Risultato della ricerca: Vanni Tola
Sarà un Natale diverso, ma pur sempre Natale
Carissimi amici, mi permetto di suggerire una attenta lettura dell’intervista del virologo prof Pregliasco sul giornale “La Nuova Sardegna”. L’argomento, in estrema sintesi, é come desideriamo vivere il Natale o meglio quali condizioni di vita pensiamo di poterci permettere in condizione di pandemia, con gli ospedali stracolmi e una infinita sequela di morti quotidiana. E’ ovvio e scontato che ciascuno di noi avrebbe piacere di riconquistare, durante le feste di fine anno, una maggiore libertà di movimento, un ritorno alle tradizioni del passato. Purtroppo tutto ciò non sarà possibile realizzarlo se si avrà l’onesta intellettuale e l’intelligenza per comprendere che non possiamo permetterci, almeno per ora, comportamenti e condizioni di vita che potrebbero mettere a rischio la vita degli altri e la nostra. [segue]
Palabanda
Ricorre oggi il 208esimo Anniversario della
RIVOLTA DI PALABANDA.
Ricordiamo e onoriamo i martiri e i Patrioti impiccati e imprigionati dai carnefici sabaudi.
di Francesco Casula
Di congiure è zeppa la storia. Da sempre. Da Giulio Cesare a John Fitzgerald Kennedy. Particolarmente popolato e affollato di congiure è il periodo rinascimentale italiano, nonostante gli avvertimenti di Machiavelli secondo cui “le coniurazioni fallite rafforzano lo principe e mandano nella ruina li coniurati”. Ed anche il “Risorgimento”. Esemplare la congiura di Ciro Menotti nel gennaio del 1831 ordita attraverso intrighi con Francesco IV d’Austria d’Este, dal quale sarà poi tradito e mandato al patibolo.
Congiura che però sarà ribattezzata “rivolta”, “Moto rivoluzionario”. Solo una questione lessicale? No: semplicemente ideologica. Quella congiura, perché di questo si tratta, viene “recuperata” e inserita come momento di quel processo rivoluzionario, foriero – secondo la versione italico-patriottarda e unitarista – delle magnifiche e progressive sorti del cosiddetto risorgimento italiano. Così, una “congiura” o complotto che dir si voglia diventa un tassello di un processo rivoluzionario, esclusivamente perché vittorioso. Mentre invece – per venire alla quaestio che ci interessa – la Rivolta di Palabanda viene ridotta e immiserita a “Congiura”. E con essa diventano “Congiure”, ovvero cospirazioni di manipoli di avventurieri che con alleanze e relazioni oblique con pezzi del potere tramano contro il potere stesso. Questa categoria storiografica, che riduce le sommosse e gli atti rivoluzionari che costelleranno più di un trentennio di rivolte: popolari, antifeudali e nazionali a fine Settecento in Sardegna a semplici congiure è utilizzata non solo da storici reazionari, conservatori e filosabaudi come il Manno o l’Angius. [segue]
DIBATTITO sulla “QUESTIONE SARDA”. Fadda: Più risorse dallo Stato e dall’Europa per la Sardegna. Sabattini: Sì, ma bisogna saperle utilizzare per promuovere lo sviluppo endogeno.
Paolo Fadda e Gianfranco Sabattini sono due “grandi vecchi” ancora capaci di mettere in campo forti energie intellettuali al servizio della Repubblica e della Nazione Sarda. Nel “quasi deserto culturale” della nostra Regione, animano con passione e competenza un necessario dibattito sulla situazione sarda. Questo li unifica ed è giusto riconoscere loro il merito, prima di segnalare le diverse posizioni rispetto al dibattito in questione, la “Questione Sarda”. Fadda richiede, anzi invoca, che la classe politica sarda abbia un sussulto di orgoglio e si adoperi per ottenere ingenti risorse pubbliche (statali ed europee) al fine di invertire la rotta della disastrosa situazione economica dell’Isola. Sabattini replica che si tratta di una vecchia ricetta, ché, se pur si riesca ad ottenerle in adeguata misura, queste nuove risorse provocano benefici relativi per la Sardegna, a fronte di quelli di gran lunga superiori per i fornitori della penisola o esteri. Occorre invece sostenere e ampliare le capacità dei produttori locali e degli Enti dell’autonomia regionale, gli unici in grado di produrre sviluppo endogeno. Che dire? Il dibattito è aperto. Non si tratta di schierarsi quanto di saperlo approfondire ed estendere. È quanto contribuiamo a fare con le tre testate online: il manifesto sardo, Democraziaoggi, Aladinpensiero. Questo è un invito al resto del mondo!
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La mancata soluzione della “Questione Sarda” secondo Paolo Fadda
Paolo Fadda in un suo intervento sull’”Unione Sarda” del 10 Ottobre, dal titolo “La Questione Sarda”, lamenta la scarsa propensione in Sardegna a voler mettere al centro di un possibile dibattito” l’attualità della “Questione”; ciò perché, a suo dire, essa non avrebbe subito sostanziali cambiamenti da quando Giovanni Battista Tuveri e Giovanni Maria Lei Spano l’hanno posta come problema nazionale, cui le discriminazioni dei governi nazionali hanno impedito di dare risposte risolutive; risposte che sarebbero mancate anche dopo la conquista “dell’autonomia regionale come strumento di autogoverno”.
A parere di Fadda non si discuterebbe, né ci si confronterebbe più sull’uso delle risorse autonomistiche, in quanto queste sarebbero state sempre più depotenziate dalle crescenti protervie centralistiche dei governanti romani, congiuntamente alle debolezze ed alle inerzie delle dirigenze regionali, sino a prefigurare il pericolo che l’Isola diventi vittima di un “dipendentismo” che la renderebbe sempre più subalterna a “interessi e decisioni altrui”. Per queste ragioni, il fallimento delle finalità del progetto autonomistico, quali erano nelle aspirazioni dei sardi all’indomani dell’avvento della Repubblica, ha ridato attualità – afferma Fadda – alla riproposizione della “Questione”, in quanto l’Isola, come i dati statistici consentono di rilevare, persiste ancora in “una penalizzante condizione di arretratezza e di insufficienze strutturali”, che varrebbero ad allontanarla dalle regioni del Nord-Est del Paese, sempre più favorite dai crescenti investimenti dello Stato.
