Risultato della ricerca: reddito di cittadinanza Gianfranco Sabattini
Oggi domenica 25 marzo 2018
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Reddito di esistenza, diritto universale della persona
25 Marzo 2018
Roberto Ciccarelli
Luigi Ferrajoli nel suo ultimo libro “Manifesto per l’uguaglianza“, Laterza, dedica il cap. 6 al reddito minimo garantito. In questa intervista il filosofo e giurista anticipa e riassume la sua posizione favorevole, spiegandone le ragioni: «La povertà dilagante è uno degli effetti delle diseguaglianze create da politiche che hanno soppresso i vincoli del mercato». «240 miliardi di euro trasferiti dal lavoro al capitale, ora è giunto il momento di restituire il maltolto». Articolo riproposto da Democraziaoggi e da Aladinews.
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Oggi lunedì 19 marzo 2018
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Il reddito di cittadinanza, molti ne parlano a sproposito. Istruzioni per l’uso
19 Marzo 2018
Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi.
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SOCIETÀ E POLITICA » TEMI E PRINCIPI » POLITICA
Oggi le priorità definiscono la coalizione
di UGO MATTEI E ALBERTO LUCARELLI
Il Fatto Quotidiano, 17 marzo 20018, ripreso da eddyburg e da aladinews. Due autorevoli esponenti della sinistra che ancora non c’è indicano il modo sensato per uscire dall’impasse politica e istituzionale. Mattarella avrà il coraggio necessario?
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Ma la sinistra ha un futuro in Sardegna?
di Franco Mannoni By sardegnasoprattutto/ 19 marzo 2018/ Società & Politica/
Portovesme, bacino fanghi bauxite.
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Reddito di cittadinanza
Il reddito di cittadinanza non è strumento per il superamento del capitalismo
di Gianfranco Sabattini*
Di recente è comparso in libreria un volume, curato da Willy Gianinazzi, che raccoglie alcuni scritti di André Gorz, col titolo “Il filo rosso dell’ecologia”. Tra gli scritti, ve ne è uno dedicato al ruolo del reddito di cittadinanza, che Gorz chiama “reddito di esistenza”; l’argomento era stato trattato originariamente dal filosofo-economista francese nel libro intitolato “L’immateriale. Conoscenza, valore e capitale”, edito in francese e in italiano nel 2003, pochi anni prima che Gorz morisse.
Come filosofo, Gorz è sempre stato portatore di un pensiero anti-economista, anti-utilitarista e anti-produttivista, che l’ha condotto a rifiutare la logica capitalista delle crescita continua e del consumismo; la sua opposizione all’individualismo edonista e utilitarista, come al collettivismo materialista e produttivista, ha sempre riflesso l’importanza che egli ha assegnato alla rivendicazione del valore sociale della persona, strettamente coniugata alla corrispondente rivendicazione dell’autonomia dell’individuo.
E’ impossibile formalizzare un corpus stabile e coerente del pensiero di Gorz, perché egli è sempre stato propenso ad affermare il suo anti-economismo, anti-utilitarismo e anti-produttivismo, in funzione dell’impatto che sul suo pensiero hanno avuto i problemi di maggior rilievo insorgenti durante l’evoluzione delle modalità di funzionamento dei siatemi capitalistici. Agli effetti dell’”ondivagare” della sua riflessione filosofica sui problemi di natura economico-sociale, non è risultato estraneo il ruolo e la funzione del reddito di cittadinanza.
Riguardo, appunto, al reddito di cittadinanza (o reddito di esistenza, secondo il lessico di Gorz) il “pensiero gorziano – afferma nell’Introduzione il curatore del libro Willy Gianinazzi – non ha smesso di evolversi e di approfondirsi. Nel 1990 Gorz credeva soprattutto che un reddito garantito incondizionato rischiasse di scavare un fossato tra i lavoratori integrati e quelli considerati come semplici scarti”.
All’inizio del nuovo secolo, l’erogazione del reddito di esistenza è stata invece connessa al riconoscimento delle potenzialità “sovversive” della ‘produzione di sé’”, nel senso che esso consentirebbe l’autorealizzazione dell’individuo, indipendentemente dalla valorizzazione del capitale. Il reddito di esistenza, secondo Gorz – acquisterebbe così “tutto il suo significato se venisse concepito – secondo Gianinazzi – come uno strumento utile a favorire lo sviluppo di attività non mercantili, come quelle legate all’economia solidale, o la nascita di attività locali di autoproduzione individuali o collettive che potrebbero contribuire alla produzione di nuove ricchezze”; ricchezze fatte di “valori d’uso non misurabili e dall’estensione di legami sociali”. In altre parole, per Gorz, se il reddito di esistenza fosse erogato solo per rendere possibile il consumo, non si farebbe altro che alimentare il feticismo del denaro, con il risultato di mantenere i suoi beneficiari sotto il giogo del capitalismo.
Sia l’interpretazione che nel 1990 Gorz ha dato del reddito di esistenza, inteso come reddito incondizionato, sia quella formulata dallo stesso Gorz all’inizio del nuovo secolo sono estranee al significato e alla funzione del reddito incondizionato che coloro che l’hanno formalizzato in tempi successivi hanno inteso assegnargli. All’origine James Meade ha attribuito al reddito di cittadinanza, inteso come reddito universale e incondizionato erogato a favore di tutti i cittadini, in sostituzione del più “burocratizzato” (e non equitativo sul piano distributivo) welfare State; a metà degli anni Ottanta del secolo scorso, un gruppo di economisti, facenti capo all’Università di Lovanio, hanno finalizzato il reddito di cittadinanza alla compensazione della crescente insicurezza reddituale della forza lavoro (in stato di disoccupazione irreversibile, originata dalle moderne forme di funzionamento de capitalismo), con l’intento di realizzare le condizioni di una stabilità economica compatibile con una condivisa equità distributiva.
Gorz, assegnando al reddito di esistenza un ruolo ed una funzione “eversivi” e di superamento del capitalismo, si pone fuori dalla prospettiva degli economisti di Lovanio; ciò determina l’insostenibilità del suo assunto che vorrebbe che il superamento dell’”ordine economico” esistente possa determinarsi con l’erogazione di un “reddito sociale”, reso disponibile proprio dall’”ordine” che dovrebbe essere superato, grazie soprattutto, secondo la sua analisi, con l’avvento dell’”economia della conoscenza”.
La rivoluzione informatica, afferma Gorz, “ha dato avvio, facendo delle differenti forme di conoscenza la principale forza produttiva, a quelle trasformazioni che hanno messo in crisi le categorie fondamentali dell’economia politica. La cosiddetta economia della conoscenza [...] non è altro che un capitalismo che cerca di ridefinire le sue categorie chiavi – il lavoro, il valore, il capitale – e che facendo questo si estende a domini che fino ad ora erano sfuggiti alla sua logica”. Gorz spiega il processo di formazione dell’economia della conoscenza e dei suoi effetti nei termini che seguono.
Con l’avvento dell’informatica, ogni risultato dell’attività lavorativa ha acquisito una “componente cognitiva sempre più determinante”; si è trattato di una componente non formalizzata e codificata, ma “di competenze acquisite con l’esperienza pratica”; il modo in cui tali competenze sono impiegate “non è mai né predeterminato, né dominabile. E’ un fatto che dipende dall’investimento di se stessi nel lavoro”, che non è il lavoro di Smith o di Marx, dal quale origina il valore sostanziale, comune a tutte le merci prodotte, ma una conoscenza immateriale, considerata dalle imprese il loro “capitale umano”. Esse si appropriano di questo capitale, facendo diventare i lavoratori stessi degli imprenditori, responsabili del loro lavoro, mentre la “loro messa in concorrenza [...] serve a costringerli ad interiorizzare l’imperativo del profitto”. In questo modo, il lavoratore diventa un’impresa e lo “sfruttamento è rimpiazzato dall’autosfruttamento”, del quale si avvantaggiano le imprese, alle quali gli “imprenditori di se stessi” vendono il risultato della propria attività lavorativa.
Il conflitto centrale che in tal modo viene a determinarsi, tra forza lavoro e capitale, non mette in causa il “dominio” che quest’ultimo ha esercitato fino ad oggi sugli uomini, per mezzo delle macchine; mette “in causa l’egemonia dominatrice dello spirito tecnoscientifico – della razionalità ‘cognitivo-strumentale’ che ha fornito alla tecnica i mezzi di ‘violare e schiavizzare’ tutto l’Esistente”. Se si mette in discussione la strumentalizzazione con cui sinora il capitale si è espanso, allora – afferma Gorz – “bisogna mettere in discussione anche tutto l’indirizzo delle scienze”; perché le scienze sono sempre state un parente stretto del capitale, e viceversa. Ora, poiché la digitalizzazione della conoscenza ha determinato un processo di espansione del capitale, per la cui creazione la forza lavoro, pur in presenza di una crescente disoccupazione, è divenuta sempre meno necessaria, diventa urgente e inevitabile l’introduzione di un reddito di esistenza.
Questo reddito, però, non può essere finanziato secondo le modalità tradizionali; ciò perché il finanziamento dovrebbe avvenire all’interno di un’economia che “produce sempre più merci con sempre meno lavoro produttivo di capitale”; quindi un’economia che, pur in presenza dell’accrescimento della produttività, distribuisce sempre meno mezzi di pagamento, rendendo inevitabile una generalizzata instabilità, qualora si pretendesse il suo concorso al mantenimento della crescente disoccupazione, attraverso il finanziamento di crescenti trasferimenti di reddito “tramite prelievi fiscali sui salari e sul plusvalore”.
In tal modo, l’erogazione di un reddito di esistenza rivela, secondo Gorz, la necessità di un’altra economia, per via dell’obsolescenza di quella “fondata sul lavoro mercantile”. Di conseguenza, l’erogazione di un reddito di esistenza cessa di avere lo stesso ruolo e la stessa funzione delle sue forme anteriori. Queste, sempre secondo Gorz, si limitavano a richiedere allo Stato sociale la rivendicazione di una parte del “plusvalore prodotto”; ora, l’erogazione di un reddito di esistenza è imposta dalla necessità del superamento del capitalismo.
Perché questa prospettiva di trascendimento del capitalismo possa diventare reale, l’erogazione del reddito di esistenza deve essere ricondotta al fatto che la disoccupazione delle forza lavoro non significa ”né inattività sociale né inutilità sociale”, ma soltanto estraniazione di una quota crescente delle forza lavoro dalla creazione di capitale; una parte di quest’ultimo, essendo esso un “bene collettivo”, viene “messa in comune”, attraverso il reddito di esistenza, per il mantenimento delle forza lavoro involontariamente disoccupata.
In questo modo, conclude Gorz, si ha uno “spostamento” della giustificazione del reddito di esistenza, che da economica, diventa politica; ciò vale a rendere lo sviluppo di tutte le “disposizioni creatrici” degli uomini un “fine in se stesso”, perseguito “perché lo si desidera e non come una produzione di sé obbligata, richiesta dall’imperativo di occupabilità”. Il reddito di esistenza, perciò, nella prospettiva di Gorz, fuori dalla logica capitalistica, assume il significato non di “un reddito di consumo ordinario grazie al quale dei disoccupati possano acquisire tutte le merci che sono loro indispensabili”, ma di un reddito per il consumo di beni prodotti sulla base di una divisione del lavoro sociale affrancata dalla logica propria del modo di produzione capitalistica.
Ciò che Gorz manca di considerare è che il finanziamento di un reddito di esistenza, come egli lo intende, pone inevitabilmente un problema irrisolvibile sul piano macroeconomico, in quanto non viene spiegato come tale forma di reddito possa essere finanziata; se il reddito di esistenza è concepito come strumento per il superamento del modo di produzione capitalistico e non come misura di una politica economica a sostegno della redditualità di chi perde involontariamente lo status di occupato, occorre giustificare il modo in cui, dal punto di vista macroecoenomico, un sistema produttivo che, utilizzando sempre meno lavoro, per effetto del progresso tecnico-scientifico, e distribuendo sempre meno salari, possa continuare a conservarsi funzionante. In altri termini, occorre giustificare come un sistema economico fondato sulle modalità di funzionamento descritte da Gorz possa evitare il collasso, se il reddito di esistenza viene sottratto al ruolo di stabilizzatore del processo produttivo, per essere destinato al finanziamento del “consumo ordinario”, grazie al quale i disoccupati possano acquisire i beni dei quali abbisognano. In mancanza di ciò, diventa ardua la spiegazione del come può essere finanziato il reddito di esistenza.
