Risultato della ricerca: Vanni Tola

Appello per la Pace

c8871629-a903-4a11-b6cb-bb9941d7f0bdIMPEDIRE IL RITORNO DELLA GUERRA IN EUROPA
Sono già oltre 400 le firme all’appello promosso dal Cdc, appello evidentemente largamente condiviso da uomini e donne del nostro paese che temono l’esplodere di un nuovo conflitto in Europa.
Per aderire inviare una mail a coord.dem.costituzionale@gmail.com
A questo link il testo dell’appello e le firme in continuo aggiornamento
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http://www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it/2022/02/02/impedire-il-ritorno-della-guerra-in-europa-decine-di-intellettuali-firmano-un-appello-perche-la-ue-non-si-faccia-trascinare-dalla-nato-nel-suo-espansionismo-a-est-perche-litalia-si-opponga/
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1d92bd43-936d-44ae-8540-6e66b5b78e28Appello

Impedire il ritorno della guerra in Europa

Nel secolo scorso l’Europa è stata dilaniata per ben due volte, nel corso di una generazione, dal flagello della guerra che ha causato sofferenze indicibili ai suoi popoli e una degradazione inconcepibile dell’umanità fino al male assoluto della Shoah.

La profonda aspirazione alla pace, a rendere impossibile di nuovo la guerra fra le nazioni europee è stata a fondamento della nascita della Comunità europea e del percorso che l’ha portata a trasformarsi in Unione Europea.

La caduta del muro di Berlino e lo scioglimento del Patto di Varsavia hanno fatto venire meno le ultime conseguenze della guerra fredda in Europa e creato la possibilità della convivenza pacifica di tutti i suoi popoli, dall’Atlantico agli Urali.

Purtroppo la distensione resa possibile dalla fine della guerra fredda non è stata coltivata; non è bastata la dissoluzione dell’Unione Sovietica per far venir meno lo spirito di contrapposizione dei due blocchi militari, come poteva fare prevedere l’allargamento del G7 alla Russia, capitolo che è stato frettolosamente chiuso.

L’allargamento ad est della NATO, che ha inglobato paesi che facevano parte della ex Unione Sovietica, ha comportato il dispiegamento di un dispositivo militare ostile ai confini della Russia; ciò costituisce obiettivamente una minaccia e come tale è stata percepita.

Questa situazione ha generato una nuova corsa agli armamenti, compreso il riarmo nucleare.

Si sono create, così, le condizioni per un nuovo tipo di guerra fredda molto più pericolosa della precedente, perché non più fondata su una contrapposizione ideologica ma su pulsioni nazionalistiche ancora meno controllabili.

L’esercizio del diritto all’autodeterminazione del popolo ucraino è stato fortemente condizionato dal tentativo della Russia, da un lato, e del blocco occidentale a guida USA, dall’altro, di trascinare questo Paese ognuno nel proprio campo di influenza.

Se la Russia ha occupato la Crimea e in seguito alimentato il conflitto del Donbass, la NATO ha assunto una posizione vissuta come provocazione politica e militare dalla Russia quando si è dichiarata disponibile ad accogliere Ucraina e Georgia nell’alleanza atlantica.

Adesso la tensione politica e militare fra i due schieramenti è arrivata a livelli insostenibili.

Una provocazione può arrivare da qualunque parte sul terreno e fare da detonatore ad un conflitto armato non più controllabile.

E’ assolutamente urgente mobilitarsi per impedire il ritorno della guerra in Europa.

Un conflitto potrebbe avere conseguenze inimmaginabili.

Si deve operare immediatamente per un raffreddamento della tensione politico-militare e l’unica strada percorribile è quella del blocco immediato di ogni escalation militare.

L’Unione Europea non deve farsi trascinare dalla NATO in una insensata corsa all’incremento delle minacce sul campo e ad un rilancio delle spese militari. L’Italia deve dissociarsi da questa politica e deve mandare un segnale chiaro a favore della distensione, che non ha alternative, opponendosi – com’è in suo potere – all’estensione nel territorio dell’Ucraina del dispositivo militare della NATO e al dispiegamento in Europa di nuovi missili e armi nucleari americane. E’ interesse dell’Italia e dell’Unione Europea avviare una trattativa per arrivare a condizioni che garantiscano la Russia dalla preoccupazione di un accerchiamento e consentano all’Ucraina di sviluppare la propria autonomia nazionale, in condizioni di indipendenza dai due blocchi, com’è avvenuto per la Finlandia durante la guerra fredda. Partendo dall’attuazione dell’accordo di Minsk, occorre negoziare una posizione di neutralità per l’Ucraina, non più avamposto militare della NATO ma terra d’incontro fra la civiltà russa e quella occidentale.

Occorre agire adesso prima che sia troppo tardi.

Per aderire coord.dem.costituzionale@gmail.com

Domenico Gallo, Pietro Adami, Mario Agostinelli, Paola Altrui, Cesare Antetomaso, Pietro Antonuccio, Franco Argada, Franco Astengo, Gaetano Azzariti, Donata Bacci, Vittorio Bardi, Fausto Bertinotti, Mauro Beschi, Maria Luisa Boccia, Sergio Caserta, Enrico Calamai, Duccio Campagnoli, Giuseppe Cassini, Aurora D’Agostino, Roberto De Angelis, Claudio De Fiores, Tommaso Di Francesco, Piero Di Siena, Anna Falcone, Luigi Ferrajoli, Chiara Gabrielli, Fausto Gianelli, Alfonso Gianni, Rossella Guadagnini, Elisabetta Grande, Alfiero Grandi, Roberto Lamacchia, Sergio Labate, Raniero La Valle, Alberto Leiss, Citto Leotta, Lidia Lo Schiavo, Federico Losurdo, Silvia Manderino, Antonio Mazzeo, Alberta Milone, Rossella Muroni, Gian Giacomo Migone, Tomaso Montanari, Alberto Negri, Daniela Padoan, Francesco Pallante, Pierluigi Panici, Valentina Pazè, Claudia Pedrotti, Livio Pepino, Giancarlo Piccinni, Carmelo Picciotto, Antonio Pileggi, Bianca Pomeranzi, Jacopo Ricci, Rodolfo Ricci, Marco Romani, Giovanni Russo Spena, Giuseppe Salmè, Lucia Salto, Gianluca Schiavon, Massimo Serafini, Paolo Solimeno, Gianni Tognoni, Fabrizio Tonello, Enrico Tonolo, Aldo Tortorella, Giulio Toscano, Grazia Tuzi, Stefania Tuzi, Nadia Urbinati, Angelo Viglianisi Ferraro, Massimo Villone, Vincenzo Vita, Gianluca Vitale, Mauro Volpi, Antonia Sani, Umberto Franchi, Giuseppe Tadolini, Michelangelo Pietrobuono, Geni Sardo, Maurizio Francesco Giacobbe, Emilio Rossi, Alarico Mariani Marini, Luciano Kovacs, Maria Grazia Minelli, Giuseppe Gallelli, Lucy Pole, Patrizia Gallo, Elena Rampello, Tiziana Migliore, Gianni Alioti, Francesco Di Matteo, Laura Tussi , Alessandro Marescotti, Antonietta Salerno, Maurizio Acerbo, Maria Ricciardi Giannoni, Gianni Castellan, Hans Spinnler, Frida Spinnler, Raffaele Tecce, Francesco Montorio, Gaetano Bucci, Francesco Tanzarella , Haidi Gaggio Giuliani, Flavio Bedini, Silvio Gambino, Augusto Cacopardo, Angelo Cifatte, Giuseppe Bruzzone, Loredana Fasciolo, Caterina Di Francesco, Maria Pia Porta, Stefano Perri, Pietro Cocco, Maria Teresa Fiocchi, Carmen Campesi, Paola Agnello Modica, Consiglia Imputato, Marco Cinque, Daniele Barbieri, Giuliano Campo, Guido Falsirollo, Vittorio Agnoletto, Giovanni Consoletti, Leila Lisa d’Angelo, Silvana Rizzo, Mauro Mergoni, V. Michele Abrusci, Anna Di Sapio, Umberto Franchi, Loris Caldana, Rosario Russo, Adriana Giuliobello, Silvestro Profico, Dora Chiara Leonzio, Clemente Santillo, Mara Valentini, Mariangela Villa, Claudia Baldoli, Milena Confalonieri, Giuseppe Ventura, Luigi Mosca, Maurizio Ferron, Luciano Oliveri, Ester Prestini, Giorgia Ballarani, Marina Premoli, Lele Noferi, Danilo Bruno Storico, Adriana Buffardi, Adriano Querci, Gianluigi Trianni, Pierangelo Monti, Pasqualina Andro, Silvio Colloca, Vittoria Longoni, Gabriel Baravalle, Eleonora Cirant, Luisa Morgantini, Luciano Zambelli, Donatella Esposti, Marco De Luca, Andrea Buiatti, Armando Spataro, Beppe Casales, Gabriella Severino, Giacomo Meloni, Marco Mameli, Crotti Claudio, Cherchi Rita, Caterina Dolcher, Sonia Soldani, Pierluigi Tega, Rosario Grillo, Dante Bedini, Roberto Giuliani, Luisa Albini, Marialuisa Breda, Rina Zardetto, Giuseppe Murolo, Giuliano Albertini, Claudio Bella, Adriano Bracone, Beniamino Ginatempo, Maurizio Maurizi, Alma Biglieri, Giovanna D’Ambrosio, Francesco Lovison, Flavio Pajer, Claudio Natoli, Antonio Peratoner, Laura Cima, Bruno Abati, Serenella Muratori, Rosamaria Maggio, Angelo Grungo, Vincenzo Monaco, Augusto Bianco, Salvatore Consolente, Rossella Guadagnini, Fabrizio Caniglia, Donato Caporalini; Davide Bertok, Eliana Disabella, Alessandra Basilio, Mario Neri, Giovanna Corchia, Lucia Perrone, Isabella Bet, Alessandro Manfridi, Claudio Debetto, Monica Kleinefeld, Giulia Venia, Alessandro Capuzzo, Luigi La Delfa, Carlo Borriello, Tommaso Esposito, Furio Trezzi, Valentina Dovigo, Gabriella Santini, Enzo Beccaceci, Ivo Mattozzi, Luisa Albini, Pierluigi Albini, Maddalena Capezzera, Angelo Gaccione, Andrea Domenici, Giuseppe Barnato, Gianfranco Cammarata, Fausto Del Bene, Bruno Guglieri, Gianmaria Toffi, Fabio Amodio, Eugenia Marchesi, Giacomo De Lorentis, Alessandra Ferraresi, Rita Didomenica, Giancarlo Onor, Loretta Mussi, Rosario Giuè, Antonio Stupiggia, Paolo Fumagalli, Fanio Giannetto, Adriana Giussani, Bruno Vanetti Carlo, Maurizio Portaluri, Maria Rita Grazioso, Pietro Pertici, Emilio Vanoni, Roberto Collodel, Rita Angelastri, Massimo Iurino, Graziano Sampò, Maria Rosaria Bortolone, Agnese Priante, Angela Dogliotti, Fiora Pezzoli, Moreno Biagioni, Mariuccia Larocchia, Domenico Cifù, Valeria Volpe, Claudia Mazzilli, Rita Campioni, Nino Ferraiuolo, Giuseppe Natale, Clementina Mazzucco, Giuseppe Vitiello, Gianfranco Gamberini, Eleonora Zamboni, Bruno Zilio, Paolo Bertinat, Adele Pontiroli, Gianni Tasselli, Anna Maria Rizzi, Cinzia Spaolonzi, Lucia Gallo, Mario Albrigoni, Graziella Bassani, Donato Perreca, Mauro Conti, Germano Zanzi, Sergio Falcone, Ivan Morini, Renato Sala, Ivan Morini, Maria Paola Patuelli, Maria Conversano, Stefano Kegljevic, Fiorella Ercoli, Enzo Jorfida, Vito Capano, Piergiorgio Bortolotti, Giovanni Mottura, Massimiliano Galanti, Antonia Bufano, Freweini Bortolan, Franco Argada, Piera Nobili, Simone Del Corno, Maria Teresa Pietrantoni, Ilaria Cioffo, Alessia Di Grazia, Rosanna Carrera, Mirella Cerasa, Antonella Trocino, Marina Mannucci, Alberto Rebucci, Melania Rigon, Antonella Baccarini, Adelaide Castellucci, Pierpaolo Loi, Amelia Narciso, Gianni Manco, Renzo Laporta, Enzo Cabiddu, Angela Manna, Silvia Serra, Luciano Vecchi, Luisa Muston, Lucia Formenti, Maria Fraccaroli, Bruno Formenti, Ilaria Cioffo, Anna Cristina Meinardi, Gaetano Maculan, Alda Rizzo, Walter Tucci, Giulia Mariani, Augusto Cacopardo, Rosario Patane, Claudia Lazzaro, Marco Modena, Carmelo Labate, Aldo Sbrana, Luigia Oberrauch Madella, Mariella Urzì, Luciana Scognamiglio, Mariarosa Cami, Rosina Tallarico, Sergio Mondoni, Tiberio Tanzini, Alfredo Scognamiglio, Massimo Gallina, Eros Cozzari, Mauro Valiani, Marta Ghezzi, Laura Barile, Francesco Lucat, Rosanna Patrizi, Giulia Schiavo, Corrado Aprile, Carmelina Aprile, Maria Chiara Alba, Alvise Alba, Piero Murineddu, Daniela Nesi, Aurora Frigerio, Felice Scalia, Vania Valoriani, Stanislao Natali, Giuliano Valeriani, Giuseppe Longo, Manuela Galli, Licia Godeassi, Marzenka Matas, Mariagrazia Campari, Vanna Trevisan, Marinella Martucci, Gigi Lecci, Santino Marchiselli, Augusta Rossi, Anna Somenzi, Antonio Locoteta, Daniela Caramel, Martina Camarda, Giovanni Tarditi, Giuliana Martirani, Giancarlo Penazzi, Paolo Modesti, Silvana Pisa, Alberto Cacopardo, Filippo Lunesu, Claudio Morciano, Mario Martini, Cristina Quintavalla, Vittorio Pallotti, Lucia Davico, Augusto Dalmasso, Saverio Di Bella, Gabriele Serio, Paola Blasucci, Giuliano Muolo, Anna Tripoli Signore, Simone Del Corno, Giovanni Maniscalco, Maurizio Palmieri, Eleonora Fornai, Alberto Gandini, Paolo Pieroni, Silvia Lelli, Leonardo Grassi, Pietro Doneddu, Andrea Pubusa, Carlo Gubitosa, Maurizio Mastrogiovanni, Luciano Corradini, Dario Guastini, V. Cannici, Franco Meloni, Carlo Boi …
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Iniziativa della CSS Le tensioni politico militari sulla questione UCRAINA sono ormai arrivate a livelli insostenibili. È urgente mobilitarsi per PREPARARE LA PACE. Martedì 15 febbraio 2022 alle ore 18,00, presso la sede della Confederazione Sindacale Sarda in Via Marche, 9 a Cagliari si terrà un incontro per concordare una giornata di mobilitazione alla quale sei invitato ad intervenire. I primi promotori, Giacomo Meloni, Marco Mameli, Roberto Congia, Riccardo Piras, Mauro Zedda, Antonello Pranteddu. Siete invitati se concordate di aggiungere i vostri nomi tra i promotori. Saluti.
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Sinodo

sinodo-pcc-01di Enrico Peyretti.
Questo sinodo è chiamato ad essere una verifica di Chiesa intera, cioè non solo gerarchica, come è un concilio di vescovi; e una verifica particolarmente sincera, a causa del senso di crisi che la Chiesa vive: crisi sotto diversi aspetti, non solo per la pandemia, ma anche per gli abusi clericali, per problemi della gestione economica, e per quella «esculturazione» del cristianesimo dalla cultura sociale vastamente prevalente.
Questo sinodo ha da essere non solo una consultazione, più o meno utilizzata davvero, come in precedenti occasioni, ma una vera espressione di Chiesa, dell’intero Popolo di Dio consapevole. [segue]

Percorrendo il cammino sinodale

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Sostenuti dallo Spirito, in attuazione del Concilio.
Nei cammini sinodali, in ascolto e partecipi delle sfide e dei cambiamenti del mondo.
Alcune riflessioni e proposte per la Chiesa e la Società sarda.
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di Franco Meloni
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Il Concilio ecumenico Vaticano II, convocato da Giovanni XXIII e cominciato l’11 ottobre 1962, chiuso da Paolo VI l’8 dicembre 1965, fu indubbiamente un avvenimento grandioso per la Chiesa, che si affermava sempre più cattolica, nel significato di universalità, e per il Mondo.
Allora io ero molto giovane e nonostante militante della Gioventù di azione cattolica (Giac) nell’associazione Giuseppe Toniolo della parrocchia S.Anna di Cagliari, poco avvertii la portata del Concilio, se non per gli aspetti di innovazione nella liturgia. Certo, insieme con gli amici della mia e vicine generazioni avvertimmo il vento del cambiamento, ma senza capirne il profondo significato, ignorando quanto il Concilio aveva sancito nelle sue costituzioni e negli altri documenti. Solo alcuni anni più tardi cominciammo a prenderne consapevolezza, quando con la presidenza diocesana della Giac organizzammo momenti di riflessione e confronto in ambito studentesco (di frequente a La Madonnina di Cuglieri). Su quell’onda cominciammo a collegarci con le esperienze di comunità ecumeniche (Taize’, S.Paolo fuori le mura a Roma, Isolotto a Firenze; e anche in Sardegna: S.Rocco e S.Elia a Cagliari, Bindua). E a frequentare appuntamenti sulle grandi tematiche di rilievo della fase storica (Convegni giovani promossi dalla Pro Civitate Christiana di Assisi). Furono per noi le premesse culturali dell’impegno nel sociale, soprattutto nei quartieri urbani, contemporaneamente coinvolti nei Movimenti contestativi del ‘68. Circostanze che segnarono un accentuarsi delle difficoltà di rapporti con la Chiesa istituzionale da cui gradualmente in molti ci staccammo. Poteva andare diversamente, ma di sicuro non sentimmo il sostegno della Chiesa nelle nostre scelte esistenziali e vivemmo progressivamente il post Concilio come un “tornare indietro” rispetto alle attese dei primi tempi. Insomma non il Concilio ma la sua concreta attuazione fu per noi e per molti altri una delusione, o perlomeno una “mancata opportunità”, una “grande incompiuta”. Senza per questo disconoscerne i grandi frutti prodotti – come non dimenticare che uno di questi fu proprio la creazione della Caritas, ad opera di Paolo VI (1) – ma sicuramente non nella misura in cui il suo potenziale avrebbe consentito e ci saremo aspettati. È ora giunto il momento di riprendere quel cammino interrotto per noi e per molti. Sarà anche questo un frutto del Sinodo. Lo speriamo e sappiamo che molto dipende da ciascuno di noi.

