ricco culturalmente del proprio. Venivano messi nelle condizioni, attraverso la cultura, attraverso la consapevolezza del senso profondo della vita – che avviene solo per mezzo della cultura –, di potersi sentire realizzati in questo mondo.
Io questa cosa l’ho capita molto bene da un libro che mi sta molto a cuore, per me rivoluzionario. E’ di Paulo Freire, pedagogista brasiliano morto quindici anni fa, dal titolo ‘Pedagogia degli oppressi’.
Freire sosteneva l’importanza del rapporto scolarizzazione-coscientizzazione-politicizzazione. In buona sostanza: se io riesco attraverso la scuola a sviluppare tutte le mie capacità intellettive, di pensiero, di riflessione, che mi fanno consapevole del senso della vita, devo per forza approdare alla politicizzazione, in un impegno di solidarietà nei confronti degli altri. Questo vuol dire che voi – giovani come te e gli altri – avete avuto allora la sensibilità di capire che il fare, il dare il vostro tempo e le vostre competenze serviva a rendere gli altri consapevoli, come voi eravate, della realizzazione del senso della vita e dell’umanità di ciascuno di noi».
Come giudichi il rapporto che si creò, allora, tra una schiera di giovani studenti o neolaureati, provenienti dalle più diverse formazioni religiose, politiche, ideologiche e gli adulti estromessi dalla scuola? E come valuti quel che accade oggi nelle relazioni sociali?
«Quella scuola di quarant’anni fa rispondeva a un bisogno personale di chi si metteva a disposizione e corrispondeva ai bisogni di chi non aveva fatto quel percorso culturale, scolastico, di consapevolezza, di coscientizzazione. Era arrivato ad una certa età – adulto – senza avere un titolo di studio e soprattutto senza quegli strumenti culturali assolutamente necessari per rendersi nel mondo persone capaci, competenti, persone coscienti.
Cosa sta avvenendo, oggi, a distanza di quarant’anni? Lo sviluppo economico ha generato una sorta di individualismo che porta a pensare che la realizzazione di se stessi sia soltanto nella contrapposizione agli altri, nell’essere al di sopra degli altri, nell’essere più benestanti degli altri, nell’avere un ruolo sociale migliore degli altri. Ha fomentato sempre di più l’egocentrismo, l’individualismo, l’egoismo, uccidendo quello che è il bisogno fondamentale: la relazione con gli altri. E voglio sottolineare che ne parlo a livello antropologico, non religioso. La mia convinzione, che mi deriva dai miei studi, è che la realizzazione di sé avviene solo se sono capace di entrare in relazione con gli altri, perché degli altri io ho bisogno, per poter essere qualcuno.
L’esperienza di allora, quindi, è servita sia a chi si è messo a disposizione, sia agli adulti che non avevano avuto prima la possibilità di ‘rendersi capaci di…’. Ecco perché solo la scuola, la cultura consente questo.
Don Milani – visto che anche voi avete fatto riferimento a quell’esperienza utilizzando ‘Lettera ad una professoressa’ – aveva capito che quei ragazzi che avevano solo la zappa in mano, dovevano invece impossessarsi della penna. Bisognava dar loro gli strumenti per entrare nel mondo della cultura. Solo lo sviluppo delle capacità intellettive realizza pienamente l’umanità. Don Milani ci ha insegnato questo».
Come valuti quel che accade oggi nei campi della socializzazione, della politica, della solidarietà?
«Oggi viviamo una grave situazione di crisi, in cui ognuno si sta chiudendo nel proprio mondo. Non c’è più partecipazione politica, la gente non va più nemmeno a votare. Ci stanno rendendo un mondo sempre più egoistico; anzi, forse la definizione più corretta è sempre più ego centrato, perché forse non è un egoismo consapevole. Si sta pensando che richiudersi in se stessi, nei propri interessi, anche solo familiari, serva a realizzarsi. Mentre invece l’esperienza vostra ha insegnato a voi e agli adulti che vi hanno seguito che solo aprendosi agli altri, che solo con la conoscenza, con la consapevolezza, con la coscientizzazione, si è poi in grado di sfociare nella politica. Il mancato impegno politico è la negazione della nostra umanità. E’ per questo che quell’esperienza può e deve dare tanti insegnamenti all’oggi, tempo nel quale c’è un allontanamento, un’astensione dall’impegno politico. Impegno politico che non è solo andare a votare – cosa che comunque sarebbe già un passo – ma che deve essere inteso come la possibilità di aiutare gli altri, a diventare consapevoli dei bisogni più profondi che ci vengono soffocati da tutto il mercato, da tutti gli interessi delle multinazionali, da chi ha i soldi, in cui l’uomo viene utilizzato come strumento di arricchimento per altri. Rispondendo a quel bisogno dell’ ‘avere’, senza capire che prima ancora c’è il bisogno dell’ ‘essere’: Erich Fromm ‘Avere o Essere?’.
L’essere viene soffocato perché non c’è quel cammino culturale, scolastico necessario. La società è incentrata sull’ ‘avere’. Siamo convinti che la nostra realizzazione dipenda da quante più cose possediamo o possiamo avere. E alla fine restiamo soffocati da queste cose. In fondo la mia visione antropologica si realizza con lo strumento delle cose, con lo strumento della ricchezza, ma questa non deve diventare la finalità dell’esistenza».
L’ossessione della realizzazione di sé, dei consumi – dell’ ‘Avere’ – è massicciamente veicolata dai mezzi di comunicazione di massa, in particolare dalla televisione. Soprattutto per i più giovani diventa problematico, difficile, se non impossibile, rendersi conto di questa realtà per valutarla, criticarla, eventualmente contrastarla. Luoghi di aggregazione, come questo da te guidato consentono importanti momenti di riflessione collettiva. Ma il resto della società è abbandonato a se stesso. Grave è anche la responsabilità del mondo politico. Secondo te perché non se ne occupa, perché non interviene per operare quella coscientizzazione di cui tu hai parlato in modo ampio e approfondito? Non se ne rende conto, o ci sguazza perché, in fin dei conti, gli conviene?