La maggior disparità rispetto a tali regioni avrebbe concorso, a causa delle “caduta di capacità e di prestigio delle nostre dirigenze, a far sì che la Sardegna ritornasse ad essere esclusa al “gran ballo degli aiuti di Stato”, tanto da “rendere urgente” la riproposizione al Paese di una nuova “Questione Sarda” per porre rimedio ai “troppi torti subiti”.
L’analisi di Fadda di quanto accaduto (o sta accadendo) in Sardegna è fuorviante; essa è fondata sul presupposto che gli “aiuti pubblici” siano di per sé sufficienti a rimuovere il “dipendentismo”, promuovendo l’uscita dallo stato di arretratezza che da sempre affliggono l’Isola, mancando di considerare che tale rimozione non dipende solo dalla disponibilità di risorse, ma anche e soprattutto dalle modalità della loro utilizzazione. Infatti, malgrado le ingenti risorse ricevute a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, l’Isola non è riuscita a decollare, in quanto ha privilegiato l’attuazione di un “modello di industrializzazione senza sviluppo” (senza cioè produzione di ricchezza endogena, né un reale e duraturo miglioramento della qualità delle vita dei sardi).
Tale modello, che Fadda nella sua complessa attività di amministratore e di studioso dell’economia sarda non ha mancato di condividere, è stato alimentato e sorretto da un’ingente canalizzazione di risorse finanziarie per la localizzazione nell’Isola di industrie pubbliche e private; un flusso di risorse utilizzato però solo per promuovere l’aumento del reddito disponibile, ma non anche si quello prodotto all’interno dell’area regionale.
Nel lungo periodo, il modello di sviluppo attuato ha mostrato tutti i suoi limiti, con il risultato di non aver innescato alcun processo di crescita endogena, né di aver eliminato o affievolito il divario economico che continua ancora oggi a separare la Sardegna dalle aree più avanzate del resto del Paese. Quello attuato è stato un modello di crescita fortemente dipendente da condizioni favorevoli esterne che, con la crisi petrolifera degli anni Settanta è crollato, avviando l’economia dell’Isola verso un progressivo declino che è continuato senza sosta fino ai giorni nostri.
La principale conseguenza negativa del modello di crescita sperimentato in Sardegna nei primi decenni successivi agli anni Cinquanta del secolo scorso può essere così sintetizzata: un aumento del reddito disponibile per abitante e, quale conseguenza, un aumento della domanda di beni consumo; ma non essendo tali beni di consumo prodotti in Sardegna, l’aumento del solo reddito disponibile ha causato un consistente incremento delle importazioni.
L’aumento delle importazioni si è quindi tradotto in un vantaggio a favore delle regioni italiane (soprattutto settentrionali) e di altri Paesi produttori. Si è così determinata quella che è poi diventata una costante del sistema produttivo della Sardegna, ovvero un crescente squilibrio della bilancia commerciale per una quota rilevante di beni di consumo e di beni intermedi a favore di attività produttive extraregionali. Lo squilibrio ha riguardato, e riguarda tuttora, soprattutto la bilancia agro-alimentare dell’Isola, con la conseguente perdita dell’autosufficienza alimentare rispetto al fabbisogno interno.
Il miglioramento degli standard di vita dei sardi è stato il parametro in base al quale le élite politiche regionali hanno preteso di valutare il successo della politica di intervento realizzata. In ciò è da rinvenirsi il sintomo più evidente dei limiti della politica di crescita regionale perseguita; infatti, il processo di industrializzazione sperimentato ha portato, non alla crescita della Sardegna, ma alla riproposizione, in altre forme, della “Questione Sarda”, espressa dal fatto che l’Isola, pur avendo accumulato importanti localizzazioni produttive, non è riuscita a liberarsi dalle “secche” sulle quali una politica di intervento casuale ed erratica l’ha inevitabilmente condotta.
Quale prospettiva di crescita si offre oggi alla Sardegna? Per rispondere occorre liberare le energie intrinseche al sistema delle autonomie locali del quale a livello regionale si è sempre mancato di cogliere le implicazioni. Il sistema locale, come la letteratura sull’argomento suggerisce, è che un insieme di insediamenti residenziali e produttivi, le cui relazioni reciproche sono determinate dai comportamenti quotidiani degli operatori in essi presenti, i quali nel tempo hanno delimitato un’area entro cui si è consolidata la maggior parte dei rapporti economici tesi a svilupparsi nel tempo.
In questa prospettiva, con un contesto sociale ed economico, inteso come un continuum di spazi territoriali nei quali sono insediate specifiche comunità locali, la nuova politica di crescita dovrebbe tenere conto della necessità che nella elaborazione delle nuove decisioni concernenti le destinazioni delle risorse pubbliche che l’Isola continua a ricevere siano coinvolte anche le singole comunità; tale coinvolgimento richiede ovviamente la realizzazione delle condizioni operative idonee a consentire alle stesse comunità di partecipare attivamente alla costruzione degli scenari e delle politiche di crescita del loro territorio. Questo nuovo approccio alla crescita ed allo sviluppo dell’Isola si giustifica sulla base del fatto che fino ad oggi tutto ciò che è stato realizzato per il superamento dell’arretratezza dei singoli territori, è stato recepito, a livello locale, come “calato dall’alto”, con conseguente esclusione delle singole comunità territoriali dai relativi processi decisionali.
L’ipotesi che nella formulazione della nuova politica di crescita e di sviluppo regionale non si possa più prescindere dalle comunità locali e dalla loro partecipazione ai processi decisionali impone che la promozione, la progettazione e l’attuazione di una politica di crescita e di sviluppo siano fondate sull’individuazione di “percorsi” strategici supportati da un’“accettazione sociale” la più estesa possibile.
L’insuccesso della politica di sviluppo sinora attuata a livello regionale è stato infatti causato dal fatto che il “modello di industrializzazione forte” privilegiato non ha avuto alcune giustificazione sul piano produttivo, perché gli interventi realizzati sono stati suggeriti dall’idea che la crescita e lo sviluppo dovessero dipendere unicamente dalla disponibilità di capitali da investire in attività produttive che hanno avuto solo effetti diffusivi esogeni rispetto all’area regionale; in altri termini, l’insuccesso si è verificato in quanto è stata condivisa l’idea che la crescita e lo sviluppo dovessero dipendere dalla presenza di attività produttive prive di ogni rapporto con l’ambiente circostante e che le attività tradizionali dovessero essere considerare assieme alla cultura locale (motivazioni psicologiche e comportamnti prevalenti) alla stregua di un limite che occorreva non solo ignorare, ma anche rimuovere.
