Risultato della ricerca: Vanni Tola

PNRR in Sardegna. La questione energetica tra scelte obbligate e nuove prospettive

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di Vanni Tola

La questione energetica dell’Isola nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR).

Il dibattito concernente il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) sta evidenziando in Sardegna l’assoluta incapacità programmatoria della Giunta regionale e la sostanziale mancanza di una prospettiva di sviluppo dell’economia regionale, che contraddistingue l’apparato politico dell’Isola.
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La luna oltre il dito. La Sanità e tanto altro oltre Sardara

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di Benedetto Sechi, su fb.
Sarà pur grave il pranzo a Sardara, ma ho come l’impressione che ci vogliano far guardare il dito anziché la luna che questo indica. Solinas che parla di dimissioni dei soggetti coinvolti, l’opposizione che occupa l’aula, su questa vicenda che può finire nella classica bolla di sapone, con annessa multa da 400 €. Non vorrei essere tacciato di “benaltrismo”, ma qui non sta funzionando la campagna vaccinale, i contagi crescono e le morti pure, la sanità sarda, manomessa da questa e dalle precedenti giunte allo sfascio. Forse ci si doveva indignare di più e da tempo, occupando le aule regionali e comunali, magari protestando in piazza, per questi ben più gravi motivi.
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ECCO LA LUNA
di Franco Meloni
Sono d’accordo con Benedetto. Il pranzo di Sardara si configura come una violazione delle norme ed è giusto che i colpevoli chiedano scusa e paghino le sanzioni (al riguardo rinvio al post di Nicolò Migheli, che sotto ripubblico). Ci sta pure bene la “messa alla berlina” dei commensali, esercitata da molti con spassosissima creatività. Fa bene ridere di queste “disavventure” in cui incappa colpevolmente gente in generale privilegiata… Ma i problemi veri sono altri. E Benedetto elenca quelli prioritari, che vedono una classe politica inadeguata ad affrontarli. Pur nella diversa gradazione di responsabilità il discorso vale per chi governa e chi si oppone. E’ su questo fronte che noi, società civile e comunque impegnati nel sociale, anche (o sopratutto) per la nostra appartenenza alla Sinistra, dobbiamo concentrare le nostre energie.
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PS. Dalla pagina fb di Nicolò Migheli.
La premier norvegese Erna Solberg aveva festeggiato in un resort il suo compleanno indifferente alle regole di distanziamento interpersonale. Il capo della polizia ha annunciato che la signora Solberg è stata multata per 20.000 corone pari a quasi 2.000 euro. Lei si è scusata con i norvegesi.
Gran Bretagna. Nel maggio del 2020, Neil Ferguson, un virologo dell’Imperial College che aveva costretto Boris Johnson a cambiare strategia nella lotta al virus, si dimise dalla commissione di lotta alla pandemia perché aveva infranto le misure di confinamento per incontrare la sua amante. #Sardarawindow
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Altri commenti su Sardaara e dintorni: https://www.aladinpensiero.it/?p=121323
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FUOR DI METAFORA: ECCO I VERI PROBLEMI (un esempio).
di Vanni Tola su fb
Piano vaccinale – Provo a spiegare all’assessore alla sanità Nieddu cosa non va nel suo piano di vaccinazione. Si dovrebbe vaccinare per età e con precedenza per i pazienti fragili (con patologie che renderebbero molto più rischioso un eventuale contagio). Ho l’età giusta per essere vaccinato e, purtroppo, a causa di diverse patologie, anche per essere classificato come paziente fragile. Provo a prenotarmi col sistema ATS e scopro che accetta soltanto la prenotazione per la mia fascia di età a patto che non si abbiano esenzioni sanitarie e quindi patologie. In pratica un paziente della mia stessa età viene quindi vaccinato prima di te nonostante io abbia anche altre patologie in atto. Dovrò che mi convochi la ATS (come, dove, quando nessuno lo sa). Mando una mail all’ATS regionale e a quella locale (al telefono non risponde nessuno). Mi rispondono entrambe, Ats di Cagliari con mail, quella di Sassari, a mezzo telefono e successiva mail. In breve mi comunicano che sono molto dispiaciuti per le mie difficoltà nel prenotare il vaccino. Ats di Cagliari suggerisce di rivolgermi al medico di medicina di base affinché segnali il mio caso alla ATS che poi mi convocherà. L’ATS di Sassari risponde testualmente con una mail: “Gentile utente, dobbiamo chiederle di avere un po’ di pazienza perché l’ATS sta predisponendo le vaccinazioni per le persone con patologie. Appena possibile le daremo informazioni in merito”. Non credo di essere riuscito a far comprendere la situazione del piano vaccinale all’assessore Nieddu, queste sono cose troppo complesse. Forse la ATS sta cominciando a porsi il problema e a cercare una soluzione, e io pazienza ne ho abbastanza per attendere ancora qualche giorno. Mi domando però se gli addetti al piano vaccinale si rendano conto realmente della condizione di chi vive sapendo che può essere contagiato dal virus, come tutti gli altri, con in più la certezza che se ciò dovesse accadere, per il paziente fragile, potrebbe significare finire nell’inferno delle terapie intensive se non addirittura rischiare di morire? Con che coraggio quindi mi scrivono di avere ancora un po’ di pazienza? Io gli scongiuri li ho fatti tutti ma dubito che possano bastare, mi sa che comincio a incazzarmi.
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STA ANDANDO TUTTO BENE
Antonio Fadda, sindaco di Orani, su fb
Il numero dei contagi continua ad aumentare, oggi + 502 in Sardegna dei quali 116 solo nel Nuorese.
- A Orani siamo arrivati a 40 positivi e tante persone sono in attesa di tampone e di essere prese in carico.
- I vaccini scarseggiano e non abbiamo date certe sull’arrivo delle nuove dosi e sulle date delle vaccinazioni per gli anziani.
- I pazienti fragili non sanno ancora quando saranno vaccinati.
- I reparti covid sono pieni, i pronto soccorso sono nuovamente in emergenza e la carenza di medici ospedalieri si fa sentire. Oggi è il turno dell’Hospice domani sarà un altro reparto.
- Il telefono squilla senza sosta, come centro informazioni, proteste e lamentele dell’Ats.
Siamo in zona rossa, quindi stavolta nessuno può dare colpe a bar e ristoranti.
Nel frattempo a Cagliari si fanno spuntini o si perde tempo a cercare chi scappa dagli spuntini.
Sta andando tutto bene e il sistema sanitario funziona alla grande.
*Il periodo è brutto e delicato, stiamo attenti e non sottovalutiamo la situazione.
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Da La Nuova Sardegna 14 aprile 2021.
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Ideone

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di Vanni Tola
CRONACHE DA FANTASYLANDIA: SARDEGNA ISOLA PARTICOLARE.
La Sardegna è una regione autonoma con una miriade di problemi irrisolti, crisi occupazionale, migrazione dei giovani, calo delle nascite, isolamento aggravato da un sistema di trasporti navali e aerei al collasso e tanti altri ancora. Un apparato politico palesemente inadeguato – mi riferisco alle forze dell’attuale maggioranza ma non dimentico le gravi mancanze delle forze di opposizione – continua a brancolare nel buio alla disperata ricerca di progetti e programmi che possano far progredite la regione. Un apparato politico-istituzionale degno di questo nome produrrebbe analisi, studierebbe linee programmatiche per la crescita, predisporrebbe piani di sviluppo per i diversi comparti produttivi, getterebbe le basi per un nuovo progetto di rinascita del sistema economico adeguato alle condizioni reali dell’isola. Questo farebbero degli amministratori competenti e capaci. Troppo difficile. Non resta quindi nient’altro da fare se non affidarsi alla fantasia sperando cosi di poter tirare a campare continuando a gestire poltrone, assessorati e potentati vari e con l’unico obiettivo dell’autoconservazione. Si cerca allora l’ideona, la pensata “geniale” per risolvere i problemi. Sentitene alcune. [segue]

Settimana Santa

Ci vuole “spirito di servizio” a partire da chi sta più in alto.

di Franco Meloni, su Aladinews di giovedì santo del 4 aprile 2012.

Dal Vangelo secondo Giovanni 13, 4-54 si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. 5 Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto. 

La chiesa cattolica nella liturgia del giovedì santo, nella messa in coena Domini, rivive il gesto della lavanda dei piedi riportato nel testo dell’evangelista Giovanni. L’episodio è significativo di un atteggiamento di umiltà del Maestro nei confronti dei suoi discepoli e possiamo correttamente ricondurlo simbolicamente ad un atteggiamento “di servizio”, come si diceva un tempo. Ma il concetto è purtroppo in disuso, proprio nel momento in cui sarebbe salutare farvi ricorso. Riportando questo quadro nelle organizzazioni, il Maestro può correttamente simboleggiare il “superiore gerarchico” (il presidente, il rettore, il direttore, il dirigente, etc), mentre i discepoli possono rappresentare i suoi collaboratori o i cittadini-utenti tutti (qui però tralasciamo questa possibile ulteriore estensione). Perchè ci piace fare questa trasposizione, evidentemente apprezzando il gesto della lavanda dei piedi e di tutto quanto può rappresentare nel rapporto capo-collaboratori? Perchè crediamo che oggi vi sia necessità di recuperare un concetto fondamentale: chi per nomina, elezione o eredità si trovi ai vertici di un’organizzazione, sia essa un’impresa, una pubblica amministrazione, un’associazione, una famiglia o quant’altro, deve sentirsi e comportarsi non come un padrone al di sopra di tutto e di tutti, ma piuttosto come titolare di una funzione di servizio verso la stessa organizzazione e la società in generale. Al contrario, purtroppo, si verifica troppo spesso che chi si trova in posizioni di comando in un’organizzazione pensa di poterne disporre a suo piacimento, quasi come l’avesse “vinta al lotto” e si comporta nei confronti dei collaboratori adottando lo schema padrone-servo.  E invece oggi più che mai abbiamo bisogno di “spirito di servizio”, che si traduce in disponibilità all’ascolto, rispetto e valorizzazione delle persone, coinvolgimento di tutti nel perseguimento delle missioni e degli obbiettivi delle organizzazioni. Nella scala delle responsabilità in tutte le organizzazioni più si è in alto nelle posizioni gerarchiche più si ha il dovere di farsi carico dei problemi o, com’è pertinente dire nella settimana di Passione, di portare la croce.