In conclusione, la concezione gorziana di un reddito di cittadinanza non finalizzato a garantire la stabilità di funzionamento del sistema economico e l’equità distributiva, con l’erogazione di un reddito a favore della forza lavoro in condizione di instabilità occupazionale (involontaria e irreversibile), non sfugge alla considerazione critica che può essere formulata nei confronti di tutte le proposte volte a svincolare il reddito di cittadinanza (o reddito di esistenza) dall’esigenza che esso risulti strumento per il conseguimento dell’equilibrio macroeconomico del sistema produttivo.
In altre parole, la proposta di Gorz di assegnare al reddito di esistenza una funzione diversa da quella che gli è stata attribuita, per rimuovere i limiti del welfare State, non può che risultare contraddittoria rispetto al corretto funzionamento del mercato capitalistico, cui è finalizzata l’erogazione del reddito di cittadinanza correttamente inteso.
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* Anche su Avanti online
Foto in testa a sn: Boccioni Forme_uniche_della_continuità_nello_spazio
Oggi giovedì 25 gennaio 2018
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La Cina, potenza protesa al dominio del mondo?
25 Gennaio 2018
Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi.
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E bravo Massimino!
25 Gennaio 2018
Amsicora su Democraziaoggi.
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Corso Sucania
2° giornata: 25 gennaio 2018,
dalle ore 15 alle ore 19
LE MIGRAZIONI COME FENOMENO
ECONOMICO Interventi:
-Dott. Andrea Corsale, Università degli Studi di Cagliari “La geografia della popolazione e delle
migrazioni nel mondo attuale” -Prof.ssa Monica Iorio,
Università degli Studi di Cagliari “Immigrazione ed economia” -Prof. Roberto Cherchi,
Università degli Studi di Cagliari, “Diritti fondamentali e cittadinanza” -Prof. Enrico M. Mastinu, Università degli Studi di Cagliari,
“Immigrazione e welfare”
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Gli editoriali di Aladinews.
di Roberta Carlini, su Rocca.
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Reddito di cittadinanza, reddito minimo garantito e reddito d’inclusione. Facciamo chiarezza.
Su Il Fatto quotidiano.
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Impegnati per il Lavoro e per il Reddito dignitosi per tutti
Su segnalazione del prof. Gianfranco Sabattini pubblichiamo un articolo di Riccardo Sorrentino, giornalista esperto di economia del Sole24ore – traendolo dal suo blog - e ascrivendolo alla documentazione utile per il nostro lavoro preparatorio al Convegno su Lavoro e Reddito di Cittadinanza, programmato (seppur non ancora definito) dal Comitato d’Iniziativa Costituzionale e Statutaria. L’articolo di Sorrentino non è certo di facile lettura per quanti non appartengono alla categoria degli economisti o comunque di quanti praticano/studiano la scienza economica, tuttavia dà conto anche per i non esperti del quadro teorico generale in cui si situa il dibattito sull’argomento di nostro specifico interesse, quello del Lavoro/Reddito di Cittadinanza. Al riguardo citiamo un passo dello stesso articolo: ” …La rivoluzione di Marx non si è però verificata, neanche nei paesi che al marxismo hanno voluto richiamarsi, e la profezia di Keynes non si è verificata; mentre la disoccupazione tecnologica è un problema serio e non risolvibile in tempi rapidi. Oggi si punta piuttosto al reddito di cittadinanza“. Buona lettura!
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I 150 anni del «Capitale» e l’equilibrio economico generale
di Riccardo Sorrentino, blog Sole24ore
(nella foto, dedica di Karl Marx a Johann Eccarius, segretario generale della prima Internazionale: da una copia del 1867 del Capitale attualmente in vendita a Vienna, presso Antiquariat Inlibris Gilhofer Nfg, a 1.500.000 euro)
Quell’odore di zolfo
Era il 14 settembre 1867. Un editore di Amburgo, in Germania, pubblica un ponderoso testo di economia: Das Kapital, il Capitale, scritto da Karl Marx. Era il primo volume, l’unico completato dall’autore: gli altri due – o tre se si comprende anche la parte storica, le Teorie del plusvalore – sono l’elaborazione dei manoscritti postumi compiuta da diversi curatori: Friedrich Engels, Karl Kautsky alla fine dell’800 e, più recentemente, Maximilien Rubel. Non fu un successo editoriale, con gran delusione dell’autore; ma il libro è notissimo, a volte famigerato. Da esso emana ancora un diabolico odor di zolfo. È paradossale, ma a differenza del Manifesto del partito comunista – che davvero agitò le masse ma che con il suo elogio del capitalismo permette un suo recupero culturale selettivo – un articolato apprezzamento del Capitale fa correre il rischio ancora oggi di apparire come un rivoluzionario sostenitore di alcuni tra i peggiori regimi politici degli ultimi 100 anni.
Marx è morto e neanche il socialismo si sente troppo bene…
Sono passati 150 anni dal giorno della pubblicazione. Da allora la scienza economica ha compiuto enormi passi avanti (e ha cambiato paradigma). Così la statistica, e quindi l’econometria, che si occupano della verifica empirica delle teorie e dei modelli. Il socialismo centralizzato auspicato dai seguaci di Marx conosce inoltre proprio in questi giorni l’ultima grande sconfitta, e la peggiore: il Venezuela, con le più grandi riserve petrolifere al mondo, perde tragicamente il confronto economico – superficiale quanto si vuole, ma non del tutto peregrino – con l’autocratica e teocratica Arabia Saudita, che ha una popolazione di analoghe dimensioni.
Un testo da leggere
Eppure, come avvertiva l’economista austriaco Joseph Schumpeter – non certo sospettabile di simpatie per il comunismo – il Capitale non va dimenticato. A maggior ragione oggi che non è più la Bibbia per nessuno: se si legge ancora Platone e la sua Repubblica non si vede perché non si possa studiare Marx. Il Capitale è infatti un testo filosofico, prima che economico: ha come sottotitolo “Critica dell’economia politica” e ‘critica’, in questo caso, ha un significato kantiano ed hegeliano. Come la Critica della ragion pura è una critica interna della ragione, di cui vengono individuati i limiti, come la filosofia hegeliana procede attraverso una critica interna, che ne individui le contraddizioni, di ogni forma dello spirito, così quella di Marx è una critica interna all’economia politica del suo tempo. L’idea di fondo è quella di mostrare che l’economia politica è contraddittoria, e lo è perché contraddittoria – e non semplicemente conflittuale – è l’economia capitalista: un modo decisamente hegeliano di procedere. Quella del Capitale è allora una critica diversa quindi da quella proposta da Piero Sraffa nel suo Produzione di merci a mezzo di merci: un’introduzione alla critica dell’economia politica, che è invece una critica esterna, non è filosofica ma economica, e punta a stabilire un paradigma diverso da quello marginalista e marshalliano.
Filosofia e capitalismo
Il testo di Marx è stato uno dei primi – ma non si dimentichi il precedente di Hegel – ad affrontare filosoficamente il tema dell’economia. Alcuni tra gli economisti classici – Adam Smith, ma anche John Stuart Mill – erano anche filosofi; da altri – compresi John Maynard Keynes o Amartya Sen – è possibile “estrarre” un pensiero che vada oltre il discorso scientifico; tanti altri filosofi (e scienziati sociali) si sono occupati in qualche modo di economia, ma è stato Marx per primo che ha posto al centro del suo pensiero il capitalismo come l’orizzonte nel quale agivano e pensavano gli uomini e le donne del suo tempo (e quelle di oggi). Adottando peraltro un’idea conflittuale – ma anch’essa filosofica, hegeliana: è la dialettica del padrone e dello schiavo (salariato, in questo caso…) – della società: l’idea dello scontro tra proletari e borghesi che non è solo decisamente superata – la borghesia non esiste più, e i proletari sono quantomeno cambiati – ma ha anche creato molti danni al movimento socialista, proprio perché interpretata sociologicamente e non filosoficamente. Un approccio basato sul conflitto sociale – in un contesto sociologico e non certo filosofico – è stato peraltro adottato da studiosi liberali di alto livello, si pensi a Raymond Aron e a Ralf Dahrendorf.
I fraintendimenti sul Capitale
Da una lettura oggi, superato il gergo hegeliano – ma Marx era in fondo un hegeliano, molto più vicino all’idealismo di quanto si voglia immaginare – emergeranno così, tra l’altro, i mille fraintendimenti che le opposte ideologie in guerra hanno diffuso sul Capitale. Per esempio, a Marx non interessa l’eguaglianza dei redditi o delle ricchezze (non ne parla, infatti). Per Marx non è vero che i beni sono scambiati in base al valore-lavoro: anche per lui, come per tutti gli economisti, i prezzi sono definiti da domanda e offerta. Né è presente nell’opera una previsione del crollo del capitalismo. La logica interna del trattato è, piuttosto, quello di mostrare che anche un’economia in cui i prezzi sono per così dire “giusti” – cioè corrispondenti al valore-lavoro – è destinata a cadere periodicamente in crisi. Nulla di particolarmente rivoluzionario: per capire che il capitalismo è soggetto alle crisi, in fondo basta leggere il Sole 24 Ore. O guardare fuori dalla finestra…
Marx e la disoccupazione tecnologica
Quella che è rivoluzionaria è la spiegazione della crisi offerta dal Capitale che, a prescindere dalle opinioni politiche di ciascuno di noi, non può che suonare attuale, anche dopo aver fatto i conti con il progresso della scienza economica (che occorrerebbe peraltro conoscere bene…). Secondo Marx – semplificando, e molto – ciascun imprenditore, in un sistema economico decentrato, ha l’incentivo ad adottare tecnologie che riducano l’apporto del lavoro. Così facendo, però, la disoccupazione aumenta e la domanda si riduce: i prodotti offerti non sono venduti, il tasso di profitto crolla, e l’economia va in crisi. Esistono, secondo il filosofo di Treviri, molte forze che si oppongono a questa tendenza, che però non scompare perché legata al desiderio di massimizzare il profitto. Anche in questo caso, al di là dell’effettiva validità della teoria marxiana nella sua totalità, non c’è nulla che sia troppo lontano dall’attualità: l’idea che la tecnologia – intesa però come variabile esogena – sia la causa delle recessioni è ancora oggi discussa (è la teoria dei real business cycles), mentre i timori che la tecnologia crei disoccupati cronici e irrecuperabili sono oggi molto forti.
Lavorare meno…
La soluzione, per Marx, è la creazione consapevole di un sistema – da lui chiamato comunista perché privo dell’incentivo del profitto e quindi della proprietà privata, e al tempo stesso coordinato politicamente e non più decentrato e ‘anarchico’ come il mercato – che usi la tecnologia e gli aumenti di produttività per ridurre il tempo destinato al lavoro, rendendo uomini e donne liberi di… pescare, cacciare o fare i critici. Un’idea, quella della liberazione dal lavoro, non diversa dalla profezia – una previsione, in questo caso – di John Maynard Keynes (le Possibilità economiche per i nostri nipoti) che il capitalismo, invece, apprezzava molto e voleva salvare (si veda Capitalist Revolutionary: John Maynard Keynes, di Roger E. Backhouse e Bradley W. Bateman). La rivoluzione di Marx non si è però verificata, neanche nei paesi che al marxismo hanno voluto richiamarsi, e la profezia di Keynes non si è verificata; mentre la disoccupazione tecnologica è un problema serio e non risolvibile in tempi rapidi. Oggi si punta piuttosto al reddito di cittadinanza.
Il Capitale come testo di economia
Il Capitale è stato a lungo letto anche come un testo di scienza economica. Dai socialisti come dai critici del marxismo. In un’ottica hegeliana non è del tutto sbagliato che una critica all’economia politica sia direttamente anche una critica e quindi un’analisi critica dell’economia, anche se questo approccio ha creato qualche perversione: di fronte a un fenomeno economico – notava Joan Robinson – un economista valuta dati e teorie, un marxista la loro interpretazione alla luce del “sacro testo”. Marx si muove inoltre all’interno dell’economia classica – Adam Smith, David Ricardo, John Stuart Mill – al punto da poter essere considerato un esponente di quella scuola, ormai totalmente superata: la scienza economica non si è semplicemente evoluta, ma ha cambiato paradigma, e i suoi strumenti teorici sono completamente cambiati. Alla fine dell’Ottocento non sono però mancati economisti marxiani non comunisti né socialisti.
Marxisti contro Marx
La storia della recezione del Capitale da parte degli economisti è curiosa: dopo le critiche di Ladislaus von Bortkiewicz, e successivamente in base al teorema di Okishio, tutti i marxisti hanno abbandonato la “legge tendenziale” – un concetto che Marx ha mutuato da John Stuart Mill e che lui stesso riteneva frenata da mille altre forze e iniziative politiche – della caduta del tasso di profitto, che era il vero cuore del trattato. Al punto da rifiutare in toto il recente lavoro di alcuni economisti americani che, nel tentativo di rendere il Capitale un testo coerente, sono in grando di salvare proprio questa legge. Tra questi c’è Andrew Kliman (Reclaiming Marx’s ‘Capital’: A Refutation of the Myth of Inconsistency, e The Failure of Capitalist Production: Underlying Causes of the Great Recession) pronto peraltro ad ammettere, correttamente, che la coerenza interna dell’opera non ci dice nulla sulla verità e della validità delle teorie che presenta.