Ho narrato di una personale esperienza, che non pretende di assurgere ad analisi generale, perché mi pare scorgervi un’assonanza con considerazioni di altre persone, tra cui quelle autorevoli di mons. Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea, l’ultimo vescovo vivente che ha partecipato al Concilio Vaticano II. In una recente intervista (2) così rispondeva alla domanda su quale sia la principale eredità del Concilio: «L’impegno ad attuarlo compiutamente, affidandolo alla responsabilità personale di ciascuno». E su cosa in particolare, debba essere ancora attuato: «Il riconoscimento del popolo di Dio. Noi siamo stati abituati come gerarchia ad agire e chiedere l’obbedienza dei fedeli: questa responsabilità della gerarchia rimane, ma dopo aver ascoltato, dobbiamo maturare insieme col popolo di Dio. L’importante compito che hanno i laici è di portare le sensibilità, le mentalità, i problemi del mondo d’oggi per poter tutti insieme preparare la decisione finale della gerarchia. (…) Quindi è importante questo spirito di dialogo, di comunione, di incoraggiamento all’interno della Chiesa, affinché la gerarchia sia in grado di dire l’ultima parola (…) Pertanto non credo serva un nuovo Concilio perché dobbiamo ancora attuare quello passato e il rischio sarebbe di tornare indietro invece che andare avanti. Purtroppo se guardiamo alla liturgia, al clericalismo… ancora tanto c’è da fare. Fortunatamente però il Signore ci ha donato un Papa come Francesco che, pur non avendo vissuto i giorni del Concilio, lo sta mettendo in pratica».
La vera continuità del Concilio sta dunque nel Sinodo, attraverso i percorsi sinodali intrapresi dalla Chiesa universale e dalle Chiese particolari, affidati al protagonismo di tutto il popolo di Dio, assistito dallo Spirito santo.

Come è noto i percorsi sinodali avviati nel 2021 sono due, che ovviamente si intrecciano: il “Sinodo 2021-2023” della Chiesa universale, intitolato «Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione», che si è aperto il 9-10 ottobre in Vaticano e il 17 ottobre in tutte le diocesi del mondo (3); l’altro è il cammino sinodale italiano, ufficialmente aperto dall’Assemblea della CEI dello scorso giugno, che si snoderà fino al 2025 nel solco delle indicazioni emerse dal Convegno ecclesiale di Firenze del 2015 (4).

In questo scritto focalizziamo le nostre riflessioni soprattutto sulla missione apostolica della Chiesa, in particolare con riferimento alla Chiesa italiana, in ascolto e partecipi delle sfide e dei cambiamenti del mondo contemporaneo. Lo facciamo in sintonia con le indicazioni della Chiesa italiana, formulate attraverso la CEI, con particolare attenzione alle problematiche della nostra Regione.

Dai tanti documenti esplicativi dei percorsi sinodali, pubblicati nei siti web dedicati, riprendiamo solo alcuni spunti, utili per i nostri ragionamenti (5).

“Nell’intraprendere questo cammino, la Chiesa di Dio che è in Italia non parte da zero, ma raccoglie e rilancia la ricchezza degli orientamenti pastorali decennali della CEI, elaborati fin dagli anni ’70 del secolo scorso, i quali, in un fecondo intreccio con il magistero dei Pontefici, da Paolo VI a Francesco, costituiscono una mappa articolata e sempre valida per la vita delle nostre comunità. Nel suo documento programmatico Evangelii Gaudium, Papa Francesco ha rilanciato con parole nuove e vigorose la dimensione missionaria dell’esperienza cristiana, disegnando piste coraggiose per l’intera Chiesa, provocandola a mettersi più decisamente in cammino insieme alle donne e agli uomini del nostro tempo; quel documento, dispiegatosi poi sempre più chiaramente nei gesti, nelle scelte e negli insegnamenti del Papa, costituisce un’eccezionale spinta a dare carne e sangue all’ispirato inizio della Costituzione conciliare Gaudium et Spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (6):

“Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. La loro comunità, infatti, è composta di uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre, ed hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti. Perciò la comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia”.

E’ una missione che la Chiesa svolge da sempre, ma ovviamente noi pensiamo soprattutto al Mondo di oggi, con tutti i suoi problemi, ai quali corrisponde con la sua presenza, le sue opere e le sue sollecitazioni pastorali. E con il suo respiro universale, guidato da Papa Francesco, purtroppo “in solitudine” o perlomeno con pochi “compagni di strada” nelle realtà delle compagini umane (7). Se ci riferiamo agli ultimi tempi i capisaldi del messaggio evangelico della Chiesa sono le ultime due encicliche sociali di Papa Francesco, Laudato sì’ e Fratelli tutti. Verrebbe da dire che l’Umanità “chiama e invoca aiuto” anche quando il suo lamento non è precisamene indirizzato. La Chiesa comunque risponde, proponendo non le soluzioni, ma le condizioni perchè queste vengano costruite, rivolgendosi a tutto il popolo di Dio, che si allarga a tutti gli uomini e donne di buona volontà, in ultima analisi a tutta l’Umanità. Come non trovare in questa azione della Chiesa l’anelito alla fratellanza, all’eguaglianza, alla solidarietà, alla libertà di tutto il genere umano nella salvaguardia della Terra, la nostra casa comune.

Commenta mirabilmente la CEI l’incipit della Gaudium et Spes (6):

“In queste righe è racchiuso il significato del cammino sinodale, perché vi è concentrata la natura della Chiesa: non una comunità che affianca il mondo o lo sorvola, ma donne e uomini che abitano la storia, guardando nella fede a Gesù come il salvatore di tutti (cf. Lumen Gentium 9) e pellegrinando insieme agli altri con la guida dello Spirito, verso la meta comune che è il regno del Padre. La Chiesa è stata concepita in movimento, nel viaggio di Abramo da Ur dei Caldei (cfr. Gen 11,31) e nelle chiamate di Gesù ai discepoli sul lago e sulle strade (cfr. Mt 4,18‐23); la Chiesa è popolo pellegrino, che non percorre sentieri privilegiati e corsie preferenziali, ma vie comuni a tutti; la Chiesa non è fatta per stabilirsi, ma per camminare. La Chiesa è Sinodo (syn‐odòs), cammino‐con: con Dio, con Gesù, con l’umanità”.

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Ma per venire a “cose da fare”, dando atto delle numerose iniziative avviate nella nostra Diocesi, come anche riportate sul sito dedicato (3), scegliamo di dare un nostro contributo che pensiamo contribuisca ad integrare e arricchire le attività già in atto e quelle programmate, per i primi due anni del cammino sinodale. Proposte che si rivolgono anche a quanti poco o niente oggi frequentano la Chiesa e che ci sembra corrispondano all’impostazione data dall’Arcivescovo di Cagliari, di cui alla nota del Vicario generale (8), laddove è detto:

“Il Cammino Sinodale vuole contribuire a mettere in movimento le nostre comunità e suscitare una rinnovata consapevolezza del senso profondo del nostro essere Chiesa; la sinodalità vuole costituire anche l’occasione per un impulso alla missionarietà delle nostre comunità.
I primi due anni, costituiti da una prima fase narrativa, saranno caratterizzati dal mettersi all’ascolto di “ciò che lo Spirito dice alle Chiese”; sarà pertanto necessario il coinvolgimento, il più ampio possibile, degli organismi pastorali, consigli pastorali parrocchiali, consigli per gli affari economici, movimenti, gruppi di catechesi, senza dimenticare che «può essere significativo interpellare anche chi guarda alla Chiesa dall’esterno, per provare ad ascoltare quel che hanno da dirci e da chiedere. Confrontarsi con la percezione che della comunità ecclesiale e delle sue dinamiche interne ha la gente comune, con ciò che le persone si attendono. Questo può sicuramente contribuire a fare acquisire quel metodo che la carta d’intenti del Sinodo della Chiesa in Italia definisce “dal basso”, anche in rapporto al contesto» (cfr CEI, Prima bozza di esempio di percorso sinodale, Roma, 27-29 settembre 2021).
Non andrebbero esclusi dal Cammino Sinodale anche i luoghi della fragilità e della cura, i luoghi della cultura e dell’arte, i luoghi del lavoro e dell’economia, i luoghi della cittadinanza e della politica. Come da questi luoghi si percepisce la comunità ecclesiale?”

Il nostro contributo mira proprio a facilitare tale coinvolgimento, calato nella realtà della nostra regione, la quale vive oggi una situazione di estremo disagio.

Accumunati a molte altre realtà in Italia e nel Mondo, la Sardegna ha molti problemi, che l’epidemia del Covid ha aggravato e aggrava ogni giorno che passa. Non vogliamo qui farne ulteriore elenco. Chi lo volesse non ha che da sfogliare i quotidiani locali o consultare le News online di informazione politica. E neppure vogliamo parlare delle ricette per risolvere o perlomeno affrontare questi problemi. Anche queste le troviamo ogni giorno esposte, più o meno bene, negli stessi media.

Qui vogliamo semplicemente lanciare un messaggio e proporre una riflessione su che cosa possono fare i cattolici insieme con tutte le persone di buona volontà disposte a fare un percorso di comune impegno. Il messaggio è il seguente: la Sardegna ha soprattutto bisogno di fiducia. Innanzitutto della fiducia dei sardi verso se stessi, che è la condizione perché gli altri abbiano fiducia nei sardi. Dobbiamo pertanto impegnarci tutti a creare quel clima di fiducia che ci consenta di affrontare i problemi e di impegnarci a risolverli mettendo a frutto le capacità personali e delle comunità di appartenenza. Tutto ciò sembra banale, ma non lo è affatto. Sicuramente è difficile. Pensate cosa significa creare fiducia nel mondo della politica. Significa praticare rapporti di scambio tra persone che nella ricerca del bene comune, anche nel confronto e nello scontro dialettico, arrivino a soluzioni ottimali. La condizione è che si pratichi l’ascolto reciproco, come prevede il cammino sinodale, che si persegua l’obbiettivo della massima partecipazione. Cosa abbastanza diversa da quanto accade oggi, laddove la politica tende a selezionare le idee e le scelte sulla base degli interessi dei gruppi prevalenti e la partecipazione popolare alla gestione della cosa pubblica è sempre più ristretta. Allora, se si vuole invertire la rotta, occorre allargare gli spazi di partecipazione democratica sia per quanto riguarda l’accesso alle rappresentanze istituzionali (riforma delle leggi elettorali), sia per la promozione della cittadinanza attiva, sia per la valorizzazione delle competenze che devono prevalere sulle appartenenze.

Se dunque è la “partecipazione” la chiave giusta per ridare speranze di rinascita al popolo sardo, occorrono impegni concreti per favorirla, avendo come chiaro e virtuoso riferimento l’art. 3 della nostra Costituzione, laddove al comma 2 recita: “E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Insomma, c’è da dibattere e lavorare, nella consapevolezza che occorre maggiore dinamismo e disponibilità all’incontro esattamente come previsto dai percorsi sinodali, ovviamente sorretti da spirito evangelico e da correlato ottimismo della volontà! Ci sarebbe molto da discutere a tutto tondo sull’impegno dei cattolici in Politica, che, come ci ha insegnato Paolo VI, costituisce la più alta forma dell’esercizio della Carità. Ma in questo contributo scegliamo di soffermarci in prevalenza su quella parte della Politica che attiene alle questioni sociali, a sottolinearne urgenze e priorità, anche per quanto argomentiamo di seguito.

Siamo convinti che la situazione attuale della nostra società migliorerebbe fortemente se si sviluppasse un impegno politico che consentisse di rendere più incisivo e produttivo il poderoso lavoro che sul piano dell’impegno sociale fanno i volontari nelle diverse organizzazioni cattoliche e laiche al servizio della gente, in modo particolare degli ultimi. Innanzitutto ai volontari è richiesto che diano un aiuto alla Politica, anche se la stessa non la chiede. Al riguardo condividiamo in toto un invito formulato da Walter Tocci in un recente convegno della Caritas romana (9).

In questa sede avanziamo alcune proposte autonomamente elaborate o che riprendiamo da altri – una in particolare da uno scritto di Enzo Bianchi (fondatore della Comunità di Bose) (10) – che riecheggiano le riflessioni del “Patto per la Sardegna” lanciato nel novembre 2020 da un gruppo di intellettuali cattolici sardi (11).

1. Moltiplicare gli spazi di partecipazione, ascolto, confronto, discernimento.
In piena sintonia con l’impostazione dei cammini sinodali, si tratta di dare vita nelle chiese locali, diocesane e regionale, e in tutte le diverse realtà parrocchiali e di altra natura di appositi spazi nei quali “tutti i cattolici che si sentono responsabili nella vita ecclesiale e nella società possano essere convocati e quindi partecipare: incontri realmente aperti a tutti, che sappiano convocare uomini e donne muniti solo della vita di fede, della comunione ecclesiale, della consapevole collocazione nella compagnia umana”. Si tratta di chiamare tutte e tutti a “esprimersi in merito a una lettura della vita sociale, delle urgenze che emergono, occasioni di confronto in cui si esaminano i problemi che si affacciano sempre nuovi nella vita del paese e si cerca di discernere insieme alla luce degli insegnamenti del Vangelo. Da questo ascolto reciproco, da questo confronto, possono emergere convergenze pre-politiche, pre-economiche, pre-giuridiche che confermano l’unità della fede ma lasciano la libertà della loro realizzazione plurale insieme ad altri soggetti politici nella società”. Spazi pubblici reali in cui “pastori e popolo di Dio insieme, in una vera sinodalità, ascoltino ciò che lo Spirito dice alle chiese e facciano discernimento per trarre indicazioni e vie di testimonianza, di edificazione della polis e della convivenza buona nella giustizia e nella pace”. È in questi spazi che si possono “delineare le istanze evangeliche irrinunciabili, che poi i singoli cattolici con competenza e responsabilità tradurranno in impegni e azioni diverse a livello economico, politico, giuridico”.

Da queste attività si può partire per ulteriori indispensabili interlocuzioni con il “resto del mondo” per comuni percorsi nel perseguire il bene comune. Ovviamente il coinvolgimento di appartenenti ad altre confessioni religiose e anche di non credenti sarebbe possibile è auspicabile fin da subito, decidendosi caso per caso le modalità di apertura.

2. Cattedra dei non credenti e Cortile dei Gentili: esperienze da proporre, opportunamente adattate, anche nella nostra realtà sarda.
Un’altra proposta, che s’iscrive nell’esortazione a «interpellare anche chi guarda alla Chiesa dall’esterno, per provare ad ascoltare quel che hanno da dirci e da chiedere» è quella di ripercorrere le orme della «Cattedra dei non credenti», del grande uomo di chiesa cardinale Carlo Maria Martini (12), cogliendone l’essenzialità, anche se in forme attuative diverse dall’esperienza originale. Forse avvicinandosi a quella tuttora viva e di largo seguito del «Cortile dei Gentili», animata dal cardinale Gianfranco Ravasi (13). Ovviamente anche qui in programmi e modalità corrispondenti alle energie che persone di buona volontà vogliono mettere in campo, risorse che non mancano anche dalle nostre parti.

3. L’ascolto nell’esperienza della Caritas (14)
Quantunque presi dalla frenesia di fare cose nuove o proporre iniziative collaudate in altri ambienti che per noi avrebbero il gusto dell’inedito, non possiamo certo dimenticare quanto di buono già si fa dalle nostre parti, magari con la voglia di migliorare. Con questo intento, ripercorriamo in particolare, anche come esemplificazione, le iniziative di “ascolto” della nostra Caritas.
In tale ambito un’iniziativa pastorale di rilievo concerne il rafforzamento del Centro di Ascolto Giovani. Esso offre le seguenti forme concrete di aiuto: sostegno emotivo, ossia tutte quelle attività che permettono di prendersi cura dei ragazzi per le loro fragilità relazionali, sociali e psicologiche e sostegno strumentale, per assistere i giovani nelle operazioni di natura burocratica e per affrontare la condizione di disoccupazione.
In sinergia con il Centro di Ascolto Diocesano, si segnala l’implementazione di un servizio di supporto psicologico gratuito, fondamentale per i giovani, specie nelle situazioni di disagio emotivo ed esistenziale in momenti critici della vita. Il servizio di supporto psicologico mira a promuovere lo sviluppo e la valorizzazione delle risorse personali, facilitare le capacità decisionali dei giovani per sviluppare una migliore consapevolezza del proprio agire nell’affrontare problematiche di carattere personale e/o professionale. In sinergia con gli interventi istituzionali, in gran parte sostenuti dall’Unione Europea, dallo Stato e dalla Regione Sarda, il Centro di Ascolto Giovani svolge un ruolo di informazione e di formazione, in cui gli operatori accolgono i ragazzi, anche aiutandoli negli adempimenti di natura burocratica, per intraprendere la strada della propria vocazione professionale. In tale ambito se un giovane ha un’idea imprenditoriale meritevole di supporto, il Centro di Ascolto Giovani può mettere a disposizione un’ampia rete di professionisti per assisterlo con competenza nella realizzazione del suo progetto, utilizzando le numerose opportunità fornite dai soggetti istituzionali, tra le quali quelle che si iscrivono nel PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) (15) e nei Fondi strutturali europei di coesione sociale territoriale.
Di tale rete fa parte anche il Progetto Policoro, realtà condivisa tra Caritas, Pastorale Sociale e del Lavoro e Pastorale Giovanile che ha come missione i giovani, il Vangelo ed il lavoro. Il servizio del Centro di Ascolto Giovani è esteso alle persone dai 15 ai 40 anni di età. Un Centro di Ascolto “a tutto tondo”: uno spazio di libertà, in cui i giovani possano sentirsi accolti, ascoltati e compresi nelle loro importanti esigenze per costruire insieme progetti di vita piena e finalizzati alla loro autonomia.
Per tutto ciò, si rimarca la necessità di agire nella prospettiva di percorsi sinodali di ampio respiro capaci di intessere reti, alleanze ed occasioni di corresponsabilità nella consapevolezza che è fondamentale operare insieme nella direzione della giustizia sociale e del bene comune.
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Queste proposte, che ci sembrano collimino con le posizioni di tanti altri partecipanti al dibattito, in certa misura già in attuazione, appaiono ulteriormente migliorabili e percorribili nei cammini sinodali.