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Etica&Impresa

64c78141-d560-45c4-a33c-f79fe76df27aDalla responsabilità sociale dell’impresa all’eticonomia
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Salvatore Vento – 21 Marzo 2021 by c3dem_admin | su C3dem

Nell’ultimo ventennio il tema della responsabilità sociale dell’impresa, in italiano Rsi e in inglese Csr (Corporate social responsability), è uscito dall’insegnamento nei dipartimenti universitari del mondo anglosassone per diventare oggetto di dibattito pubblico. I più accreditati Master in Business Administration prevedono corsi specifici. La pandemia del coronavirus sollecita, con ancora più forza, comportamenti responsabili a tutti i livelli e pone all’ordine del giorno la messa in discussione del modello di sviluppo socioeconomico imperante.

Nel 2001 l’Unione Europea aveva emanato due appositi documenti: il Libro verde “Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese”, seguito l’anno seguente da una Comunicazione della stessa Commissione. Nel Libro verde, la Rsi veniva definita come l’integrazione volontaria delle problematiche sociali ed ecologiche nelle operazioni commerciali e nei rapporti delle imprese con le parti interessate.

Per attuare i principi europei in Italia tali funzioni rientravano nelle competenze del Ministero del lavoro. Anche le Regioni, a partire da quella toscana, adottavano programmi di Rsi: finanziamenti alle Pmi che intendevano procedere alla certificazione Sa 8000, che è uno standard internazionale certificato attraverso un sistema di verifica di una parte terza. L’Italia è il paese col maggior numero di aziende certificate del mondo (pari al 33%). Quasi il 70% delle aziende certificate rientrano tra le Pmi (1-250 addetti).

Tutte le banche ormai sono in grado di offrire fondi d’investimento che contengono azioni o obbligazioni di aziende con certificazione di comportamenti etici. I fondi che investono in società con una politica ESG (Environmental, Social, Governance) forte hanno avuto buoni risultati. Etica Sgr, società di gestione del risparmio (Sgr), propone esclusivamente fondi comuni di investimento sostenibili e responsabili e ha lo scopo di “rappresentare i valori della finanza etica nei mercati finanziari, sensibilizzando il pubblico e gli operatori finanziari nei confronti degli investimenti socialmente responsabili e della responsabilità sociale d’impresa”. Il patrimonio gestito da Etica Sgr ammonta a 5 miliardi di euro depositati da 260 mila clienti. Secondo l’analisi della Bce, nella zona euro gli asset dei fondi ESG sono aumentati del 170% dal 2015. Nello stesso periodo il valore delle obbligazioni verdi in circolazione nell’area euro è aumentato di sette volte. Famiglie, assicurazioni e fondi pensione detengono oltre il 60% dei fondi ESG dell’eurozona.

Anche nella filiera della moda italiana si è posta attenzione sui comportamenti etici. La sostenibilità non deve essere solo ambientale, ma anche sociale, ha dichiarato Carlo Capasa, presidente della Camera Nazionale della Moda Italiana, aggiungendo che la sfida della sostenibilità sociale e del giusto salario per chi lavora nella moda è fondamentale e ha un pari peso con la sostenibilità ambientale. Esistono diverse realtà virtuose che producono eccellenza e lusso, rispettando ambiente e persone. E’ ampiamente noto il caso di Brunello Cucinelli, in particolare sul tema dell’etica del lavoro, oppure quello di Tiziano Guardini sulla sostenibilità dei materiali usati nei capi d’abbigliamento. Interessante è anche l’esperienza di collaborazione di Loro Piana con gli allevatori di capra cashmire Hircus della Cina e della Mongolia, tesa a tutelare questo tipo di allevamento tradizionale e a proteggere le comunità locali.

All’ultimo World Economic Forum di Davos, che ha celebrato i cinquant’anni d’incontri, è stato ribadito che lo scopo dell’impresa non è solo il profitto, ma anche la protezione dell’ambiente, la giustizia sociale, e la promozione di un benessere per tutta la comunità. Il “capitalismo shareholder” degli azionisti si dovrà trasformare in “capitalismo stakeholder” di tutti i portatori di interesse (imprenditori, lavoratori, fornitori, clienti, comunità).

La rivoluzione verde e la transizione ecologica previste dal PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), con una dotazione di 69 miliardi di euro, deve ora rappresentare una grande occasione per una pratica attuazione, in Italia, di questi principi.

Il bisogno di etica nell’impresa, nell’economia e nella società ha portato, negli ultimi vent’anni, alla nascita di movimenti di contestazione, ingiustamente definiti “no global”. Le manifestazioni cominciano a Seattle (Usa) nel 1999 e sono diretti contro la conferenza del Wto (Conferenza Mondiale per il commercio). Proseguono nel 2001 contro il G8 a Genova. Riprendono col movimento “Occupy Wall Street”. Nel 2011, al referendum sull’acqua pubblica, in Italia ha partecipato il 57% degli elettori e oltre il 95% ha detto che l’acqua è un bene comune. Più che un tempo di rivoluzioni dirette da soggetti sociali specifici, il nostro è il tempo di rivolte continue, come scrive Donatella Di Cesare (Il tempo della rivolta, Bollati Boringheri, 2020): una “pratica d’irruzione” contro ingiustizie e iniquità, che ha un “potere destituente” nei confronti delle autorità che contesta. “Mi rivolto, dunque sono”, diceva Albert Camus. A questo punto, però bisognerebbe fare un’analisi sui risultati di queste rivolte, risultati che sono molto condizionati, e non potrebbe essere diversamente, dalle dinamiche sociali in cui nascono. Tra le recenti rivolte che hanno avuto un richiamo internazionale si possono ricordare “Black lives matter”, contro il razzismo sempre emergente negli Stati Uniti, le proteste per la democrazia a Hong Kong e quelle in corso in questi giorni contro la dittatura dei militari in Birmania.

Nel 2012 Joseph Stiglitz scrisse un libro intitolato Il prezzo della disuguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro. Negli Stati Uniti, negli anni del boom precedenti la crisi finanziaria del 2008, l’1% dei cittadini si è impadronito di più del 65% dei guadagni del reddito nazionale totale; nel 2010, a fronte di una leggera ripresa, l’1% guadagnava il 93% del reddito aggiunto.
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Oggi la lotta alle disuguaglianze è diventato un argomento di dibattito pubblico, e in molte città sono nati gruppi di discussione e di proposte. A livello nazionale c’è, per esempio, il “Forum Disuguaglianze diversità”, presieduto da Fabrizio Barca. E nel 2016 è stata costituita l’ASVIS-Agenzia italiana per lo sviluppo sostenibile, presidente Pierluigi Stefanini, portavoce Enrico Giovannini (oggi ministro del governo Draghi); quest’agenzia si richiama all’Agenda ONU 2030, approvata nel settembre 2015 dall’Assemblea generale dell’Onu, che propone 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile in ambito ambientale, economico, sociale e istituzionale da raggiungere entro il 2030.
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Nel 2019 il premio Nobel per l’economia è stato assegnato congiuntamente agli economisti Abhijit Banerjee, Esther Duflo e Michael Kremer per l’approccio sperimentale nella lotta alla povertà globale. Banerjee e Duflo, marito e moglie, insegnano al Massachusetts Institute of Technology, mentre Kramer è docente ad Harvard. Duflo è la seconda donna a vincere il riconoscimento in questa categoria. Nell’annunciare i vincitori dell’edizione 2019, il Comitato per i Nobel sottolinea come i risultati delle ricerche dei tre vincitori “hanno migliorato enormemente la nostra capacità di lottare in concreto contro la povertà”. In particolare, “come risultato di uno dei loro studi, più di 5 milioni di ragazzi indiani hanno beneficiato di programmi scolastici di tutoraggio correttivo”. Essi “hanno introdotto un nuovo approccio per ottenere risposte affidabili sui modi migliori per combattere la povertà globale”.

Secondo indagini della Banca d’Italia, a fine 2017 la ricchezza netta delle famiglie italiane era pari a 9.743 miliardi di euro, 8 volte il loro reddito, di cui oltre la metà derivante da immobili. Il Pil nel 2019 ammontava a 1.800 miliardi di euro, mentre il debito pubblico raggiungeva i 2.409 miliardi di euro. Il reddito risparmiato è oggi ai massimi storici, circa il 12,6% del reddito (dati Intesa San Paolo, Centro Luigi Einaudi) e i depositi bancari nei conti correnti arrivano a 1.200 miliardi. Il risparmio individuale, se ben investito, può senz’altro contribuire al bene collettivo.

Con l’elezione di Papa Francesco (13 marzo 2013) tutti questi temi hanno assunto un respiro più ampio, una dimensione universale, che mettono in discussione l’attuale modello di sviluppo e la mercificazione delle relazioni umane (“Laudato si’”, “Fratelli tutti”). Del resto già negli anni ’70 il movimento sindacale poneva alla discussione pubblica l’interrogativo “cosa, come, dove, produrre”. In diverse città nascono gruppi e comunità sotto il nome di “Laudato si’” per cercare di mettere in pratica gli enunciati dell’enciclica. I giovani economisti, ricercatori e attivisti sollecitati dalla economia di Francesco nel documento finale del 21 novembre 2020 hanno indicato in 12 punti le loro proposte. Il tema della custodia dei beni comuni (specialmente quelli globali quali l’atmosfera, le foreste, gli oceani, la terra, le risorse naturali, gli ecosistemi tutti, la biodiversità, le sementi) dovrà essere posto al centro delle agende dei governi e degli insegnamenti nelle scuole, università e business school; occorre immediatamente abolire i paradisi fiscali in tutto il mondo perché il denaro depositato in un paradiso fiscale è denaro sottratto al nostro presente e al nostro futuro e perché un nuovo patto fiscale sarà la prima risposta al mondo post-Covid.