Alla ricerca di un’alternativa
Marx criticava la moderna teoria economica per superarla. Le moderne scuole eterodosse puntano così a creare un paradigma diverso. Una scelta del tutto legittima, ovviamente, i cui esiti non sono scontati. Marxisti – ormai da più di un secolo – neo-ricardiani, postkeynesiani (che spesso sono in realtà seguaci dell’economista marxiano Michał Kalecki) cercano di aprirsi un’altra strada rispetto all’economia mainstream. Al di là di ogni valutazione della validità dei loro risultati, questi studiosi si muovono però spesso in polemica anche aspra tra loro e con una limitata capacità – come aveva notato Luigi Pasinetti (Keynes and the Cambridge Keynesians: A ‘Revolution in Economics’ to be Accomplished, tradotto in italiano come Keynes e i keynesiani di Cambridge) – di collaborare e fare crescere un approccio organico e scientifico all’economia. Un nuovo paradigma, del resto, non viene creato e non si impone con un atto di volontà, ma deve rispondere a serie considerazioni scientifiche e, soprattutto, essere un lavoro in un certo senso collettivo, come avviene in qualunque settore scientifico.
La lezione di Marx
Cosa farebbe invece un Marx di oggi? Ammesso che la domanda abbia davvero senso, lavorerebbe all’interno del paradigma dominante e quindi, inevitabilmente, della teoria dell’equilibrio economico generale. La teoria è uno dei massimi risultati della scienza economica moderna – sono stati necessari 70 anni per completarla, e continua a essere sviluppata – e si può tranquillamente affermare che non è possibile comprendere davvero l’economia senza capire quella teoria, nella sua formulazione a n mercati (e non in quella, semplificata, a due mercati dei testi introduttivi di microeconomia). Nella sua formulazione più “pura”, la teoria mostra che, in presenza di alcune condizioni, esiste davvero un sistema unico dei prezzi che faccia coincidere domanda e offerta, e che questo sistema – indipendente dalla distribuzione iniziale del reddito – è anche il più efficiente. Non è questo però il punto – le condizioni sono piuttosto astratte – ma la potenzialità che offre di capire come si muove l’intero sistema economico.
La teoria dell’equilibrio economico generale
Per molti economisti radicali, questa teoria è il cavallo di Troia del liberismo, un risultato di pura ideologia, ma non è così: non si fraintenda il concetto di “equilibrio”. Kenneth Arrow, che con Gérard Debreu – e, in via indipendente, Lionel McKenzie – ha completato la dimostrazione della teoria nel 1954, ha ben spiegato che è piuttosto il paradosso di Condorcet – sulla possibile incoerenza delle decisioni politiche democratiche – l’argomento a favore del liberismo. Lui stesso, del resto, in uno studio ancora fondamentale, ha mostrato che non è opportuno affidare la sanità al libero mercato per la particolare struttura della domanda e dell’offerta in quel settore.
Marx prima di Walras
Marx è molto lontano da questo approccio? Non nel tutto. In General Competitive Analysis, scritto con Frank Hahn, lo stesso Arrow richiama l’attenzione sull’opera del rivoluzionario tedesco: “in un certo senso – scrive – Marx si è avvicinato più di ogni altro economista classico alla moderna teoria nel suo schema di riproduzione semplice (Il capitale, vol. II) studiato in combinazione con il suo sviluppo della teoria dei prezzi relativi (vol. I e III)”; anche se poi – aggiunge – “confonde tutto” perché vuole conservare insieme la teoria del valore lavoro e la tendenza al livellamento del profitto.
Una teoria ‘di sinistra’
La teoria dell’equilibrio economico generale, del resto, fu introdotta da Léon Walras, che era un socialista – non marxista – favorevole per esempio alla completa nazionalizzazione della terra. Il completamento della teoria dell’equilibrio economico generale fu invece il frutto di uno sforzo congiunto di economisti attivi sui due versanti della cortina di ferro. L’obiettivo comune era quello di trovare un sistema che permettesse – gli uni a favore delle forze armate, gli altri a favore dell’intera economia socialista – di simulare amministrativamente i vantaggi del mercato, senza i suoi difetti. La teoria dell’equilibrio economico generale, spiega Johanna Bockman nel suo Markets in the Name of Socialism: The Left-Wing Origins of Neoliberalism, ha quindi un’origine anche “a sinistra”.
Un obiettivo possibile?
È immaginabile un approccio “radicale” sulla base della teoria dell’equilibrio economico generale? In astratto sì. Nulla impedisce, in quell’approccio, di utilizzare come moneta (numerario) il salario medio di un lavoro semplice, come fece Marx: hanno seguito questa strada anche Keynes negli anni 30, o Roger Farmer dell’Università della California, in un contesto del tutto ortodosso, oggi. Non va dimenticato che l’obiettivo di Walras, nell’elaborare la sua teoria, era quello di mostrare che un mercato perfetto realizza la giustizia commutativa preservando la giustizia distributiva realizzata con altri mezzi. Dal momento che nessun mercato è perfetto – le stesse aziende possono essere considerate come un fallimento del mercato, e ancor di più le società a responsabilità limitata – c’è ampio spazio per criticare l’attuale sistema economico o almeno alcuni suoi aspetti (ed è questo l’uso che ne fanno gli economisti più seri).
Serve davvero un nuovo Marx?
Che senso ha, però, invocare un nuovo Marx oggi? Ce n’è bisogno? La domanda è mal posta: un nuovo Marx non arriverà. La vera questione è che molti economisti e commentatori nel mondo – per esempio gli anti-euro, alcuni “anti-austerità”, gli anti-globalizzazione, ma non solo – leggono l’economia con le lenti di teorie economiche eterodosse, radicali, che al momento appaiono di dubbia validità, di scarso rigore, con limitate verifiche empiriche. I risultati sono disastrosi, soprattutto perché queste analisi sono molto ascoltate: il capitalismo non ha certo conquistato i cuori delle persone – a maggior ragione dopo la crisi, tutta finanziaria – e la cultura frettolosamente definita “neoliberista”, per quanto applicata in modo piuttosto limitato e distorto, ha ulteriormente alimentato un humus elitario, già ben nutrito – tra l’altro – dal socialismo autoritario e tendenzialmente sfavorevole alla dimensione democratica dei nostri sistemi politici “misti”, al quale reagiscono in modo scomposto e irrazionale i vari populismi nel mondo. In una situazione come questa, una sfida culturale e scientifica di alto livello sarebbe invece un motore di progresso…
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Segnalazione Convegni di interesse
9-10 novembre 2017, Milano
Convegno “Per un nuovo welfare: da costo a risorsa per lo sviluppo”
Confartigianato Imprese – INAPA – ANAP http://www.secondowelfare.it/edt/file/Per%20un%20Nuovo%20Welfare%20-%20Programma.pdf
Impegnati per il Lavoro e per il Reddito dignitosi per tutti
Con il documento che segue (intervista del politologo Maurizio Ferrera con il filosofo e economista Philippe Van Parijs), proseguiamo nella diffusione di documentazione sulla ricerca Lavoro e Reddito di Cittadinanza avviata per quanto ci riguarda nella fase preparatoria e nel Convegno sul Lavoro del 4-5 ottobre u.s. promosso dal Comitato d’Iniziativa Costituzionale e Statutaria, sulla base dei contributi scientifici e di divulgazione del prof. Gianfranco Sabattini. Sulla questione il Comitato organizzerà momenti di approfondimento e, tra questi, un prossimo Convegno.
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Reddito incondizionato a tutti i cittadini
Maurizio Ferrera dialoga con il filosofo e economista Philippe Van Parijs sulla sua proposta del reddito di base incondizionato come proposta radicale di riforma dei sistemi di protezione sociale.
Philippe Van Parijs sarà con il BIN Italia il 10 novembre 2017 a Roma per una lectio magistralis dal titolo “Reddito di base una proposta per il XXI Secolo”
Il vecchio Stato sociale, pensato per il tradizionale lavoro dipendente, non funziona più. Non riesce a combattere la povertà né a ridurre le disuguaglianze, priorità per le quali si stanno studiando nuove proposte. L’idea più radicale, che prevede un reddito di base da erogare a tutti i cittadini, è sostenuta dal filosofo ed economista Philippe Van Parijs (Bruxelles, 1951), professore emerito dell’Università cattolica di Lovanio (in Belgio), che in queste pagine si confronta sul tema con Maurizio Ferrera, politologo esperto di welfare e firma del «Corriere». Van Parijs sarà a Bologna sabato 28 ottobre per tenere l’annuale lettura del Mulino: l’appuntamento è alle 11.30 presso l’Aula Magna di Santa Lucia, dove lo studioso belga interverrà sul tema «Il reddito di base. Tramonto della società del lavoro?». Una illustrazione organica della sua proposta, con varie risposte alle possibili obiezioni, si trova nel libro scritto da Van Parijs con Yannick Vanderborght (docente dell’Università Saint-Louis di Bruxelles) «Il reddito di base», in uscita per il Mulino giovedì 26 ottobre.
Maurizio Ferrera: La prima formulazione completa della tua teoria sul reddito di base è contenuta nel volume Real Freedom for All, uscito nel 1995. Sulla copertina c’è l’immagine di un giovane surfista. Mi hai raccontato che lo spunto ti venne da John Rawls. Qualche anno prima, lui ti aveva chiesto: perché i surfisti di Malibu dovrebbero ricevere un sussidio dallo stato? Inizierei questa conversazione rivolgendoti, a trent’anni di distanza, quella stessa domanda.
Philippe Van Parijs: Il reddito di base è un trasferimento monetario periodico erogato ad ogni membro della comunità politica su base individuale, senza verifica della situazione economica o della disponibilità al lavoro. Non si tratta, in altre parole, di una prestazione riservata a chi è inabile o in cerca di lavoro. Dopo avere letto Una Teoria della Giustizia di John Rawls, io pensavo in effetti che suoi capisaldi potessero giustificare l’idea di un reddito di base incondizionato. Il “principio di differenza” richiede infatti che vengano massimizzate non solo il reddito ma anche la ricchezza e i “poteri” dei più sfavoriti, assicurando a tutti “le basi sociale del rispetto di sé”. A me sembrava che ciò fornisse una base robusta in favore di un reddito di base incondizionato.
Maurizio Ferrera: Ma Rawls non era d’accordo con te….
Philippe Van Parijs: No, e ne fui molto sorpreso e anche deluso. Gliene parlai durante una prima colazione a Parigi nel 1987. Rawls mi obiettò: chi passa tutto il giorno a fare surf sulla spiaggia di Malibu non dovrebbe avere diritto a ricevere un trasferimento incondizionato.
Maurizio Ferrera: Così è il dibattito con Rawls ha dato al tuo editore lo spunto per la copertina del tuo libro…
Philippe Van Parijs: Già. Poi però, in scritti successivi, Rawls cercò di neutralizzare il mio ragionamento in questo modo: il tempo libero e la gratificazione dei surfisti equivale al salario minimo di un operaio a tempo pieno. Introducendo questo elemento nella teoria, il surfista non può più rivendicare di appartenere ai meno sfavoriti.
Maurizio Ferrera: Partita chiusa, allora?
Philippe Van Parijs: No, in una conferenza che feci a Harvard (Perché dar da mangiare ai surfisti?) e poi nel libro che hai citato sopra, Real Freedom for All, ho sostenuto che il punto di vista “liberale” adottato da Rawls consente di giustificare il reddito incondizionato. Per capirlo, bisogna passare attraverso la seguente considerazione. Gran parte del reddito di cui ciascuno di noi dispone non è in realtà il frutto del nostro sforzo, ma dal capitale e dalle conoscenze complessive “incorporate”, per così dire, nella società, quelle che rendono possibile il suo funzionamento efficiente. Il reddito di base non estorce risorse da chi lavora duramente per darle a chi è pigro. Si limita a redistribuire in maniera più equa una colossale “rendita” che la società ci mette a disposizione e che nessuno di noi, individualmente ha contribuito nel passato ad accumulare.
Maurizio Ferrera: Nella tua teoria, il reddito di base andrebbe a tutti, anche ai ricchi. Eppure tu sostieni che ad esserne avvantaggiati sarebbero soprattutto i poveri. Potresti chiarire meglio il punto?