Infine una considerazione: la Chiesa propone e pratica concretamente un metodo, quello sinodale ispirato dal Vangelo, che può costituire un decisivo aiuto per rafforzare le democrazie contemporanee che in tutto il mondo stanno attraversando fasi di crisi, in talune realtà fino al pericolo della propria sopravvivenza. Anche su questo versante, nel rispetto dei diversi ambiti, si può camminare insieme con tutti gli uomini e le donne di buona volontà e con le tante e diverse organizzazioni di impegno sociale e culturale che animano le nostre società, verso la Salvezza dell’Umanità e di tutto il Creato.

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Note [segue]

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L’ATTESA E IL POTERE

Care amiche ed amici,

se c’è un periodo dell’anno, almeno fino a quando resti una sopravvivenza di memorie cristiane, contrassegnato da un senso di attesa, questo è il tempo di Avvento che stiamo vivendo: un tempo liturgico tradizionalmente esteso alla stagione civile, in cui si parla della venuta di qualcuno, dell’accadere di qualcosa, da cui il futuro sarà modificato. Si tratta del Natale, di cui qualcuno dice che non si dovrebbe neanche parlare, per alludere invece a più generiche “feste”.
L’attesa che quest’anno attraversa tutto il mondo è per la fine della pandemia, ma essa per un verso è legata a fattori imprevedibili, per un altro verso è legata alla sola cosa che sarebbe risolutiva e che non vogliamo fare, cioè la soppressione dei brevetti sui vaccini e i farmaci salvavita , la vaccinazione universale e drastiche riforme per rendere salubre l’aria che respiriamo come abbiamo reso potabile nei tubi l’acqua che beviamo.
L’altra attesa che domina oggi in Italia i discorsi della politica è quella dell’elezione del presidente della Repubblica, a cui sembra che tutto drammaticamente sia sospeso, compresa la durata della legislatura, mentre dovrebbe essere un evento ordinario della vita democratica. Draghi ne approfitta per ignorare i sindacati, la destra la enfatizza come il passaggio cruciale della sua acquisizione definitiva del potere: Renzi, che non ne possiede affatto le chiavi, ha già regalato la presidenza alla destra come se le toccasse per diritto di successione, la Meloni la rivendica come sua, ne fa l’architrave della “casa dei conservatori”, la ordina al presidenzialismo e la riserva a un “patriota” che nella sua semantica sembra parola molto affine a “fascista” e lo fa come se non fosse per Costituzione dovere non solo di un presidente ma di ogni titolare di funzioni pubbliche adempierle con disciplina ed onore, cioè per la “patria”.
Quello che si dimentica, e proprio nel momento in cui si fa appello a una millantata identità liberale e cristiana, è che se il potere è mitigato dalla tradizione liberale esso è addirittura rovesciato nel suo contrario dalla tradizione cristiana; c’è scritto nel Vangelo che Pilato non avrebbe nessun potere se non gli fosse dato dall’alto, che essere re vuol dire stare nel mondo per dare testimonianza alla verità, sta scritto nelle lettere di san Paolo che il Verbo di Dio svuotò se stesso e che la forma di Dio ha preso la forma del servo; mentre a conclusione del suo “Funzioni e ordinamento dello Stato moderno” Giuseppe Dossetti sottolineò che secondo il greco della “Lettera ai Romani” coloro che esigono i tributi devono essere considerati come “liturghi di Dio”. Il rovesciamento del potere in diaconia, in testimonianza, in martirio e dono di sé è l’apice del paradosso cristiano, mentre l’ideologia machiavelliana che fa del potere un idolo ne è la massima contraddizione; all’opposto i controlli, i limiti e le garanzie nei confronti del potere sono il massimo inveramento che le Costituzioni moderne e soprattutto il costituzionalismo postbellico, che ora vogliamo proiettare verso una Costituzione mondiale, realizzano di una rivoluzione non più solo religiosa e politica, ma antropologica.
Contro questa conversione del potere assistiamo alle sfide più dure. Su tutti i fronti la destra è all’attacco per dare perennità ai poteri esistenti, potere del denaro sulla politica, potere dei padroni sui servi, potere delle cose sull’uomo, potere dei cittadini sugli stranieri. Secondo il quotidiano britannico “Guardian” il 6 gennaio scorso ci sarebbe stato un piano che avrebbe dovuto consentire a Trump di perpetuare il suo potere invalidando l’elezione di Biden, quando esplose l’attacco dei “patrioti” al Campidoglio; sui collegi elettorali americani il sistema sta lavorando per configurarli in modo che ne sia scontata l’assegnazione alla destra; in Inghilterra un tribunale decide l’estradizione di Assange per bollare come delitto lo svelamento dei crimini del potere, mentre come ha denunciato il papa all’Angelus le statistiche dicono che quest’anno si sono fatte più armi dell’anno scorso, ultima istanza di un potere incondizionato.
È contro questo dilagare inarginato del potere che le risorse dell’etica, della politica, del costituzionalismo e del diritto devono essere mobilitate perché la democrazia resti nell’attesa dei futuro.
Con i più cordiali saluti,

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una Terra
un popolo
una Costituzione
una scuola

Newsletter n. 55 del 1 dicembre 2021

SE IL GENERALE SCENDEVA

Carissimi tutti,
il progetto di una Costituzione della Terra ha avuto una sorta di battesimo il 24 novembre scorso, nel quadro delle ricchissime cost-terra-logoiniziative del Festival della pace di Brescia, che promosso dal Comune e dalla Provincia di quella città, ha tra i suoi meriti anche quello di promuovere l’adesione dell’Italia al Trattato per la interdizione delle armi nucleari. Nell’Incontro, in cui il prof. Ferrajoli ha illustrato l’iniziativa costituente e Tecla Mazzarese i relativi “materiali” pubblicati dall’editore Giappichelli, il presidente del Consiglio comunale, Roberto Cammarata, che lo moderava, ha anche letto il possibile “Incipit” di una Costituzione della Terra che potrebbe dire così: “Noi abitanti della Terra che veniamo da immense gioie e indicibili sofferenze, decidiamo di vivere insieme, nessuno escluso, in pace, senza armi d’offesa, senza fame omicida, senza muri violenti, e volendo salvare la Terra ci diamo la seguente Costituzione:…”.
Hanno partecipato al dibattito anche i professori Francesco Pallante, Fabrizio Sciacca e Franco Ippolito; non disponiamo dei testi degli interventi ma sulle origini del progetto costituente nella storia politica e culturale del Novecento si può trovare nel sito l’intervento di Raniero La Valle. In particolare vi è citata come precedente la proposta di un mondo libero dalle armi nucleari e non violento, che Mikhail Gorbaciov e Rajiv Gandhi, come laeders politici di un quinto dell’umanità del tempo, avanzarono con la “dichiarazione di Nuova Delhi” del 27 novembre 1986, fondata su dieci principi fondamentali di cui i primi tre recitavano:
“1. La coesistenza pacifica deve diventare una norma universale dei rapporti internazionali:
nell’era nucleare è indispensabile ristrutturare le relazioni internazionali, affinché il confronto sia soppiantato dalla cooperazione e le situazioni di conflitto siano risolte con mezzi politici pacifici e senza ricorrere alle armi.
“2. La vita umana dev’essere considerata il valore supremo:
il progresso e lo sviluppo della civiltà umana possono essere assicurati in condizioni di pace e soltanto dal genio creativo dell’uomo.
“3. La nonviolenza dev’essere alla base della vita della comunità umana:
la filosofia e la politica fondate sulla violenza e sull’intimidazione, sulla disuguaglianza e sull’oppressione, sulla discriminazione di razza, di fede religiosa o di colore della pelle sono immorali e inammissibili. Esse sprigionano uno spirito di intolleranza, sono deleterie per le nobili aspirazioni dell’uomo e negano tutti i valori umani”.
Quell’antica proposta dimostra come un mondo così può essere pensato in sede politica e perseguito da poteri responsabili. Purtroppo i protagonisti di allora, a cominciare dagli antagonisti occidentali dell’Unione Sovietica, non erano disponibili a realizzarla, come fu dimostrato tre anni dopo dalla miope reazione alla decisione politica di Gorbaciov di far venir meno il muro di Berlino e di passare dalla guerra fredda alla pace; nell’intervento citato si racconta di una visita scoraggiante di parlamentari italiani al Dipartimento di Stato e al Pentagono proprio l’8 novembre dell’89 e poi della risposta del generale americano che volava 24 ore su 24 per 365 giorni all’anno sui cieli dell’America per essere pronto in ogni evenienza a scatenare l’ecatombe nucleare; a chi lo incitava lietamente in un collegamento da terra a scendere perché la guerra ormai era finita, rispondeva che la guerra doveva restare sempre pronta all’esercizio. Se invece davvero quel generale fosse sceso e si fosse creduto alla pace, tutto il corso della storia successiva sarebbe stato diverso. La guerra del Golfo era vicina.
Nel sito labibliotecadialessandria, tra “I precedenti”, pubblichiamo la “lettera ai comunisti italiani” del 24 gennaio 1986.
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Vi informiamo da ultimo che l’assemblea annuale di Costituente Terra è convocata per il 27 gennaio 2022 alla Biblioteca Vallicelliana, ci auguriamo in presenza o in ogni caso a distanza e con il relativo link. All’o.d.g. l’approvazione del bilancio 2021, l’elezione del presidente e degli organi statutari e lo sviluppo delle attività, a cominciare da un più largo coinvolgimento di tutti nel processo costituente. Tutti gli iscritti vecchi e nuovi sono invitati a partecipare. Per le quote resta stabilito quanto indicato nell’appello istitutivo: “La quota annua di iscrizione è libera, e sarà comunque gradita. Per i meno poveri, per quanti vogliano e possano contribuire a finanziare la Scuola, eventuali borse di studio e il processo costituente, la quota è stata fissata nella misura significativa di 100 euro, con l’intenzione di sottolineare che la politica, sia a pensarla che a farla, è cosa tanto degna da meritare da chi vi si impegna che ne sostenga i costi, contro ogni tornaconto e corruzione. Naturalmente però è inteso che ognuno, a cominciare dai giovani, sia libero di pagare la quota che crede, minore o maggiore che sia, con modalità diverse, secondo le possibilità e le decisioni di ciascuno”. Per i versamenti, benvenuti fin d’ora per sostenere la gestione dei siti e le spese ordinarie, si prega di usare l’IBAN IT94X0100503206000000002788 (dall’estero BIC BNLIITRR), intestato a “Costituente Terra”.
Con i più cordiali saluti

www.costituenteterra.it
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QUALCHE PRECEDENTE NELLA STORIA DEL ‘900
1 DICEMBRE 2021 / COSTITUENTE TERRA / IL PROCESSO COSTITUENTE /
Dalle Nazioni Unite alla guerra fredda alla dichiarazione di Nuova Delhi alla rimozione del muro di Berlino: una lunga gestazione nella vicenda del 900

Raniero La Valle

Si è tenuto il 24 novembre 2021 nel quadro delle iniziative del Festival della pace di Brescia un Incontro, moderato da Roberto Cammarata, per la presentazione del progetto di una Costituzione della Terra e dei relativi “Materiali” pubblicati nella collana dell’Editore Giappichelli. Relatori al Convegno sono stati Luigi Ferrajoli, Raniero La Valle, Tecla Mazzarese, Francesco Pallante, Fabrizio Sciacca e Franco Ippolito. Su qualche precedente nella vicenda politica e culturale del Novecento si è svolto il secondo intervento che qui riprendiamo.

Nel Novecento, dopo la catastrofe della guerra, della Shoà, della bomba atomica, il mondo si è reso conto del fatto che la cultura che lo aveva portato fin lì non era in grado di assicurare la continuità della storia, bisognava fondare il mondo su nuove basi, bisognava ripudiare la cultura della guerra, gli imperialismi, le colonie, l’ideologia delle sovranità assolute, avviare un multilateralismo che permettesse di affrontare le nuove sfide. Furono fondate le Nazioni Unite, la prima Convenzione che venne adottata fu quella contro il genocidio, fu proclamata almeno a parole l’eguaglianza, non solo delle persone, ma anche delle Nazioni grandi e piccole, si tentò di mettere su delle istituzioni per introdurre qualche rimedio all’anarchia dell’economia selvaggia.
La politica non fu però coerente con questa conversione del pensiero, gli Imperi non cadono senza resistere, le colonie non finiscono senza lotte di liberazione, l’economia confligge con la politica e le resiste, e la rivoluzione non c’è stata. C’è stata invece la guerra fredda e la politica del terrore ha dettato il nuovo ordine del mondo.
A ciò si è aggiunto un fattore prima sconosciuto, l’onnipotenza e l’autoreferenzialità della tecnica che suscitava in uno dei maggiori filosofi del Novecento, Martin Heidegger, la domanda se ormai solo un Dio ci potesse salvare. Ma al di là di questo estremo si era fatta strada la percezione negli osservatori più illuminati che non solo questo o quel regime politico economico e sociale fosse in crisi, ma che l’intero corso storico fosse giunto con la modernità a una crisi senza uscita per la quale senza un cambiamento radicale non si potesse evitare la rovina e la pace non potesse essere costruita.
In che consisteva questa crisi? Secondo un grande economista e filosofo nostro, Claudio Napoleoni, essa consisteva nella perdita dell’uomo come soggetto; il capitalismo, con il suo primato del momento economico era riuscito ad assorbire tutta la realtà rendendo tutti, padroni ed operai, ricchi e poveri meccanismi e figure di una macchina produttiva a cui erano assoggettati e in cui tutti erano inclusi. Era, in una forma particolarmente inclusiva, l’alienazione diagnosticata dal marxismo, anche se senza una risposta ideologicamente e politicamente adeguata.
Il Club di Roma poneva nel 1971 il problema dei limiti dello sviluppo: finivano le risorse, la Terra non è un sistema incondizionato, occorreva rovesciare i paradigmi dello sfruttamento dell’ambiente.
Negli anni 80 dopo il delitto Moro (1978) il PCI apriva un dibattito sulla sua funzione come partito, unico in Italia, che aveva tenuto aperta, sia pure a fatica, l’istanza rivoluzionaria.
In vista del congresso di questo partito, convocato per l’aprile 1986, Claudio Napoleoni ed io, insieme a molti esponenti della cultura e della politica, prevalentemente cattolici, scrivemmo una lettera ai comunisti; tra i firmatari c’erano padre Balducci, Eleonora Moro, Adriano Ossicini, Mario Gozzini, Italo Mancini e molte realtà di base (la si può trovare ora nella prima sala del sito http://labibliotecadialessandria.costituenteterra.it/sala-i-il-processo-costituente/#i-precedenti ).
L’appello rivolto ai comunisti – ed era una bella pretesa – era che il partito comunista cambiasse per così dire la sua ragione sociale, che questa non fosse, dogmaticamente, l’uscita dal capitalismo, ma fosse in modo più esigente l’uscita dal sistema di guerra. Per discuterne i firmatari convocarono a Cortona per l’11e 12 ottobre 1986 un convegno la cui relazione introduttiva fu tenuta da Claudio Napoleoni. La diagnosi era impietosa; la gravità della crisi stava nel fatto che la guerra non era più solo un evento possibile, catastrofico e addirittura finale della convivenza umana, dopo la bomba atomica, le armi spaziali e tutto il resto che gli uomini avevano imparato dell’ “arte della guerra”, ma era diventata una funzione costituente dell’intera società, in qualche modo la sua costituzione materiale, intorno alla quale tutto il sistema politico e sociale era strutturato. In tal modo il sistema di guerra era diventato il culmine e la garanzia di un sistema di dominio, che non era solo il dominio degli uni sugli altri, di popoli su altri popoli, ma era il dominio del sistema di produzione capitalistico su tutti gli uomini, per cui tutti erano assoggettati alle cose, tutti alienati, i padroni come gli operai, le donne come gli uomini, vittime di un sistema in cui tutti perdevano la loro soggettività, in cui tutti erano inclusi come figure e maschere di un meccanismo in cui la realtà era manipolata e la tecnica fine a se stessa. Dunque, come lo definimmo, era un sistema di dominio e di guerra; e il compito era di recuperare le soggettività perdute e di mettere in moto un opposto e virtuoso processo costituente, tant’è che il titolo della rivista che pubblicò gli atti del convegno. “Bozze 86”, recitava: Costituente pace.
Si può pensare che quello fosse un libro dei sogni. Ma per un’imprevista coincidenza negli stessi giorni del convegno di Cortona si teneva a Reykjavik in Islanda, un incontro tra Gorbaciov e il presidente Reagan in cui veniva ripudiata la guerra fredda ed avviata la distensione; ma la vera novità che faceva risuonare un linguaggio mai sentito prima nei rapporti tra le Potenze interveniva poco più di un mese dopo, il 27 novembre 1986 nella “Dichiarazione di Nuova Delhi” lanciata come proposta al mondo da Gorbaciov e da Rajiv Gandhi, leader dell’India e figlio di Indira. Si trattava di uno straordinario progetto di unità del mondo, a partire da un totale rovesciamento della politica di guerra e dal licenziamento della guerra come coronamento della sovranità e struttura costituente della politica degli Stati e dei loro rapporti internazionali; si postulava la costruzione di “un mondo libero dalle armi nucleari e non violento”, in cui la vita umana fosse considerata il valore supremo; e il realismo di questo programma politico era esplicitamente fondato sul fatto di essere avanzato legittimamente a nome dell’India e dell’Unione Sovietica i cui popoli – uomini donne e bambini – comprendevano oltre un miliardo di persone e un quinto dell’intera umanità di allora; una vera Costituzione mondiale mai pensata prima a partire da 10 principi e obiettivi fondamentali puntualmente indicati.
Paradossalmente la proposta di Cortona, che i comunisti italiani avevano lasciato cadere ed era certo ignota ai due leaders lontani, dimostrava di non essere irrealistica se un grande esponente del comunismo, e anzi allora il suo capo anche come capo dell’URSS, la rivolgeva a tutto il mondo in altre forme e nelle modalità a lui proprie. Un mondo così poteva essere pensato!
Ma il mondo politico e giornalistico di allora era così refrattario a una simile proposta che la scelta unanime fu di ignorare la Dichiarazione di Nuova Dehli e di seppellirla nel silenzio, opponendole una censura ferrea che non ne permise nemmeno la pubblicazione in Occidente, tant’è che essa è ancora ignorata come se non fosse mai esistita; oggi la si può trovare, non a caso, nel nostro sito http://labibliotecadialessandria.costituenteterra.it/, (Il processo costituente) come precedente del progetto di una Costituzione della Terra.
Fu quello il momento magico di ideazione di un nuovo ordine di rapporti umani (per riprendere un’espressione usata qualche decennio prima da papa Giovanni, che era stato il primo ad assumere la pace sulla terra, la “pacem in terris”, come struttura costituente della comunità mondiale).
Ma la cosa non finì lì. Come sviluppo di quell’impegno politico meno di tre anni dopo, il 9 novembre 1989 Gorbaciov prendeva la decisione politica dell’apertura del muro di Berlino, maldestramente attuata dal governo dell’Est tedesco dell’epoca, presieduto da Honecker che si era dimesso qualche settimana prima. Fu l’evento cruciale dell’89 e del secolo, che è passato alla storia come “caduta del muro di Berlino” e che invece in realtà fu la rimozione per via politica del Muro e la proclamazione universale che la guerra era finita.
Ma è a questo punto che, in contrario, c’è stato un catastrofico arresto storico, che ha interrotto il percorso di uscita dalla grande distruzione che il genere umano era arrivato a produrre nel Novecento, arresto storico frutto anch’esso di una decisione politica e di una rovinosa paralisi culturale.
Io conservo un’immagine plastica di questo sbarramento opposto al futuro, di questa caduta di Icaro nel novembre dell’89. In quei giorni ci trovavamo in America con una delegazione della Commissione Difesa della Camera dei deputati, che vi si era recata per un viaggio di scambio tra i Parlamenti, di informazione e di studio. Nel giorno della rimozione del Muro avemmo incontri al Dipartimento di Stato e al Pentagono, dove ci fu espressa tutta la diffidenza e incredulità del governo e dell’apparato militare americano che non erano affatto preparati a quell’evento. [segue]