Quanto sinora detto evidenzia che, per attuare un nuovo modello di sviluppo dell’Isola è necessaria una svolta riformatrice della politica regionale improntata ai più recenti paradigmi dello sviluppo locale. Il successo del nuovo modello di crescita ispirato a tale paradigma consentirebbe di collegare tra loro, in modo sistematico, i tre pilastri (Regione, comunità locali e mercato) sui quali dovrebbe essere fondata l’attuazione del nuovo modello di sviluppo ed il governo partecipato dell’economia regionale.
Chi vive in una regione come la Sardegna, che sinora ha fruito di abbondanti trasferimenti per la promozione di un processo di crescita, non riesce a liberarsi dal convincimento che le politiche di sviluppo regionali sinora attuate siano diventate solo veri e propri canali di selezione della classe dirigente locale. Si viene eletti, non per le capacità amministrative o per la visione politica, ma perché si è in grado di fare affluire risorse sul territorio per distribuirle fra i più disparati “clienti”; risorse svincolate da qualsivoglia visione del futuro del territorio regionale, perché impiegate sulla base di decisioni centralistiche delle istituzioni regionali.
Perdurando questa situazione diventata quindi ragionevole la presunzione che gli obiettivi dell’ottenimento di nuovi trasferimenti pubblici non siano la crescita o l’occupazione, ma, al contrario, la conservazione dell’establishment dominante e della prosperità della pletora di professionisti interessati all’impiego dei nuovi “aiuti pubblici”, nonché la “carriera” delle burocrazie locali.
Se si considera che le politiche d’intervento sinora attuate hanno avuto solo uno scarso (e a volte negativo) impatto sul sistema economico della Sardegna si può concludere osservando che, contrariamente a quanto suggerito da Fadda, la “Nuova Questione Sarda” non possa essere risolta mediante l’ottenimento di nuovi trasferimenti pubblici da utilizzare come si è fatto nel passato; essa può essere risolta solo mediante un approccio alla crescita regionale fondata sulla valorizzazione delle comunità locali, sotto il vincolo che l’impiego dei nuovi trasferimenti conduca, prima o poi, alla “comparsa” di un benché minimo tasso di accumulazione endogena.
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DIBATTITO
Paolo Fadda 10 Ottobre 2020, su L’Unione Sarda online.
La questione sarda
In una Sardegna dove si discute e ci si confronta sempre meno e con evidente malavoglia, il voler mettere al centro di un possibile dibattito l’attualità di una “questione sarda” potrà apparire un po’ velleitario o passatista. Eppure, misurando quanto divida attualmente la nostra regione dal resto del Paese per benessere sociale e per sviluppo economico, il tema appare di chiara attualità. Perché non vi è molta differenza da quando, qualche secolo fa, il Tuveri ed il Lei Spano l’avrebbero posta come problema nazionale, denunciando l’avvilente arretratezza dell’Isola rispetto alle altre regioni di terraferma, per via delle colpevoli ingiustizie e delle discriminazioni subite dai governi nazionali.
Una “questione” che non avrebbe trovato soluzione definitiva neppure con la conquista dell’autonomia regionale, come strumento d’autogoverno, concessa dai Costituenti repubblicani nel 1948 grazie ad una combattiva pattuglia di deputati sardi guidata da Emilio Lussu.
Purtroppo non si discute più, né ci si confronta, sull’utilizzo delle risorse autonomistiche che vengono sempre più depotenziate dalle crescenti protervie centraliste dei governanti romani e, congiuntamente, dalle debolezze e dalle inerzie delle dirigenze regionali. Né pare venga posta molta attenzione al fatto che si vada sempre più aggravando la dipendenza isolana dalle economie continentali e dai loro centri di comando, andando così incontro al pericolo di divenire sempre più sudditi di interessi e di decisioni altrui.
Fatti già accaduti in passato – ricordiamolo – con la perdita della guida e del controllo dell’elettricità, del credito bancario, del trasporto aereo e così via. Tanto da dover ritenere che sia proprio quel “dipendentismo” strisciante il maleficio che è andato depotenziando di fatto il progetto autonomistico, ridando così attualità, e necessità, ad una questione sarda come denuncia di una penalizzante condizione di arretratezza e di insufficienze strutturali.
Sono i dati statistici a confermare la continua crescita della dipendenza. A partire dai beni più elementari come quelli legati all’alimentazione. Basti pensare che a parità di volumi di consumi, se trent’anni fa la percentuale delle importazioni alimentari era sotto al 30 per cento, attualmente sfiorerebbe il 50 per cento! Un aggravamento che trova poi la sua conferma nella bilancia commerciale isolana che vede prevalere sempre più i valori delle merci in entrata su quelle in uscita (con un gap che ora si avvicinerebbe ai due miliardi di euro). [...]
Questione sarda. Fadda: Più risorse dallo Stato e dall’Europa per la Sardegna. Sabattini: Sì, ma bisogna saperle utilizzare per promuovere lo sviluppo endogeno
I racconti di Gianni Loy. Di Gulp, di campeggi alpini, di impegni sociali, culturali, politici. E di spensieratezza giovanile.
Su aladinpensiero ******* Anche su Giornalia.
Cari sardi vi scrivo.
La sedia
di Vanni Tola
Ipotetica lettera del Presidente Solinas ai Sardi.