Philippe Van Parijs: A meno che non siano disponibili trasferimenti esogeni (per esempio aiuti internazionali) oppure risorse naturali abbondanti e pregiate, il reddito di base deve essere finanziato da una qualche forma di tassazione. Di norma, le imposte sono progressive, dunque i ricchi contribuiranno al finanziamento più dei poveri. Praticamente, chi ha di più pagherà per il proprio reddito di base e per almeno una parte dei redditi di base che vanno ai poveri. Il reddito di base quindi non renderà i ricchi ancora più ricchi. Al contrario, porterà i poveri più vicino alla soglia di povertà o al di sopra di essa, a seconda del tipo e dell’importo delle prestazioni assistenziali pre-esistenti. Ancora più importante: esso aumenterà la sicurezza dei poveri. Un reddito che si riceve senza nulla in cambio è meglio di una rete di sussidi con dei buchi attraverso i quali si può cadere. Oppure che genera delle trappole.
Maurizio Ferrera: Vediamole meglio queste trappole. Qui il tuo argomento è che i trasferimenti condizionati alla verifica della situazione economica e alla disponibilità al lavoro sono molto spesso intrusivi e repressivi. La ricerca empirica ha effettivamente documentato questi effetti. Mi viene in mente il titolo un bel libro a cura di Ivar Lodemel e Heather Trickey: An Offer you Can’t Refuse: Workfare in International Perspective. In molti paesi, sostengono gli autori, i disoccupati devono accettare lavori che vengono loro offerti con una specie di pistola alla tempia (come faceva Il Padrino): se non accetti, ti tolgo il sussidio. E’ anche la storia raccontata da Ken Loach nel bel film Daniel Blake. Ma il reddito di base è davvero l’unica soluzione? Dopo tutto, i paesi scandinavi sono riusciti a costruire un welfare “attivo”, insieme equo ed efficace: ai giovani e ai disoccupati non si offre un lavoro qualsiasi, prima li si aiuta a migliorare il proprio capitale umano. Il principio non è work first, ma piuttosto learn first. Rimane un po’ di paternalismo, è vero, ma attento alla dignità e ai bisogni delle persone. …
Philippe Van Parijs: Io credo che i soggetti più adatti a giudicare quanto un lavoro sia buono o cattivo – e per molti questo include quanto sia utile o dannoso per gli altri – siano i lavoratori stessi. Essendo senza condizioni, il reddito di base rende più facile abbandonare o non accettare posti di lavoro poco promettenti, a cominciare da quelli che non prevedono una formazione utile. Poiché può essere combinato con guadagni bassi o irregolari, il reddito di base rende più facile accettare stage, o posti di lavoro che si pensa possano migliorare il proprio capitale umano o anche, e più semplicemente, posti di lavoro corrispondenti a ciò che le persone realmente desiderano e pensano di poter fare bene. Si amplia così la gamma di attività accessibili, retribuite e non. Si dà alle persone più potere di scegliere. Il reddito di base attrae chi si fida delle persone più che dello stato come migliori giudici dei loro interessi.
Maurizio Ferrera: Restiamo sul tema del lavoro. Nell’apertura del tuo nuovo libro, tu sei molto pessimista circa gli effetti delle nuove tecnologie e della globalizzazione sui posti di lavoro, sembri rassegnato alla prospettiva della cosiddetta “stagnazione secolare”. E giustifichi la proposta del redito di base anche come risposta nei confronti di questo scenario. Ci sono però studiosi che la pensano diversamente. Il lavoro non scomparirà. L’invecchiamento della popolazione e l’espansione di famiglie in cui entrambi i partner lavorano amplierà notevolmente la richiesta di servizi sociali “di prossimità” (assistenza personale, cura dei bambini, e in generale servizi di “facilitazione della vita quotidiana”) i quali non potranno essere svolti dalle macchine né delocalizzati. Sanità, istruzione, ricerca, formazione, intrattenimento, turismo: anche in questi settori l’occupazione potrà crescere. E la cosiddetta “internet delle cose” sposterà in avanti la frontiera dei rapporti fra umani e macchine o robot, senza però annullare (e forse nemmeno comprimere in modo drastico) il ruolo, e dunque l’impiego attivo degli umani, appunto. Citando una profezia di Keynes, tu dici che l’innovazione tecnologica consente oggi di risparmiare forza lavoro ad un ritmo tale che diventa impossibile ricollocare i disoccupati altrove. Siamo sicuri che le cose stiano davvero così? Ci sono paesi in Europa che si situano alla frontiera dello sviluppo tecnologico e pure mantengono altissimi livelli di occupazione, anche giovanile e femminile. Si tratta, di nuovo, dei paesi Nordici, che hanno riorientato il proprio welfare nella direzione dell’investimento sociale, senza aver (ancora?) introdotto il reddito di base…
Philippe Van Parijs: In realtà non credo in una rarefazione irreversibile di posti di lavoro. Ma ritengo che il cambiamento tecnologico labour saving, in congiunzione con la mobilità globale del capitale, delle merci, dei servizi e delle persone, generi una polarizzazione del potere di guadagno. I proprietari di capitali, dei diritti di proprietà intellettuale, coloro che hanno competenze altamente richieste dal mercato saranno in grado di appropriarsi di una quota crescente di valore aggiunto. Allo stesso tempo, per molti lavoratori il potere di guadagno si riduce (o rischia di ridursi) al di sotto di quello ritenuto necessario per una vita dignitosa. Se si vuole impedire che un numero sempre maggiore di persone restino bloccate all’interno delle tradizionali reti di assistenza sociale, si possono immaginare due strategie, due versioni della stessa nozione di welfare attivo. La strategia “lavorista” consiste nel sovvenzionare i posti di lavoro, esplicitamente o implicitamente; la strategia “emancipatrice” consiste nel capacitare le persone. Chi crede che il ruolo centrale del sistema economico non sia quello di creare occupazione, ma di liberare le persone, si orienterà, – come faccio io – verso la seconda strategia, che ha come nucleo centrale il reddito di base. Ma la prima strategia ha a sua volta molte varianti, non tutte ugualmente repressive o ossessionate dal lavoro, né quindi ugualmente lontane dalla seconda.
Maurizio Ferrera: Veniamo alla vexata quaestio dei costi. Innanzitutto, nella tua concezione, quale dovrebbe essere l’importo del reddito di base? Nella ambigua proposta del Movimento Cinque Stelle per un reddito di cittadinanza si parlava di 700 euro al mese. All’inizio si pensava che si trattasse di un reddito universale, molti italiani ancora credono che sia così. In realtà i Cinque Stelle propongono un reddito minimo garantito, anche se molto generoso e costoso (più di venti miliardi di euro l’anno). In base a quali criteri dovrebbe essere definito l’importo del reddito di base?
Philippe Van Parijs: I promotori del referendum svizzero del giugno 2016 sul reddito di base hanno proposto un importo mensile di CHF 2300, pari al 39% del PIL pro capite della Confederazione. Il loro argomento era che tale livello fosse necessario per portare ogni famiglia al di sopra della linea di povertà, compresi i single residenti in aree urbane. Nel prossimo futuro, ogni proposta ragionevole per un reddito di base incondizionato, e quindi strettamente individuale, dovrà rimanere molto più modesta, ad esempio tra il 12% e il 25% del PIL pro capite (mf: per l’Italia, la forbice si situerebbe fra 270 e 560 euro al mese). Dovranno essere quindi mantenuti alcuni sussidi aggiuntivi di tipo condizionato per far sì che nessuna famiglia povera ci perda.
Maurizio Ferrera: Tu stesso ammetti come auto-evidente il fatto che l’universalità comporta un alto livello di spesa pubblica. Come si finanzierebbe il reddito di base?
Philippe Van Parijs: Partire dal costo lordo – reddito di base moltiplicato per ibeneficiari – è fuorviante. Se gli importi sono modesti, la maggior parte dei costi si “autofinanziano” da due fonti. In primo luogo, tutte le prestazioni monetarie inferiori all’importo del reddito di base vengono eliminate e tutte le prestazioni più elevate verrebbero ridotte dello stesso importo.
Maurizio Ferrera: Fammi capire bene. Poniamo che il reddito di base sia fissato a 400 euro mensili. Per qualcuno che avesse un sussidio permanente pari a questo importo cambierebbe solo il nome. Per chi ce lo avesse più basso, il sussidio verrebbe sostituito dal reddito di base: dunque un guadagno netto. Per chi gode invece di una prestazione più alta (poniamo una pensione minima di 800 euro), il trasferimento scenderebbe a 400, si aggiungerebbe però il reddito di base e il reddito totale non cambierebbe (800 euro in totale).
Philippe Van Parijs: Esattamente. La seconda fonte sarebbe questa: tutti i redditi sono tassati dal primo euro all’aliquota attualmente applicabile ai redditi marginali di un lavoratore dipendente a tempo pieno con bassa retribuzione.
Maurizio Ferrera: Tutti i redditi, dunque anche quelli su patrimonio e investimenti finanziari, senza distinzioni o franchigie? E questo basterebbe per auto-finanziare il reddito di base?
Philippe Van Parijs: Le due fonti congiunte assicurerebbero l’auto-finanziamento di gran parte del costo lordo. Naturalmente, ogni paese ha il suo mix regolativo di imposte e trasferimenti, e da questo dipenderebbe l’ammontare complessivo del gettito che si renderebbe disponibile.
Maurizio Ferrera: Nel tuo libro sottolinei l’importanza di concepire il reddito di base come trasferimento monetario, ma chiarisci che esso non sostituirebbe tutti i servizi erogati o finanziati dallo stato. Supponiamo che un immaginario stato dei nostri tempi, privo di qualsiasi politica di protezione sociale, ti desse carta bianca per progettargli un sistema pubblico di welfare. Oltre al reddito di base, che cosa ci metteresti?
Philippe Van Parijs: Dovrebbero esserci prestazioni per i figli, esse stesse congegnate come reddito di base pagato ai genitori, ad un livello che può variare con l’età ma non con il numero di figli. Dovrebbero restare sistemi pubblici educativi e sanitari efficienti, obbligatori e poco costosi e dovrebbero esserci schemi di assicurazione integrativa di tipo contributivo per malattia, disoccupazione e vecchiaia. Va da sé che lo stato continuerebbe a fornire beni pubblici come la sicurezza fisica, la mobilità sostenibile e, mettiamola così, una “piacevole immobilità” negli spazi pubblici.
Maurizio Ferrera: I paesi europei hanno oggi estesi welfare state, che assorbono fra il 25 e il 30% del PIL. Come vedresti la transizione verso il reddito di base? Immagino che si dovrebbero prevedere dei tagli alle prestazioni esistenti. Come affrontare il problema di “diritti acquisiti”, che in molti paesi (primo fra tutti l’Italia) vengono considerati inviolabili anche dalle Corti Costituzionali?
Philippe Van Parijs: La proposta di un reddito di base non presuppone che si parta da zero, da una tabula rasa. Al di sopra di importi estremamente modesti, è chiaro che vi dovrà essere una ridistribuzione a spese dei redditi più elevati, forse anche a spese delle pensioni più generose. Senza dubbio, alcune categorie si sentiranno minacciate, chiederanno forme di compensazione implicita o esplicita. Quanto ai diritti acquisiti: se la transizione avviene facendo leva sul sistema fiscale, non vedo perché essa debba incontrare ostacoli costituzionali insormontabili.
Maurizio Ferrera: Non oso pensare alle difficoltà politiche che si incontrerebbero per attuare riforme così ambiziose dal punto di vista istituzionale e redistributivo….
Philippe Van Parijs: Si, ma fortunatamente il calcolo fra vantaggi e perdite finanziari immediati non è l’unico fattore da prendere in considerazione per valutare la fattibilità di riforme. Se fosse così, dubito che avrei passato gran parte della mia vita ad occuparmi di filosofia politica.
Maurizio Ferrera: In effetti, noi scienziati politici siamo a volte troppo realisti. Ma siamo anche convinti che le idee e i valori contino nel plasmare il cambiamento. E che la politica non sia solo gestione dell’esistente, ma anche “visione”, elaborazione di utopie realizzabili (anche se suona come un ossimoro).
Philippe Van Parijs: Il reddito di base incondizionato è in qualche modo un’utopia. Ma lo erano, fino a non moltissimo tempo fa, anche l’abolizione della schiavitù o il suffragio universale. “Il possibile non verrebbe mai raggiunto nel mondo se non si ritentasse, ancora e poi ancora, l’impossibile” Così scrisse Max Weber nel suo famoso testo La politica come professione. Un’esortazione da condividere in pieno. Avanti!
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Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera del 23 ottobre e pubblicato da BIN Italia previo consenso dell’autore.