Che succede?

c3dem_banner_04L’INTESA ITALIA-FRANCIA. VERSO UNA LEGGE SUL FINE VITA
26 Novembre 2021 by Giampiero Forcesi | su C3dem.
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Sinodo e cammini sinodali

logp-imttyouna Chiesa sinodale
L a R if o rm a d i p a p a F r a n c e s c o
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La lotta di ambulanti, giostrai, operatori dello spettacolo viaggiante e torronai

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COMUNICATO STAMPA
ESITO MANIFESTAZIONE DEL 4 NOVEMBRE 2021

Alle ore 14 di oggi 4 novembre 2021 è terminato l’incontro della delegazione degli ambulanti, giostrai, operatori dello spettacolo viaggiante e torronai con il Vice Presidente on. le Giovanni Antonio Satta e tutti gli on.li Capigruppo del Consiglio Regionale alla presenza dell’Assessore Reg. le al Bilancio dottor Giuseppe Fasolino, accompagnato dai funzionari del proprio Assessorato e da quelli dell’Assessorato Reg. le Commercio e Turismo, compente per materia.

Che succede?

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VINCE LA VOGLIA DI LAVORARE. INEDITO DI BOBBIO. NODI: REDDITO, ANZIANI, SALARIO MINIMO, FISCO, PATRIMONIALE
bobbio-la-stampa17 Ottobre 2021 su C3dem.
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Norberto Bobbio, “La mia idea sulla rivoluzione” (testo inedito di una lezione del 1979 – La Stampa)
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LA QUESTIONE POLACCA E IL DESTINO DELLA UE
17 Ottobre 2021 su C3dem.
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Nucleare: un dibattito mal (ripro)posto che ci riporta indietro. Ma oltre alla Fissione esiste la Fusione: di questa dobbiamo parlare.

nucleare-1s-aventino-duesedia di VannitolaLa sedia
di Vanni Tola
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Dibattito sul nucleare? No grazie. Non caschiamo nella trappola, l’argomento non è all’ordine del giorno. Per lo meno nei termini nei quali la questione è proposta.
Il dibattito sul nucleare che sembra accendere l’attenzione delle forze politiche e della popolazione è un dibattito virtuale, fasullo, figlio di una fake news abilmente manipolata per scopi elettorali. Tutto nasce dalla notizia fasulla e infondata che il ministro della transizione ecologica Cingolani avrebbe manifestato interesse per il nucleare. Il ministro ha spiegato più volte e con tutti i mezzi di non aver mai manifestato alcun proposito di un ritorno alla produzione di energia con la tecnologia nucleare.
Mentre esponeva i propri programmi sulla transizione energetica il ministro ha semplicemente indicato, elencando gli studi in corso, la possibilità che da tali ricerche potessero emergere nuove tecnologie utili e convenienti per la produzione pulita di energia affermando, mi pare legittimamente, che, ove ciò fosse accaduto, se ne sarebbe dovuto tenere conto in un futuro neppure tanto immediato. Questo è bastato per scatenare un acceso e violento dibattito oltre che tra i cittadini sempre pronti a partecipare a nuove battaglie, anche tra i partiti e perfino le associazioni per l’ambiente che, da qualche tempo non vanno oltre le vecchie analisi che ruotavano intorno allo slogan “No al nucleare” e “Nucleare? No grazie”. [segue]

Costituente Terra – Chiesadituttichiesadeipoveri: Newsletters

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logo76Newsletter n.230 del 30 agosto 2021

NUOVO INIZIO
Cari Amici,

l’orrore degli attentati e il dramma dei profughi afghani mostrano quanto sia alto il prezzo della rotta americana a Kabul, e non solo per l’America. Essa è stata assimilata alla fuga da Saigon dell’aprile 1975. In realtà è stata molto di più e molto più grande è la sua forza simbolica come evento capace di segnare una periodizzazione della storia in due tempi opposti e diversi tra un’epoca che finisce e un’altra che comincia. La caduta di Saigon rappresentò infatti la sconfitta del tentativo degli Stati Uniti di sostituirsi alle potenze europee (e nel caso specifico, alla Francia) nella gestione di un potere imperiale residuo su questa o quella porzione del “Terzo mondo” arretrato, e quindi segnò la fine dell’età coloniale; l’abbandono dell’Afghanistan rappresenta invece il fallimento della risposta dell’Occidente alla caduta del comunismo e dell’ordine bipolare, e segna la fine del nuovo ordine globale. Ne esce sconfitta la pretesa dell’Occidente di sostituirsi al socialismo scomparso instaurando un unico dominio su un mondo ridotto alla propria misura e finisce il sogno degli Stati Uniti di dar corso a un “nuovo secolo americano”. La lettura che ci sentiamo di avanzare è che la caduta di Kabul è speculare alla caduta del muro di Berlino; ambedue frutto non di una sconfitta militare ma di una decisione politica degli invasori, i sovietici allora, gli americani oggi; ambedue segno che il mondo da loro immaginato e voluto è sbagliato e impossibile, e che un altro se ne deve ora progettare e costruire. Il 2021 si rivela pertanto come il rovescio dell’89. Ma allora è lì che bisogna tornare, come ai nastri di partenza, per organizzare un’altra risposta. Come fu sostenuto in un seminario della scuola “Vasti” del novembre 2001 che qui riprendiamo, l’Occidente sbagliò allora la lettura e la risposta agli eventi dell’89, prima favorendo la dissoluzione dell’URSS, poi concependo un mondo di cui esso fosse l’unico gendarme e padrone; l’Occidente non seppe uscire dal sistema di dominio e di guerra che era legato alla diarchia del terrore ma, venuta meno l’Unione Sovietica, proseguì quel medesimo sistema mettendosi alla sua testa da solo; esso pertanto non seppe cogliere l’occasione di quella inaudita e pacifica discontinuità storica, non seppe concepire e gestire un progetto nuovo per il mondo che rappresentasse un vero superamento del vecchio sistema bipolare, e così facendo si inserì nella traiettoria della sua caduta, attivando una crisi speculare a quella che fu la crisi del comunismo e innescando la fase finale della crisi di quell’ordine. Come avvenne questo? Quando il 14 novembre 1989 Gorbaciov, capo dell’URSS, trasmise ai dirigenti tedeschi la decisione di aprire il muro di Berlino, tutta la politica militare, tutta la politica estera, tutto il mondo erano pensati in funzione della sfida finale della storia, identificata con lo scontro dell’Occidente col comunismo inteso come il principio del male. Nel momento in cui questo improvvisamente e in modo incruento finisce, gli americani stentano a crederci, e si apre un vuoto che non si è minimamente preparati a riempire.
L’unica cosa che l’Occidente riesce a dire è: “la guerra fredda è finita, e noi l’abbiamo vinta”.
Ma che fare del mondo? Finalmente il capitalismo ha prevalso, il mercato è ormai universale, le più ardite speranze dei teorici del liberalismo che avevano profetato: col libero commercio, l’eterna pace, si possono realizzare. La storia è giunta al suo adempimento e noi ce l’abbiamo portata.
D’altra parte il capitalismo che dai grandi Paesi dell’Occidente si presenta a raccogliere l’eredità del mondo, è un capitalismo attraente, un capitalismo non solo di ricchezze e di lustrini televisivi, ma anche di diritti, di protezione sociale, di pluralismo politico. Non è il capitalismo selvaggio che oggi conosciamo, è un capitalismo ancora profondamente influenzato dall’esistenza di un campo antagonista, dalla sfida esterna del mondo socialista, dal condizionamento interno delle sinistre e dei sindacati, dal compromesso keynesiano.
E’ un capitalismo che ha dovuto accettare delle compatibilità con diritti e valori indipendenti dal mercato, è un capitalismo avaro con i bisogni, ma dispensatore di desideri.
E quindi tutti ci vogliono entrare, immigrandoci dentro e importandolo a casa loro.
Ma a questo punto, caduto il limite esterno, il capitalismo realizzato si accorge di non essere affatto universale. E’ il sistema migliore possibile, ma non è per tutti, i suoi benefici non si possono estendere a tutti. Esso non può reggere la vita e lo sviluppo del mondo. Non può sfamare tutti, non può avere acqua e medicine per tutti, non può permettere la democrazia a tutti. I meccanismi economici non sono attrezzati per questo, perché sono fatti per incrementare il denaro e non per soddisfare i bisogni. Ma questo non è il solo problema. E’ lo stesso ordine fisico della terra che presenta limiti invalicabili a una fruizione universale del livello di vita conseguito dalle aree privilegiate del sistema. club_of_rome_logo-svg Il Club di Roma già nel 1971 aveva proiettato nel futuro i limiti dello sviluppo, e quelle previsioni erano risultate fondate. Stava per finire il petrolio, il gas naturale, il carbone, stava per cambiare il clima, stavano per ritrarsi le acque da bere e innalzarsi le acque marine, i tassi di inquinamento stavano per raggiungere livelli catastrofici. Contro il mito del progresso illimitato, si faceva strada la coscienza della scarsità. Gli anni 90, gli anni dopo la fine dell’URSS, sono gli anni in cui i grandi poteri rimasti sono posti di fronte a queste alternative, a queste scelte. Ci sono correnti che spingono verso una ristrutturazione equa di tutti i rapporti mondiali, che postulano la pace la giustizia e la salvaguardia del creato, ci sono le teologie della liberazione dell’America Latina, ci sono i pacifisti, ci sono i rapporti delle Agenzie intergovernative sul clima che denunciano i pericoli e che spingono verso quei primi risultati che saranno la conferenza di Rio sul clima e il Trattato di Kyoto; nel vertice di Roma del 1996 la FAO ancora si illude di poter dimezzare la fame nel mondo per il 2015.
Ma il sistema fa un’altra scelta. Se il mondo non si può tenere in piedi tutto, allora se ne garantisce solo una parte, la propria. Il capitalismo vincente non può ritrarsi e rientrare nei vecchi confini del Primo Mondo, continuerà a inglobare tutto il mondo, ma con una stratificazione, una gerarchia, una grande selezione, una realistica diseguaglianza; c’è un mondo da salvare e un mondo a perdere, i privilegiati e gli esclusi, i necessari e gli esuberi; cioè noi e loro, quelli che poi un giorno papa Francesco chiamerà “gli scarti”.
La formula del resto era stata enunciata da Herbert Spencer, il promotore ottocentesco della società dell’utile, della “military and industrial society”, ed era così enunciata nel suo “Sistema di filosofia sintetica”: gli uomini sono come sottoposti a un giudizio di Dio; “se sono realmente in grado di vivere essi vivono, ed è giusto che vivano. Se non sono realmente in grado di vivere essi muoiono, ed è giusto che muoiano”. Il darwinismo sociale. È questo il punto di caduta a cui l’intero corso storico perviene.
Ma un mondo così non sta a posto da solo. Deve essere tenuto a bada con scettro di ferro. Il grande problema che si apre con la fine dell’ordine bipolare e la scomparsa dell’URSS è quello del governo del mondo. L’idea è che occorre stabilire un sovrano universale, e questo non può essere altro che gli Stati Uniti perché, come doveva spiegare Brzezinski, l’ex consigliere per la sicurezza nazionale di Carter, non c’è altra alternativa che l’America all’anarchia globale. Nell’aprile del 1992 le “linee guida” per la politica della difesa degli Stati Uniti formalizzano la nuova dottrina.
“Occorre impedire a qualsiasi potenza ostile – dicono – il dominio di regioni le cui risorse le consentirebbero di accedere allo status di grande potenza”; occorre “impedire l’ascesa di un futuro concorrente globale”; occorre “dissuadere i Paesi industriali avanzati da qualsiasi tentativo che miri a contestare la nostra leadership”, cioè la leadership americana: e questo valeva anche per l’Europa.
E nel 1998 la destra americana avanza il progetto di fare del nuovo secolo un “nuovo secolo americano”. Naturalmente occorreva anche tenere in mano le carte per l’ultima partita sulla ripartizione e l’utilizzo delle risorse in via di esaurimento, ma soprattutto occorreva al più presto possibile riappropriarsi dello strumento sovrano del governo del mondo: la guerra. La guerra, agli inizi degli anni 90, non solo era bandita dal diritto, ripudiata dalle Costituzioni, ma godeva di un unanime discredito e repulsione nell’opinione pubblica mondiale. La guerra, identificata ormai con la guerra nucleare, era considerata come il male assoluto, anche dai governanti. La guerra fredda era combattuta per evitare la guerra. Le politiche dell’Occidente erano tutte politiche di pace, anche i missili si mettevano per la pace, la “ratio” della corsa al riarmo nucleare era la dissuasione dalla guerra nucleare. La guerra era il terrore; la pace era l’equilibrio del terrore, era la deterrenza: cioè togliere il terrore con il terrore.
Ma nella nuova situazione creatasi dopo l’89 la guerra doveva essere ripristinata, richiamata dal suo esilio, eticamente riscattata e di nuovo agghindata e adornata come una sposa.
L’occasione la fornì l’Iraq e la sua disputa con l’Arabia Saudita e gli altri Paesi OPEC per il prezzo del petrolio, sceso a prezzi stracciati fino a 12 dollari al barile. Fidando nel fatto che la guerra non usava più, l’Iraq occupò il Kuwait. Questo crimine fu fatale. Il muro di Berlino era stato rimosso da un anno, l’URSS non era più in grado di fermare l’Occidente. E Bush padre fece la guerra; la fece per due ragioni; la prima, come spiegò poi nelle sue memorie, perché non si poteva permettere che le riserve di petrolio del Medio Oriente cadessero sotto il controllo di una potenza ostile; e fu la prima guerra per il petrolio: e la seconda ragione, più importante, fu per ristabilire il diritto di guerra esercitandolo in nome di quelle stesse Nazioni Unite che l’avevano abrogato; e quella del 1991 fu la guerra per riabilitare la guerra agli occhi dell’opinione pubblica occidentale. Ci vollero alcuni mesi non solo per preparare l’armata ma per sviluppare una imponente campagna di persuasione; paolovionu si trattava di rovesciare il sentire comune che Paolo VI aveva quindici anni prima icasticamente proclamato dalla tribuna dell’ONU: mai più la guerra. E infatti Giovanni Paolo II le si oppose.
Nel 1999 toccò alla Iugoslavia. La guerra era stata ormai richiamata in servizio, era “libera all’esercizio”. Anche per quella guerra si parlò di petrolio, della necessità di aprire un corridoio per gli oleodotti dal Caspio. Ma la vera ragione fu politica. La ragione fu di uscire dall’ordine delle Nazioni Unite, dove la guerra era ancora formalmente bandita, e comunque sottoposta a limiti e condizioni, ed entrare, ormai senza altre remore, nell’ordine della NATO; la NATO diventava essa la nuova comunità internazionale, la parte per il tutto, assumeva prerogative sovrane, si investiva in proprio del diritto e del potere sovrano di guerra. Per far questo cambiava i suoi statuti. Il 24 aprile 1999, nel vertice atlantico di Washington, la NATO cambiava finalità e natura, dichiarava non più operanti i limiti degli articoli 5 e 6 del suo Statuto che restringevano l’ipotesi di uso della forza armata alla difesa contro un’aggressione, e rompeva perciò anche i limiti dell’art. 51 della Carta dell’ONU; inoltre la NATO infrangeva i limiti della sua competenza territoriale e si assegnava come campo d’azione tutto il mondo; teorizzava la pace e la sicurezza non più come indivisibili per tutti, ma solo per sé e per i 19 Paesi membri, e individuava nuove minacce alla sicurezza: terrorismo, sabotaggio, criminalità organizzata, interruzione di approvvigionamenti, movimenti migratori, fattori politici, economici, sociali, ambientali, rivalità etniche, religiose, riforme mal pensate o fallite, violazione di diritti umani, dissoluzione di Stati. Per la prima volta il ricorso alle armi, cioè la guerra, veniva contemplata come risposta a crisi politiche, sociali, economiche, religiose di ogni tipo. Non a caso la prima delle nuove minacce alla sicurezza era individuata nel terrorismo. Quest’ultima era una profezia destinata ad autorealizzarsi. Se il mondo doveva restare pietrificato nella sua ingiustizia costitutiva, se la guerra diventava il mezzo universale per gestire ogni genere di contraddizioni o di crisi, e se l’esistenza di un’unica superpotenza militare faceva sì che la guerra restasse prerogativa e risorsa di una parte sola, agli altri non restava che il terrorismo.
In tal modo terrorismo e guerra erano assimilati come due variabili della stessa fattispecie, come due surrogati dello stesso bene perduto: la politica.
La conferma giunse ben presto, l’11 settembre 2001, con gli attentati al Pentagono e alle Torri gemelle. Il giovane Bush li riconobbe subito come atti di guerra. E infatti rispose con la guerra, perché questa ormai era diventata l’unica lingua della politica. Nascono così la guerra e l’invasione in Afghanistan durate fino ad ora, e subito dopo la seconda guerra del Golfo, giunta fino alla distruzione dell’Iraq e all’uccisione di Saddan Hussein, sulla base della menzogna, poi ufficialmente riconosciuta dal rapporto Chilcot del Parlamento inglese e dallo stesso Tony Blair, della minaccia delle armi di distruzione di massa. E nel 2002 il delirio teorizzato dalla destra neoconservatrice secondo cui la sicurezza americana stava nel dominio del mondo veniva formalizzato nella “Nuova strategia della sicurezza nazionale americana” che arricchiva con le armi spaziali gli arsenali a disposizione della Casa Bianca.
È tutto questo che è finito nel neoisolazionismo di Trump, nell’ideologia dell’“America First”, nella “debacle” di Biden, nell’abbandono americano dell’Afghanistan e nella tragedia dei presi e lasciati nell’aeroporto di Kabul. Ed è da qui allora che deve partire l’altra risposta, che in un altro modo deve coinvolgere la totalità degli attori che agiscono sulla scena del mondo, Stati e popoli, dagli Stati Uniti alla Cina, dai kurdi ai palestinesi, dagli ebrei ai musulmani; è in questo quadro che si innalza la proposta universale e inclusiva di papa Francesco, la sua proposta di una fraternità umana nella pluralità di diritto divino delle religioni, ed è qui che si leva la proposta laica di una ricomposizione della società umana sotto la sovranità del diritto, di una Costituzione della Terra.