Quando la strutturazione in classi era ben marcata, la classe operaia delle grandi fabbriche, negli anni Settanta del Novecento, con i suoi sindacati riuscì a ottenere conquiste significative per tutti i cittadini, come ad esempio il servizio sanitario nazionale. Oggi, di fronte alla “frantumazione sociale” sempre più marcata, non c’è un soggetto sociale trainante, ma una pluralità di sensibilità che in certi momenti riescono ad aggregarsi e a costituirsi in movimento.

La vera sfida per la democrazia è coniugare il disagio sociale diffuso con i movimenti innovativi sui temi dell’ecologia integrale. Fridays For Future con la sua leader svedese Greta Thunberg, il 15 marzo 2019, ha portato, per la prima volta nella storia dei movimenti, milioni di ragazzi di tutto il mondo nelle piazze per lo sciopero per il clima. È significativo che la canzone cantata nelle piazze tragga ispirazione dal ritmo di “Bella ciao”. La Convenzione dell’ONU sui cambiamenti climatici, tenutasi a Parigi tra il novembre e il dicembre 2015, pose il tema dell’adozione di misure per contenere il riscaldamento del pianeta, ma fu molto controversa: durò dodici giorni spesi tra mediazioni e compromessi. Dopo quattro anni saranno i ragazzi e le ragazze che porranno questo problema nelle scuole e sulle piazze di tutto il mondo. Comincia, pur tra numerose contraddizioni, a diffondersi la consapevolezza che l’abbandono dell’agricoltura e degli ambienti rurali, il declino della biodiversità, la deforestazione, l’inquinamento dei terreni, dell’acqua e dell’atmosfera, la concentrazione delle popolazioni nelle aree urbane, a lungo andare portano all’accelerazione di agenti patogeni che si trasmettono dalle specie animali all’uomo.

Infine, possiamo dire che, se da una parte, l’Italia si conferma come un paese della “società del benessere”, dall’altra l’aumento delle disuguaglianze e della povertà ha raggiunto livelli socialmente non sostenibili. Il rischio è che, a seguito della necessaria risposta all’emergenza sociale provocata dal Coronavirus, prevalga una cultura assistenzialistica, come se si trattasse soltanto di distribuire la ricchezza senza preoccuparsi di come produrla. Ricordo che Mancur Olson, negli anni Ottanta, scriveva che le nazioni si avviano al declino quando la lotta tra i gruppi d’interesse è rivolta essenzialmente alla distribuzione della ricchezza e non più al suo accrescimento.

Salvatore Vento

Sardegna Zona ? Mannaggia all’algoritmo

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sedia-van-gogh4“Mamma ho perso la zona bianca”. Il diario di un breve sogno durato soltanto poche settimane. Tutta colpa dell’algoritmo avverso, secondo il “genio” che gestisce l’Assessorato alla Sanità della regione Sardegna.
di Vanni Tola
E’ un po’ come sparare sulla Croce Rossa ma non si può non farlo. La notizia clamorosa di qualche settimana fa. La Sardegna, unica regione in Italia, diventa zona bianca. Grande risonanza mediatica dell’avvenimento. Corsa ad attribuirsi i meriti fra i partiti, al primo posto la Lega di Salvini e il Presidente Solinas, a seguire molti altri. La Sardegna si era appena fatta tre settimane di zona arancione. A parere della Giunta per responsabilità del Ministero che aveva interpretato male i dati sulla pandemia inviati a Roma, a detta del Ministro Speranza per limiti nell’azione di tutela della salute esercitata nell’isola. Poi accade, quasi inaspettatamente, che i dati pandemici da imprecisi, raffazzonati e negativi, diventano positivi, ordinati, credibili a tal punto da consentire alla Sardegna di entrare nella fascia bianca fra tripudi di fanfare.
In verità molti non credono che i nuovi dati sull’andamento positivo della pandemia siano più credibili di quelli rilevati nelle settimane precedenti, ma la nuova realtà che si prospetta col passaggio alla zona bianca è talmente clamorosa da non lasciare spazio alle analisi “disfattiste”. Si comincia a sognare di nuove e progressive aperture di attività, di riapertura degli alberghi e, dopo alcune settimane, anche di altre strutture. Un sogno. [segue]

Non moriremo democristiani! Moriremo democristiani?

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Il 28 giugno 1983 il manifesto titolava a piena pagina “Non moriremo democristiani”. Il titolo, coniato da Luigi Pintor, dc02accompagnava un suo editoriale. Notoriamente Pintor era persona pessimista, ma nell’occasione andò contro la sua impostazione intellettuale, pronunciandosi per un’ottimistica ripresa della Sinistra. Sbagliava, come la storia ci ha confermato fino ai nostri giorni [nella seconda illustrazione la prima pagina de il manifesto del 30 aprile 2013, in occasione della voto di fiducia parlamentare al governo di Enrico Letta, autentico e illustre democristiano, del Pd]. Ma per quanto vediamo oggi, come hanno sostenuto molti autorevoli commentatori, forse non sarebbe male morire democristiani: c’è di peggio. Intanto qualche nostalgico pensa di ricostituire la DC, anzi, vi è un movimento che sostiene che la DC non è mai morta, e ce ne comunicano l’avvenuta ricostituzione “in continuità giuridica con la DC storica, presunta sciolta ma non sciolta il 18 gennaio 1994″.
Di seguito qualche informazione al riguardo, contenuta in una lettera che in questi giorni circola in Italia, anche negli ambienti universitari, oggi fattaci pervenire da un nostro amico docente dell’Ateneo. E’ una curiosità: forse i nuovi democristiani non sono questi rispettabili (crediamo) nostalgici: sono altri, trasversali in tutti i partiti dell’agone politico.
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No, non è la fine

costituente-terra-logouna Terra
un popolo
una Costituzione
una scuola

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Newsletter 31 del 17 febbraio 2021
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UNA PAROLA GLORIOSA

Con la soluzione della crisi di governo, l’emergenza in Italia e nel contempo in Europa e nel mondo, ha raggiunto la massima portata. Non c’è dubbio che secondo le categorie tradizionali si tratta di una soluzione di destra o, se si vuole, di un’uscita da destra dalla crisi, tanto più se il suo movente è stato, come si si sta delineando, il “business as usual”, gli affari come sempre nonostante la pandemia. Ma appunto a giudicare secondo le categorie del passato, mentre quello che oggi preme è il presente e il futuro. Non è di destra la scelta del presidente della Repubblica, che ha anzi scongiurato il rotolamento elettorale verso il fascismo; non è di destra che Salvini sia stato personalmente costretto ad abbandonare il sovranismo orbanista o lepenista (la Lega e la borghesia produttiva e egotista del Nord non l’avevano sposato neanche prima); non è di destra che l’on. Giorgia Meloni si trovi collocata fuori dal gioco; non è di destra che il più autorevole o internazionalmente noto come Mario Draghi si sia esposto e prenda decisioni come autore finale. Ma sarebbe di destra il lamento senza vera politica.
Invece nella politica sta oggi tutta la strada. E la politica oggi, non solo per noi, ma per Draghi (Draghi contro Draghi!), per la cultura, per le fedi, per l’economia e per lo stesso capitale, vuol dire una parola che viene proprio dal passato e che abbiamo fatto male a dimenticare. Dal passato infatti non viene solo il male onde noi oggi giudichiamo il presente: economicismo, monetarismo, diseguaglianza, bellicismo, austerità, neoliberismo, indifferentismo, Maastricht (tutte ideologie!), ma vengono anche delle grandissime cose, la Costituzione, il diritto, l’Europa, la tradizione pacifista, per non parlare del cristianesimo. A questo passato va oggi non contrapposta né dialettizzata secondo la cattiva filosofia delle opposizioni, ma va integrata e immedesimata una parola gloriosa che viene fino a noi tra le maggiori eredità del comunismo ma ancora prima dall’umanesimo, e questa parola è l’internazionalismo.
La sovranità non basta e fallisce, l’Europa non basta e da sola fallisce, il Regno Unito esce dall’Unione e si perde, la cosiddetta “America first”, proprio l’America della Normandia, stava rischiando come tale di precipitare nel fascismo e la pandemia irrompente in tanti filoni indipendenti e mutanti e non affrontata insieme rischia di vincere la partita e di sconfiggere anche noi. Nonostante tutte le buone intenzioni e perfino le giuste scelte che potranno fare il governo Draghi, la Commissione Ursula e quanti altri, senza l’internazionalismo, cioè senza soluzioni che oltrepassino il quadro dato, ossia le regioni, le nazioni, l’Europa i singoli ordinamenti e le consuete aggregazioni politiche e geografiche, non potranno trovare risposta né la transizione ecologica, né la transizione sanitaria, né la transizione digitale. Senza la non brevettabilità universale e distribuzione incondizionata dei vaccini, bene comune, senza la messa al bando universale delle armi, senza la decisione unanime sul clima, tutto ciò che di negativo è temuto e previsto, nonostante ogni parziale beneficio in contrario, avverrà.
Come deve essere evidente l’internazionalismo comincia dal condominio. Ma guai al provincialismo o al moralismo o al fai da te di chi dice: “ci basti intanto partire da noi”. La raccolta differenziata non significa niente (è uno sberleffo, un fastidio!) se dietro l’angolo il camion è lo stesso. L’internazionalismo è una politica. È un fare. Atto dopo atto, decisione dopo decisione, fatti dopo scelte, “recuperi” confronti e processi avviati. Di tale internazionalismo noi conosciamo il nome. Si chiama costituzionalismo internazionale, si chiama, quale obiettivo storico e politico, Costituzione della Terra. Esso infatti non vuol dire un potere universale, ma una molteplicità di poteri armonizzati e reciprocamente garantiti sul piano mondiale. Dalle istituzioni sanitarie a quelle giurisdizionali, dall’Organizzazione del Lavoro all’Alta Autorità per il diritto, la libertà e il finanziamento solidaristico delle Migrazioni.
Però questo – costituzionalismo – è un nome colto, almeno per ora, non è ancora pronto a entrare come un vento impetuoso nel linguaggio politico, nel discorso popolare, nell’ottusità dei mass media e perfino nei gabinetti raffinati delle stanze dei bottoni. Non è ancora pronto a farsi partito, a essere adottato come programma di partiti. Perciò il suo nome di battaglia, la sua gestione in forma popolare deve avvenire nel nome e nei nomi dell’internazionalismo. È una parola già fondata sul sangue di infiniti martiri, di cui vogliamo ricordare qui un solo nome per tutti, Marianella García Villas,
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uccisa in quanto internazionalista dagli stessi assassini dell’eroico vescovo di san Salvadore Oscar Arnulfo Romero. Dunque davvero un nome che rinvia alla testimonianza, alla responsabilità, alla lucidità politica e all’impegno civile di donne e uomini, di laici e religiosi, atei e credenti, deboli e forti, poveri e ricchi.
E dunque internazionale dovrebbe essere l’ambito e l’orizzonte nel quale deve operare, fin da ora, la nostra ancora fragile iniziativa di Costituente Terra, alla quale ancora una volta rinnoviamo l’invito a dare sostegno e ad aderire, nelle possibilità proprie di ciascuno.
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In ogni caso No, non è la fine, come dice il libro di Raniero La Valle appena uscito in edizione Ebook (a giugno in cartaceo), presso le Edizioni Dehoniane di Bologna.
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Come salvare il Recovery Plan dagli errori della prima fase
Fabrizio Barca