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Oggi sabato 4 novembre 2017
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Gli Editoriali di Aladinews. Impegnati per il Lavoro e per il Reddito dignitosi per tutti.
Reddito di cittadinanza: quale finanziamento?. Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi e su Aladinews.
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Reddito incondizionato a tutti i cittadini: dialogo di Maurizio Ferrera con l’economista Van Parijs.
Dialogo con il filosofo e economista Philippe Van Parijs sulla sua proposta del reddito di base incondizionato come proposta radicale di riforma dei sistemi di protezione sociale.
Philippe Van Parijs sarà con il BIN Italia il 10 novembre 2017 a Roma per una lectio magistralis dal titolo “Reddito di base una proposta per il XXI Secolo”.
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Puigdemont, un avventurista; Rajoy, un provocatore
4 Novembre 2017
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
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Commento di Tonino Dessì (su fb)
Il punto di vista di Andrea Pubusa, che come suo solito non lesina realismo e parole forti.
Il fatto è che la vicenda catalana ha destato e desta fortissime perplessità in una vasta area di democratici sardi, analoghe credo a quelle di gran parte dell’opinione pubblica democratica italiana ed europea.
Personalmente non avrei molto di approfondito da aggiungere a quello che ho scritto nei giorni scorsi seguendo passo passo gli eventi e a quello che ho scritto nel post di ieri.
Si tratta di eventi dai quali possiamo già trarre insegnamenti importanti. Fra questi il più evidente è che il contesto costituzionale di grandi realtà statuali non è fatto solo di norme astratte, ma rispecchia e compone una molteplicità di forze e di interessi materiali.
Non si può pensare che un tentativo di romperlo unilateralmente, da parte di qualsiasi componente, anche afferente a un intero territorio, non attivi forze e interessi contrapposti.
Perciò una strategia e una tattica che non prevedano queste reazioni e non si domandino se il gioco valga la candela sono da considerare altamente rischiose, se non velleitarie.
Tuttavia non si possono chiudere gli occhi di fronte al fatto che la vicenda catalana ha provocato il coinvolgimento di masse di cittadini animati da una pulsione convintamente identitaria.
La reazione delle autorità centrali a un moto che ha origini risalenti e radicamento cospicuo è stata ottusa e inadeguata.
Ho anche già avuto modo di scrivere che una questione come questa non dovrebbe essere lasciata nelle mani dei magistrati penali.
Il punto di crisi va affrontato con alto senso di responsabilità.
Anche per questo ho fatto cenno alle responsabilità del Parlamento spagnolo e dei partiti politici spagnoli.
Spetterebbe a loro prendere atto che l’esperienza della maggioranza e del Governo a guida Rajoy andrebbe terminata e che la via di pacificazione passa per una depenalizzazione dei comportamenti finora messi in atto dalle istituzioni catalane, mediante una tempestiva legge di amnistia ad hoc, e per la successiva chiamata di tutto il corpo elettorale a elezioni generali e territoriali, nelle quali si confrontino piattaforme nuove per un assetto costituzionale più avanzato.
Io resto per una soluzione federalista, in Spagna come nella prospettiva in Italia.
Al momento non avrei altri spunti di riflessione da suggerire.
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SOCIETÀ E POLITICA » TEMI E PRINCIPI » SCANDURRA
Il giorno delle elezioni
di ENZO SCANDURRA su eddyburg, ripreso da aladinews.
So di dire un’ingenuità. Ma è la sola cosa che resta a chi legge ogni giorno le estenuanti prove di dare vita, a sinistra, ad una coalizione diversa dal PD. I temi non mancano: le disuguaglianze… la povertà… la minaccia ambientale… le sorti della scuola e della università… la precarietà…
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Impegnati per il Lavoro e per il Reddito dignitosi per tutti
Reddito di cittadinanza: quale finanziamento?
di Gianfranco Sabattini
Il problema del finanziamento del “Reddito di Cittadinanza” (“RdC”) è una delle questioni da sempre oggetto di discussione, anche all’interno della linea del pensiero economico che ha elaborato il modello di stato sociale alternativo a quello fondato sul welfare, adottato nel 1945.
Per amore della memoria storica, vale la pena ricordare che l’espressione Reddito di Cittadinanza è “nata” nel 1986, a seguito della First International Conference on Basic Income, tenutasi per iniziativa del Basic Income European Network (BIEN), costituito l’anno precedente. La conferenza, svoltasi presso l’Università cattolica di Lovanio, ha inaugurato la prima fase di riflessione sul Reddito di Cittadinanza, ma è servita anche a legittimare l’inquadramento del problema della sua traduzione in termini di politica sociale nell’ambito dell’analisi economica.
La letteratura sull’argomento evidenzia che, nell’anno in cui si è svolta la conferenza, molti economisti inglesi erano ancora propensi ad usare, in luogo dell’espressione Reddito di Cittadinanza, quella di Dividendo Sociale, introdotta dall’economista James Edward Meade, che per primo aveva formulato un modello organizzativo dello stato di sicurezza sociale alternativo al welfare.
Alla fine della conferenza del 1986, i suggerimenti per stabilire definitivamente il nome del BIEN è stato, tra i molti avanzati, quello che, in considerazione della natura bilingue del Paese che ospitava la conferenza, proponeva di associare all’acronimo “BIEN” (che in lingua francese significa anche “bene”) la sua traduzione fiammingo-olandese in “GOED”, che oltre a significare ugualmente “bene”, corrispondente all’espressione inglese “Great Order for European Dividend”. Trovato l’accordo sul nome del BIEN, tutti hanno convenuto di denominare “RdC” lo strumento di politica economica attraverso il quale realizzare un sistema di sicurezza sociale alternativo a quello universalmente adottato.
I partecipanti alla conferenza di Lovanio, riprendendo la proposta di James Meade, formulata nel 1948 in “Planning and the Price Mechanism”, hanno messo in risalto i limiti dello stato di sicurezza sociale d’ispirazione keynesiana, imputandoli al fatto che il principio della sovranità popolare, che avrebbe dovuto rappresentare il contrappeso alla arbitrarietà degli automatismi politici nella distribuzione fiscale del costo della sicurezza sociale, fosse stato distorto dalla logica di funzionamento del welfare State, sotto molti punti di vista: mancata estensione della sicurezza sociale a tutti indistintamente, insorgenza di continue emergenze come conseguenza della dinamica del sistema economico, incapacità di contribuire alla stabilizzazione dei livelli occupazionali, ed altri ancora.
Inoltre, i lavori della conferenza sono valsi a sottolineare, come l’esperienza in molti Paesi consentisse di evidenziare che, quando la gestione del welfare State è lasciato all’azione discrezionale della politica, in assenza di un qualche automatismo autoregolatore, è resa possibile una tale manipolazione dei flussi di reddito da originare un crescente indebitamento del settore pubblico, a danno di tutti i cittadini. Infine, la conclusione della conferenza rilevava che la logica di funzionamento dei moderni sistemi produttivi capitalistici non era più in grado di “creare” posti di lavoro, come nel passato; né essa consentiva di “conservare” i livelli occupazionali acquisiti, producendo crescenti livelli di disoccupazione strutturale irreversibile. Per contrastare qust’ultima, i partecipanti alla conferenza hanno prospettato la necessità di creare, all’interno dei sistemi sociali, condizioni tali da consentire, oltre che il sostentamento del nuovo “esercito di forza-lavoro di riserva senza lavoro”, anche l’”autoproduzione”; ciò che poteva ottenersi attraverso l’erogazione di un “RdC” che, secondo la proposta di Meade, doveva essere corrisposto in moneta, sotto forma di Dividendo Sociale, ad ogni singolo cittadino (uomo, donna o bambino), da utilizzare anche come fonte alternativa di nuove opportunità di lavoro.
Nell’approfondimento delle modalità attraverso cui arrivare all’introduzione di un “RdC”, gli aderenti al BIEN si sono anche orientati ad accogliere i suggerimenti di Meade riguardo al finanziamento della nuova forma di reddito, attraverso due vie: una prevedeva il ricupero delle risorse impegnate nel funzionamento del sistema di sicurezza sociale fondato sul welfare State; l’altra via era fondata sulle rimunerazioni derivanti dalla vendita sul mercato dei servizi di tutti i fattori produttivi di proprietà collettiva (non pubblica), i cui proventi avrebbero alimentato un “Fondo Capitale Nazionale”, dal quale trarre le risorse per l’erogazione del Dividendo Sociale a tutti i cittadini.
La seconda forma di finanziamento proposta da Meade è stata oggetto di approfondimento e perfezionamento da parte di un suo allievo, Edwin Morley-Fletcher (per molti anni presente come docente in alcune Università italiane, ricoprendo, negli anni Ottanta, anche il ruolo di capo dello staff della presidenza della Lega nazionale delle cooperative e mutue). Morley-Fletcher ha proposto un modello di finanziamento del “RdC” basato sulla costituzione di un “Fondo Capitale” dal quale trarre le necessarie risorse finanziarie; ciò, al fine di evitare, per questa via, il problema della discrezionalità politica nel decidere la quota del reddito nazionale corrente da destinare a finalità ridistributive. Secondo Morley-Fletcher, il “Fondo” poteva essere alimentato dai surplus della bilancia internazionale dei pagamenti dei singoli Paesi, oppure attraverso un’imposta sui grandi patrimoni.
Sulla base di questa proposta, sarebbe stato possibile assegnare a ciascun cittadino, “dalla culla alla bara”, uno stock nominale di capitale, sufficiente a garantirgli l’erogazione di un Dividendo Sociale pari al “RdC”, proposta da realizzare in una prospettiva temporale adeguata, al fine di consentire la costituzione del “Fondo Capitale” necessario perché l’attuale welfare State potesse essere sostituito completamente. Naturalmente, al “punto omega” di ciascun soggetto, lo stock di capitale nominale assegnatogli alla nascita non sarebbe passato ai suoi eredi, ma sarebbe stato avocato dal “Gestore del Fondo Capitale”, per essere assegnato ad un nuovo soggetto o, nel caso di una dinamica demografica stabile, per essere ridistribuito a vantaggio di tutti i superstiti, od ancora per essere utilizzato con altre finalità sociali.
In Paesi come l’Italia, le condizioni economiche attuali (e quelle di un prevedibile futuro sufficientemente lontano) non consentirebbero la costituzione del “Fondo Capitale” per il finanziamento del Reddito di cittadinanza (RdC): innanzitutto, per gli “ostacoli politici” che impedirebbero l”assorbimento” dei surplus della bilancia dei pagamenti di parte corrente; ma anche per le difficoltà cui andrebbe incontro la soppressione di molte voci di spesa necessarie per il finanziamento del sistema di sicurezza sociale esistente, o per quelle che impedirebbero di poter disporre delle risorse provenienti da una possibile imposta patrimoniale. Per tutti questi motivi, più “percorribile” potrebbe essere l’inserimento del problema del finanziamento del “Fondo Capitale” nella prospettiva delle finalità del cosiddetto “movimento benecomunista”, ovvero di quel movimento che si prefigge di riordinare i diritti di proprietà all’interno dei moderni sistemi industriali, al fine di sottrarre al mercato tutti quei beni di proprietà pubblica destinabili alla soddisfazione dei bisogni esistenziali incomprimibili degli esseri umani; ciò però non potrebbe prescindere da una profonda revisione dei diritti di proprietà, per trasformare la proprietà pubblica di beni non esitabili sul mercato in proprietà comune o collettiva.
Il riordino dei diritti di proprietà può trovare la sua logica giustificazione, considerando che da sempre a loro fondamento è stato posto il lavoro, inteso come condizione perché chi ne fosse titolare potesse godere e disporre, in modo pieno ed esclusivo, entro certi limiti, dei beni acquisiti con le proprie capacità lavorative. Tale condizione è sempre stata ricondotta all’ esistenza di un ordine naturale; poiché, però, fin dall’epoca della rivoluzione agricola (8-12 mila anni or sono) nessun individuo ha mai “lavorato” in una condizione di isolamento, così da produrre beni utili con il suo solo lavoro indipendente, ma ha potuto produrli nella misura desiderata solo all’interno della comunità, attraverso la cooperazione dei soggetti che di essa facevano parte, la “dimensione sociale” della loro produzione costituisce motivo sufficiente a “fare premio” sull’esistenza di ogni presunto ordine naturale e, quindi, a giustificare l’introduzione di limiti al loro godimento esclusivo.