Con i più cordiali saluti

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VISITA DEL SOMMO PONTEFICE PAOLO VI
ALL’ORGANIZZAZIONE DELLE NAZIONI UNITE

DISCORSO DEL SANTO PADRE
ALLE NAZIONI UNITE
*

Lunedì, 4 ottobre 1965

Nel momento in cui prendiamo la parola davanti a questo consesso unico al mondo, sentiamo il bisogno anzitutto di esprimere la Nostra profonda gratitudine al Signor Thant, vostro Segretario Generale, per l’invito ch’egli Ci ha rivolto di visitare le Nazioni Unite, in occasione del ventesimo anniversario della fondazione di questa Istituzione mondiale per la pace e per la collaborazione fra i popoli di tutta la terra. Noi ringraziamo altresì il Signor Presidente dell’Assemblea, On. Amintore Fanfani, il quale, dal giorno del suo insediamento, ha avuto per Noi parole tanto cortesi.

Grazie anche a voi tutti, qui presenti, per la vostra buona accoglienza.

A ciascuno di voi il Nostro riverente e cordiale saluto. La vostra amicizia Ci ha invitati e Ci ammette ora a questa riunione: e come amici Noi qui a voi Ci presentiamo.

Vi esprimiamo il Nostro cordiale omaggio personale e vi offriamo quello dell’intero Concilio Ecumenico Vaticano II, riunito in Roma, e qui rappresentato dai Signori Cardinali che a questo scopo Ci accompagnano. A loro nome, come da parte Nostra, rendiamo a voi tutti onore e vi salutiamo!

Questo incontro, voi tutti lo comprendete, segna un momento semplice e grande. Semplice, perché voi avete davanti un uomo come voi; egli è vostro fratello, e fra voi, rappresentanti di Stati sovrani, uno dei più piccoli, rivestito lui pure, se così vi piace considerarci, d’una minuscola, quasi simbolica sovranità temporale, quanta gli basta per essere libero di esercitare la sua missione spirituale, e per assicurare chiunque tratta con lui, che egli è indipendente da ogni sovranità di questo mondo. Egli non ha alcuna potenza temporale, né alcuna ambizione di competere con voi; non abbiamo infatti alcuna cosa da chiedere, nessuna questione da sollevare; se mai un desiderio da esprimere e un permesso da chiedere, quello di potervi servire in ciò che a Noi è dato di fare, con disinteresse, con umiltà e amore.

DA VENTI SECOLI UN VOTO DEL CUORE

Questa è la Nostra prima dichiarazione; e, come voi vedete, essa è così semplice, che sembra irrilevante per questa Assemblea, che tratta sempre cose importantissime e difficilissime. Ma Noi dicevamo, e tutti lo avvertite, che questo momento è anche grande. Grande per Noi, grande per voi.

Per Noi, anzitutto. Oh! voi sapete chi siamo; e, qualunque sia l’opinione che voi avete sul Pontefice di Roma, voi conoscete la Nostra missione; siamo portatori d’un messaggio per tutta l’umanità; e lo siamo non solo a Nostro nome personale e dell’intera famiglia cattolica, ma lo siamo pure di quei Fratelli cristiani, che condividono i sentimenti da Noi qui espressi, e specialmente di quelli da cui abbiamo avuto esplicito incarico d’essere anche loro interpreti. Noi siamo come il messaggero che, dopo lungo cammino, arriva a recapitare la lettera che gli è stata affidata; così Noi avvertiamo la fortuna di questo, sia pur breve, momento, in cui si adempie un voto, che Noi portiamo nel cuore da quasi venti secoli. Sì, voi ricordate: è da molto tempo che siamo in cammino, e portiamo con Noi una lunga storia; Noi celebriamo qui l’epilogo d’un faticoso pellegrinaggio in cerca d’un colloquio con il mondo intero, da quando Ci è stato comandato: “Andate e portate la buona novella a tutte le genti”.

Ora siete voi, che rappresentate tutte le genti. Noi abbiamo per voi tutti un messaggio, sì, un messaggio felice, da consegnare a ciascuno di voi.

IN NOME DEI MORTI DEI POVERI DEI SOFFERENTI

1. Il Nostro messaggio vuol essere, in primo luogo, una ratifica morale e solenne di questa altissima Istituzione. Questo messaggio viene dalla Nostra esperienza storica; Noi, quali “esperti in umanità”, rechiamo a questa Organizzazione il suffragio dei Nostri ultimi Predecessori, quello di tutto l’Episcopato cattolico, e Nostro, convinti come siamo che essa rappresenta la via obbligata della civiltà moderna e della pace mondiale.

Dicendo questo, Noi sentiamo di fare Nostra la voce dei morti e dei vivi; dei morti, caduti nelle tremende guerre passate sognando la concordia e la pace del mondo; dei vivi, che a quelle hanno sopravvissuto portando nei cuori la condanna per coloro che tentassero rinnovarle; e di altri vivi ancora, che avanzano nuovi e fidenti, i giovani delle presenti generazioni, che sognano a buon diritto una migliore umanità. E facciamo Nostra la voce dei poveri, dei diseredati, dei sofferenti, degli anelanti alla giustizia, alla dignità della vita, alla libertà, al benessere e al progresso. I popoli considerano le Nazioni Unite come il palladio della concordia e della pace; Noi osiamo, col Nostro, portare qua il loro tributo di onore e di speranza. Ecco perché questo momento è grande anche per voi.

GIUSTIZIA DIRITTO TRATTATIVA NELLE RELAZIONI TRA I POPOLI

2. Noi sappiamo che ne avete piena coscienza. Ascoltate allora la continuazione del Nostro messaggio. Esso è rivolto completamente verso l’avvenire: l’edificio, che avete costruito, non deve mai più decadere, ma deve essere perfezionato e adeguato alle esigenze che la storia del mondo presenterà. Voi segnate una tappa nello sviluppo dell’umanità, dalla quale non si dovrà più retrocedere, ma avanzare.

Al pluralismo degli Stati, che non possono più ignorarsi, voi offrite una formola di convivenza, estremamente semplice e feconda. Ecco: voi dapprima vi riconoscete e distinguete gli uni dagli altri. Voi non conferite certamente l’esistenza agli Stati; ma qualificate come idonea a sedere nel consesso ordinato dei Popoli ogni singola Nazione; date cioè un riconoscimento di altissimo valore etico e giuridico ad ogni singola comunità nazionale sovrana, e le garantite onorata cittadinanza internazionale. È già un grande servizio alla causa dell’umanità quello di ben definire e di onorare i soggetti nazionali della comunità mondiale, e di classificarli in una condizione di diritto, meritevole d’essere da tutti riconosciuta e rispettata, dalla quale può derivare un sistema ordinato e stabile di vita internazionale. Voi sancite il grande principio che i rapporti fra i popoli devono essere regolati dalla ragione, dalla giustizia, dal diritto, dalla trattativa, non dalla forza, non dalla violenza, non dalla guerra, e nemmeno dalla paura, né dall’inganno.

Così ha da essere. Lasciate che Noi Ci congratuliamo con voi, che avete avuto la saggezza di aprire l’accesso a questa aula ai Popoli giovani, agli Stati giunti da poco alla indipendenza e alla libertà nazionale; la loro presenza è la prova dell’universalità e della magnanimità che ispirano i principii di questa Istituzione.

Così ha da essere; questo è il Nostro elogio e il Nostro augurio, e, come vedete, Noi non li attribuiamo dal di fuori; ma li caviamo dal di dentro, dal genio stesso del vostro Statuto.

GENEROSA FIDUCIA GIAMMAI INSIDIATA O TRADITA

3. Il vostro Statuto va oltre; e con esso procede il Nostro augurio.

Voi esistete ed operate per unire le Nazioni, per collegare gli Stati; diciamo questa seconda formola: per mettere insieme gli uni con gli altri. Siete una Associazione. Siete un ponte fra i Popoli. Siete una rete di rapporti fra gli Stati. Staremmo per dire che la vostra caratteristica riflette in qualche modo nel campo temporale ciò che la Nostra Chiesa cattolica vuol essere nel campo spirituale: unica ed universale. Non v’è nulla di superiore sul piano naturale nella costruzione ideologica dell’umanità. La vostra vocazione è quella di affratellare non solo alcuni, ma tutti i Popoli. Difficile impresa? Senza dubbio. Ma questa è l’impresa; questa la vostra nobilissima impresa. Chi non vede il bisogno di giungere così, progressivamente, a instaurare un’autorità mondiale, capace di agire con efficacia sul piano giuridico e politico?

Anche a questo riguardo ripetiamo il Nostro voto: perseverate. Diremo di più: procurate di richiamare fra voi chi da voi si fosse staccato, e studiate il modo per chiamare, con onore e con lealtà, al vostro patto di fratellanza chi ancora non lo condivide. Fate che chi ancora è rimasto fuori desideri e meriti la comune fiducia; e poi siate generosi nell’accordarla. E voi, che avete la fortuna e l’onore di sedere in questo consesso della pacifica convivenza, ascoltateci: fate che non mai la reciproca fiducia, che qui vi unisce e vi consente di operare cose buone e grandi. sia insidiata o tradita.

L’ORGOGLIO IL GRANDE ANTAGONISTA DELLE NECESSARIE ARMONIE

4. La logica di questo voto, che si può dire costituzionale per la vostra Organizzazione, Ci porta a integrarlo con altre formule. Ecco: che nessuno, in quanto membro della vostra unione, sia superiore agli altri. Non l’uno sopra l’altro. È la formula della eguaglianza. Sappiamo di certo come essa debba essere integrata dalla valutazione di altri fattori, che non sia la semplice appartenenza a questa Istituzione; ma anch’essa è costituzionale. Voi non siete eguali, ma qui vi fate eguali. Può essere per parecchi di voi atto di grande virtù; consentite che ve lo dica Colui che vi parla, il Rappresentante d’una Religione, la quale opera la salvezza mediante l’umiltà del suo Fondatore Divino. Non si può essere fratelli, se non si è umili. Ed è l’orgoglio, per inevitabile che possa sembrare. che provoca le tensioni e le lotte del prestigio, del predominio, del colonialismo dell’egoismo; rompe cioè la fratellanza.

CADANO LE ARMI, SI COSTRUISCA LA PACE TOTALE

5. E allora il Nostro messaggio raggiunge il suo vertice; il vertice negativo. Voi attendete da Noi questa parola, che non può svestirsi di gravità e di solennità: non gli uni contro gli altri, non più, non mai! A questo scopo principalmente è sorta l’Organizzazione delle Nazioni Unite; contro la guerra e per la pace ! Ascoltate le chiare parole d’un grande scomparso, di John Kennedy, che quattro anni or sono proclamava: “L’umanità deve porre fine alla guerra, o la guerra porrà fine all’umanità”. Non occorrono molte parole per proclamare questo sommo fine di questa istituzione. Basta ricordare che il sangue di milioni di uomini e innumerevoli e inaudite sofferenze, inutili stragi e formidabili rovine sanciscono il patto che vi unisce, con un giuramento che deve cambiare la storia futura del mondo: non più la guerra, non più la guerra! La pace, la pace deve guidare le sorti dei Popoli e dell’intera umanità!

Grazie a voi, gloria a voi, che da vent’anni per la pace lavorate, e che avete perfino dato illustri vittime a questa santa causa. Grazie a voi, e gloria a voi, per i conflitti che avete prevenuti e composti. I risultati dei vostri sforzi, conseguiti in questi ultimi giorni in favore della pace, benché, non siano ancora definitivi, meritano che Noi, osando farci interpreti del mondo intero, vi esprimiamo plauso e gratitudine.

Signori, voi avete compiuto e state compiendo un’opera grande: l’educazione dell’umanità alla pace. L’ONU è la grande scuola per questa educazione. Siamo nell’aula magna di tale scuola; chi siede in questa aula diventa alunno e diventa maestro nell’arte di costruire la pace. Quando voi uscite da questa aula il mondo guarda a voi come agli architetti, ai costruttori della pace.

E voi sapete che la pace non si costruisce soltanto con la politica e con l’equilibrio delle forze e degli interessi, ma con lo spirito, con le idee, con le opere della pace. Voi già lavorate in questo senso. Ma voi siete ancora in principio: arriverà mai il mondo a cambiare la mentalità particolaristica e bellicosa, che finora ha tessuto tanta parte della sua storia? È difficile prevedere; ma è facile affermare che alla nuova storia, quella pacifica, quella veramente e pienamente umana, quella che Dio ha promesso agli uomini di buona volontà, bisogna risolutamente incamminarsi; e le vie sono già segnate davanti a voi; e la prima è quella del disarmo.

Se volete essere fratelli, lasciate cadere le armi dalle vostre mani. Non si può amare con armi offensive in pugno. Le armi, quelle terribili. specialmente, che la scienza moderna vi ha date, ancor prima che produrre vittime e rovine, generano cattivi sogni, alimentano sentimenti cattivi, creano incubi, diffidenze e propositi tristi, esigono enormi spese, arrestano progetti di solidarietà e di utile lavoro, falsano la psicologia dei popoli. Finché l’uomo rimane l’essere debole e volubile e anche cattivo, quale spesso si dimostra, le armi della difesa saranno necessarie, purtroppo; ma voi, coraggiosi e valenti quali siete, state studiando come garantire la sicurezza della vita internazionale senza ricorso alle armi: questo è nobilissimo scopo, questo i Popoli attendono da voi, questo si deve ottenere! Cresca la fiducia unanime in questa Istituzione, cresca la sua autorità; e lo scopo, è sperabile, sarà raggiunto. Ve ne saranno riconoscenti le popolazioni, sollevate dalle pesanti spese degli armamenti, e liberate dall’incubo della guerra sempre imminente, il quale deforma la loro psicologia. Noi godiamo di sapere che molti di voi hanno considerato con favore il Nostro invito, lanciato a tutti gli Stati per la causa della pace, a Bombay, nello scorso dicembre, di devolvere a beneficio dei Paesi in via di sviluppo una parte almeno delle economie, che si possono realizzare con la riduzione degli armamenti. Noi rinnoviamo qui tale invito, fidando nel vostro sentimento di umanità e di generosità.