Cari corregionali, come ben sapete io di questioni epidemiologiche non capisco quasi nulla, fortuna che ho Nieddu, un bravo Assessore alla sanità, che ci pensa lui a organizzare tutto. Io l’11 agosto, prima di andare in ferie, ho emanato una ordinanza con la quale prorogavo fino al 7 settembre i balli nei locali notturni, le feste e le sagre quando il governo nazionale aveva già manifestato l’intenzione di limitarli drasticamente. Chi mi conosce sa che io sono per Autonomia quindi, come mi consiglia spesso Salvini, faccio l’autonomo fino in fondo. Mi sono però arrivati subito molti vostri messaggi in limba con i quali mi domandavate, con educazione e cortesia: “ ma ite cazzu sese fatende, mira chi su contagiu este aumentende”. Allora ho riflettuto e ho subito emesso una nuova ordinanza dove dispongo lo stop ai balli in discoteca anche in Sardegna, come indicato dal governo e la revoca della mia precedente ordinanza di pochi giorni fa (11 Agosto) con la quale disponevo esattamente il contrario di quanto dispongo ora. Lo stop riguarda non solo le discoteche e sale da ballo, ma anche i locali assimilati destinati all’intrattenimento, e gli eventi che ” si svolgono in lidi, stabilimenti balneari, spiagge attrezzate, spiagge libere, spazi comuni delle strutture ricettive o in altri luoghi aperti al pubblico”. Ho pure stabilito l’utilizzo obbligatorio della mascherina (per tutti tranne che per Salvini) recependo le norme nazionali. Da oggi, se non cambierò ancora idea, su tutto il territorio regionale è obbligatorio dalle 18 alle 6 l’uso di mascherine “anche all’aperto, negli spazi di pertinenza dei luoghi e locali aperti al pubblico nonché negli spazi pubblici – come piazze, slarghi, vie, lungomari e ovunque per le caratteristiche fisiche sia più agevole il formarsi di assembramenti anche di natura spontanea o occasionale”. [segue]
Racconti. Di Gulp, di campeggi alpini e di altre storie.
INCURSIONE IN VAL DI FASSA (Agosto 1969).
di Gianni Loy.
Formidabili quegli anni, avrebbe detto Mario (Capanna), ma basterebbe far riferimento anche a un solo anno, il 1969, per esempio, o a una sua porzione, anche piccola.
Il 1969 è stato un anno lungo e intenso. Nel voltarmi indietro, stento a credere che tante cose possano essere successe in pochi mesi. Eppure così è stato. La storia è breve, meno di 10 giorni: una scappatina in quattro, con nonchalance, nel mese di agosto. Per poterla comprendere, tuttavia, occorrono alcune premesse relative al contesto. [segue]
Raccontini estivi. La Martinica e altro ancora.
di Franco Meloni
Correva l’anno 1967, anno scolastico 1967/68, quarta superiore, sezione B, la mia. Il programma scolastico era vasto, ma la difficoltà non era eccessiva in confronto con la terza e in previsione della quinta, quella del diploma. Insomma c’era molto tempo da dedicare ad altre attività oltre lo studio: sport, letture, cazzeggio, altri divertimenti. Io e altri compagni, anche di diverse sezioni, lo dedicammo a fare un giornalino studentesco. Lo chiamammo “La Martinica”. Ne venne fuori un bel prodotto, con articoli che si equilibravano tra il serio e il faceto. Spazio anche a una (forse) opportunistica esaltazione dell’Istituto soprattutto in onore del preside Remo Fadda. Ricordo un servizio di due pagine che fummo tentati di intitolare: “Martini, palestra d’Europa”. Probabilmente decidemmo diversamente. Ricordo ancora che il preside affidò a don Tarciso Pillolla (docente di religione, poi diventato Vescovo) la supervisione, prima della stampa. Qualcosa ci fece modificare, ma tutto sommato fu molto collaborativo, anzi ci indicò la tipografia dove stamparlo (Cooperativa Editrice Libraria, di via Logudoro), che ci fece un grosso sconto. In tipografia, credo rimanemmo a confezionare il giornale per almeno tre/quattro ore al giorno per almeno due settimane. [segue – anche su Giornalia]
L’economia durante e dopo la pandemia.
Non c’è bisogno di aspettare l’autunno per vedere gli effetti della crisi economica da coronavirus. Una recessione senza precedenti e senza risposte già scritte. Senza precedenti, poiché è la prima volta che tutte le economie capitalistiche sperimentano lo stesso choc, dovuto prima alla chiusura forzata di gran parte delle attività economiche e sociali e poi all’impatto della pandemia su settori cruciali dell’economia globalizzata: le esportazioni; il turismo e i servizi della ristorazione; l’industria culturale; e, a cascata, tutta l’economia per il conseguente calo della domanda e dell’offerta.
Dunque uno choc combinato, dal lato della produzione e dal lato del consumo. Senza risposte scritte, poiché le ricette tradizionali della politica economica erano basate sulla possibilità di reagire a choc ciclici e localizzati, non a uno choc globale; e perché anche gli strumenti di intervento pubblico, a cui tutti i governi, di qualsiasi orientamento
politico, stanno facendo ricorso, sono basati su una «normalità» che non c’è più. Basti pensare alla nostra cassa integrazione, per l’occasione usata e allargata a coprire tutti i settori prima scoperti: è una forma di assicurazione che le stesse imprese pagano, per tenere «fuori» i lavoratori senza licenziarli nell’attesa di una ripresa o di una ristrutturazione: ma che fare se un intero settore è congelato, come il turismo, e non si sa se e come potrà ripartire? Anche la politica dovrà pensare strumenti senza precedenti – e per farlo, con tutte le sue difficoltà e debolezze, dovrà partire dalla consapevolezza dei più urgenti e gravi problemi che si aprono.
Mentre nella fase dell’emergenza sanitaria misure drastiche e uguali per tutti – come il lockdown, come la cassa integrazione, come gli strumenti di sostegno al reddito – erano generali e non facevano molte distinzioni, adesso si cominciano a vedere le diseguaglianze che la crisi ha aperto o esacerbato.
Dunque la politica economica dovrà scegliere: cosa molto difficile se non impossibile per governi come quello italiano strutturalmente deboli e bisognosi di consenso. Chi ha più bisogno spesso non è chi si fa sentire di più o chi porta più voti. Ma proprio per questo è bene vedere, sin dai primi dati sugli effetti della crisi, quali sono le maggiori vulnerabilità; in quali divari la società italiana rischia di sprofondare e rompersi.
choc sul lavoro
La portata mondiale dello choc sul lavoro è stata riassunta dall’Ocse in pochi numeri, nel suo rapporto «Employment Outlook 2020». Gli scenari sono incerti, poiché dipendono dall’eventualità che ci sia o no una seconda ondata del virus in autunno forte come o più della prima. Ma in quello più «ottimistico» nel 2020 la disoccupazione nei trentasette Paesi Ocse sarà quasi raddoppiata, dal 5,3% del 2019 al 10%. Il prodotto interno scenderà, mediamente, del 6%. A pagarne il prezzo sono e saranno soprattutto i lavoratori che già erano nella scala più bassa delle retribuzioni:
secondo lo studio Ocse, i lavoratori che guadagnano di più avranno il 50% di probabilità in più di continuare a lavorare.