Sbilanciamoci! 15 Febbraio 2021 | Sezione: Nella rete, Politica
Il nuovo governo guidato da Mario Draghi dovrà subito impegnarsi nella finalizzazione del Recovery Plan italiano: tutti gli errori da evitare (e ciò che bisognerebbe fare). Dal sito del quotidiano “Domani”.
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Oggi venerdì 5 febbraio 2021

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Proporzionale è meglio
04/02/2021 – autori vari, su Volerelaluna.volerelaluna-testata-2
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democraziaoggi-loghettoDraghi: riflessioni fuori dal coro (o dal carro)
5 Febbraio 2021
Fernando Codonesu su Democraziaoggi.
Sono d’accordo: c’è una democrazia quando c’è un’opposizione. Senza opposizione siamo in un regime, vedasi Egitto, Arabia Saudita di Bin Salman, etc.
E però fare opposizione, qualunque sia il governo, è un mestiere molto difficile e poco gratificante
[…]
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il_Manifesto_quotidiano_comunistaLa strada migliore per rendere Renzi irrilevante
Massimo Villone su il manifesto.
La tela del drago. Non c’è dubbio che Draghi possa non piacere. Vediamo i tormenti M5S. Vogliamo solo ricordare che non sbarrare la strada a Draghi è il modo migliore, e forse il solo, per rendere Renzi irrilevante, ora e sperabilmente in futuro [...]
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sedia di VannitolaDonne, donne, è arrivato l’arrotino. Ora c’è Draghi.
di Vanni Tola, su fb.
Calma, non imbarchiamoci in analisi e giudizi frettolosi e banalmente superficiali. È inutile fare finta di scoprire oggi chi è Draghi, quali sono i suoi riferimenti teorici, quale è stato ed è il suo ruolo nel panorama politico occidentale. È perfino banale sottolineare che non è e non sarà il Messia e che Renzi non ha nessun merito nell’averne favorito la discesa in campo. La politica, il sistema politico italiano è imploso perché sono giunti al pettine nodi e contraddizioni insanabili che si trascinava dietro da tempo. [segue]

Francesco Casula e Vanni Tola sulla scuola in Sardegna: intervengono con differenti approcci e focalizzazioni. La crisi della scuola (poco sarda) in Sardegna. Ita faghere? Scuola e trasporti, non soltanto un problema di infrastrutture

afbd7083-4013-4d7b-a2d8-32c18d7291c2 I record della scuola sarda: prima nella dispersione scolastica.
di Francesco Casula
Nel campo dell’istruzione la Sardegna continua a detenere record poco invidiabili: è ancora al primo posto – come del resto negli anni scorsi – in Italia per dispersione scolastica, seguita dalla Sicilia e dalla Campania. La percentuale nell’isola è del 18% e Nuoro tocca il record con il 42,7% dei “dispersi”.
Gli studenti sardi sono più tonti di quelli italiani? O poco inclini allo studio e all’impegno? E i docenti sono più scarsi o più severi? Io non credo. Come non penso che svolgano più un ruolo determinante o comunque esclusivi, la mancanza o l’insufficienza delle strutture scolastiche (laboratori, trasporti, mense ecc.), anche se certamente influenzano negativamente i risultati scolastici.
E allora?
E allora i motivi veri sono altri: attengono alle demotivazioni, al senso di lontananza e di estraneità di questa scuola. Che non risulta né interessante, né gratificante, né attraente. La scuola italiana in Sardegna infatti è rivolta a un alunno che non c’è: tutt’al più a uno studente metropolitano, nordista e maschio. Dunque non a un sardo. E tanto meno a una sarda.
E’ una scuola che con i contesti sociali, ambientali, culturali e linguistici degli studenti non ha niente a che fare. Nella scuola la Sardegna non c’è: è assente nei programmi, nelle discipline, nei libri di testo, nell’organizzazione.
Provate a chiedere a uno studente sardo che esca da un liceo artistico, cosa conosce di una civiltà e di un’architettura grandiosa come quella nuragica, sicuramente fra la più significative dell’intero Mediterraneo; provate a chiedere a uno studente del liceo classico cosa sa della parentela fra la lingua sarda e il latino; provate a chiedere a uno studente di un Istituto tecnico per ragionieri e persino a un laureato in Giurisprudenza cosa conosce di quel monumentale codice giuridico che è la Carta de Logu di Eleonora d’Arborea. Vi rendereste conto che la storia, la lingua e la civiltà complessiva dei Sardi dalla scuola ufficiale è stata non solo negata ma cancellata. Permane una scuola monoculturale e monolinguistica, negatrice delle specificità, tutta tesa allo sradicamento degli antichi codici culturali e basata sulla sovrapposizione al “periferico” di astratti paradigmi e categorie che le grandi civiltà avrebbero voluto irradiare verso le civiltà considerate inferiori. Questa scuola ha prodotto in Sardegna, soprattutto negli ultimi decenni, giovani che ormai appartengono a una sorta di area grigia, a una terra di nessuno. Apprendono l’italiano a scuola ma soprattutto grazie ai media: ma si tratta di una lingua stereotipata, gergale, banale, una lingua di plastica, inodore, insapore e incolore. Ma una scuola monoculturale e monolinguistica produce effetti ancor più gravi e devastanti a livello psicologico e culturale. Da decenni infatti la pedagogia moderna più attenta e avveduta ritiene che la lingua materna e i valori alti di cui si alimenta siano i succhi vitali, la linfa, che nutrono e fanno crescere i bambini senza correre il gravissimo pericolo di essere collocati fuori dal tempo e dallo spazio contestuale alla loro vita. Solo essa consente di saldare le valenze e i prodotti propri della sua cultura ai valori di altre culture. Negando la lingua materna, non assecondandola e coltivandola si esercita grave e ingiustificata violenza sui bambini, nuocendo al loro sviluppo e al loro equilibrio psichico. Li si strappa al nucleo familiare di origine e si trasforma in un campo di rovine, la loro prima conoscenza del mondo. I bambini infatti – ma il discorso vale anche per i giovani studenti delle medie e delle superiori – se soggetti in ambito scolastico a un processo di sradicamento dalla lingua materna e dalla cultura del proprio ambiente e territorio, diventano e risultano insicuri, impacciati, “poveri” sia culturalmente che linguisticamente.
Di qui la mortalità e la dispersione scolastica.
Ite faghere? Cambiare radicalmente la didattica, i curricula, la stessa mentalità di docenti e dirigenti scolastici.
Per quanto attiene alla lingua sarda occorrerà finalmente partire dal dato – appurato scientificamente da tutti gli studiosi – che la presenza della lingua materna e della cultura locale nel curriculum scolastico non si configurano come un fatto increscioso da correggere e controllare ma come elementi indispensabili di arricchimento, di addizione e non di sottrazione, che non “disturbano” anzi favoriscono apprendimento e le capacità comunicative degli studenti, perché agiscono positivamente nelle psicodinamiche dello sviluppo.
Per decenni l’impegno politico-sindacale, nel migliore dei casi, è stato finalizzato esclusivamente alla risoluzione dei problemi strutturali (aule, laboratori, palestre) o a quello dei trasporti. O a quello del personale e degli organici. Si è invece trascurato del tutto una questione cruciale: la catastrofica situazione della didattica. E dunque dei contenuti e dei metodi di una scuola che risulta semplice e piatta succursale e dependence della scuola italiana.
Negli indirizzi operativi per gli interventi a favore delle scuole pubbliche di ogni ordine e grado della Sardegna per contrastare la dispersione scolastica e innalzare la qualità dell’istruzione e le competenze degli studenti, la lingua sarda non viene neppure citata. Come se non esistesse alcun rapporto fra il fallimento scolastico, la scarsa preparazione e la questione del Sardo. Rapporto invece dimostrato inequivocabilmente da studiosi e pedagogisti come Maria Teresa Catte e la compianta Elisa Spanu Nivola. O come se la didattica fosse ininfluente per l’apprendimento e la formazione. Scrive a questo proposito il compianto Nicola Tanda, già professore emerito di Letteratura e Filologia sarda nell’Università di Sassari: “Nelle classifiche della scuola superiore il Friuli occupa la prima posizione e la Sardegna quasi l’ultima. Mi domando: c’è qualche connessione tra questi risultati e l’uso proficuo che essi fanno della specialità del loro Statuto?”.
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Scuola e trasporti, non è soltanto un problema di infrastrutture.
di Vanni Tola.
L’emergenza sanitaria di questo ultimo anno, l’esigenza di rincorrere ed arginare la pandemia per difendere la salute di tutti, ha limitato la nostra capacità di analizzare la realtà e di progettare un futuro migliore. Analizziamo la situazione scolastica in Sardegna. Il 24% dei giovani trai 18 e i 24 anni non ha un diploma. Il 28 % delle persone tra i 15 e i 29 anni non studia più, non lavora e non fa formazione professionale. Il 57,4 % dei residenti in Sardegna non va oltre la scuola dell’obbligo (50,1 la media nazionale). L’Unione Europea considera fisiologico il dato che un 10% della popolazione non abbia un diploma, questa percentuale, tra i residenti nel sud Sardegna raggiunge il 63,9%, il dato peggiore d’Italia. Nelle grandi città invece i valori relativi all’istruzione sono sostanzialmente più vicini alla media nazionale. Vogliamo cominciare a domandarci il perché? Vogliamo provare a individuare le cause e a pensare alle soluzioni del problema? Cominciamo dal problema del trasporto degli studenti verso gli istituti scolastici superiori. Non è soltanto un problema di scarsa disponibilità mezzi pubblici. Terminata la scuola media, la maggior parte dei giovani dei nostri paesi é “condannata” a vivere la poco invidiabile condizione del pendolarismo verso i centri più grandi, sedi degli istituti superiori. Significa, per un periodo di almeno cinque anni, doversi alzare molto presto, viaggiare su mezzi pubblici spesso indecenti e in condizioni non certo comode, frequentare le lezioni e tornare poi a casa quasi a metà pomeriggio con l’impegno, naturalmente, dei compiti e dello studio a casa. Pensate che per un giovane possa essere “attraente” questa offerta scolastica considerate anche le basse prospettive occupazionali che un diploma promette? Considerata la scarsa spendibilità nel mondo del lavoro di titoli di studio quasi mai direttamente collegati alle esigenze e alle richieste del mondo del lavoro? La tentazione alla rinuncia dello studio oltre la terza media é fortemente incentivata da questo stato di cose.
Proviamo invece a pensare al fatto che in tanti piccoli paesi, a causa dello spopolamento e di servizi sociali al limite della sopravvivenza, esistono centinaia di edifici di scuole della fascia dell’obbligo ormai abbandonate o sottoutilizzate che potrebbero ragionevolmente essere recuperate per realizzare sedi decentrate degli istituti superiori che attualmente esistono esclusivamente nelle grandi città. Ci vogliamo pensare seriamente alla possibilità di creare dei poli scolastici polivalenti nei paesi di medie dimensioni nei quali ospitare sezioni staccate dei diversi istituti cittadini? Non pensate che limitando il pendolarismo e garantendo migliori condizioni di vita per gli studenti oggi costretti al pendolarismo il loro interesse per lo studio potrebbe essere incrementato? Le potenzialità dei moderni mezzi di comunicazione e un intelligente insegnamento a distanza potrebbero aiutare in tal senso. Studi sociologici e demografici da tempo evidenziano e denunciano i limiti ormai noti dell’inurbamento quasi forzato verso le grandi città e le città costiere. Indagini e ricerche che suggeriscono scelte politiche orientate al decentramento dei servizi nei territori anche nella prospettiva di favorire la riantropizzazione di aree geografiche in via di spopolamento e la rinascita di paesi altrimenti destinati a scomparire dalle carte geografiche nel giro di pochi decenni. Un problema immenso, difficile, complesso ma non per questo irrealizzabile che richiederebbe lo sforzo congiunto di università e centri di ricerca, un ceto politico capace e ambizioso, una mobilitazione generale e una rivalutazione delle esperienze positive in atto in tal senso. Perché non pensarci? D’altronde sembra essere questa l’indicazione di massima dell’Unione Europea contenuta nei nuovi programma di spesa per lo sviluppo.
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Deposito nazionale dei rifiuti radioattivi. Una questione mal posta