OLTRE LA COESISTENZA: LA COLLABORAZIONE FRATERNA

6. Dicendo queste parole Ci accorgiamo di far eco ad un altro principio costitutivo di questo Organismo, cioè il suo vertice positivo: non solo qui si lavora per scongiurare i conflitti fra gli Stati, ma si lavora altresì con fratellanza per renderli capaci di lavorare gli uni per gli altri. Voi non vi contentate di facilitare la coesistenza e la convivenza fra le varie Nazioni; ma fate un passo molto più avanti, al quale Noi diamo la Nostra lode e il Nostro appoggio: voi promovete la collaborazione fraterna dei Popoli. Qui si instaura un sistema di solidarietà, per cui finalità civili altissime ottengono l’appoggio concorde e ordinato di tutta la famiglia dei Popoli per il bene comune, e per il bene dei singoli. Questo aspetto dell’Organizzazione delle Nazioni Unite è il più bello: è il suo volto umano più autentico; è l’ideale dell’umanità pellegrina nel tempo; è la speranza migliore del mondo; è il riflesso, osiamo dire, del disegno trascendente e amoroso di Dio circa il progresso del consorzio umano sulla terra; un riflesso, dove scorgiamo il messaggio evangelico da celeste farsi terrestre. Qui, infatti, Noi ascoltiamo un’eco della voce dei Nostri Predecessori, di quella specialmente di Papa Giovanni XXIII, il cui messaggio della Pacem in terris ha avuto anche nelle vostre sfere una risonanza tanto onorifica e significativa.

Perché voi qui proclamate i diritti e i doveri fondamentali dell’uomo, la sua dignità, la sua libertà e, per prima, la libertà religiosa. Ancora, Noi sentiamo interpretata la sfera superiore della sapienza umana, e aggiungiamo: la sua sacralità. Perché si tratta anzitutto della vita dell’uomo: e la vita dell’uomo è sacra: nessuno può osare di offenderla. Il rispetto alla vita, anche per ciò che riguarda il grande problema della natalità, deve avere qui la sua più alta professione e la sua più ragionevole difesa: voi dovete procurare di far abbondare quanto basti il pane per la mensa dell’umanità; non già favorire un artificiale controllo delle nascite, che sarebbe irrazionale, per diminuire il numero dei commensali al banchetto della vita.

Ma non si tratta soltanto di nutrire gli affamati: bisogna inoltre assicurare a ciascun uomo una vita conforme alla sua dignità. Ed è questo che voi vi sforzate di fare. E non si adempie del resto sotto i Nostri occhi e anche per opera vostra l’annuncio profetico che ben si addice a questa Istituzione: “Fonderanno le spade in vomeri; le lance in falci”? (Is. 2, 4). Non state voi impiegando le prodigiose energie della terra e le invenzioni magnifiche della scienza, non più in strumenti di morte, ma in strumenti di vita per la nuova era dell’umanità?

Noi sappiamo con quale crescente intensità ed efficacia l’Organizzazione delle Nazioni Unite, e gli organismi mondiali che ne dipendono, lavorino per fornire aiuto ai Governi, che ne abbiano bisogno, al fine di accelerare il loro progresso economico e sociale.

Noi sappiamo con quale ardore voi vi impegniate a vincere l’analfabetismo e a diffondere la cultura nel mondo; a dare agli uomini una adeguata e moderna assistenza sanitaria, a mettere a servizio dell’uomo le meravigliose risorse della scienza, della tecnica, dell’organizzazione: tutto questo è magnifico, e merita l’encomio e l’appoggio di tutti, anche il Nostro. Vorremmo anche Noi dare l’esempio, sebbene l’esiguità dei Nostri mezzi ci impedisca di farne apprezzare la rilevanza pratica e quantitativa: Noi vogliamo dare alle Nostre istituzioni caritative un nuovo sviluppo in favore della fame e dei bisogni del mondo: è in questo modo, e non altrimenti, che si costruisce la pace.

PER SALVARE LA CIVILTÀ PROFONDO RINNOVAMENTO IN DIO

7. Una parola ancora, Signori, un’ultima parola: questo edificio, che state costruendo, si regge non già solo su basi materiali e terrene: sarebbe un edificio costruito sulla sabbia; ma esso si regge, innanzitutto, sopra le nostre coscienze. È venuto il momento della “metanoia”, della trasformazione personale, del rinnovamento interiore. Dobbiamo abituarci a pensare in maniera nuova l’uomo; in maniera nuova la convivenza dell’umanità, in maniera nuova le vie della storia e i destini del mondo, secondo le parole di S. Paolo: “Rivestire l’uomo nuovo, creato a immagine di Dio nella giustizia e santità della verità” (Eph. 4, 23). È l’ora in cui si impone una sosta, un momento di raccoglimento, di ripensamento, quasi di preghiera: ripensare, cioè, alla nostra comune origine, alla nostra storia, al nostro destino comune. Mai come oggi, in un’epoca di tanto progresso umano, si è reso necessario l’appello alla coscienza morale dell’uomo!

Il pericolo non viene né dal progresso né dalla scienza: questi, se bene usati, potranno anzi risolvere molti dei gravi problemi che assillano l’umanità. Il pericolo vero sta nell’uomo, padrone di sempre più potenti strumenti, atti alla rovina ed alle più alte conquiste!

In una parola, l’edificio della moderna civiltà deve reggersi su principii spirituali, capaci non solo di sostenerlo, ma altresì di illuminarlo e di animarlo. E perché tali siano questi indispensabili principii di superiore sapienza, essi non possono non fondarsi sulla fede in Dio. Il Dio ignoto, di cui discorreva nell’areopago S. Paolo agli Ateniesi? Ignoto a loro, che pur senza avvedersene lo cercavano e lo avevano vicino, come capita a tanti uomini del nostro secolo?… Per noi, in ogni caso, e per quanti accolgono la Rivelazione ineffabile, che Cristo di Lui ci ha fatta, è il Dio vivente, il Padre di tutti gli uomini.

*Insegnamenti di Paolo VI, vol. III, p.516-523.
L’Osservatore Romano 6.10.1965 p.4.
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Il precedente editoriale. Ferrovie e Trasporti in Sardegna [Vanni Tola]. Nel deserto progettuale una buona eccezione [Gianfranco Fancello].

Ferrovia e Trasporti. Che fare in Sardegna?

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La Sedia
di Vanni Tola

Quando è stata resa pubblica la ripartizione fra le regioni dei primi fondi destinati a trasporti e mobilità, del Piano Nazionale Ripresa e Resilienza (Pnrr), il presidente Solinas e il suo mega staff hanno capito che alla Sardegna sarebbero spettate soltanto le briciole del finanziamento e, come da consolidata tradizione, hanno cominciato a protestare contro il governo che non concedeva all’isola finanziamenti adeguati ai bisogni e alle necessità. Sulla stessa lunghezza d’onda si sono levate le proteste, stavolta unitarie, dei parlamentari sardi, anch’essi convinti della discriminazione subita dalla Sardegna nella ripartizione dei fondi europei.
Le nuove ferrovie italiane che saranno ristrutturate con i fondi del Pnrr vedranno ridursi il tempo medio di viaggio in treno del 17%, aumentare il passaggio dal trasporto su gomma a quello ferroviario, aumentare i passeggeri trasportati dal 6 al 10% e le merci dall’11 al 16%.
Tutto ciò però non riguarderà per niente la Sardegna. Nell’isola arriveranno soltanto 300 milioni per due vecchi progetti appena avviati e assimilati ai progetti Pnrr: un primo step del raddoppio della Decimomannu-Villamassargia e il collegamento dell’aeroporto di Olbia con la rete ferroviaria. La Sardegna si è fatta cogliere ancora una volta impreparata, non aveva progetti pronti da far finanziare con gli investimenti europei.
Soltanto nel 2015 ha cominciato a circolare nell’isola l’ipotesi di predisporre alcuni interventi per connettere aeroporti e stazioni con la rete ferroviaria. Idee, soltanto idee che non si sono mai concretizzate in progetti.
Il presidente Solinas si è reso conto di quel che stava per accadere quando i tempi per intervenire erano ormai ridotti al minimo. Ha tentato di rimediare inventandosi la penosa bugia dei 305 progetti inviati al Governo per inserirli nel piano nazionale del Pnrr accompagnati da una richiesta di finanziamenti per circa 7 miliardi. Progetti che, per la cronaca, nessuno ha mai visto e dei quali non risultava traccia neppure presso l’ufficio di protocollo della regione Sardegna e nelle segreterie dei ministeri. Probabilmente una raccolta di idee e proponimenti, ben altro rispetto ai progetti concreti e realizzabili che sarebbero stati utili e necessari.
Appare evidente quindi che alla base di quanto accade relativamente al sistema trasporti, sta l’inadeguatezza programmatoria delle giunte regionali del passato e di quella in carica che hanno condannato l’Isola alla non partecipazione alle azioni del Pnrr.
Non ci sono stati finanziamenti del Pnrr perché non c’erano e non ci sono adeguati progetti. Con le sole idee, generiche e senza un’ipotesi strategica di sviluppo, non si ”canta messa” e ci si lega sempre più al sottosviluppo, alla marginalizzazione e all’assistenzialismo degli eventuali interventi statali.

Nessun complotto quindi, nessuna discriminazione contro l’Isola. La regione Sardegna, negli ultimi 25 anni non ha mostrato la ben che minima capacità di progettazione di opere e progetti infrastrutturali che potessero rientrare nelle indicazioni specifiche predisposte dall’Unione Europea per la presentazione dei progetti e l’erogazione dei fondi.
Certamente il problema dei trasporti è e resta strategico per lo sviluppo della Sardegna ma il Pnrr non può rappresentare la risoluzione dei problemi in assenza di una progettualità e di strategie di sviluppo in sintonia con le indicazioni del Recovery Plein e delle altre politiche di sviluppo nazionali e comunitarie.
Tutte le forze politiche presenti in regione sembrano concordare sull’importanza di realizzare nuove ferrovie. Il problema è che a tutt’oggi nessuno si sta preoccupando di progettarle e poco e niente è stato fatto per rafforzare la capacità progettuale e di spesa della regione. La conseguenza fin troppo facilmente prevedibile è che i miliardi del Pnrr che saranno indirizzati verso le altre regioni non faranno altro che allargare il divario esistente tra la rete ferroviaria sarda e quella nazionale.

Occorre un radicale cambio di mentalità, violare radicati tabù, battere la rassegnazione e il pessimismo cronico. E’ assolutamente necessario, direi imprescindibile, ricostruire la rete ferroviaria sarda secondo criteri e modalità adeguati ai tempi e alle necessità, con buona pace del compianto ing Benjamin Piercy che nell’ottocento realizzò l’attuale rete ferroviaria isolana, un’opera apprezzabile per quei tempi e per larga parte ancora non modificata. Lo stesso ingegnere Piercy, se fosse ancora tra noi, sarebbe il primo a dirci che il binario unico, i tratti ferroviari a scartamento ridotto, i percorsi inadeguati per incrementare la velocità dei nuovi treni, la mancata elettrificazione delle linee ferroviarie, non sono più compatibili con le necessità attuali della regione. Ci si deve convincere che la riforma dei trasporti è assolutamente necessaria e che la si può e la si deve realizzare. Purtroppo non la si potrà realizzare con la prima quota di finanziamenti europei erogati in queste settimane che , come è noto, dovranno avere attuazione entro il 2026. Abbiamo perso “il treno” e altri ne perderemo se non cambierà la capacità propositiva dell’attuale Giunta.

Occorre osare di più, fare un investimento strutturale per rifare la rete ferroviaria come intervento prioritario per avviare un nuovo sviluppo del sistema Sardegna.

Vediamo intanto che si può fare dopo aver preso atto che non si potrà fare affidamento sulla prima quota di finanziamenti del Pnrr. Il Governo Draghi, per bocca del ministro delle Infrastrutture, Enrico Giovannini, assicura che altre consistenti risorse saranno disponibili per finanziare progetti in Sardegna. Il Pnrr e il Fondo complementare non sono l’unica fonte finanziaria disponibile. Ci sono anche il Fondo Sviluppo e Coesione, gli 80 miliardi dei fondi europei 2021-2027 destinati all’Italia e i fondi pluriennali per gli investimenti. Il tema, quindi, non è ciò che al momento non si potrà fare il Pnrr, ma come si può usare al meglio il quadro finanziario complessivo disponibile.
Per tale motivo il governo proporrà ai presidenti di regione l’apertura di tavoli territoriali e regionali per affrontare in modo sistemico la programmazione delle infrastrutture e dei trasporti dei prossimi anni. Naturalmente una parte dei fondi sarà decisa dalle Regioni, una parte dallo Stato ma resta di vitale importanza che ci sia una progettualità coordinata e complementare in modo da rafforzare gli interventi.
Sarà pure necessario avviare una seria riflessione sugli indirizzi programmatici da privilegiare compiendo scelte oculate. Per esempio, ha ancora senso pensare alla elettrificazione delle linee ferroviarie se, dietro l’angolo, si affaccia la prospettiva dei treni alimentati a idrogeno? Non c’è il rischio di spendere quasi inutilmente delle risorse per l’elettrificazione pur sapendo che tale pratica sarà presto desueta per l’arrivo dei treni alimentati con l’idrogeno? Per questo il presidente Draghi, nel colloquio dei giorni scorsi col presidente Solinas, ha posto l’accento sull’attenzione che il governo riserverà per la Sardegna.
Il tema delle ferrovie è certamente rilevante, ma lo è anche quello della manutenzione delle strade. Per questo entro settembre si procederà al commissariamento di 10 interventi sulla rete stradale della Sardegna per complessivi 1,8 miliardi di euro. Il commissario straordinario sarà probabilmente lo stesso presidente Solinas. Personalmente considererei tale eventualità abbastanza discutibile. Non si può mettere la volpe a fare la guardia al pollaio.
Per dieci opere di particolare importanza e urgenza per i trasporti stradale è previsto un percorso istruttorio super rapido che passa dal Consiglio superiore dei lavori pubblici in cui siederanno i rappresentanti dei vari ministeri per dare tutte le autorizzazioni richieste. La velocizzazione riguarderà tutte le fasi della realizzazione e tra queste la capacità delle Regioni e dei Comuni di procedere, ad esempio, alla preparazione dei bandi. Ciò che è accaduto finora nella predisposizione dei progetti non dovrà ripetersi in futuro.
La carenza di risorse umane competenti è spesso indicata come una delle cause dei ritardi. Negli accordi sottoscritti a luglio e agosto, in sede di conferenza Stato-Regioni sono stati già ripartiti 9 miliardi del Pnrr e soprattutto del fondo complementare. Ad agosto sono stati firmati i vari decreti e ora il concreto utilizzo delle risorse spetta di competenza alle Regioni e ai Comuni. Il governo monitorerà il processo e curerà, con concorsi già banditi, l’assunzione di personale qualificato da assegnare alle amministrazioni territoriali. Questo modo innovativo di procedere rappresenta una rivoluzione rispetto al passato che non riguarda solo il Governo, ma dovrà estendersi tutte le pubbliche amministrazioni.
Ma il problema principale, giova ripeterlo, resta comunque la capacità di progettazione della Regione che finora ha clamorosamente mancato gli obiettivi in termini di visione prospettica dello sviluppo e in termini di progettazione. Ora serve un’azione politica ben definita e immediata. Lo Stato deve riconoscere subito il gap infrastrutturale della Sardegna e deve fare diventare una priorità la progettazione di una nuova rete ferroviaria per l’isola. L’esempio del ponte Morandi ha dimostrato che anche l’Italia, quando si creano le condizioni necessarie sa essere efficiente e rapida nella progettazione ed esecuzione delle grandi opere. L’emergenza trasporti della Sardegna non è inferiore a quella della ricostruzione del ponte Morandi. Perché senza una rete moderna ed ecologica di trasporti l’isola è destinata a rimanere ai margini dei programmi di sviluppo.
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Per correlazione.
lampadadialadmicromicro13Nel riportare il quadro fosco della situazione dei trasporti in Sardegna, con particolare riferimento alle Ferrovie, confermando il vuoto di progettualità che marca il governo regionale, particolarmente grave nella circostanza dell’opportunità dei finanziamenti PNRR (inesorabilmente perduta?), ci sembra importante dare rilievo a una significativa eccezione costituita dal progetto del “Comitato spontaneo Trenitalia nuorese”, supportato dal docente universitario Gianfranco Fancello, ben sintetizzato nell’articolo de La Nuova Sardegna del 14 agosto 2021, che sotto segnaliamo. Sconsolatamente constatiamo che nel Pnrr non c’è nemmeno un euro stanziato neppure per questo progetto rivoluzionario. Con una buona dose di pessimismo lasciamo tuttavia uno spazietto all’ottimismo del prof. Gianfranco Fancello: «Siamo ancora in tempo. Serve una forte mobilitazione di natura politica e delle parti sociali. Questo è un progetto che va sostenuto perché rilancia globalmente il sistema sardo e mette le coste occidentale e orientale in collegamento tra loro, ed entra nelle zone interne dando una possibilità di sviluppo».

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Nuoro-Olbia: la scheda c’è, i soldi no.
Su La Nuova Sardegna del 14 agosto 2021.