Gli stravolgimenti verificatisi nell’età moderna, soprattutto quelli imputabili alla rivoluzione industriale, i cui effetti sono stati inaspriti dalle ricorrenti crisi sociali ed economiche, giustificano l’impegno di quanti sono interessati ora a migliorare la definizione dei diritti di proprietà; l’impegno, però, dovrebbe essere orientato con particolare riferimento a tutto ciò che è esprimibile in termini di risorse “regalate dal cielo”. Solo su questa base si potrebbe costruire una teoria dei diritti di proprietà che ponga rimedio a tutte le conseguenze negative originate da una loro “cattiva definizione”; è questa la condizione che dovrebbe essere soddisfatta allo scopo di migliorare la definizione delle modalità con cui le popolazioni possono relazionarsi ai beni dei quali dispongono, senza trascurare, come ricorrentemente avviene, le forme di una loro razionale gestione. Così diverrebbe plausibile pensare alla costituzione di un “patrimonio/capitale collettivo”, dal quale trarre, con la vendita dei servizi ai prezzi di mercato, i proventi da fare affluire al “Fondo Capitale” proposto da Morley-Fletcher.
Pertanto, l’introduzione del “RdC”, non potrà essere disgiunta da un riordino dei diritti di proprietà, nelle diverse forme in cui questa si manifesta (comune o collettiva, pubblica e privata) che dovranno rappresentare un “continuum di regimi proprietari”, definiti tenendo conto della realizzabilità del sistema di sicurezza sociale fondato sul “RdC”.
In Italia, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, all’insegna del “terribile diritto” della proprietà privata e del misconoscimento di alcuni dettati costituzionali che ne salvaguardavano la funzione sociale, è stata realizzata la distruzione dell’”economia mista” e la privatizzazione di buona parte del patrimonio pubblico; processo, questo, che continua ad essere alimentato, da parte delle maggioranze politiche che si susseguono al governo del Paese, unicamente per “ragioni di cassa”.
Il movimento benecomunista considera giustamente i beni comuni oggetto di diritti universali, la cui definizione e fruizione non possono essere “appiattite” su quelle connesse alle argomentazioni della prevalente teoria giuridico-economica. Per dirla con le parole di Stefano Rodotà, il giurista che è stato tra i primi ad introdurre la questione dei beni comuni in Italia, “se la categoria dei beni comuni rimane nebulosa, e in essa si include tutto e il contrario di tutto, […] allora può ben accadere che si perda la capacità di individuare proprio le situazioni nelle quali la qualità ‘comune’ di un bene può sprigionare tutta la sua forza” (S.Rodotà, Il valore dei beni comuni, Fondazione Teatro Valle Bene Comune, 2012), in funzione della soddisfazione dei diritti universali corrispondenti ai bisogni esistenziali incomprimibili degli esseri umani. Può dirsi che il diritto a un reddito incondizionato, qual è il “RdC”, non possa rientrare nel novero di tali diritti?
Per evitare lo smarrimento della loro preminente qualità, i beni comuni devono essere sottratti al mercato e salvaguardati giuridicamente, garantendo a tutti la fruibilità dei servizi che essi, direttamente o indirettamente, possono rendere. Ma come? Rodotà manca di dirlo, mentre è ineludibile, considerata la loro natura di risorse scarse, la necessità che siano stabilite le procedure finalizzate a governarne la conservazione e la gestione; ciò, al fine di evitare che la sola definizione dal lato del consumo esponga i beni comuni al rischio di un loro possibile spreco. Tra l’altro, oltre che pervenire a una precisa definizione dello status giuridico dei beni comuni, sarà anche necessario stabilire quali dovranno essere, per quanto riguarda specificamente i beni pubblici, quelli da sottrarre alle leggi di mercato, da gestire attraverso un’”Autorità” pubblica, dotata dei poteri idonei a sottrarla ad ogni condizionamento politico, al pari di quanto avviene, ad esempio, per la massima istituzione bancaria del Paese.
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L’articolo di Gianfranco Sabattini è stato pubblicato in due parti anche da Democraziaoggi: il primo e il tre novembre 2017.
Oggi venerdì 3 novembre 2017
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CATALOGNA
Il carcere per sanzionare atti politici non violenti è inaccettabile.
Un Paese democratico non fa reprimere le opposizioni, anche locali, con procedimenti penali e con provvedimenti restrittivi della libertà personale.
Scarcerazione dei politici catalani detenuti, amnistia, poi elezioni generali, in Spagna e in Catalogna.
Un Parlamento consapevole e responsabile dovrebbe agire così. (Tonino Dessì su fb).
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Società & Politica
Tre milioni di problemi per Rajoy
di Stefano Puddu Crespellani, su SardegnaSoprattutto.
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Gli Editoriali di Aladinews. ScuolaCheFare?
Alternanza scuola-lavoro La protesta degli studenti.
di Fiorella Farinelli su Rocca, ripreso da Aladinews.
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Reddito di cittadinanza: quale finanziamento? (2)
3 Novembre 2017
Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi.
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SOCIETÀ E POLITICA » TEMI E PRINCIPI » SINISTRA
Falcone: «Per una nuova forza serve un leader di nuova generazione»
di ANNA FALCONE
il manifesto, 2 novembre 2017, ripreso da eddyburg e da aladinews. Nelle risposte a Daniela Preziosi risposte ovvie, per chi abbia letto il manifesto del Brancaccio e abbia apprezzato la coerenza con cui i suoi promotori stanno impegnandosi nella sua attuazione
«Liste&alleanze. L’avvocata dell’area civica del Brancaccio: Grasso stimabile ma il metodo no, prima scriviamo il programma e poi chi lo sa incarnare davvero. Bersani e D’Alema come capi no, serve più coraggio. Ma per le candidature anche Rifondazione ricordi che le assemblee saranno democratiche e sovrane»
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SOCIETÀ E POLITICA » TEMI E PRINCIPI » DEMOCRAZIA
Chi può salvare l’Europa dall’ombra nera del passato che torna.
di GUIDO VIALE
il manifesto, 2 novembre 2017, ripreso da eddyburg e da aladinews. L’Europa degli Stati e delle Banche non ha saputo affrontare le tre sfide centrali de nostri tempi: le migrazioni, le guerre ai nostri confini, il cambiamento climatico. Altri protagonisti devono scendere in campo perché non si finisca nel fango
«Europa. Quelle strategie capaci di ribaltare la visione, arretrata e solo finanziaria, dell’attuale classe dirigente europea. Per gestire l’immigrazione come risorsa del futuro. Non più Stati e Regioni ma piccoli e grandi Comuni, uniche entità in cui la democrazia rappresentativa può essere affiancata da forme di partecipazione diretta».
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L’EUROPA NON PUO’RESTARE INDIFFERENTE SUGLI ARRESTI NELLE CARCERI SPAGNOLE DEI MEMBRI DEL
DISCIOLTO GOVERNO DELLA CATALOGNA E PER IL MANDATO INTERNAZIONALE DI ARRESTO DELLO STESSO
EX PRESIDENTE DELLA CATALOGNA.
Oggi mercoledì 1° novembre 2017
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Reddito di cittadinanza: quale finanziamento? (1)
1 Novembre 2017
Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi.
Democraziaoggi pubblica la prima parte di un articolo del Prof. Gianfranco Sabattini sul reddito di cittadinanza. L’argomento è ormai entrato nel dibattito pubblico ed ha costituito oggetto del recente Convegno sul Lavoro organizzato ai primi del mese scorso dal Comitato d’Iniziativa costituzionale e statutaria. La riflessione si incentra sul punto critico e centrale della problematica: come finanziarlo?
La seconda parte, dedicata al finanziamento in Italia, verrà pubblicata da Democraziaoggi il 3 p.v. Il giorno successivo Aladinews riprenderà l’intero contributo di Sabattini nella sezione Editoriali.
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Archivio. Elena Granaglia, le tesi e le presunte “ombre” del reddito di cittadinanza. Un intervento di approfondimento di Gianfranco Sabattini, su l’Avanti!.
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Latte, i pastori sardi rilanciano: “L’assessore Caria si dimetta”
Su SardiniaPost.
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Il lavoro innanzitutto!
Ripresa economica… ma il lavoro dov’è?
In accordo con Democraziaoggi pubblichiamo un interessante articolo di Gianfranco Sabattini, autorevole economista dell’Ateneo di Cagliari, che spiega perché, nonostante la ripresa, il lavoro cala. Questa riflessione approfondisce alcuni spunti emersi nel Convegno sul Lavoro organizzato il 4-5 ottobre sul quale il Comitato d’iniziativa costituzionale e statutaria intende tornare, ponendo il focus su tematiche oggi centrali: economia e illegalità, ambiente e lavoro, scuola e lavoro, economia sociale e solidale, dividendo sociale o reddito di cittadinanza ed altri ancora.
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La ripresa economica senza nuova occupazione
di Gianfranco Sabattini
Dopo un decennio di crisi, l’economia italiana sembra dare segni di ripresa: il PIL tende, sia pure stentatamente, a crescere; le esportazioni, che secondo alcuni osservatori hanno “salvato l’Italia” durante la crisi, aumentano; ma l’occupazione resta al palo. All’apparente contraddizione l’”Espresso” del 13 agosto scorso dedica due articoli: uno, “Il lavoro dov’è”, di Luca Piana e Francesco Sironi ed un altro, “Quanta propaganda sulle statistiche”, che riporta il testo di un colloquio di Luca Piana con Enrico Giovannini, già presidente dell’Istat dal 2009 al 2013 e già Ministro del lavoro nel governo di Enrico Letta.
La lettura degli articoli non offre un’univoca spiegazione della contraddizione, in quanto diverse sono le cause alle quali essa è ricondotta; ma la non univocità del perché, nonostante la crescita, il PIL, non vada di pari passi con l’aumento dei livelli occupazionali, non impedisce di cogliere la tendenza secolare che, per quanto evidente, sembra non attrarre la necessaria attenzione delle forze politiche e sindacali del Paese; non impedisce cioè di capire che una ripresa fondata sull’approfondimento capitalistico di medie imprese orientate ad operare sul mercato globale, al fine di conservarsi competitive, devono necessariamente frenare la domanda di lavoro. Per rendersi conto di ciò, è utile considerare gli effetti che, secondo Piana e Sironi, sarebbero stati determinati dalla crisi iniziata dieci anni or sono, integrando il loro discorso con alcune osservazioni avanzate da Giovannini.
I dati statistici – affermano Piana e Sironi – “raramente mentono: l’Italia è un Paese più povero di un decennio fa. Gli ultimi numeri dell’Istat dicono che lo scorso giugno i disoccupati restavano 2,8 milioni, più del doppio rispetto all’ultimo momento d’oro vissuto dall’economia nazionale, la primavera del 2007”. Ciononostante, a parere di Piana e Sironi, se si allarga lo sguardo sull’intero panorama industriale italiano, l’idea di un “sistema industriale in disarmo” tenderebbe a traballare. Dopo il crollo, verificatosi all’inizio della Grande Recessione, le esportazioni si sono riprese e sono cresciute secondo ritmi pressoché costanti, superando i livelli pre-crisi; anche il PIL ha iniziato, a partire dalla metà del 2013, a risalire lentamente, sebbene la ferita della recessione sia ancora aperta. Questi trend, però, secondo Piana e Sironi, non si traducono “nella crescita dei posti di lavoro che servirebbe”.
Oggi, in Italia, gli occupati sono circa 23 milioni, un tetto che è molto vicino a quello raggiunto negli anni d’inizio della crisi; esistono, quindi, tanti occupati, ma anche tanti disoccupati. “Quali sono – si chiedono Piana e Sironi – le ragioni di questo paradosso, che impedisce a molti di percepire i miglioramenti generali e distrugge la fiducia delle persone?” Le cause sono numerose; una di queste è certamente il fatto che il tessuto produttivo nazionale è sempre stato un po’ a “macchia di leopardo”, nel senso che l’economia italiana ha funzionato “a più velocità”, per la presenza, non solo del divario Nord-Sud, ma anche di specializzazioni e territori che hanno saputo resistere agli esiti della crisi, mentre altri sono rimasti fermi. Questo stato di cose ha concorso a tenere schiacciati verso il basso i redditi personali e a comprimere la domanda globale del sistema-Italia; sono andate bene solo le industrie medie che sono state capaci di “esportare e di insediarsi all’estero”, mentre quelle di grande dimensione, che non sono state all’altezza di affrontate la concorrenza dell’economia globalizzata, sono andate solitamente fuori mercato. Le industrie che hanno saputo inserirsi con successo nel mercato internazionale sono state, dunque, quelle di “taglia media”, grazie alla loro capacità di conservarsi in equilibrio nelle loro dimensioni.