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di Vanni Tola
Deposito nazionale dei rifiuti radioattivi. Una questione mal posta. I fatti in breve. La Sogin (Società pubblica responsabile del decommissioning degli impianti nucleari italiani e della gestione dei rifiuti radioattivi), ha pubblicato la “Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee” ad ospitare il deposito dei rifiuti radioattivi prodotti nel nostro Paese. Nell’elenco sono indicate sette regioni (compresa la Sardegna) e 67 comuni, 14 dei quali distribuiti tra l’Oristanese e il medio Campidano. La “Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee”, ufficializzata in questi giorni è solo il frutto di un lungo lavoro di studio – esclusivamente tecnico – basato su criteri geologici e logistici che hanno scremato le aree ritenute utilizzabili, fino ad arrivare alle 62 indicate nel documento finale. [segue]

Gianfranco Sabattini

Per ricordare Gianfranco Sabattini ripubblichiamo un suo articolo sulle prospettive e sulle scelte per lo sviluppo della Sardegna che scrisse in garbata polemica con un intervento di Paolo Fadda su l’Unione Sarda. Tanto basta per dare conto della passione politica di Gianfranco per la sua terra. E non importa se tutto o quasi sembra volgere al disastro, con il governo regionale di turno e l’intera classe dirigente inadeguati a impostare una diversa politic delle a, quella che richiede capacità innovative e nuovo protagonismo dei sardi e dei giovani in particolare. Sabattini sostiene che un’alternativa credibile ci possa essere. Ci sono in Sardegna energie sopite che occorre solo organizzare e motivare. Sono presenti soprattutto negli enti locali, che occorre coinvolgere, potenziandone competenze e poteri e trasferendo loro le necessarie risorse. A chi gli obbiettava le difficoltà del cambiamento, Sabattini opponeva un prudente ottimismo, rifacendosi a Gramsci. Gli piaceva anche ricorrere a un bell’aforisma di Barbara Wootton: “E’ dai campioni dell’impossibile piuttosto che dagli schiavi del possibile che l’evoluzione trae la sua forza creativa”. Lui, Sabattini, ci credeva, forse perché campione dell’impossibile in questa accezione lo era davvero.
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lampada aladin micromicroPaolo Fadda e Gianfranco Sabattini sono due “grandi vecchi” ancora capaci di mettere in campo forti energie intellettuali al servizio della Repubblica e della Nazione Sarda. Nel “quasi deserto culturale” della nostra Regione, animano con passione e competenza un necessario dibattito sulla situazione sarda. Questo li unifica ed è giusto riconoscere loro il merito, prima di segnalare le diverse posizioni rispetto al dibattito in questione, la “Questione Sarda”. Fadda richiede, anzi invoca, che la classe politica sarda abbia un sussulto di orgoglio e si adoperi per ottenere ingenti risorse pubbliche (statali ed europee) al fine di invertire la rotta della disastrosa situazione economica dell’Isola. Sabattini replica che si tratta di una vecchia ricetta, ché, se pur si riesca ad ottenerle in adeguata misura, queste nuove risorse provocano benefici relativi per la Sardegna, a fronte di quelli di gran lunga superiori per i fornitori della penisola o esteri. Occorre invece sostenere e ampliare le capacità dei produttori locali e degli Enti dell’autonomia regionale, gli unici in grado di produrre sviluppo endogeno. Che dire? Il dibattito è aperto. Non si tratta di schierarsi quanto di saperlo approfondire ed estendere. È quanto contribuiamo a fare con le tre testate online: il manifesto sardo, Democraziaoggi, Aladinpensiero. Questo è un invito al resto del mondo!
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La mancata soluzione della “Questione Sarda” secondo Paolo Fadda
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di Gianfranco Sabattini