Mentre quelli a basso reddito, oltre a stare in settori che sono più esposti al virus, sono stati e sono anche più esposti alla perdita di lavoro. Questo riguarda soprattutto le mansioni più basse nei servizi alla persona e nel turismo, ma non solo.
Basta guardare dai dati Istat la fotografia italiana: tra marzo e maggio del 2020 gli occupati totali sono scesi di 381mila unità. Tra questi, i lavoratori dipendenti a tempo determinato hanno pagato il prezzo più alto: meno 318.000. Gli indipendenti sono scesi di 89.000 unità. I lavoratori dipendenti a tempo indeterminato sono saliti, sia pur di poco (più 27.000). Questa dinamica si spiega facilmente: il governo con i decreti d’emergenza ha bloccato i licenziamenti dei dipendenti permanenti. Ma le imprese non hanno rinnovato i contratti in scadenza ai lavoratori a termine, mentre gli indipendenti le cui attività hanno chiuso sono entrati nell’inattività o nella ricerca di altro lavoro. Dunque questa fotografia da un lato ci dice che i numeri che vediamo nella riduzione del tasso di occupazione e nell’aumento del tasso di disoccupazione sono solo una parte dell’iceberg, poiché molti lavoratori formalmente occupati sono collocati in una cassa integrazione dalla quale non sanno se rientreranno effettivamente al lavoro; dall’altro ci mostra un mondo del lavoro ancora una volta diviso tra più garantiti e meno garantiti, oppure più o meno sfortunati.
la generazione corona
Tra i più sfortunati, ossia i lavoratori a termine e precari, sono sovra-rappresentati donne e giovani. Anche questo è un dato comune a tutto il mondo, non solo italiano, tant’è che l’Ocse leva un grido d’allarme per la «corona class» (la «generazione corona»), i ragazzi che escono adesso da scuola e università e si trovano in un mondo del lavoro
chiuso e senza sbocchi. E dedica una attenzione particolare anche all’occupazione femminile, più frequente nei settori chiusi dal lockdown e non ancora del tutto riaperti.
Non si tratta di effetti scontati di qualsiasi crisi. La recessione del 2008-2009, per esempio, aveva colpito più gli uomini che le donne, essendo concentrata soprattutto sulla finanza, sulle costruzioni e poi sull’industria
tradizionale. Anche in quel caso, però, c’era stata una generazione-cuscinetto a prendersene i colpi maggiori, i più giovani. Gli attuali trentenni hanno avuto il non invidiabile primato di entrare nel mondo del lavoro con la grande recessione da subprime e poi, una volta riassestati, prendersi in faccia l’ondata del coronavirus.
nuovi scenari del telelavoro
A questa grande frattura se ne aggiunge un’altra, tra il lavoro che, grazie alla grande spinta in avanti della digitalizzazione portata dal Covid 19, potrà continuare «a distanza», e quello che ha bisogno di presenza fisica. Il passaggio al telelavoro (come l’Ocse, più correttamente, definisce quello che noi chiamiamo «smart working») ha
interessato circa 4 lavoratori su 10 nel mondo industrializzato. Questo fenomeno apre scenari nuovissimi – cosa saranno le nostre città, senza i «luoghi» centrali del lavoro impiegatizio? Come regolare i contratti dei telelavoratori? Come ripensare l’abitare, se la casa diventa il luogo del lavoro? E, ancora una volta, spacca il mondo del lavoro a metà, tra quelli che possono lavorare davanti a uno schermo e quelli che devono metterci le mani, il corpo, la faccia.
unire ciò che la crisi ha diviso
Tutte queste divisioni stanno alimentando una frattura sociale, che sarebbe irresponsabile manovrare per mettere i lavoratori l’uno contro l’altro. Ma bisogna tenerle in mente: per esempio, sapere che la grande discussione aperta in Italia sulla proroga del divieto di licenziare e sull’allungamento della cassa integrazione, forse fino a fine anno, è essenziale per tantissimi lavoratori ma non riguarda e non tutela affatto quelli che già sono senza tutele. Non è prendendosela con gli «statali» che possono lavorare da casa che le addette alle pulizie negli alberghi riprenderanno il loro stipendio. Ma certo, nel mettere mano agli strumenti tradizionali si dovrà trovare il modo di coprire anche chi il lavoro lo ha già perso e chi, affacciandosi per la prima volta sul mercato del lavoro, si trova davanti a un muro o a offerte di salari poverissime. Per i sindacati, il problema è unire quel che la crisi ha diviso. Per la politica, è guardare alle differenze reali nel mondo del lavoro e correre ai ripari con strumenti nuovi, evitando gli aiuti a pioggia che possono andare a beneficiare anche chi dalla crisi non è stato colpito o è stato colpito in misura minore. Ma questa è solo una parte dell’intervento, quella che va sotto il capitolo del sostegno al reddito e ai bisogni più
urgenti. L’altra parte, non meno importante ma distinta, è investire per trasformare l’assistenza in lavoro. Per una volta, il problema principale non sono i soldi – dato che c’è un generale allentamento del vincolo a far debito per aiutare l’economia – ma spenderli bene, per evitare che in futuro questi debiti gravino anch’essi sulle spalle dei più deboli.
Roberta Carlini.
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Riprendiamo con convinzione il cammino europeo.
di Vanni Tola
Grande accordo nell’Unione Europea. Un grande passo avanti per cambiare, per tornare a crescere ma, soprattutto, una occasione d’oro per mettere fuorigioco per sempre i nazionalismi e gli antieuropeismi. Un’occasione per riprendere con coraggio il progetto dell’Europa unita, per realizzare una federazione di Stati Europei, il sogno dei Padri fondatori dell’Europeismo. Un obiettivo impegnativo, un grande balzo in avanti, il riappropriarsi di un’idea di Europa innovativa. Il cambiamento deve partire da ciascuno di noi, dalla ricerca puntigliosa di ciò che unisce piuttosto di ciò che divide, dalla consapevolezza che i singoli stati, da soli, non rappresentano nulla e non hanno grandi prospettive economiche e prospettiva politica nel mondo che cambia. Proviamo, con la forza dell’intelligenza e della buona volontà a realizzare una nuova Europa, per noi, per i nostri giovani.(V.T.)
Che succede?