«Quanti hanno il potere non hanno interesse, anzi ostacolano la consapevolezza, la politicizzazione. Fanno in modo che la gente si concentri su altri interessi e li lascino decidere e governare da soli. Questo processo come si origina? Evitando che i ragazzi, i giovani – fin da bambini – si rendano conto del sistema sociale, di come funziona la comunità. La stessa scuola si è limitata, e io ne ho avuto esperienza come docente, a parlare dei problemi passati: degli egiziani, della storia romana, ma non si arriva mai a parlare della storia di oggi. Anche la scuola ha questo grosso limite; altro che la vostra scuola in cui si parlava dei problemi della quotidianità, degli ultimi! Dalla problematizzazione dell’oggi si deve partire – proprio come sosteneva Paulo Freire – per arrivare allo studio del passato. Occuparsi di lavoro, partecipazione, democrazia oggi, per poter poi poter attingere e fare un confronto con la storia del passato.
Quello che oggi il potere fa, consapevolmente, è di realizzare un tipo di scuola nel quale l’insegnante viene valutato su quello che sa della storia del passato, o della filosofia, ad esempio, ma non dà la possibilità di andare ad analizzare le problematiche odierne. Al potere non interessa che la gente si renda conto di quali sono i meccanismi che regolano la sua vita. Non parla di problemi concreti, parla di temi astratti. La gente viene tenuta fuori, quel che conta è la delega: ‘Ci penso io, dai a me il voto, che poi risolvo io i problemi’.
Bisogna quindi tornare ad un tipo di scuola come quello vostro. E se non si può più fare la Scuola Popolare, bisogna comunque dare consapevolezza agli insegnanti, fin dalle elementari e medie, o creare momenti di doposcuola, proprio per poter dare ai ragazzi strumenti di analisi, di conoscenza di quanto sta avvenendo, oggi, nella società, dalle disparità, alla disoccupazione, alle conflittualità, alle guerre.
Cosa sanno i nostri giovani del terribile scenario nel quale viviamo quotidianamente che ci fa temere una possibile terza guerra mondiale? Perché non vengono resi coscienti dei meccanismi di sfruttamento che ci sono dietro? Perché i rifugiati vengono qui? Perché stanno scappando dai loro Paesi? Cosa sanno dei problemi che il mondo occidentale ha creato per decenni, se non per secoli, nelle loro terre, sfruttandole e producendo così la causa principale della loro fuga? Di questo nella scuola non si parla. Anche per questo i ragazzi non possono essere partecipativi, collaborativi, consapevolizzati».
Alla luce di questa tua analisi si capisce meglio il problema della dispersione scolastica, così grave in Sardegna. Quel ‘titolo di studio’ che una volta serviva a trovar lavoro, oggi è carta straccia. Se a questo si aggiunge che i giovani non trovano interesse in quel che studiano, per quale ragione dovrebbero continuare a frequentare?
«Io contesto la parola ‘dispersione’, perché in pratica si dà ai ragazzi la colpa di essersene andati dai banchi. Eh no. Io devo capire perché lo hanno fatto. Non sono loro che hanno deciso di andarsene, ma quella scelta è una conseguenza del fatto che la scuola non risponde ai loro bisogni di fondo. Se io sto in un posto in cui i miei bisogni hanno spazio, certo che ci rimango. Se me ne sono andato sto condannando quel tipo di scuola che non mi dice e non mi dà niente. E’ la scuola che si deve interrogare su quell’altissima percentuale del 25 per cento di abbandono. E si deve interrogare sul fatto che ha una metodologia didattica che non risponde al bisogno fondamentale dell’essere umano: la conoscenza dei problemi, la consapevolezza delle situazioni culturali, sociali, politiche. Non mi serve un’istruzione che poi non potrò utilizzare perché tanto so che fuori non c’è lavoro.
La scuola deve provvedere innanzi tutto alla formazione umana della persona, a dare ai ragazzi il senso della vita, a capire che il lavoro è il luogo in cui mi realizzo, ma la cosa più importante che la scuola mi deve dare è aiutarmi nella conoscenza di me stesso e del mondo. Insomma, è inutile che tu mi parli del Tigri o dell’Eufrate. Se proprio vuoi parlare di quei territori, illustrami i problemi che si vivono in quella regione che un tempo era denominata Mesopotamia e delle responsabilità che io, come occidentale, ho avuto nell’esplosione dei conflitti in quel territorio. Devi creare una coscienza di presenza nel mondo, per esserci e dare un contributo proprio in modo da poter incidere.
Io, paradossalmente, sostengo che i ragazzi che in questa situazione abbandonano gli studi sono i più sani perché fuggono da un luogo nel quale non trovano più interesse, non si sentono appagati. Devono capire le ragioni dello studio, a cosa serve. Se studiare serve soltanto ad ottenere un voto o una promozione, non so proprio che farmene. Vanno via e sfruttano meccanismi formativi esterni alla scuola, come gli strumenti informatici.
Bisogna quindi rivedere come si fa scuola. E qui ritorna, importante, l’esperienza della Scuola Popolare. Perché quegli adulti la frequentavano? Non erano obbligati a farlo. Avevano però capito che oltre a poter conseguire un titolo di studio, era un’occasione importante per diventare consapevoli della propria storia. C’erano le ragioni per studiare. E dava loro una diversa prospettiva di relazione con gli altri, oltre che di un nuovo inserimento nella società».
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