Omaggio a Gino Strada

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Un santo, laico.
di Gianfranco Fancello, su fb.
Per descrivere la grandezza di Gino Strada non servono grandi discorsi, ma sono sufficienti due parole: santo laico.
Perché non può che essere definito così chi, come lui, ha letteralmente salvato dalla morte migliaia di vite umane mettendo, ogni volta, a repentaglio la propria. Lo ha fatto sotto le bombe, in mezzo al mare, fra le mine antiuomo. Lo ha fatto perché, da ateo (quale si professava), aveva un altissimo concetto di sacralità dell’uomo che, in quanto tale, in quanto persona, in quanto essere vivente, doveva essere sempre protetto e tutelato, indipendentemente dal colore della pelle, dal credo religioso, dall’etnia, dalla condizione economica. Sempre protetto, accolto, difeso. Sempre. A costo, anche della vita, la propria.
Dove c’era bisogno di soccorso, lui c’era. Dove c’era bisogno di aiuto, lui c’era. Dove c’era bisogno di medici, di ospedali, di chirurghi, lui c’era. Un santo, appunto.
Mi sono spesso interrogato sul suo ateismo che, lo confesso, un po’ mi sorprendeva. In realtà l’ho sempre considerato (è così continuo a farlo) un ateismo militante: infatti ho sempre visto Gino Strada molto più vicino a Dio di tanti “falsi” credenti, che si dichiarano tali per convenienza, per abitudine, o, peggio ancora (e gli esempi non mancano) per spudorato interesse personale: questi in realtà, basano il proprio credo sull’egoismo, sull’arroganza, sulla centralità della persona, la propria. Esattamente il contrario di Gino Strada, che, da ateo, ci ha mostrato una strada (ops… ma guarda un po’…) di fratellanza, di solidarietà, di amore per il prossimo, per il diverso, per il debole, per il ferito, molto spirituale e di forte impronta morale.
Forse il suo ateismo era frutto delle sue tante vite, passate negli angoli sperduti del mondo, a curare le ferite di cristiani, mussulmani, induisti, buddisti, pagani, non credenti; con ognuno di loro entrava in empatia, ad ognuno di loro apriva il suo cuore, soprattutto per sanare le cicatrici dell’anima. Con ognuno di loro parlava lo stesso linguaggio, quello della pace, del rifiuto della guerra, della concordia, linguaggio trasversale fra le religioni e quindi universalmente valido. Ateismo quindi non come rifiuto, ma come somma di pluralità, come incapacità di scelta di un credo a scapito degli altri.
Cosa ci lascia in eredità? Tante cose: un’associazione umanitaria fra le più grandi al mondo, diversi ospedali localizzati in zone difficili e dì frontiera, tanti medici, infermieri ed operatori che si spendono in prima persona in condizioni di difficoltà e di disagio.
Ma soprattutto un grande insegnamento morale, quello della solidarietà a prescindere, di lotta alla discriminazione, di amore e fratellanza per il diverso. Tutti insegnamenti degni di un santo. Laico, ma sempre santo.
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Gino Strada, laico ma sempre santo. E titolare della “cattedra dei non credenti”.
lampadadialadmicromicro132Nel condividere le riflessioni di Gianfranco Fancello sulla figura di Gino Strada, per il quale propone l’attribuzione della qualità di “santo laico” scopro che nella sostanza poco differirebbe dalla qualità di “santo religioso” secondo quanto prevede la Chiesa cattolica, prescindendo per un momento da quanto differenzia i credenti dai non credenti. Leggo su Wikipedia alla voce “santo”:
“Per i cattolici, il santo è colui che pienamente risponde alla chiamata di Dio a essere così come Egli lo ha pensato e creato, frammento nel quotidiano del suo amore per l’umanità. La fede cattolica insegna che Dio ha per ogni persona un’idea particolare, e assegna a ognuno un posto preciso nella comunità dei credenti. Non esistono dunque caratteristiche univoche di santità, ma nella teologia cattolica, ognuno ha una santità particolare da scoprire e porre in atto. Santo, per la fede cattolica, può e deve essere chiunque, senza la necessità di particolari doni o capacità. (…) Il santo viene proposto come modello a tutti i fedeli e agli uomini di buona volontà non tanto per quanto ha fatto o detto, ma poiché si è messo in ascolto e a disposizione di Dio accettando, nella fede, che fosse Lui a dirigere attraverso l’opera dello Spirito Santo la sua vita. Per la Chiesa cattolica, dunque, a dover essere imitato è soprattutto l’atteggiamento di obbedienza a Dio e l’amore per il prossimo che ogni santo ha reso reale nei modi più diversi”. La vita di Gino Strada corrisponde proprio alla chiamata di Dio perché si ponesse a totale servizio dell’umanità (frammento nel quotidiano del suo amore per l’umanità), come davvero ha fatto. Certo Gino non credeva che questa sua missione provenisse da una chiamata divina. Ma, all’atto pratico, che ci importa? Avessimo tanti Gino Strada credenti o non credenti, o diversamente credenti!
Un’altra riflessione. Per connessione pensando a Gino Strada mi è venuta in mente l’esperienza della “Cattedra dei non credenti” inventata e praticata dal card. Carlo Maria Martini negli anni 1987-2002 durante il suo episcopato nella Diocesi di Milano, che sarebbe bene riproporre, aggiornata in metodi e contenuti ma mantenendo motivazioni e impostazione (ne riparleremo). Si trattava di una proposta insolita “non solo ascoltare i non credenti o dialogare con loro, ma metterli ‘in cattedra’, per farsi interrogare da loro e dalla dinamica generata dal confronto”. Di questa cattedra sicuramente Gino ne sarebbe stato uno dei degni titolari. E nel tempo che verrà, se come auspichiamo l’iniziativa verrà riproposta, lo sarà, attraverso le testimonianze che ci ha lasciato (scritti, video) e con la presenza dei suoi continuatori della missione di Emergency.
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Riportiamo di seguito l’intervista che Gino Strada rilasciò nel 2019 al Corriere della Sera, che ci sembra utile segnalare, soprattutto in alcuni passaggi, anche in relazione alle riflessioni che precedono di Gianfranco Fancello e Franco Meloni.
Gino Strada: intervista al Corriere [2019]

Venerdì 13 agosto, è scomparso Gino Strada. Aveva 73 anni. Medico, filantropo, attivista, nel 1994, insieme alla moglie Teresa Sarti, Strada ha fondato la ong umanitaria Emergency. Riproponiamo qui l’intervista che ha concesso al Corriere nel 2019, in occasione del 25esimo anniversario della fondazione di Emergency.

Emergency fa 25 anni. Che cosa si regala?
«Un ospedale in Uganda, disegnato gratis da Renzo Piano. Costruito con terra di scavo. Poi andremo a farne uno in Yemen».

Altro bel posto complicato…
«Il peggio è la Somalia. Ci ho provato per dieci anni: con gli Shabaab non si parla. Idem in Cecenia, rien à faire. Tirano su il muro. A un certo punto, devi rassegnarti».

Ma come fa, Gino Strada, a entrare in questi posti?
«Non ho ricette. In Sudan, ci chiese d’intervenire il governo. In Iraq, andammo alla ventura con tre macchine da Milano. Prima di partire si parla con tutte le parti: guardate che non c’entriamo con la vostra guerra… Mai avuto un morto, facendo le corna. Ma la gestione della sicurezza dev’essere precisa».

Come fu la prima riunione, nel 1994?
«A casa mia a Milano, fino a ore tarde. Carlo Garbagnati, una ventina d’amici, non tanti medici (erano scettici). E la mia adorata Teresa, che sarebbe diventata insostituibile. Ci fu una cena al Tempio d’Oro, in viale Monza. Raccogliemmo 12 milioni di lire, ma volevamo cominciare dal genocidio in Ruanda e non bastavano. Ne servivano 250. Io dissi: beh, ragazzi, firmiamo 10 milioni di cambiali a testa… Per fortuna venni invitato da Costanzo e, puf, la tv è questa cosa qui: in un paio di mesi, arrivarono 850 milioni. Gente che mi suonava al campanello di casa, ricordo una busta con dentro duemila lire spillate».

È vero che litigò con la Croce rossa?
«Quella italiana non esiste. Ma della Croce rossa di Ginevra ho gran stima. Avevo girato per loro, dall’Etiopia al Perù. Solo che a un certo punto s’erano disimpegnati dalla chirurgia di guerra. Che è difficile, costosa, rischiosa».

E il nome?
«Lo scelsi io. Era l’aggettivo all’inizio d’Emergency-Life Support for Civilian War Victims. Troppo lungo: l’aggettivo diventò sostantivo».

Settantanove progetti in sette Paesi, 120 dipendenti, 9 milioni di persone curate. Questa nuova sede vicino a Sant’Eustorgio…
«È la chiesa più antica di Milano, sa che non ho ancora avuto il tempo di visitarla? Nessuno pensava a dimensioni simili. Anni lunghi, faticosi. Siamo cresciuti con la solidarietà della gente. Anche ora che le Ong sono criminalizzate. Quel procuratore di Catania, Zuccaro, ci ha provato e non è uscito niente. Quando ammetterà che era tutta una balla?».

Volevano la tassa sulla bontà per colpire chi s’arricchisce…
«Anche noi avevamo una nave per salvare i migranti, ma costava troppo: 150mila euro al mese. È verosimile che certi meccanismi lascino spazio a comportamenti illegali. Ma non cambi la tassazione delle Ong solo perché tre sono poco chiare: indaghi su quelle tre!».

Vi sentite danneggiati?
«Han creato sfiducia nella gente. Dal 2011 abbiamo raddoppiato il budget, ma i progetti sono tanti. Un ospedale è un debito continuo, ogni anno i ricoveri aumentano del 30%. In Afghanistan, il sistema sanitario siamo noi».

Un caso che non dimentica?
«Un ragazzino, Soran, operato in Iraq. Aveva una gamba amputata da una mina. Qualche anno fa è venuto a trovarmi. Fa l’avvocato».

Il giorno più duro?
«Quando rapirono i nostri in Afghanistan e in Sudan. Anche nel caso Mastrogiacomo rischiai. Mi chiedevo: ha senso mediare? Sì, perché c’era un uomo che rischiava più di me».

Ha lavorato con Christiaan Barnard…
«Elegantissimo, con la sua Mercedes, ma ormai operava poco per l’artrosi alle mani. I miei modelli furono Staudacher e Parenzan».

E la chirurgia di guerra chi gliela insegnò?
«Era un’attività di nicchia. La faceva la Croce rossa. E i militari, che però erano proprio un altro mondo. Nel ’91, guerra del Golfo, i militari chiesero a Ginevra d’andare in Bahrein. Avevano allestito un ospedale da 5mila posti letto. Vuoto. Mandammo 101 chirurghi inglesi. Ma fecero un solo intervento: a un mignolo».

Il mondo umanitario a volte è pura rivalità. In Sierra Leone, i medici olandesi e francesi di Msf nemmeno si parlavano…
«C’è anche molto dilettantismo, favorito dai grandi donatori. In Kurdistan, vidi un palazzo per la posta aerea pagato dall’Ue. Gli aeroplanini dipinti, la scritta Air Mail. Inutile, costava un’enormità. Lo usavano come hotel».

Libia, Palestina… Perché state alla larga?
«I libici sono tosti, chiudemmo perché non arrivavano feriti di guerra, solo delinquenti locali. E ci pigliavano a sassate. Coi palestinesi ci ho provato, un ospedale a Ramallah. Andai dal ministro. Mi disse: “Ma voi avete 5 milioni da spendere? Sa, un posto letto vale 100mila dollari”. Arrivederci… Ho sempre pensato che una parte d’aiuti alla Palestina finisca altrove».

Paesi nel cuore?
«L’Afghanistan. E il Sudan: non ci credeva nessuno che si potesse fare cardiochirurgia in uno Stato canaglia. C’era una rivista di sinistra, Aprile, con un solone della Cooperazione che mi spiegava di che cosa c’era davvero bisogno in Sudan… Perché? Gli africani non hanno bisogno d’essere operati al cuore? La salute non è solo un diritto degli europei. Qui hai la tac e la risonanza magnetica, lì due aspirine e vai? L’eguaglianza dev’essere nei contenuti, non solo nelle idee».

Trattate col dittatore Bashir…
«Se un regime è oppressivo, la gente sta male. E noi ci andiamo. Quelli che noi chiamiamo dittatori, in Africa sono presidenti. E loro come dovrebbero chiamare i nostri “presidenti” Orbàn o Erdogan?».

Quando pecunia olet?
«Quando arriva dal crimine. E chi dona, pretende di decidere chi devi operare e chi no».

Le amicizie d’una vita?
«De André, Eco, Chomsky. Adesso, Renzo Piano. Quando morì Teresa, mi scrisse una lettera splendida. Gli telefonai a Parigi per ringraziarlo. Ci siamo chiamati per quattro anni senza vederci. Amicissimi, ma non sapevo nemmeno che faccia avesse».

Dio?
«Non ne sento alcun bisogno. Penso che il significato delle cose stia nelle cose stesse, non al di fuori o al di sopra. Questo non m’ha precluso l’amicizia con don Gallo, Alex Zanotelli, don Ciotti, a parte qualche bestemmia che ogni tanto mi scappava. Mi piacerebbe incontrare Papa Bergoglio, parlare dell’abolizione della guerra. Una volta era un tema, oggi è dimenticato».

Dicono che lei sia un pacifista utopista…
«Utopista va bene: secoli fa, era utopia abolire la schiavitù. Pacifista, no: lo sono anche i parlamentari che poi votano per le guerre».

Sergio Romano scrisse: Emergency fa del bene, ma non è neutrale.
«Nessuno può essere neutrale. Non puoi esserlo, su un treno in corsa. Come fai a esserlo in Iraq? Però non siamo neanche di sinistra: scegliamo la vita, la giustizia, l’uguaglianza».

Aveva simpatie per Ingroia, per Tsipras…
«Quelle sono cose che ti appiccicano addosso. Certo, trovo Prodi una persona ragionevole, anche se polemizzammo sull’Afghanistan (credo che oggi saremmo più in sintonia). E trovo Salvini razzista. Io poi sono di Sesto San Giovanni e ieri ho firmato una petizione perché apre Casa Pound. Quest’idea imbecille d’una società violenta e rancorosa, che ti spinge a trovare chi sta peggio di te e a dargli la colpa dei tuoi guai. Mai uno di loro che punti il dito su quelli che stanno meglio, eh?».

In Italia, avete 13 progetti.
«Un’Italia sconosciuta. Castel Volturno, Polistena, questi bei posticini. Povertà, degrado, schiavismo, situazioni che non ho mai visto neanche in Sudan. Quando abbiamo aperto a Marghera, pensavamo d’essere nel ricco Nord Est e d’avere solo stranieri. Invece il primo paziente fu uno di Mestre, un bell’uomo. Era stato un campione italiano alle Olimpiadi. Ma poi aveva perso il lavoro e i denti, mangiava male. E non poteva pagarsi una protesi».

Se i grillini l’avessero candidata al Quirinale, come volevano, sarebbe diventato il capo delle Forze armate. Che cosa avrebbe fatto?
«Ritiro dalle missioni all’estero. Smantellamento degli arsenali stranieri in Italia. Riduzione degli armamenti. Ma era una boutade, non ci ho pensato neanche un momento».

L’hanno candidata al Nobel per la pace…
«Accade ogni anno. Ci sono delle regole, il candidato non sa mai chi lo candida. Accettarlo? Mah, l’hanno talmente svilito: Obama l’ebbe per un semplice discorso, Kissinger con tutti i golpe che ha organizzato, l’Ue che tira su muri e nei Balcani fece una guerra tra le più sanguinose del secolo…».

Sua figlia Cecilia tornerà in Emergency?
«Non lo so. Non discutiamo più delle vicende che l’hanno spinta ad andarsene. Ma abbiamo ancora un buon rapporto».

Che padre è stato? Cecilia raccontò una volta che all’asilo le mandava le cartoline dal mondo, da adolescente lei le vietava la discoteca, da adulta ha imparato la sua ironia…
«L’ironia e la discoteca, è vero. Ma non le mandavo solo cartoline dal mondo. C’inventavamo giochi, letture. All’asilo, sono andato anche a fare il buffone».

Si sente stanco?
«Purtroppo ho 70 anni e sono afflitto da una malattia inguaribile, la vecchiaia. Non so come faccia Renzo Piano, 12 ore d’aereo e subito altre otto in cantiere. Forse la vita del chirurgo è molto usurante e ha ragione Woody Allen: non conta l’età, conta il chilometraggio. In alcuni posti ho lasciato la salute. L’anno in Sierra Leone è stato devastante, perché ebola non è diverso dalla guerra: il nemico non lo vedi, ma ogni passo che fai potrebbe essere l’ultimo».

Hanno dato il suo nome a un asteroide, il 248908 Gino Strada…
«Una volta ho fatto i conti sulla superficie: potrebbe venirci fuori un bilocale. Un buon rifugio per il weekend. Però è a otto milioni di anni luce, un po’ lunga: ho ancora troppo da fare, qui».

Che succede?