CONSENSI, DISSENSI, DUBBI E PROPOSTE ATTORNO AGLI STATI GENERALI DELL’ECONOMIA
14 Giugno 2020 by Forcesi | su C3dem.
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Gli Editoriali di Aladinpensiero online
25 aprile e Costituzione di Giuseppe Andreozzi- Clicca per accedere.
Il trattamento dell’epidemia di “coronavirus” come problema costituzionale e amministrativo
di Umberto Allegretti. Clicca per accedere.
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In salute, giusta, sostenibile. L’Italia che vogliamo.Su Sbilanciamoci, 18 Aprile 2020 | Sezione: Apertura, Società. Clicca per accedere.
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Oggi domenica 26 aprile 2020
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—————————Opinioni, Commenti e “Riflessioni, Appuntamenti—————————————————–
Carbonia. Le miniere per la Ricostruzione
Gianna Lai su Democraziaoggi.
Un nuovo momento della storia di Carbonia, come ogni domenica dal 1° settembre.
Nell’Ottobre del 1943 il governo Badoglio e il Comando militare delle forze armate alleate riattivano la produzione delle miniere di Carbonia […]
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Mio padre, schiavo di Hitler
Gianfranco Meleddu su Democraziaoggi.
Mio padre Ignazio Meleddu, nato il 22 febbraio 1923, ha scritto un libro sulla sua vita per regalarlo a tutti noi figli e nipoti. Di seguito riporto alcuni estratti riguardanti la prigionia
Partì nell’agosto del 1940 a 17 anni, tornò nel luglio del 1945 a 22 anni […]
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Direi che adesso basta. Vanni Tola su fb.
E’ ora di smetterla con le buffonate. E’ indispensabile arginare la fantasia malata e perversa di amministratori regionali e sindaci che, dopo essersi distinti per disorganizzazione e manifesta incompetenza nella fase emergenziale della pandemia, tentano di “gettare fumo negli occhi” improvvisandosi strateghi del ripopolamento delle città e della ripresa delle attività produttive. Non servono decreti locali per la ripresa su base comunale o regionale. Serve un piano con regole certe e ragionevoli per l’intero paese al quale gli amministratori locali possano apportare modifiche altrettanto ragionevoli e adeguatamente motivate. [segue]
In salute, giusta, sostenibile. L’Italia che vogliamo
Sbilanciamoci, 18 Aprile 2020 | Sezione: Apertura, Società
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Dopo la pandemia l’Italia non sarà più come prima. Tocca a noi progettare la ricostruzione. In questi “10 punti”, 42 studiosi ed esponenti della società civile aprono la discussione sulle risposte alla crisi e il futuro del Paese: 10 punti per un percorso comune di proposte e pratiche di cambiamento.
Dopo la pandemia di coronavirus l’Italia non sarà più come prima. L’economia arretra, la società si frammenta, la politica fatica a pensare al futuro. Tocca a noi tutti progettare la ricostruzione di un paese migliore, di un’Italia in salute, giusta e sostenibile. Proponiamo un percorso che individui dieci punti fermi, sulla base delle elaborazioni già presenti tra esperti e organizzazioni sociali. A partire da questi si possono sviluppare le linee guida da un lato per le misure d’emergenza immediata, e dall’altro, in una prospettiva più ampia, per i comportamenti delle imprese, le iniziative della società civile, le politiche future.
I dieci punti fermi che proponiamo sono:
1. la ricostruzione di un sistema produttivo di qualità con un nuovo intervento pubblico
2. un’economia sostenibile sul piano ambientale
3. la tutela del lavoro, la riduzione della precarietà, la garanzia di un reddito minimo
4. la centralità del sistema di welfare e dei servizi pubblici universali
5. la centralità del servizio sanitario nazionale pubblico
6. la tutela del territorio e una casa per tutti
7. la riduzione delle disuguaglianze economiche e sociali
8. la riduzione delle disuguaglianze che colpiscono le donne e il riconoscimento del lavoro di cura
9. la giustizia nell’imposizione fiscale
10. un quadro europeo e internazionale coerente con un’economia e una società giusta.
Il percorso che proponiamo è la formazione di un gruppo di lavoro di esperti che sviluppi i dieci punti fermi in proposte concrete – ambiziose ma realizzabili – di interventi economici, cambiamenti sociali, riforme politiche e istituzionali. E la formazione allo stesso tempo di un’alleanza tra organizzazioni sociali, sindacati, campagne della società civile, comunità ed enti locali, forze politiche che condividono questa prospettiva e si impegnano a realizzare i cambiamenti proposti.
Introduzione
La pandemia di coronavirus ha creato una situazione di emergenza che riguarda le nostre vite, il lavoro, l’economia, la società. Nel primo mese ha causato 14mila morti in Italia. Metà dell’umanità è chiusa in casa. Ha imposto pesanti limitazioni sociali e sacrifici economici ai cittadini. Ha aggravato oltre misura il carico di lavoro del personale della sanità, provocando molte vittime. Ha costretto il governo – in Italia come altrove – a prendere misure straordinarie per tutelare la salute e limitare le conseguenze economiche e sociali: tra spesa pubblica diretta per sussidi e garanzie sui prestiti alle imprese siamo arrivati all’ordine di grandezza di un quarto del Pil italiano. Molti hanno paragonato la crisi attuale a una situazione di “guerra”, che richiede una mobilitazione di risorse economiche ed energie sociali senza precedenti. La risposta all’emergenza ha tuttavia stimolato una nuova solidarietà, il senso di comunità, la speranza di poter realizzare i cambiamenti necessari.
Oggi, nel mezzo dell’emergenza, è necessario utilizzare queste risorse sociali e gli strumenti messi in campo dalle politiche non solo per affrontare le esigenze immediate, ma anche per progettare come possiamo ricostruire l’economia e la società italiana dopo la pandemia. Quale Italia vogliamo?
Innanzi tutto un’Italia in salute, capace di garantire a tutti condizioni di vita adeguate, capace di prevenire le malattie e curare le patologie sociali, capace di restare uno dei paesi con la più alta speranza di vita del mondo.
Poi, un’Italia giusta. Di fronte a una pandemia che può colpire tutti, e che chiama tutti a cambiare le proprie vite, l’esigenza di giustizia deve tornare a prevalere dopo decenni in cui le disuguaglianze si sono allargate, i profitti sono cresciuti a danno dei salari, i guadagni della finanza, concentrati tra i più ricchi, sono stati elevatissimi.