Paolo Fadda in un suo intervento sull’”Unione Sarda” del 10 Ottobre, dal titolo “La Questione Sarda”, lamenta la scarsa propensione in Sardegna a voler mettere al centro di un possibile dibattito” l’attualità della “Questione”; ciò perché, a suo dire, essa non avrebbe subito sostanziali cambiamenti da quando Giovanni Battista Tuveri e Giovanni Maria Lei Spano l’hanno posta come problema nazionale, cui le discriminazioni dei governi nazionali hanno impedito di dare risposte risolutive; risposte che sarebbero mancate anche dopo la conquista “dell’autonomia regionale come strumento di autogoverno”.
A parere di Fadda non si discuterebbe, né ci si confronterebbe più sull’uso delle risorse autonomistiche, in quanto queste sarebbero state sempre più depotenziate dalle crescenti protervie centralistiche dei governanti romani, congiuntamente alle debolezze ed alle inerzie dirigenze regionali, sino a prefigurare il pericolo che l’Isola diventi vittima di un “dipendentismo” che la renderebbe sempre più subalterna a “interessi e decisioni altrui”. Per queste ragioni, il fallimento delle finalità del progetto autonomistico, quali erano nelle aspirazioni dei sardi all’indomani dell’avvento della Repubblica, ha ridato attualità – afferma Fadda – alla riproposizione della “Questione”, in quanto l’Isola, come i dati statistici consentono di rilevare, persiste ancora in “una penalizzante condizione di arretratezza e di insufficienze strutturali”, che varrebbero ad allontanarla dalle regioni del Nord-Est del Paese, sempre più favorite dai crescenti investimenti dello Stato.
La maggior disparità rispetto a tali regioni avrebbe concorso, a causa delle “caduta di capacità e di prestigio delle nostre dirigenze, a far sì che la Sardegna ritornasse ad essere esclusa al “gran ballo degli aiuti di Stato”, tanto da “rendere urgente” la riproposizione al Paese di una nuova “Questione Sarda” per porre rimedio ai “troppi torti subiti”.
L’analisi di Fadda di quanto accaduto (o sta accadendo) in Sardegna è fuorviante; essa è fondata sul presupposto che gli “aiuti pubblici” siano di per sé sufficienti a rimuovere il “dipendentismo”, promuovendo l’uscita dallo stato di arretratezza che da sempre affliggono l’Isola, mancando di considerare che tale rimozione non dipende solo dalla disponibilità di risorse, ma anche e soprattutto dalle modalità della loro utilizzazione. Infatti, malgrado le ingenti risorse ricevute a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, l’Isola non è riuscita a decollare, in quanto ha privilegiato l’attuazione di un “modello di industrializzazione senza sviluppo” (senza cioè produzione di ricchezza endogena, né un reale e duraturo miglioramento della qualità delle vita dei sardi).
Tale modello, che Fadda nella sua complessa attività di amministratore e di studioso dell’economia sarda non ha mancato di condividere, è stato alimentato e sorretto da un’ingente canalizzazione di risorse finanziarie per la localizzazione nell’Isola di industrie pubbliche e private; un flusso di risorse utilizzato però solo per promuovere l’aumento del reddito disponibile, ma non anche si quello prodotto all’interno dell’area regionale.
Nel lungo periodo, il modello di sviluppo attuato ha mostrato tutti i suoi limiti, con il risultato di non aver innescato alcun processo di crescita endogena, né di aver eliminato o affievolito il divario economico che continua ancora oggi a separare la Sardegna dalle aree più avanzate del resto del Paese. Quello attuato è stato un modello di crescita fortemente dipendente da condizioni favorevoli esterne che, con la crisi petrolifera degli anni Settanta è crollato, avviando l’economia dell’Isola verso un progressivo declino che è continuato senza sosta fino ai giorni nostri.
La principale conseguenza negativa del modello di crescita sperimentato in Sardegna nei primi decenni successivi agli anni Cinquanta del secolo scorso può essere così sintetizzata: un aumento del reddito disponibile per abitante e, quale conseguenza, un aumento della domanda di beni consumo; ma non essendo tali beni di consumo prodotti in Sardegna, l’aumento del solo reddito disponibile ha causato un consistente incremento delle importazioni.
L’aumento delle importazioni si è quindi tradotto in un vantaggio a favore delle regioni italiane (soprattutto settentrionali) e di altri Paesi produttori. Si è così determinata quella che è poi diventata una costante del sistema produttivo della Sardegna, ovvero un crescente squilibrio della bilancia commerciale per una quota rilevante di beni di consumo e di beni intermedi a favore di attività produttive extraregionali. Lo squilibrio ha riguardato, e riguarda tuttora, soprattutto la bilancia agro-alimentare dell’Isola, con la conseguente perdita dell’autosufficienza alimentare rispetto al fabbisogno interno.
Il miglioramento degli standard di vita dei sardi è stato il parametro in base al quale le élite politiche regionali hanno preteso di valutare il successo della politica di intervento realizzata. In ciò è da rinvenirsi il sintomo più evidente dei limiti della politica di crescita regionale perseguita; infatti, il processo di industrializzazione sperimentato ha portato, non alla crescita della Sardegna, ma alla riproposizione, in altre forme, della “Questione Sarda”, espressa dal fatto che l’Isola, pur avendo accumulato importanti localizzazioni produttive, non è riuscita a liberarsi dalle “secche” sulle quali una politica di intervento casuale ed erratica l’ha inevitabilmente condotta.
Quale prospettiva di crescita si offre oggi alla Sardegna? Per rispondere occorre liberare le energie intrinseche al sistema delle autonomie locali del quale a livello regionale si è sempre mancato di cogliere le implicazioni. Il sistema locale, come la letteratura sull’argomento suggerisce, è che un insieme di insediamenti residenziali e produttivi, le cui relazioni reciproche sono determinate dai comportamenti quotidiani degli operatori in essi presenti, i quali nel tempo hanno delimitato un’area entro cui si è consolidata la maggior parte dei rapporti economici tesi a svilupparsi nel tempo.
In questa prospettiva, con un contesto sociale ed economico, inteso come un continuum di spazi territoriali nei quali sono insediate specifiche comunità locali, la nuova politica di crescita dovrebbe tenere conto della necessità che nella elaborazione delle nuove decisioni concernenti le destinazioni delle risorse pubbliche che l’Isola continua a ricevere siano coinvolte anche le singole comunità; tale coinvolgimento richiede ovviamente la realizzazione delle condizioni operative idonee a consentire alle stesse comunità di partecipare attivamente alla costruzione degli scenari e delle politiche di crescita del loro territorio. Questo nuovo approccio alla crescita ed allo sviluppo dell’Isola si giustifica sulla base del fatto che fino ad oggi tutto ciò che è stato realizzato per il superamento dell’arretratezza dei singoli territori, è stato recepito, a livello locale, come “calato dall’alto”, con conseguente esclusione delle singole comunità territoriali dai relativi processi decisionali.
L’ipotesi che nella formulazione della nuova politica di crescita e di sviluppo regionale non si possa più prescindere dalle comunità locali e dalla loro partecipazione ai processi decisionali impone che la promozione, la progettazione e l’attuazione di una politica di crescita e di sviluppo siano fondate sull’individuazione di “percorsi” strategici supportati da un’“accettazione sociale” la più estesa possibile.
L’insuccesso della politica di sviluppo sinora attuata a livello regionale è stato infatti causato dal fatto che il “modello di industrializzazione forte” privilegiato non ha avuto alcune giustificazione sul piano produttivo, perché gli interventi realizzati sono stati suggeriti dall’idea che la crescita e lo sviluppo dovessero dipendere unicamente dalla disponibilità di capitali da investire in attività produttive che hanno avuto solo effetti diffusivi esogeni rispetto all’area regionale; in altri termini, l’insuccesso si è verificato in quanto è stata condivisa l’idea che la crescita e lo sviluppo dovessero dipendere dalla presenza di attività produttive prive di ogni rapporto con l’ambiente circostante e che le attività tradizionali dovessero essere considerare assieme alla cultura locale (motivazioni psicologiche e comportamnti prevalenti) alla stregua di un limite che occorreva non solo ignorare, ma anche rimuovere.
Quanto sinora detto evidenzia che, per attuare un nuovo modello di sviluppo dell’Isola è necessaria una svolta riformatrice della politica regionale improntata ai più recenti paradigmi dello sviluppo locale. Il successo del nuovo modello di crescita ispirato a tale paradigma consentirebbe di collegare tra loro, in modo sistematico, i tre pilastri (Regione, comunità locali e mercato) sui quali dovrebbe essere fondata l’attuazione del nuovo modello di sviluppo ed il governo partecipato dell’economia regionale.
Chi vive in una regione come la Sardegna, che sinora ha fruito di abbondanti trasferimenti per la promozione di un processo di crescita, non riesce a liberarsi dal convincimento che le politiche di sviluppo regionali sinora attuate siano diventate solo veri e propri canali di selezione della classe dirigente locale. Si viene eletti, non per le capacità amministrative o per la visione politica, ma perché si è in grado di fare affluire risorse sul territorio per distribuirle fra i più disparati “clienti”; risorse svincolate da qualsivoglia visione del futuro del territorio regionale, perché impiegate sulla base di decisioni centralistiche delle istituzioni regionali.
Perdurando questa situazione diventata quindi ragionevole la presunzione che gli obiettivi dell’ottenimento di nuovi trasferimenti pubblici non siano la crescita o l’occupazione, ma, al contrario, la conservazione dell’establishment dominante e della prosperità della pletora di professionisti interessati all’impiego dei nuovi “aiuti pubblici”, nonché la “carriera” delle burocrazie locali.
Se si considera che le politiche d’intervento sinora attuate hanno avuto solo uno scarso (e a volte negativo) impatto sul sistema economico della Sardegna si può concludere osservando che, contrariamente a quanto suggerito da Fadda, la “Nuova Questione Sarda” non possa essere risolta mediante l’ottenimento di nuovi trasferimenti pubblici da utilizzare come si è fatto nel passato; essa può essere risolta solo mediante un approccio alla crescita regionale fondata sulla valorizzazione delle comunità locali, sotto il vincolo che l’impiego dei nuovi trasferimenti conduca, prima o poi, alla “comparsa” di un benché minimo tasso di accumulazione endogena.
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Notizie ASviS – Alleanza per lo Sviluppo Sostenibile

asvis-oghettoL’ASviS lancia la scuola di sostenibilità per Regioni e Province autonome

Anche la Regione autonoma della Sardegna sarà rappresentata da suoi funzionari.
- Aladinpensiero News è associata ASviS.
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slider_sito_territori_950x575Martedì 15 dicembre, alle ore 11, l’ASviS presenterà il primo Rapporto “I territori e gli Obiettivi di sviluppo sostenibile”
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Oggi venerdì 11 dicembre 2020

sedia-van-goghGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413filippo-figari-sardegna-industre-2 lampadadialadmicromicro13democraziaoggi-loghettosenza-titolo1
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————–Opinioni, Commenti e Riflessioni, Appuntamenti—————————–
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Max Leopold Wagner, a te neanche una viuzza. Che volete farci noi sardi sian fatti così: onoriamo chi ci bastona e dimentichiamo chi ci ama
11 Dicembre 2020 su Democraziaoggi.
Nei giorni scorsi ho letto sui giornali che la giunta di un piccolo comune sardo vuole togliere dalla propria toponomastica due savoia e intitolare le due vie ad Eleonora e ad un uomo illustre del luogo. Già altri comuni ci hanno provato, ma con difficoltà perché un decreto nientemeno di un savoia, il re sciaboletta, […]
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seminario-2020-12-11-ad-problemi-aperti
- Per collegarsi: https://www.facebook.com/events/192262422514697/
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Architettura: in mostra i 60 anni da prima pietra PirelloneEditoriali di AsViS
Il sistema istituzionale è caotico, occorre il concorso della società civile

Il ritardo del Mezzogiorno, l’evoluzione delle Regioni, le contese sul federalismo ci consegnano un assetto che fatica ad affrontare le sfide e le opportunità del nostro futuro. Per l’ASviS inizia un nuovo impegno, sui territori.

di Donato Speroni su AsViS

Anpi: “Per la repubblica, per il lavoro, per la rinascita, per la riforma intellettuale e morale”.

costituente
anpi-logo Il presidente provinciale di Cagliari dell’ANPI, Antonello Murgia, nell’aderire personalmente all’appello di un gruppo di cattolici sardi “Un Patto di tutti i sardi per la Sardegna”, ci invia la relazione del neoletto Presidente nazionale dell’ANPI, Gianfranco Pagliarulo, al Comitato nazionale del 20 novembre, che propone l’alleanza dei democratici in difesa della Costituzione con la costruzione di un progetto che rappresenti i più deboli ed i lavoratori. Aggiunge Antonello che su tali tematiche è urgente promuovere iniziative comuni nei nostri territori. Siamo d’accordo e ci impegniamo in tale direzione. Intanto della pregevole relazione, che troverete integrale nel sito web dell’ANPI, pubblichiamo le conclusioni che spiegano esaurientemente lo spirito e le finalità delle politiche dell’ANPI.