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RAPPORTO ONU SULL’AMBIENTE. SCIENTISMO E LIBERTA’. TORNA LO IUS SOLI
10 Agosto 2021 by Giampiero Forcesi | su C3dem.
Francesco Semprini, “SOS ambiente. L’allarme dell’Onu. Non c’è più tempo” (La Stampa). Luca Bergamaschi, “Cosa può fare l’Italia nei prossimi anni per agire sul clima” (Domani). GOVERNO E FUTURO: Beniamino Caravita, “La nuova fase dell’Italia e le sfide dei prossimi mesi. Un miracolo collettivo” (Milano finanza). Maurizio Ferrera, “Una spinta sociale europea” (Corriere della sera). Danilo Taino, “La via tortuosa del taglio delle emissioni” (Corriere). Stefano Folli, “Chi manovra contro Mattarella” (Repubblica). Gianni Cuperlo, “L’agenda Draghi è obbligata. Nessuno farà cadere il governo” (intervista a Il Riformista). Claudio Tito, “Recovery, lettera di Palazzo Chigi con i compiti a casa per i ministri” (Repubblica). AFGHANISTAN: Giuliano Battiston, “Esodo in Afghanistan per l’avanzata talebana” (Manifesto). Giuliano Ferrara, “Il prezzo della sconfitta” (Foglio). GREEN PASS: un articolo controcorrente, a difesa di Agamben e Cacciari, di Giovanni Orsina, “Lo scientismo e la libertà” (La Stampa). Marco Bentivogli polemizza con Landini: “Gli estremisti per prudenza. Lettera a Landini” (Repubblica). IUS SOLI: Giovanna Casadio, “Letta: lo Ius soli va fatto subito, non solo per gli atleti” (Repubblica). Luciana Lamorgese, “Ius soli anche a chi non vince l’oro” (intervista a La Stampa). GIUSTIZIA: Goffredo Bettini, “Sì ai referendum sulla giustizia. So che c’è la Lega ma firmo lo stesso” (intervista al Corriere della sera). Franco Monaco, “La scappatella del chierico Bettini contro la giustizia” (Il Fatto – ma l’autore aveva intitolato, più sensatamente, “Le capriole di Bettini”). INOLTRE: Mario Giro, “Dopo i dolori della polarizzazione tutti inseguono il miraggio del centro” (Domani). Alberto Orioli, “Il paradosso del lavoro tra competenze e immigrazione” (Sole 24 ore). Giorgio Vittadini, “Serve formazione a tutte le età” (intervista a Avvenire). Marco Follini, “Dietro un campione c’è sempre un mediano” (La Stampa).
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Vaticano, il messaggio post-pandemia di Papa Francesco chiama il governo Draghi a misurarsi su tre punti – Il Fatto Quotidiano - https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/08/11/vaticano-il-messaggio-post-pandemia-di-papa-francesco-chiama-il-governo-draghi-a-misurarsi-su-tre-punti/6287976/
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SINODO ITALIANO. “IL DIO CHE PERDIAMO”. CHIESA IN RITIRATA
9 Agosto 2021 by Giampiero Forcesi | su C3dem.
Paolo Cugini (parroco nel bolognese), “Il sinodo italiano e il principio di uguaglianza” (Viandanti.org). Mario Toso, “Non c’è sinodalità senza lo Spirito” (Settimana news). Gigi Maistrello, “Quale futuro per le comunità cristiane?” (Settimana News”). Francesco Cosentino, “La chiesa ‘dopo’ tra rischi e opportunità” (Settimana news). Un parroco, “Siamo una chiesa in ritirata” (Settimana news). Antonio Greco, “Il dibattito sul ‘Dio-che-perdiamo’. Una sintesi” e “Il dibattito sul ‘Dio-che-perdiamo’. Una ipotesi” (manifesto4ottobre). Giuseppe Savagnone, “Messa in latino. Il problema è simbolico” (Settimana news). Andrea Grillo, “Summorum Pontificum abusus: negazionismo conciliare e blocco ecclesiale” (come se non). Francesco, “La verità del Vangelo non è negoziabile” (catechesi sulla lettera ai Galati – Avvenire). Antonio Spadaro, “Gesù è un rebus. La gente mormora perché non lo capisce” (Il Fatto). Michela Marzano, “Enzo Bianchi, il dolore di quel vuoto che porta alla follia” (La Stampa). Giovanni Tassani, “Quando Dossetti liquidò il dossettismo” (Avvenire). Dominique Reynié, “Cina comunista e islamismo, il cristianesimo tra due mannaie” (Foglio).
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Chi sono i Protestanti?

2b85a3c7-778b-4a57-9f62-ee35605b27e5Si avvia il cammino sinodale.
IL POLIEDRO
protestanti

di Brunetto Salvarani su Rocca.
[segue]

L’innovazione nella politica ritrovata nel passato.

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Il partito sociale. Un’idea sempre attuale
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23 Luglio 2021 by c3dem_admin | Su C3dem.
di Sandro Antoniazzi.
E’ un vero peccato e una grande perdita per la coscienza collettiva del paese che la rigida separazione tra ideologie contrapposte abbia a lungo impedito di apprezzare adeguatamente l’apporto culturale di persone appartenenti a file avverse.
Molte prevenzioni sembrano oggi cadute congiuntamente al parallelo venir meno delle ideologie.
In questo spirito vorrei richiamare l’attenzione sull’esperienza di Osvaldo Gnocchi Viani, socialista umanitario vissuto a Milano nella seconda metà dell’ottocento e nei primi anni del novecento, il cui rilevante contributo di pensiero merita di essere conosciuto e valorizzato ancora oggi.
Gnocchi Viani (Viani è il cognome della madre che Gnocchi, femminista ante-litteram, aveva aggiunto a quello del padre) non è certo una figura di secondo piano: è stato il fondatore della Camera del Lavoro di Milano, della Società Umanitaria, delle Università Popolari e del Partito Operaio Italiano (predecessore del Partito Socialista).
Aveva una visione molto ampia del socialismo, che considerava rivolto all’intera umanità; era in questo un socialista integrale (integralista, nel linguaggio del tempo): lo era innanzitutto sul piano delle diverse correnti, che lui chiamava scuole, e che, a suo parere, potevano tutte concorrere democraticamente alla comune battaglia (era però critico della corrente “autoritaria” – quella marxista – perché temeva la centralizzazione e analogamente, dopo aver visitato la Germania, diffidava del socialismo tedesco, rigido e gerarchico, mentre le sue preferenze andavano a un socialismo articolato e decentrato).
Era poi socialista integrale perché pensava che il socialismo riguardasse ogni aspetto della vita umana (filosofia, religione, diritto, economia, arte, politica) e per realizzare tale progetto riteneva che non fosse sufficiente la classe lavoratrice; un obiettivo così grande richiedeva il concorso di una pluralità di forze.
Comprendeva l’importanza del fattore economico, ma era reticente ad attribuirgli un ruolo preminente e considerava un pericoloso errore motivare l’iniziativa delle masse con la leva degli interessi materiali.
Per lui la questione operaia era solo una parte della più ampia questione sociale: le classi lavoratici non sono tutto il consorzio umano e non solo i lavoratori sono “irredenti”.
Il fine ultimo era quello, enunciato dall’Internazionale, della realizzazione di un’unica Grande Famiglia Umana, una visione ottimistica di affratellamento e di cooperazione, che confliggeva con la tesi darwiniana della lotta permanente fra gli uomini per la loro sopravvivenza.
Per perseguire questo scopo era importante partire dal basso, trasformando la coscienza dei lavoratori e dei cittadini.
Non si trattava solo di elevare il livello di istruzione, ma di dotare i lavoratori di una capacità critica, per essere in grado di comprendere il funzionamento della società, resistere all’ambiente intellettuale dominante e non essere subalterni ai capi politici, compresi quelli socialisti.
Occorreva contrastare un ambiente sociale che condiziona le persone e che forma la “sedicente opinione pubblica”, vero ostacolo al rinnovamento sociale.
Per essere un soggetto attivo la classe lavoratrice aveva bisogno di una cultura alternativa e anche di una morale che non fosse quella individualistica imperante.
La borghesia si era affermata perché era riuscita a imporre la propria cultura; per cambiare la società era necessario affermare una moralità diversa, perché solo un’umanità migliore avrebbe potuto realizzare una società migliore.
Così Gnocchi Viani non teme di sostenere che è necessario un rinnovamento interiore (pensiero tanto caro ai cattolici) e dimostrare una coerenza di vita: gratuità, disinteresse, sobrietà, sacrificio.
E’ decisamente contrario alla scuola autoritaria perché, con una visione lungimirante del futuro, riteneva che la dittatura di una classe tendeva sempre a risolversi nella dittatura di pochi, se non di uno solo.
Ma era anche critico della visione, propria dei parlamentari socialisti, della conquista del potere, perché essa limita l’orizzonte ideale e politico a ciò che si riesce a ottenere in sede parlamentare, facendo venir meno la forza insostituibile del movimento, cioè l’iniziativa e la volontà di riscatto dei lavoratori.
La sua concezione dei partiti politici (partito socialista compreso) è del tutto concorde con le critiche odierne: formano una casta (usa proprio questo termine), sono separati dalla base, limitano l’intera azione politica alle sole manovre parlamentari.
I partiti hanno una logica gerarchica, perché il governo è sempre governo di pochi.
Il partito politico soprattutto è lontano dalla questione sociale, non è in grado di gestirla, mentre la questione sociale è il fondamento della politica della classe lavoratrice.
Per questo Gnocchi Viani oppone al partito politico, il partito sociale, che ha alla sua base il principio associativo, il quale è orizzontale, solidaristico, cooperativo, federativo.
Il partito sociale è quello che ha il popolo come fine e dunque è per il potere diffuso e opera nella vita “pubblica”, non in quella “politica”, che è propria dei partiti politici e del loro modo di agire verticistico.
E ancora: i partiti politici pensano alla demolizione della vecchia società, sostenendo i principi liberali e individualisti propri dell’illuminismo, mentre i partiti sociali si dedicano a un’opera innovativa, la costruzione della società di domani.
E poiché l’alienazione economica e quella politica e culturale dei lavoratori vanno tutte assieme, altrettanto devono andare assieme la liberazione economica, l’autogoverno e l’arricchimento delle idee proprie.
La sua visione ideale rifuggiva pertanto dalle visioni governative e stataliste (considerava lo Stato “una bottiglia di vino cattivo”) per preferire, in alternativa, un sistema federativo di Amministrazioni comunali, nelle quali sarebbe stata possibile una partecipazione attiva dei cittadini.
Sarebbero molte le considerazioni che si potrebbero fare sulla nostra realtà attuale, stimolati dalle idee di Gnocchi Viani. In questa sede mi limito a due.
Innanzitutto, mi sembra che siamo troppo succubi di come funziona il sistema attuale: globalizzazione, comunicazioni di massa, multinazionali, Google, Amazon, ecc…; diamo tutto per scontato e rischiamo così di perdere la grande tradizione delle nostre municipalità.
Se è giusto accogliere e affrontare la dimensione mondiale come componente ormai normale della nostra vita, questo non deve avvenire negando e distruggendo la realtà umana, civile e culturale delle nostre città e dei nostri territori.
In secondo luogo, mi sembra che ci sia troppa arrendevolezza sul piano culturale e dei valori, quasi ormai rassegnati, per la sproporzione di forze, ad accettare di tutto.
Forse Gnocchi Viani era troppo idealista e viveva in una società più semplice.
Ma non è ora di riprendere una battaglia culturale più critica rispetto a tante tendenze che si diffondono?
Quando in Francia, all’inizio dell’ottocento, Pierre Leroux coniava la parola “socialista” non aveva in mente un partito, ma semplicemente un termine che era il contrario di “individualista”.
Si trattava di due parole equivalenti: l’individualista è colui che guarda all’interesse proprio, il socialista colui che guarda all’interesse comune, collettivo.
Non si potrebbe ritornare oggi all’uso originale e vedere di formare più “socialisti” e meno “individualisti”?

Sandro Antoniazzi
luglio 2021
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Sulla figura di Osvaldo Gnocchi Viani ha molto indagato Pino Ferraris. Di queste ricerche diamo conto in diversi articoli del nostro periodico: https://www.aladinpensiero.it/?s=Pino+Ferraris
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Contributi al dibattito su “Crisi del Welfare ed economia civile”. Il pensiero di Pino Ferraris
ferraris pino LIBROape-innovativa Proseguiamo nel riproporre le riflessioni di Pino Ferraris (anche con la mediazione di altri che ne hanno studiato il pensiero), utilizzando la documentazione pubblicata dalla news online “Controlacrisi” per ricordarne la figura all’indomani della sua morte avvenuta il 2 febbraio 2012. I contributi teorici di Pino Ferraris mantengono una straordinaria validità per affrontare oggi la crisi che attraversiamo drammaticamente e che è crisi insanabile del capitalismo, indirizzandoci nella ricerca di soluzioni diverse anche da quelle in buona parte fallimentari dei modelli storicamente attuati del socialismo reale. Pino Ferraris negli anni 70 frequentava spesso la Sardegna, spendendosi generosamente nei movimenti della sinistra alternativa, apportando la sua capacità di teorico e ricercatore appassionato e rigoroso, maestro per molti di noi giovani (allora) militanti della nuova sinistra sarda.
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PINO FERRARIS SULLE PRATICHE DI NEO MUTUALISMO E AUTORGANIZZAZIONE

Pino Ferraris fto microConclusione di Pino Ferraris al Convegno sulla Mutualità promosso dalla Società di Mutuo Soccorso d’Ambo i Sessi “Edmondo De Amicis” di Torino –

L’ultimo intervento del rappresentante della Società Operaia di Orbassano ha portato un importante contributo di chiarezza nel dibattito in corso. Evitiamo – egli ha affermato – di identificare le Società di Mutuo Soccorso con le “mutue”.
In questo caso, di fronte alla realizzazione della riforma sanitaria come diritto dei cittadini alla salute, il loro compito sarebbe residuale, modestamente integrativo o pericolosamente sostitutivo di diritti fondamentali.
Nel corso della prima sessione del convegno intitolata “Che cosa ci insegna la storia della mutualità”, Marco Revelli ha parlato di questa esperienza come di una grande scuola di auto-organizzazione e come anello di congiunzione tra la cultura dei mestieri e i problemi degli ambiti di vita e infine come uno storico movimento di costruzione di nuove relazioni sociali basate sul principio di solidarietà. Occorre non perdere mai il senso di questa profonda ed ampia ispirazione delle società di mutuo soccorso.
Nella seconda sessione del convegno dedicata a “Crisi del Welfare ed economia civile” è stata sollevata una domanda molto pertinente: perché oggi c’è una ripresa del mutualismo? Quarant’anni fa si parlava di altre cose. Questo ritorno rappresenta soltanto un tentativo di risposta alla crisi del welfare oppure ha una valenza politica?
Revelli ha affermato che il movimento operaio del 900 ha vissuto di rendita sulla grande ondata istituente di nuove forme associative suscitate nella seconda metà dell’800: il mutuo soccorso, le leghe di resistenza, la cooperazione, le case del popolo, il partito di massa.
Il 900 non ha solo ereditato la rendita di queste risorse associative, ma a partire dalla tragica esperienza della Prima guerra mondiale esso ha anche operato una torsione burocratica, politicista e statalista del patrimonio del movimento operaio ottocentesco.
Qui sta la ragione principale del mancato riconoscimento storiografico del mutualismo: con esso si è rimossa la sua ispirazione autogestionaria, il suo radicalismo democratico, la sua affermazione delle autonomie del sociale.
Il ritorno del mutualismo significa anche e soprattutto ricerca di nuove vie della politica dopo la crisi di socialismi autoritari, di sistemi politici oligarchici e autoreferenziali, dopo le deviazioni del welfare verso forme di paternalismo statale selettivo e clientelare.
Dentro lo sviluppo del volontariato, di movimenti di cittadinanza attiva, di buone pratiche di cittadinanza negli anni 80 e nei primi anni 90, si aprivano possibilità di sussidiarietà circolare (Cotturri) tra istituzioni e associazioni in grado di far emergere una sfera pubblica sociale (che non è il cosiddetto privato-sociale). La stagione dei “nuovi sindaci” prometteva l’articolazione di un welfare locale. Tutto ciò sembrava rompere la rigidità, la selettività, la freddezza burocratica dell’offerta di welfare e aprire varchi all’intervento attivo, competente e propositivo della domanda sociale, rendendo visibili ed esigibili diritti negati o elusi dei cittadini.
E’ possibile rompere il nesso assistenza-dipendenza? E’ possibile che i “destinatari” dell’offerta di welfare diventino anche attori proponenti di una domanda sociale nuova e appropriata? E’ possibile che l’”oggetto” delle pratiche di tutela politica e amministrativa possa entrare sulla scena pubblica come “soggetto”?
E’ in questa ottica che per anni con altri amici e compagni abbiamo lavorato non per tamponare una “crisi” del welfare ma per realizzare un nesso tra “riforma” ed “estensione” del welfare e i valori di autonomia sociale, le pratiche di partecipazione e di solidarietà di un neo-mutualismo.
Oggi sono più prudente nel privilegiare questo rapporto neo-mutualismo e welfare. Non solo perché questo riferimento al welfare mi pare riduttivo, ma anche perché su questo terreno le strade si sono fatte oggi più strette e i percorsi quasi impraticabili.
Come si colloca il neo-mutualismo dentro quell’insieme di pratiche sociali che vengono sommariamente riassunte nella definizione del “terzo settore”?

Recentemente a Roma si è tenuto un convegno dal titolo significativo: Terzo settore, fine di un ciclo. La relazione era di don Vinicio Albanesi, fondatore della Comunità di Capo d’Arco, altre relazioni erano di Giovanni Nervo, di Giuseppe De Rita, di Carniti. Concludeva Giulio Marcon.
De Rita in poche parole ha fissato la situazione: “Oggi il volontariato è in qualche modo uno spazio per anziani generosi, mentre la dimensione più giovanile e anche quella più settorializzata va verso un’altra direzione che approda alla cooperazione di servizi, alle imprese sociali, che sono una cosa molto diversa dal volontariato.”
Una riforma del Welfare richiede non solo la capacità di dare rilevanza sociale e politica al lato attivo, competente e propositivo della domanda sociale, come avvenne con il volontariato degli anni 80 e primi anni 90, ma esige in primo luogo un forte impegno politico generale nel rendere giusta la solidarietà fiscale, nel rendere equa la solidarietà assicurativa. Solo così la solidarietà quotidiana può evitare il pericolo di decadere in una supplenza di diritti negati.
[segue]