Infine, un’Italia sostenibile. Sono molti i legami tra l’insostenibilità ambientale del nostro modello di sviluppo e il peggioramento delle condizioni di rischio e di salute. Il cambiamento climatico è alla radice di molti dei disastri “naturali” e degli “eventi estremi” che hanno colpito il paese. Solo un’Italia sostenibile dal punto di vista ambientale, protagonista nel contrasto a livello mondiale al cambiamento climatico, può prevenire nuove gravi emergenze di origine ambientale.
In questa cornice è necessario ribadire la necessità di un rafforzamento della nostra democrazia, attraverso la partecipazione dei cittadini e il corretto funzionamento delle istituzioni. È questo il modo migliore per combattere i rischi di restrizione dei diritti, autoritarismo e nazionalismo che attraversano il nostro paese.
La crisi economica e sociale e le misure già introdotte fanno emergere alcuni punti fermi da cui partire; individuiamo qui dieci punti che possono definire la traiettoria per l’Italia da ricostruire dopo la pandemia, in un’Europa capace di cambiare rotta. Dieci punti fermi su cui costruire un percorso di approfondimento – con l’impegno di un gruppo di lavoro di esperti – per arrivare a proposte e linee guida per le attuali misure d’emergenza, per i comportamenti delle imprese, per le iniziative della società civile, per le politiche future. Dieci punti fermi su cui costruire un’alleanza tra organizzazioni sociali, sindacati, movimenti e campagne della società civile, comunità ed enti locali, forze politiche che condividono questa prospettiva e si impegnano a realizzare i cambiamenti proposti. I dieci punti fermi sono qui delineati in modo preliminare; dovranno essere precisati con un lavoro comune.
1. La ricostruzione di un sistema produttivo di qualità con un nuovo intervento pubblico
L’emergenza ci ha fatto pensare alle attività “essenziali” e a quelle di cui si può fare a meno. I beni alimentari, le produzioni sanitarie e i servizi pubblici da un lato; le grandi navi al centro del contagio, la produzione di armi, il calcio in tv tutte le sere dall’altro. È una riflessione da cui partire nel progettare la ricostruzione dell’economia del paese. Non può essere “il mercato” – com’è stato in passato – a stabilire che cosa produrre sulla base dei profitti ottenibili. Il che cosa e come produrre deve emergere da una visione del bene comune, da scelte sociali e politiche che definiscano un modello di sviluppo di qualità, con attività ad alto contenuto di conoscenza e tecnologia, alta qualità del lavoro, e piena sostenibilità ambientale. Dopo vent’anni di recessione e ristagno dell’economia italiana, un nuovo sviluppo ha bisogno del ritorno all’“economia mista” del dopoguerra, con un forte intervento pubblico nella produzione, nelle tecnologie, nell’organizzazione dei mercati, orientando in modo preciso le scelte delle imprese attraverso le politiche della ricerca, industriali, del lavoro, ambientali.
L’azione pubblica nell’economia deve appoggiarsi su una pubblica amministrazione rinnovata, efficace, capace di operare per l’interesse pubblico. Occorre riordinare la presenza dello Stato nelle grandi imprese italiane in un gruppo industriale pubblico. Serve una Banca pubblica d’investimento che rinnovi e estenda la Cassa Depositi e Prestiti. Serve una rinnovata azione pubblica che ridimensioni, controlli e regoli la finanza privata. Serve una radicale trasformazione del ruolo del CIPE. Serve un’Agenzia nazionale per l’industria e il lavoro che intervenga per far ripartire le imprese messe in ginocchio dalla crisi e ne rilanci le produzioni. Serve un’Agenzia per la ricerca e sviluppo, l’innovazione, gli investimenti in nuove tecnologie. Serve un’Agenzia pubblica che indirizzi le produzioni legate al sistema sanitario del paese. Serve un soggetto economico pubblico che guidi la transizione verso la sostenibilità ambientale. Nuove imprese possono nascere con capitali privati e partecipazioni pubbliche iniziali. La domanda pubblica può essere utilizzata per stimolare innovazioni e investimenti.
Dalla politica di questi anni fondata sul sostegno indiscriminato alle imprese, attraverso facilitazioni e incentivi fiscali, bisogna passare al sostegno selettivo e mirato di produzioni e attività economiche strategiche e utili al paese: infrastrutture materiali e sociali, attività ad alta intensità di conoscenza, innovazione e lavoro qualificato. Al posto delle politiche “orizzontali” che lasciavano fare al mercato, l’impegno pubblico per la ricostruzione dell’economia potrebbe concentrarsi in tre aree: la sostenibilità ambientale, le attività per la salute e il welfare, le tecnologie digitali. I primi due ambiti sono discussi nei punti successivi. Le tecnologie digitali hanno applicazioni in tutta l’economia: il web, l’informatica, il software, le comunicazioni, le apparecchiature elettroniche, i servizi digitali pubblici e privati. Qui l’Italia ha perso grandi capacità produttive e si è abituata a importare quasi tutto dall’estero; si devono ricostruire le competenze necessarie per uno sviluppo di qualità e occorre garantire a tutti gli italiani un servizio universale di banda larga minima.
All’opposto, ci sono produzioni da ridimensionare e riconvertire, utilizzando gli stessi strumenti di politica industriale: innanzi tutto l’industria delle armi, che non producono sicurezza, ma nuovi conflitti, poi le produzioni ambientalmente insostenibili (punto 2) e le attività e i servizi di più bassa qualità sociale.
Ci sono grandi imprese in difficoltà da anni – come Ilva e Alitalia – per cui è essenziale un intervento diretto dello stato per realizzare le necessarie riconversioni e mantenere le attività economiche. L’estensione del “golden power” del governo a diversi settori produttivi essenziali per l’economia italiana è un passo significativo per proteggere l’industria nazionale di fronte ai rischi di acquisti da parte di imprese straniere. Occorre però una programmazione più ampia con le imprese; vanno sviluppati accordi di lungo periodo con gruppi di imprese italiane e con le multinazionali che producono in Italia, offrendo i benefici di queste politiche e della domanda pubblica in cambio di piani precisi di produzione, garanzie contro la delocalizzazione all’estero delle produzioni, mantenimento della sede nel nostro paese e pagamento delle tasse in Italia, reinvestimento dei profitti, ricerca, occupazione qualificata.