“Per una nuova fase della lotta democratica e antifascista”
La relazione del Presidente nazionale ANPI al Comitato nazionale ANPI del 20 novembre. Uno sguardo analitico sulla grave situazione sanitaria e sociale italiana (e internazionale) e le prospettive di grande alleanza per affrontarla in modo pienamente costituzionale

gianfranco-pagliaruloDALLA RELAZIONE DEL PRESIDENTE GIANFRANCO PAGLIARULO AL COMITATO NAZIONALE ANPI
Considerazioni conclusive
È il momento di trarre alcune considerazioni da questa situazione così complessa, contraddittoria e grave. Vige una generale incertezza, perché non è dato sapere né quando né come terminerà il dramma della pandemia, e tale incertezza di per sé condiziona il futuro per il mondo e per l’Italia. L’unica cosa certa – è stato scritto – è che con la pandemia i ricchi diventano più ricchi e i poveri più poveri.
L’anello debole principale della tenuta sociale è oggi dato sia da una middle class declassata e puntiforme, sia dall’esercito degli invisibili verso cui precipita parte della classe media, verso cui va la prestata la massima attenzione per le reali e gravissime difficoltà in cui versano, e anche per evitare l’esplosione di gravi tensioni sociali di cui ad oggi abbiamo avuto solo qualche segnale. Le azioni eversive dei fascisti sono la spia di un allarme democratico già evidente per le sconnessioni sociali, e mettono all’ordine del giorno una vera politica antifascista e antirazzista da parte del governo. Tale politica non è evidente e pare alle volte del tutto opaca nelle azioni e nelle dichiarazioni della ministra dell’Interno.
Il pessimo rapporto con le Regioni, lo scaricabarile di diversi loro presidenti, il loro ruolo oramai del tutto personalizzato e spesso al di fuori dei loro stessi partiti, pone a tema urgente, in un più ampio ragionamento sullo Stato, una riflessione sul Titolo V della Costituzione. Occorre salvaguardare maggiormente il fondamento dell’unità nazionale e garantire davvero l’eguaglianza dei diritti, dei servizi e delle tutele dei cittadini su tutto il territorio nazionale. A maggior ragione è inattuabile e inaccettabile qualsiasi programma di autonomia differenziata. La sostanza è che il buon dottor Jekill del presunto decentramento federalista si è concretamente trasformato nel malvagio mister Hide di una forza centrifuga rispetto al fondamento dell’unità nazionale.
In questi ultimi anni abbiamo assistito ad un ulteriore abbassamento della guardia nei confronti dei fenomeni di revisionismo storico, con una tendenziale equiparazione delle due parti in conflitto durante la Resistenza. Ma l’ultimissima generazione di storici sembra contrastare questa deriva con una rinnovata vis polemica. E’ opportuno che l’Anpi aggiunga alla relazione con storici della precedente generazione il rapporto con quest’ultima generazione che ha introdotto un interessante plus di impegno civile. Occorre insomma attrezzarsi per tempo a una battaglia che è sempre stata politica e che oggi ha i suoi bastioni a destra con le foibe, le speculazioni su Norma Cossetto, la risoluzione del parlamento europeo, e che riporti al centro del dibattito le gravissime responsabilità del fascismo: nel 39 l’Italia invadeva l’Albania, l’Italia entrava in guerra attaccando la Francia e poi la Grecia e poi, nel 1941, la Jugoslavia.
Da sempre l’Anpi ha operato nella direzione del contrasto ai neofascismi. Usciamo in particolare da stagioni di grande lavoro su questo terreno. Consapevoli che oggi questo impegno, pur necessario, non è più sufficiente, dobbiamo rapidamente aggiornare il nostro programma a questo proposito, cosa che faremo come segreteria e forse anche come presidenza nelle prossime settimane.
Il lavoro è propriamente campo dell’attività sindacale. Qui accenno soltanto al fatto che il covid ha costretto a cambiamenti radicali nell’organizzazione del lavoro, penso per esempio allo Smart working. Più in generale va affrontato il tema dell’integrazione degli stranieri nel mondo del lavoro. Si tratta di una questione essenziale sia per la diminuzione di manodopera italiana causata dal crollo demografico, sia per l’equilibrio finanziario degli istituti di previdenza, sia per la diffusione del lavoro nero e del lavoro schiavile a cui sono costretti migliaia e – credo – decine di migliaia di lavoratori stranieri. Tutto ciò non ci può impegnare in prima persona, ma ci chiama all’appoggio del movimento sindacale col quale dobbiamo cementare i già ottimi rapporti.
Il rapporto con le giovani generazioni è una priorità in generale e una priorità specifica per l’Anpi, perché esse sono il punto di intersezione più evidente col malessere delle periferie, perché l’Italia, come già detto, è uno dei Paesi col più alto tasso di crisi demografica, perché inevitabilmente una parte sempre maggiore delle nuove generazioni sarà formata da migranti di seconda o terza generazione, perché il fenomeno migratorio dei giovani italiani in cerca di lavoro all’estero è sempre più consistente, perché da questa generazione nascerà il gruppo dirigente di domani. Negli ultimi decenni la cultura dominante ha contrapposto gli interessi delle giovani generazioni a quelli degli adulti e degli anziani, contribuendo a creare nei giovani un senso di abbandono e di solitudine e contemporaneamente alzando l’età pensionabile per poi scoprire, al tempo del covid, che gli anziani sono più fragili degli altri. Questa cultura negativa e divisiva va combattuta proponendo una grande alleanza fra generazioni unita dai fondamentali.
I temi di una vita sociale “sostenibile” e della lotta al riscaldamento globale sono propri delle ultime generazioni, i millennials e la generazione Z. Gli effetti del riscaldamento globale stanno già avvenendo con esito potenzialmente catastrofico per la comunità umana. Non si tratta più – né mai lo è stato – di un tema per così dire aggiuntivo, ma di una questione centrale. Per di più sono proprio queste le generazioni con maggiore sensibilità ed attenzione al tema.
Per queste ragioni uno dei terreni di maggiore impegno dell’Anpi dev’essere quello della formazione, in specie nella scuola e nelle università. L’accordo Anpi Miur può essere un punto di partenza per una ricontrattazione che comprenda progetti complessi e a lungo termine e si rivolga ai discenti e ai docenti in un più generale disegno di riqualificazione civile della formazione.
Ancora sugli anziani: la crisi della socialità, la chiusura coatta dei luoghi di incontro costringe intere fasce di anziani, già sotto scacco per il pericolo del virus, all’isolamento forzoso, ad una solitudine tanto più triste quanto più avanzata è l’età. L’unica risposta è, per quanto possibile, una prossimità verso questa fascia che è la più debole e spesso la più sola.
Il dramma della pandemia mette a tema in modo nuovo e contestuale tre questioni: la presenza pubblica nell’economia, dopo decenni di demonizzazioni del pubblico e di privatizzazioni, a cominciare dalla sanità; la fruizione dei beni comuni, cioè delle risorse materiali e immateriali condivise dalla comunità: posso fare di questi un solo esempio per così dire di tipo nuovo? Il vaccino anti Covid; la sostenibilità ambientale. Tutti argomenti che mettono in discussione il postulato della società di mercato; non è in discussione – sia chiaro – l’importanza dell’economia di mercato; sono in discussione i limiti di tale economia e una organizzazione sociale e civile modellata sul mercato. Non si tratta soltanto – per esempio – della riduzione dei cittadini a consumatori. Ne è investita persino la politica, che “non è più una sana discussione sui progetti a lungo termine per lo sviluppo di tutti e del bene comune, bensì solo ricette effimere di marketing che trovano nella distruzione dell’altro la risorsa più efficace” (dall’enciclica Fratelli tutti, ottobre 2020).
Da Hobbes a Rousseau, il tema della sicurezza ritorna come ragione dell’esistenza stessa dello Stato. Noi dobbiamo forse tornare sull’argomento, contrastando le visioni forcaiole di tanta parte della destra che sovente trasforma questioni di ordine sociale in questioni di ordine pubblico. Va da sé che il senso di sicurezza dei cittadini va ben oltre le questioni di ordine pubblico e investe l’insieme delle attività dello Stato (compreso il tema della sicurezza sanitaria) e, nello specifico, attiene al corretto rapporto fra prevenzione e repressione dei reati. Noi dobbiamo ragionare sul tema dell’ordine democratico, cosa vuol dire, come si realizza, cosa comporta. Accenno solo a pochi temi: periferie, migranti, incidenti sul lavoro. Aggiungo: sicurezza come tutela della democrazia e delle sue istituzioni E concludo accennando allo spirito repubblicano che dovrebbe ispirare l’istituzione delle forze dell’ordine, cosa che avviene spesso, ma non sempre. Cito per esempio la recente promozione a vicequestore di due agenti di polizia condannati per i fatti di Genova, e ancor di più la motivazione di tale promozione causata, parole dei dirigenti, da “procedura amministrativa obbligata”.
La proposta
Ma arrivo ora a quello che vorrei fosse il cuore di questa relazione, la sua conclusione, la base ideale dei nostri compiti e delle nostre prospettive. Mi pare che noi dobbiamo avere una capacità di visione, cioè immaginare il futuro e praticare di conseguenza delle scelte.