Le “medie eccellenti”, però, cioè quelle industrie che, nonostante la crisi, sono riuscite a reggere l’impatto col mercato globale, per quanto abbiano “permesso all’Italia di tenere botta“ negli anni bui della recessione, non potranno mai assorbire la forza lavoro che ha perso la stabilità occupativa con la crisi delle industrie di grandi dimensioni. Dal punto di vista del lavoro, perciò, la mutata struttura della base industriale dell’Italia dà da pensare, nel senso che – come sostengono Piana e Sironi – se “questo è uno dei più radicali problemi” ereditati dalla recessione, che condanna al “nanismo (o meglio, alla ‘medietà’)” il sistema produttivo nazionale, l’unica speranza per i tanti disoccupati è riposta sulla possibilità che le industrie maggiori sopravvissute agli anni della crisi riescano a reinserirsi sul mercato.
A tal fine, però, queste industrie devono crescere, e per riuscirvi devono aumentare la loro efficienza produttiva “robotizzandosi”, accentuando il livello di automazione dei loro processi produttivi; qui sta, dal punto di vista del lavoro, l’altro radicale problema, in quanto, com’è noto, l’automazione dei processi implica “distruzione” di opportunità occupazionali, non un aumento dei posti di lavoro. In questo caso, la capacità di fare fronte a questo secondo radicale problema, dipenderà, secondo Piana e Sironi, dalla possibilità che a produrre i sistemi di automazione sia la stessa industria italiana; quindi, dalla possibilità per le industrie che si automatizzano di disporre di forza lavoro dotata della necessaria formazione; fatto, quest’ultimo, non sempre scontato, anche per via delle differenze territoriali, concludono Piana e Sironi, “che alla fine frenano l’Italia intera”.
Il problema delle scarse opportunità di lavoro assume dimensioni ben più preoccupanti, se le considerazioni di Piana e Sironi vengono integrate da quelle di Giovannini; a parere dell’ex presidente dell’Istat, la contraddizione tra la debole ripresa e la permanenza dell’alto numero dei disoccupati, oltre che dalle tendenze evidenziate dei giornalisti dell’”Espresso”, dipende anche da altri fattori, quali la crescita della popolazione (per via dell’immigrazione), l’allungamento dell’età pensionabile (che ostacola le nuove leve della forza lavoro ad entrare nel mondo della produzione) e soprattutto l’abolizione “delle garanzie dell’articolo 18 che proteggevano dal licenziamento i dipendenti delle aziende con più di 15 addetti”.
Questa abolizione, sostiene Giovannini, ha cambiato la struttura produttiva dell’economia italiana, portando le imprese “a superare quella soglia dimensionale che un tempo era ritenuta invalicabile”, determinando così, con la loro crescita e la ricerca di maggiore efficienza per reggere alla concorrenza, una contrazione dei posti di lavoro. Considerando, perciò, tutti i cambiamenti che hanno caratterizzato la struttura dell’economia italiana e le regole del mercato del lavoro, Giovannini ritiene che le certezze di poter ridurre l’alto numero dei disoccupati sarebbero poche, anche perché una crescita dimensionale delle imprese, necessaria per contrastare la disoccupazione, è ostacolata dalla propensione, tipica dell’imprenditorialità italiana, a conservare il controllo familiare dell’azienda.
Per ridare slancio all’occupazione, Giovannini non ha che da proporre tre “ricette”, dal “fiato corto”, perché affidate all’iniziativa di una classe politica poco credibile: la prima dovrebbe consistere nell’accelerare il tasso di crescita dell’economia nazionale, perché gli imprenditori percepiscano che l’Italia si è “rimessa davvero in moto”; la seconda dovrebbe essere volta a rilanciare il settore delle costruzioni per la riqualificazione di “edifici e città”; un’attività, questa, che crea posti di lavoro a più alto valore aggiunto; la terza, infine, dovrebbe consistere nel rilanciare l’occupazione attraverso la promozione di nuove imprese, avendo cura che il sostegno assicurato loro non sia limitato al momento della costituzione, ma sia esteso anche alla fase della loro crescita e definitiva affermazione.
Dalle valutazioni di Piana, Sironi e Giovannini emerge una condizione non certo esaltante riguardo al possibile futuro dell’economia italiana. Tuttavia, come afferma Giuseppe Berta in “Che fine ha fatto il capitalismo italiano?”, se è inevitabile un ridimensionamento sul piano strettamente economico, ciò non deve essere recepito come una sorta di autoripiegamento rispetto allo spazio occupato dal Paese nel passato; ma, al contrario, esso deve essere considerato come la premessa per “riguadagnare” al Paese una prospettiva certa e stabile, in funzione della quale poter effettuare scelte responsabili. Con quali forze?
La risposta a questa domanda può essere formulata solo ipotizzando che venga risolto un altro radicale problema, che pesa sulle sorti future del Paese, consistente nel trovare il modo di ricuperare la sinistra socialista e riformista ai suoi valori originari, attualizzati in funzione di tutti i cambiamenti avvenuti nel funzionamento dei moderni sistemi sul piano economico e su quello sociale. Ma quali sono le condizioni perché i partiti socialdemocratici, modernizzandosi, possano contribuire a fare riguadagnare al Paese una prospettiva certa e stabile riguardo al proprio futuro? Si può rispondere a questa ulteriore domanda, seguendo i suggerimenti formulati da Emiliano Brancaccio, economista dell’Università del Sannio, in un articolo pubblicato sull’”Espresso” del 6 agosto di quest’anno, dal titolo di per sé eloquente: “Si chiama destra il morbo della sinistra, Entrata in crisi al guinzaglio dei liberisti rischia di scomparire in coda agli xenofobi”
Passata di moda l’”idea blairista dell’obsolescenza delle socialdemocrazia e dell’esigenza di una ‘terza via’”, ci si sta convincendo che il socialismo riformista sia entrato in crisi perché “una volta al governo ha attuato politiche di destra”. Di destra sono state le politiche del lavoro; in molti Paesi, fra i quali l’Italia, il calo della protezione del lavoro è avvenuto col sostegno di maggioranze parlamentari sostenute dai partiti socialdemocratici, nonostante che le ricerche in materia, condivise dalle istituzioni internazionali come il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), abbiano chiarito che le riforme adottate in difesa del lavoro non hanno contribuito a sostenere l’occupazione.
Altra causa del mancato sostegno dell’occupazione va rinvenuta nella privatizzazione, che in Italia ha portato alla distruzione dell’”economia pubblica”; anche in questo caso, col sostegno dei partiti socialisti riformisti sulla base di motivazioni che studi delle stessa OCSE sono valsi a smentire; tali studi, infatti, hanno messo in rilievo che la dismissione delle grandi imprese pubbliche in base all’assunto che esse fossero inefficienti non corrispondeva al vero, evidenziando che le grandi imprese pubbliche presenti in molti Paesi avevano sempre avuto indici di redditività significativamente superiori alle imprese private e un rapporto tra profitti e capitale investito pressoché uguale.
Infine, l’altra causa che ha contribuito ad abbassare le garanzie occupazionali della forza lavoro sono state le politiche di liberalizzazione finanziaria e di apertura ai movimenti internazionali di capitale; anche il sostegno alla realizzazione di tali politiche da parte dei partiti socialisti è stato pressoché totale, sebbene le organizzazioni internazionali, prima favorevoli alla liberalizzazione, abbiano poi espresso critiche ad una circolazione senza regole dei capitali, per gli effetti negativi sulla stabilità dei singoli sistemi economici.
In sostanza, conclude Brancaccio, “alla compulsiva ricerca di un’identità alla quale conformarsi, i partiti socialisti, [incluso quello italiano], hanno insomma applicato le ricette tipiche della destra liberista senza badare ai loro effetti reali, e con una determinazione talvolta persino superiore a quella delle istituzioni che le avevano originariamente propugnate”. Può ciò che resta del Partito socialista italiano riscattarsi prima di una sua possibile scomparsa definitiva? Si può rispondere di si, solo se esso sarà disposto ad aggiornare la propria visione del sistema-Italia, affrancandosi dalle posizioni di destra, sinora condivise, e da quelle di una finta sinistra riformista della quale è ora alleato.
Ciò può essere realizzato, innanzitutto con l’assunzione dell’obiettivo di modificare l’attuale welfare State, non più all’altezza di garantire un reddito alla generalità degli Italiani, spostando la riflessione dal problema dell’occupazione a quello della distribuzione equa del reddito; in secondo luogo, con l’ulteriore assunzione dell’obiettivo di attuare una politica di riacquisizione pubblica di buona parte del patrimonio produttivo privatizzato, per ricostituire quell’”economia pubblica”, che aveva consentito all’Italia di passare dalla periferia al centro del mondo fra i Paesi più industrializzati. Solo modernizzando la propria ideologia politica, conformandola agli obiettivi descritti, il socialismo riformista può riproporsi al Paese con una proposta credibile di progresso materiale e sociale.
Gianfranco Sabattini
Oggi lunedì 23 ottobre 2017
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Ripresa economica… ma il lavoro dov’è? (1)
23 Ottobre 2017
Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi.
Democraziaoggi pubblica la prima parte di un interessante articolo di Gianfranco Sabattini, autorevole economista dell’Ateneo di Cagliari, che spiega perché, nonostante la ripresa, il lavoro cala.
Questa riflessione approfondisce alcuni spunti emersi nel Convegno sul Lavoro organizzato il 4-5 ottobre sul quale il Comitato d’iniziativa costituzionale e statutaria intende tornare, ponendo il focus su tematiche oggi centrali: economia e illegalità, ambiente e lavoro, scuola e lavoro, economia sociale e solidale, dividendo sociale o reddito di cittadinanza ed altri ancora.
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SOCIETÀ E POLITICA » TEMI E PRINCIPI » POLITICA
Neoliberalismo: l’idea che ha inghiottito il mondo
di CARMENTHESISTER
vocidall’estero, 19 ottobre 2017, ripreso da eddyburg e da aladinews. Un articolo di Stephen Metcalf dal The Guardian sul pensiero che domina la nostra epoca: il neoliberalismo. (c.m.c.)
«Sul The Guardian, un approfondimento che risale alle origini del neoliberalismo per rintracciarne le caratteristiche peculiari e sottolineare l’ambizione di trasformare completamente la visione del mondo contenuta in quella “Grande Idea” di Von Hayek, che alla fine è riuscita a permeare completamente la società di oggi. Il neoliberalismo è divenuto l’idea dominante della nostra era, che venera la logica del mercato, deprivandoci delle capacità e dei valori che ci rendono più propriamente umani. (…)
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RICERCHE
Un nuevo derecho para la administración compartida: il saggio in spagnolo di Gregorio Arena
Filippo Maria Giordano – 10 ottobre 2017, su LabSus.
Il sito LabSus pubblica per la sezione “Ricerche” un saggio in lingua spagnola di Gregorio Arena, Un Nuevo Derecho para la administracíon compartida de los bienes comunes. La experiencia italiana, apparso recentemente sulla “Revista de Administracíon Pública”.
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Gli Editoriali di Aladinews. Grave provocazione della Giunta regionale contro il Movimento Pastori Sardi, la più importante organizzazione di lavoratori dell’Isola. Di Vanni Tola.
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Domani a Cagliari incontro contro il Rosatellum e il Porceddum
23 Ottobre 2017
Su Democraziaoggi.
Vogliamo il Lavoro!
La rivista della Diocesi di Ales-Terralba, Nuovo Cammino, dedica gran parte del numero del mese di ottobre all’imminente Settimana dei Cattolici italiani, che si terrà a Cagliari dal 26 al 29 ottobre, sul tema “Il lavoro che vogliamo: Libero, Creativo, Partecipativo, Solidale”. Tra gli articoli sulla tematica del Lavoro ve ne sono due che danno conto sinteticamente dei contenuti e delle conclusioni del recente Convegno sul Lavoro organizzato dal Comitato d’Iniziativa Costituzionale e Statutaria in collaborazione con Europe Direct Sardegna. Gli articoli a firma di Franco Meloni e Fernando Codonesu sono di seguito riproposti nella loro versione integrale. Si ringrazia Nuovo Cammino – e segnatamente il direttore Petronio Floris e il vice direttore Mario Girau – per l’autorizzazione a pubblicare a nostra volta i due citati interventi, nello spirito di collaborazione che caratterizza il rapporto tra le nostre due testate.