Per favorire il miglioramento tecnologico delle produzioni italiane è necessario un massiccio investimento nella scuola, nella ricerca pubblica e nell’università, ritornando ai livelli di spesa e personale di dieci anni fa e favorendo il ritorno dei ricercatori italiani emigrati all’estero. Nella pubblica amministrazione e nelle imprese occorre aumentare le competenze e le capacità innovative, spingendo le aziende sulla via della ricerca e delle nuove tecnologie.
Nel ricostruire la base produttiva del paese è essenziale rovesciare la divergenza tra poche aree dinamiche – in Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Piemonte –, un Centro-nord che ristagna o declina e un Mezzogiorno abbandonato a se stesso. La riduzione dei divari, nelle capacità produttive prima ancora che nei redditi, tra le regioni italiane dev’essere un obiettivo prioritario della nuova politica industriale.
L’eliminazione dei divari tra i territori del nostro paese è lo strumento più efficace per combattere mafie e criminalità organizzata. È inoltre necessaria la tracciabilità ai fini antimafia dei pagamenti legati ai fondi pubblici per l’emergenza.
Un ritorno all’intervento pubblico non è privo di difficoltà e rischi. Serve una nuova generazione di politiche che evitino di cadere negli errori passati: la collusione tra potere economico e politico, la corruzione e il clientelismo, la mancanza di trasparenza e di controllo democratico. Servono una politica e una pubblica amministrazione con alte competenze, capacità di organizzare le risorse del paese e dare risposte ai bisogni. Per cominciare, è necessario ripristinare regole sul meccanismo delle “porte girevoli”, e rompere così la pratica del passaggio continuo di manager e banchieri a responsabilità pubbliche e di politici a responsabilità aziendali, una fonte di collusione e corruzione; passaggi di questo tipo possono essere possibili solo dopo almeno cinque anni di interruzione degli incarichi precedenti.
Per assicurare la coerenza delle politiche realizzate è necessario prevedere meccanismi di valutazione – trasparenti e partecipativi – degli impatti a breve e lungo termine degli strumenti messi in campo.
Accanto all’esigenza di un nuovo modello di crescita economica, c’è bisogno di cambiare il metro di misura che abbiamo. Vanno sviluppate misure efficaci del benessere e della sostenibilità, a partire dal BES (il Benessere Equo e Sostenibile documentato dall’Istat) per poter valutare i progressi del paese verso un nuovo sviluppo.
2. Un’economia sostenibile sul piano ambientale
L’economia del dopo-emergenza dovrà essere basata su prodotti, servizi, processi e modelli organizzativi capaci di utilizzare meno energia, risorse naturali e territorio e di avere effetti minori sugli ecosistemi e sul clima. Il blocco della produzione legata alla pandemia ha portato a ridurre le emissioni di CO2; la ripresa dell’economia deve mantenere le emissioni sotto le soglie necessarie per evitare il cambiamento climatico.
La prospettiva del Green New Deal, aperta anche dalla Commissione europea, deve diventare un aspetto chiave delle politiche di cambiamento, con una visione d’insieme e grandi risorse. Occorrono però obiettivi precisi e misure concrete. Per l’energia si può fissare l’obiettivo del 100% di elettricità prodotta da fonti rinnovabili entro il 2050 e prendere misure che aumentino radicalmente l’efficienza energetica di abitazioni, uffici, motori, elettrodomestici, eccetera.
Per le auto, si può fissare l’obiettivo di eliminare la produzione di motori a combustione interna entro il 2030. Per i trasporti delle persone si deve passare dal modello dell’auto privata individuale alla mobilità integrata sostenibile, sviluppando forme alternative di mobilità, il trasporto pubblico locale e i servizi ferroviari sulla media e corta distanza, dove si concentra l’80% dell’utenza. Per il trasporto merci si devono ridimensionare le reti della logistica e scoraggiare il trasporto merci di lunga distanza su gomma. Entrambi i progetti richiedono grandi programmi di investimenti pubblici, centrati sulle “piccole opere”.
Occorre ridimensionare le posizioni di rendita, in particolare dei monopoli che controllano le reti elettriche e energetiche, che rappresentano un ostacolo alla conversione energetica. Bisogna puntare sull’agricoltura biologica – con produzioni sostenibili e di piccola scala – sulla chimica verde, su una cantieristica che sviluppi il trasporto merci via mare al posto del turismo su enormi navi da crociera che hanno un gravissimo impatto ambientale. L’intero ciclo di vita delle merci va riorganizzato sulla base dell’“economia circolare”, avvicinandosi all’obiettivo di “rifiuti zero”, favorendo il recupero e riuso dei materiali, moltiplicando gli impianti di riciclaggio al posto di inceneritori e discariche.
Gli interventi in tutti questi ambiti potrebbero essere coordinati da un’Agenzia per la sostenibilità, un soggetto economico pubblico che dia coerenza a strategie e investimenti, promuova la ricerca e l’innovazione ambientale, organizzi la domanda pubblica, orienti l’azione delle imprese private, facendo delle produzioni sostenibili un punto di forza dell’economia del paese.
Occorre un’eliminazione progressiva dei quasi 20 miliardi di sussidi pubblici che vanno ogni anno ad attività che danneggiano l’ambiente, in particolare i combustibili fossili. A parità di imposizione fiscale complessiva, occorre spostare il carico fiscale verso un ampio uso di tasse ambientali; in questo modo si possono “correggere” i prezzi dei beni e spingere produttori e consumatori a comportamenti più sostenibili. Il principio di sostenibilità deve diventare un criterio pervasivo in tutte le scelte individuali e collettive.
[segue]
Che succede? Che pensare? Che fare?
Vanni Tola
su Lettori, pagina fb.
Un altro giorno a casa. Sono appena le sette del mattino, molti amici in chat, magari comunicano o attendono messaggi. Chissà quanti non hanno dormito per niente stanotte o hanno dormito poco e male, come accade a me da tempo, soprattutto queste settimane. Svegli fino all’una di notte per sentire in televisione le ultimissime sul virus. Molti recupereranno un po’ di sonno perduto al mattino, altri nel primo pomeriggio. Attesa frenetica del nuovo giorno. Con la luce e il sole si ha la sensazione di stare meglio. [segue]
Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano
Bellissimo il brano del Vangelo di oggi. Lo pubblichiamo con i commenti di Luciano Manicardi, monaco della Comunità di Bose e del teologo Ermes Ronchi.
Osare la propria sete di incontro[segue]