A lunga scadenza, si propone il tema di una nuova statualità, cioè di un nuovo rapporto fra Stato (nelle sue più ampie articolazioni), società, corpi intermedi, che da un lato rilanci la repubblica alla luce delle lezioni della modernità, dall’altro torni allo spirito e anche alla lettera della Costituzione tramite la sua applicazione integrale e la piena attuazione dei diritti e dei doveri dei cittadini. Una nuova statualità non può che nascere da una grande “riforma intellettuale e morale” che richiede soggetti, energie e progetti ancora assenti, che vanno suscitati anche grazie all’associazionismo e al volontariato laico e cattolico. Questa è la risposta plausibile alla crisi della democrazia liberale, la cui unica soluzione è una democrazia sociale comprensiva dei suoi caratteri liberali, ma che si espande dando finalmente compimento alla prima e specialmente alla seconda parte dell’art. 3 Cost.
Questa riforma intellettuale e morale è un atto propriamente culturale, richiede cioè la comunione del patrimonio dei saperi e delle esperienze e il ruolo attivo del complesso mondo degli intellettuali contemporanei, e assieme richiede, come già detto, un progetto di riqualificazione della formazione, cioè della scuola e dell’università. La principale operazione culturale da fare è esattamente il contrario della cultura elitaria, perché si tratta di una trasmissione culturale che penetri nel profondo della società, nel suo ventre, dove allignano ignoranza e qualunquismo.
In questa grande prospettiva di cambiamento che dev’essere sostenuta in primo luogo dall’Anpi in un più ampio movimento popolare, si incarna e si inquadra l’antifascismo di oggi, che non può ridursi alla ovviamente necessaria negazione del fascismo, ma dev’essere conoscenza e coscienza della storia recente del Paese, e puntare sulla centralità della persona umana e dell’essere sociale. Della persona, perché la sua centralità è scomparsa nell’orizzonte reale del sistema di valori dominante, pur essendo il fulcro della Costituzione. Dell’essere sociale, perché la persona esiste e si realizza esclusivamente nelle relazioni con l’altro nello spazio e nel tempo. Le relazioni nello spazio sono quelle che determiniamo ogni giorno e coincidono con la nostra vita e con il lavoro.
Le relazioni nel tempo sono quelle che determiniamo tramite la memoria, cioè il rapporto con persone ed eventi del passato. La memoria è uno degli attributi dell’umanità in quanto esseri sociali. La grande scatola sociale della memoria, cioè del segno di ciò che è avvenuto, è la condizione per pensare a ciò che avverrà, cioè al futuro. Anche da questo punto di vista è attuale la nostra idea di memoria attiva. La persona e il suo essere sociale sono il soggetto della Costituzione, che definisce diritti e doveri dell’umano “sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” (art. 2 Cost.).
In questa misura l’antifascismo si deve riproporre come religione laica, repubblicana, da un lato, e come punto di convergenza di diverse culture dall’altro, in sostanza come cemento ideale e pratico di un nuovo blocco sociale che porti l’Italia fuori dalle secche della crisi utilizzandola come occasione del cambiamento, ciò che non è avvenuto in occasione della prima crisi, avviatasi in America nel 2007/8 e che rischia di non avvenire anche in questa drammatica circostanza. In una visione del mondo che mette al centro le persone e i comportamenti politici, sociali e culturali che ne conseguono, l’antifascismo del tempo d’oggi si può legittimamente definire un nuovo umanesimo.
In questo scenario vanno contestualizzati i valori generali che abbiamo ereditato dalla Resistenza, e cioè giustizia sociale, libertà, democrazia, solidarietà, pace.
Ciascuno di questi temi va riconiugato nella concretezza della situazione attuale, uscendo dalle secche dell’enfasi e della retorica e ricercandone il senso nelle diverse articolazioni della società, ma anche e per alcuni versi specialmente nelle diverse articolazioni dello Stato.
Una speciale attenzione va posta nei rapporti col mondo cattolico oggi profondamente diviso. In particolare nella lettura dell’enciclica Fratelli tutti si troveranno diversi punti di larga condivisione, sui quali è possibile un percorso comune con l’associazionismo che in forme dirette o indirette si riferisce al mondo cattolico. Più in generale va notato che su punti qualificanti l’aspra competizione interna alla chiesa cattolica fra Bergoglio e i suoi critici corrisponde alla competizione fra democratici e nazionalpopulisti nel mondo, e che l’insieme del pensiero del pontefice ruota attorno al valore della persona umana, valore da noi laicamente condiviso.
Su tutti questi temi dobbiamo immaginare un programma di aggiornamento dei nostri gruppi dirigenti con particolare attenzione ai temi del fascismo, del razzismo e delle tensioni sociali sullo sfondo della Costituzione. Dovremo studiare anche la ricaduta di questi temi sui programmi di formazione.
Ma va da sé che, se si condividono le cose che ho detto, dobbiamo impegnarci nella lenta e faticosa costruzione di un vastissimo fronte popolare che deve passare attraverso la mobilitazione del mondo dell’associazionismo e del volontariato e deve trovare alleanze e sponde nei partiti democratici e nelle istituzioni. La chiave unitaria è l’unica chiave possibile per combattere il degrado e per avanzare una risposta positiva che comprenda il contrasto a fascismi, razzismi, nazionalismi e disegni un passo avanti di civiltà.
Quello che propongo in sostanza è che l’Anpi sia promotrice di una grande alleanza democratica e antifascista per la persona, il lavoro e la socialità. Un’alleanza che unisca tendenzialmente ogni energia disponibile dell’associazionismo, del volontariato, del cosiddetto Terzo settore, del movimento sindacale, un’alleanza che guardi al dramma presente attraverso i valori della solidarietà e della prossimità, – due parole chiave – ma guardi al futuro, affinché l’Italia del dopo Covid non sia la restaurazione dei modelli economici e valoriali del recente passato, ma si avvii sulla strada del cambiamento. Un solo esempio: il recente passato ha visto il trionfo delle diseguaglianze. O ci sarà una svolta vera, oppure il futuro le riproporrà in forma ancora più grave. E cosa può essere questa alleanza se non un’alleanza per la Costituzione? So bene che è prospettiva difficile per la realtà di un Paese che manifesta oramai una fortissima presenza dell’estrema destra a fronte di una debolezza politica delle forze democratiche, ma proprio per questo oggi non basta più rispondere colpo su colpo, giocare di rimessa; c’è bisogno di avviare un processo di ricostruzione pur navigando a vista, partendo dall’interno della società, ricomponendo ciò che è disperso, unendo ciò che è diviso, restituendo socialità dove c’è solitudine.
Riconvocheremo penso a dicembre il famoso tavolo dei 23, ripensandolo profondamente, allargandolo in modo significativo e operando in quantità e in qualità. In quantità dovremo estendere gli inviti ad altre grandi associazioni laiche e cattoliche interessate a questo progetto, in qualità perché dovremo proporre una unità antifascista che comprenda il contrasto ai fascismi e ai razzismi ma vada oltre, e proponga idee, suggerimenti, suggestioni, perché oggi un grande cambiamento antifascista è un grande cambiamento generale sulla via della civiltà e del progresso sociale. Noi dobbiamo contribuire a creare una nuova prospettiva. L’Anpi può essere il sale, il detonatore, l’innesco di una proposta generale incardinata sull’attuazione della Costituzione e declinata nel tempo che viviamo.
Se si vede bene, non è una novità assoluta. Come ci ha ricordato Smuraglia in una lunga mail dell’aprile di quest’anno, ci sono momenti della vita nazionale in cui l’Anpi di sempre – scriveva – dev’essere qualcosa di più incisivo e aggiornato. E il presidente emerito faceva due calzanti esempi: contro la legge truffa nel 1953, contro Tambroni nel 1960. Siamo in uno di quei momenti di svolta con una differenza: allora intervenimmo giustamente contro.
Oggi dobbiamo intervenire per. Per la repubblica, per il lavoro, per la rinascita, per la riforma intellettuale e morale. Su questi temi ho sondato il terreno di una disponibilità per ora con Maurizio Landini, Anna Maria Furlan, Don Ciotti, Francesca Chiavacci, Beppe Giulietti, Mattia Santori e Jasmine Cristallo, del movimento delle sardine e ho trovato un consenso davvero molto forte e motivato. Perché? Perché vedono nell’Anpi quei fondamentali di cui parlavo all’inizio.
Quando tutto è in crisi si guarda a chi ha i fondamentali. E dobbiamo uscire dal Comitato nazionale con un’idea che esprima preoccupazione e fiducia, che inneschi un motore per uscire dalla crisi, che proponga, come accennavo, una capacità di visione.
Ho finito. La nostra è una lotta iniziata con la Resistenza, segnata dalla Liberazione, ma poi continuata in modo sotterraneo o manifesto in mille forme. Nei giorni scorsi lo storico Claudio Dellavalle mi ha inviato una bellissima mail a proposito della scomparsa di Carla.
Ha fra l’altro scritto: “Penso che Carla ci abbia offerto un linguaggio e un modo di porsi che dovremmo cercare di salvaguardare perché è come guardare con occhi nuovi un impegno che viene da lontano”. Mi ha ricordato una nota frase di Marcel Proust: “Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”. Ecco, essere partigiani oggi. Il nostro impegno richiede questo cambio di passo che ho citato all’inizio: dobbiamo avviare una nuova fase della lotta democratica e antifascista.