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Lavoro. Troppe parole, vogliamo fatti!. Intanto occorre sperimentare il Reddito di Cittadinanza.
di Franco Meloni
Il lavoro, specie quello che non c’è, è in testa alle preoccupazioni degli italiani. Ancor più dei sardi che di lavoro ne hanno drammaticamente poco e sempre meno, tanto da costringere i giovani a cercarlo in altre regioni italiane e all’estero. E ad andare via sono soprattutto diplomati e laureati, privando questa nostra terra di “risorse pregiate”. Ma questo non è un destino ineludibile. Ci abbiamo riflettuto in modo approfondito nel recente Convegno, aperto dalla relazione di Fernando Codonesu, che ne dà conto nell’articolo che segue. Infatti, tra gli altri, sono intervenuti numerosi imprenditori, per lo più giovani, che hanno illustrato le loro iniziative d’impresa sul fronte dell’innovazione che producono reddito e lavoro. Sono espressione di realtà importanti, che non risolvono certo il problema del lavoro e dello sviluppo della Sardegna, ma che, tuttavia, si compongono, anticipandolo rispetto a una compiutezza ancora da raggiungere, in un “ecosistema favorevole allo sviluppo del lavoro, in condizioni di equilibrio dinamico con l’ambiente e con le continue trasformazioni della società e del mondo”. L’economia sociale e solidale, di cui le entità del Terzo settore sono concreto strumento, è un altro grande sistema da sviluppare come consistente opportunità di creazione di lavoro. A tutto questo puntiamo, utilizzando tutte le risorse disponibili, a partire proprio dalle persone. Prima che sia troppo tardi. Che fare allora? Innanzitutto, come sostiene Papa Francesco, occorre “aprire processi”, combattendo i vari “cerchi magici” che escludono la maggioranza dei sardi, per dare voce e potere ai cittadini, fornendo loro tutte le opportunità di partecipazione, in tutti i luoghi e a tutti i livelli. Liberare energie creative che possano essere messe in gioco a vantaggio di tutti. Lavorare meno, lavorare meglio, lavorare tutti. Per arrivare a questo traguardo occorre intervenire subito col Reddito di Cittadinanza, Dividendo sociale o come altro si vuole chiamare?
È possibile: ma che si superi la fase pur necessaria del parlare e si passi all’operatività!
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Lavorare meno, lavorare meglio, lavorare tutti
di Fernando Codonesu
Il 4 e il 5 ottobre il Comitato di Iniziativa Costituzionale e Statutaria in collaborazione con Europe Direct ha organizzato a Cagliari un importante convegno sul lavoro dal titolo “Lavorare meno, lavorare meglio, lavorare tutti”.
Intanto occorre chiedersi perché un comitato di cittadini e non le solite forze politiche o sindacali hanno organizzato un convegno di questo tipo e la risposta è semplice: il lavoro caratterizza tutta l’esistenza umana per cui non si può più pensare che sia un tema da specialisti. Riguarda tutti gli uomini, non solo i decisori politici o quelli che normalmente vengono individuati come “classe dirigente”. E’ anche necessario ribadire che è propria a causa dell’incapacità generalizzata della classe dirigente, dei partiti politici e delle stesse organizzazioni sindacali che oggi più di prima è necessario il contributo attivo della cittadinanza per affrontare il tema del lavoro nella sua complessità e nelle sue diverse articolazioni.
Viviamo un presente di grandi trasformazioni, un presente in cui si vivono, come sempre nella storia, elementi di futuro e si progettano visioni di futuro, che a loro volta diventeranno il presente di domani. In queste trasformazioni, che possiamo anche vedere come veri e propri sconvolgimenti, bisogna inquadrare i diversi aspetti del lavoro con i relativi punti di vista.
Per la nostra terra pensiamo ad un lavoro pulito, per questo nel titolo del convegno abbiamo messo l’accento anche su “Lavorare meglio”. Un lavoro che innanzitutto deve essere basato su un’economia di pace, per cui rifiutiamo lavori che si pongono in contrapposizione con l’ambiente, la salute umana e il benessere degli altri esseri viventi.
In tale accezione, ci sia permesso di ricordare in questa sede che la produzione di armi, peraltro presente nella nostra isola, non è accettabile come occupazione in quanto contraria ai principi costituzionali, alle direttive europee e alle stesse leggi italiane.
Così come riteniamo inaccettabile continuare con un’industria caratterizzata da produzioni inquinanti che hanno portato ad un uso devastante del territorio, con gravi riflessi negativi sulla salute delle popolazioni e sulla qualità dei prodotti agroalimentari dei territori interessati.
Lavorare meglio significa aspirare ad un lavoro che sia il più possibile scelto da ciascuno di noi, un lavoro che ci permetta di autorealizzarci.
L’attività lavorativa che distingue e rende singolare l’uomo come fondamento positivo della polis, è il lavoro che implementa l’idea trasformandola in progetto, in dispositivo, sistema, impresa, il lavoro come atto libero e liberatorio, ovvero è l’opus di latina memoria.
Per tale motivo, considerato l’attuale sviluppo dell’informatica e della robotica, la cosiddetta civiltà delle macchine, dobbiamo eliminare dal lavoro lo sforzo, la fatica, la ripetitività per arrivare ad un lavoro liberato dalla necessità e dalla paura della povertà.
Il lavoro di cui parliamo, quindi, è un lavoro che promuove e rende possibile lo sviluppo delle proprie capacità, delle proprie passioni che si trasformano in progetti e professioni, un lavoro cioè che è anche piacere, sviluppo di potenzialità di ciascuno, autorealizzazione nell’arte, nella scienza, nelle tecnologie, un lavoro senza divisione tra mezzo e fine, tra produzione e consumo, quale fondamento dell’etica sociale. A tale riguardo bisogna ripensare il mondo in cui viviamo per costruire una società più giusta, con regole di vita che permettano l’autorealizzazione e che ci facciano vivere come individui sociali, con relazioni e affettività individuali e collettive.
Siamo sicuri che parlare di lavoro oggi, compiutamente, significhi avere piena consapevolezza della complessità in cui siamo immersi.
La ripresina in atto viene troppo spesso cantata come strutturale, nel senso che ci saremmo lasciati definitivamente alle spalle i dieci anni della crisi.
Intanto la disoccupazione giovanile italiana continua ad essere superiore al 35%.
Si contano i nuovi posti di lavoro, ma si dimentica di analizzarne la qualità. Al riguardo ci soccorre l’INPS che ha certificato che del milione di nuovi contratti di lavoro attivati nell’anno in corso, solo il 24% sono a tempo indeterminato, per il 76% si tratta di contratti a tempo determinato, cioè di contratti precari.
E’ questo il lavoro che si continua a proporre?
E’ di questi lavori che hanno bisogno i nostri giovani?
In tali condizioni possono essere create nuove famiglie, si può pensare di mettere al mondo figli, si può pensare al futuro?
No, non si può e basta ragionare sulla demografia e l’indice di natalità per convincersene incontrovertibilmente. L’indice di natalità dell’Italia è pari all’8 per mille, il più basso d’Europa, l’indice di natalità della Sardegna è pari al 6,9 per mille, con 1,1 figli per donna, il più basso d’Italia. L’aumento di residenti che si registra complessivamente in Italia e ugualmente in Sardegna è dovuto solo all’immigrazione, considerato che annualmente il numero dei morti supera ampiamente il numero di nuovi nati.
Se non si fanno figli non è per scelte ideologiche o strane congetture, ma perché non ci sono le condizioni economico-sociali per poterlo fare, non esiste una politica per la famiglia e non si intravede un futuro: per tali motivi si emigra, e una volta emigrati è molto improbabile che si torni indietro.
Allora la crisi è davvero finita?
No, per niente, soprattutto in Europa, Italia e Sardegna.
In un articolo pubblicato recentemente, il quotidiano il Sole 24 Ore ha stimato che l’emigrazione della popolazione italiana scolarizzata, e specificatamente quella nota come fuga dei cervelli, costa al paese ben 14 miliardi di euro all’anno. I dati evidenziavano che dall’Italia nell’ultimo decennio si è avuta una emigrazione di laureati e diplomati pari a circa 30.000 persone all’anno.
In Sardegna si osserva lo stesso fenomeno rilevato a livello nazionale, con un ulteriore aumento del rapporto percentuale che si discosta notevolmente dal rapporto tra la popolazione sarda e quella dell’intero paese. La popolazione sarda rappresenta solamente il 2,8% di quella nazionale. I dati dell’emigrazione sarda tra il 2007 e il 2016 ci dicono che ben 21.746 sardi sono emigrati all’estero e nell’ultimo il numero di emigrati è in crescita fino a 3.370, circa il 10% del dato nazionale annuo riportato dall’articolo su citato.
In generale emigrano i giovani, laureati e diplomati, e quando non hanno un’alta scolarizzazione si tratta comunque di persone che hanno voglia di intraprendere e investire nel proprio futuro.
La sconfortante e inevitabile constatazione al riguardo è obbligata: senza i giovani preparati che emigrano e senza componenti rilevanti di popolazione con capacità tecniche e professionali e voglia di affrontare nuove sfide, come si fa in tale contesto ad avere fiducia nel futuro e a ipotizzare un modello di sviluppo sostenibile per la nostra isola?
Quali strumenti, quale organizzazione, quale formazione dobbiamo avere in questo mondo caratterizzato dalle relazioni, dai servizi e dai bit e non più dalla proprietà, dai beni e dagli atomi?
Il convegno si è posto anche queste domande con l’obiettivo di fornire alcune risposte.
Si è fatta passare la precarietà per la flessibilità. Si è precarizzata la vita di un’intera generazione a cui è stato sottratto il futuro e reso impossibile vivere il presente, e di questo si è fatto un racconto come un effetto della modernizzazione della società.
Oggi in tanti settori produttivi, nonostante la conclamata modernità, si hanno contratti di lavoro al limite della semi schiavitù.
E quanto allo spostamento della ricchezza, a partire dagli anni ‘90 del secolo scorso, si è avuto uno spostamento di ricchezza dal lavoro al capitale, dai poveri ai ricchi, con un aumento vertiginoso delle disuguaglianze come non si era mai registrato nella storia.
Per quanto riguarda l’organizzazione del convegno, è da questo quadro che è nata l’esigenza di organizzare fondamentalmente tre grandi temi di intervento:
- Il primo è l’economia sociale e solidale in quanto paradigma del periodo in cui viviamo, dove diventa sempre più forte l’esigenza di un’economia nota come terzo settore, caratterizzata dall’etica, dal riferimento ai valori umani e non al solo profitto; un’economia anche per gli ultimi, per gli strati sociali più marginali, fragili e indifesi, un’economia per tutta quella pluralità di servizi alla persona in ogni età della vita che vanno pensati, organizzati e gestiti.
- Il secondo è rappresentato dall’interrogativo sul futuro prossimo della Sardegna, con testimonianze dirette di alcuni attori dello sviluppo locale, che ci hanno parlato di filiere produttive, imprese, istituzioni, sindacati.
Abbiamo chiamato a testimoniare alcune esperienze significative che vengono svolte in quelle azioni ascrivibili alle politiche attive del lavoro, ma soprattutto abbiamo dato spazio a una parte di quella Sardegna resistente, adattativa e resiliente su cui contiamo di più e da cui provengono forza, idee e progetti per il nostro futuro.
- Il terzo, infine, che per noi è la pietra di volta di tutto: la scuola, l’istruzione, la formazione, l’università e la ricerca, convinti come siamo che la flessibilità dei tempi attuali possa essere affrontata adeguatamente solo con una formazione larga e alta, una formazione di tipo generale, basata su fondamenta solide, con contenuti delle varie discipline così approfonditi da creare profili di uscita nei vari livelli formativi come cittadini in grado di affrontare ogni problema della vita adulta e ogni possibile occupazione offerta dal mercato del lavoro e con capacità reali di creare impresa e occupazione.
In un convegno di tale importanza non poteva mancare una riflessione più generale, che definiamo alta perché alto è il tema del lavoro, e su questo, tra altri autorevoli interventi, conosceremo e discuteremo gli autorevoli punti di vista del filosofo Silvano Tagliagambe, dell’economista Gianfranco Sabattini e del sociologo Domenico De Masi.
Quando come Comitato di Iniziativa Costituzionale e Statutaria abbiamo deciso di organizzare questo convegno abbiamo pensato che dal confronto di variegate posizioni e punti vista sul tema, dalla viva voce degli attori che giorno per giorno si misurano con questo mercato del lavoro, dalla pluralità di idee che si scontrano e si incontrano nel nostro vivere quotidiano possano nascere le migliori condizioni per creare un ecosistema favorevole allo sviluppo del lavoro, in condizioni di equilibrio dinamico con l’ambiente e con le continue trasformazioni della società e del mondo.
E’ perché come esponenti della società civile, come cittadinanza attiva, sganciati da logiche di partito o di appartenenza politica, siamo convinti che non ci possano essere soluzioni individuali ai problemi posti dalla crisi, ma vadano ricercate collettivamente con il confronto delle idee, è per tali motivi che intendiamo concorrere con le nostre energie al processo di creazione di un ecosistema favorevole al lavoro, che abbiamo fortemente voluto questo convegno e abbiamo deciso di dedicarlo in particolare ai giovani che, più di altri, vedono minacciata la propria vita e il proprio futuro.
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