Risultato della ricerca: Sardegna Europa
Sa Die de sa Sardigna
Nella ricorrenza del 28 aprile, riportiamo un paragrafo. comprendente lo “scommiato” dei piemontesi dalla Sardegna, tratto dal libro di Andrea Pubusa su Giommaria Angioy, edito da Arkadia. Ringraziamo Andrea Pubusa per l’autorizzazione alla pubblicazione.
Le cinque domande: la carta rivendicativa dei ceti moderati-parassitari
In seguito alla cacciata dei francesi dalla Sardegna il re Vittorio Amedeo III, si congratulò con i sardi, ma non soddisfò le aspettative delle forze che avevano assicurato, armi in pugno, il respingimento sul campo. Ci furono sì alcuni riconoscimenti ma non verso i sardi che avevano combattuto. Il contegno irritante del rappresentante del re in Sardegna fece accrescere il malcontento popolare nei confronti del governo piemontese.
Il 29 aprile 1793 i rappresentanti degli Stamenti si riunirono per presentare una formale petizione al re.
Le richieste, dette “cinque domande” perché formulate in cinque punti, costituiscono una piattaforma politica, secondo molti studiosi a forte connotazioni autonomistiche; esse prevedevano:
1) il ripristino della convocazione decennale dei Parlamenti, interrotta dal 1699;
2) la riconferma degli antichi privilegi, soppressi pian piano dai Savoia nonostante il Trattato di Londra;
3) la concessione ai Sardi di tutte le cariche, ad eccezione della vicereale e di alcuni vescovadi;
4) la creazione di un Consiglio di Stato, a fianco del viceré, per la gestione degli affari ordinari;
5) la creazione in Torino di un Ministero per gli Affari di Sardegna.
Sulle cinque domande molto si è discusso e si discute. Molti vedono in essa la Carta dell’autonomismo sardo e danno rilievo alla contrapposizione con la Dominante piemontese. Vi è stato chi (Umberto Cardia) ha visto in esse il riemergere “dell’idea e del sentimento di autonomia“, la cui continuità, in Sardegna, è da ricercarsi in quella ideale Carta dei diritti che, “proposta alle soglie del ‘500, dopo la fine della resistenza degli Arborensi, da quel momento continua a proporsi tenacemente in tutti i parlamenti e fuori dei parlamenti, nell’epoca spagnole e in quella del dominio piemontese…. Per svalutarla la storiografia savoiarda e quella che ne ha accolto acriticamente l’eredità anche in Sardegna hanno continuato e continuano ancor oggi a parlare, a proposito dei Cinque punti della Carta dei diritti della Sardegna del 1793-94, di rivendicazioni cetuali e corporativi, dirette alla restaurazione di antichi anacronistici rivilegi o espressione di una famelica, egoistica scalata agli impieghi civili e militari”. E soggiunge: “Che nel compromesso raggiunto tra classi e ceti sociali dell’isola confluissero interessi concreti, personali e di gruppo, di natura economica e sociale non pare potersi mettere in dubbio. Ma è altrettanto vero che gli interessi particolaristici venivano, in quel momento come in altri del passato (per esempio nel periodo 1664-68 della lotta antispagnola), sentiti e proposti come l’espressione degli interessi generali dell’intera collettività“.
Questa posizione trova poi una base giuridica nel dibattito sviluppatosi sul concetto e il valore delle leggi fondamentali (Birocchi). Si muoveva dal loro carattere pattizio, perché avevano formato oggetto di trattati internazionali e si giungeva alla conclusione ch’esse erano immodificabuki unilaterlamente. Prima la pace fra gli aragonesi e gli arborensi con cui la Sardegna passava alla Spagna e poi con gli accordi di Vienna e il Trattato di Londra del 1718 che la trasferiva ai Savoia. Il Trattato disponeva (art. X) la rimessione del possesso dell’isola al re sabaudo con l’intera sovranità mentre i piivilegi degli abitanti del Regno “seront conservée comme ils en ont jouis sous la dominatio de Sa Majesté Impèriale et Catholique“. Ed effettivamente Vittorio Amedeo II insediandosi nel Regnum Sardiniae s’impegno a rispettare solennemente “leges, privilegia et statuta” nella stessa forma in uso nella dominazione precedente. Ora questi obblighi nascono non da atti del Regno, ma da trattati internazionali e si traducono nel riconoscimento di uno statuto speciale di autonomia, ossia nel mantenimento di esso quale era venuto enucleandosi prima delle cessione dell’isola ai Savoia. L’intangibilità del vincolo così assunto dal re sabaudo è indiscutibile, anche perché garantita dalle potenze firmatarie dei trattati. Non c’è dubbio che questa ricostruzione sul piano giuridico formale è ineccepibile, il Regnum aveva istituzioni e leggi non disponibili dal re sabaudo, e, dunque, non si può negare ch’essa mettesse la Sardegna al riparo da incursioni legislative o peggio di fatto del re, tuttavia – come empre in queste questioni – bisogna vederne il contenuto. Qualche anno dopo Francesco d’Austria d’Este, dopo un suo viaggio in Sardegna, formulava una Descrizione della Sardegna, e nel capitolo sugli Stamenti, elencava le pricnipali leggi fondamentali del Regnum. Ne indicava dodici, ra le prime, la terza, prevede il sistema feudale, con annessa la riserva della potestà giuridizionale di prima istanza in capo ai baroni e in seconda istanza ai magistrati regi. Non mancavano i prilegi nobiliari e quelli ecclesiastici (Birocchi). Prende risalto in questo contesto, per gli effetti che avrà nel c.c. triennio rivoluzionario sardo, l’inserimento fra le leggi fondamentali della permanenza della titolarità in capo a baroni spagnoli dei feudi sardi, a garanzia dei quali si ergeva la Spagna, che si era addirittura garantita la reversibilità della Sardegna in assenza di discendenti maschi dei re sabaudi.
L’individuazione delle leggi fondamentali del Regno, pur con tutta la buona volontà, rende difficile parlare di Carta dei diritti e non sembra frutto del desiderio di svalutazione parlare “a proposito dei Cinque punti della Carta dei diritti della Sardegna del 1793-94, di rivendicazioni cetuali e corporativi, dirette alla restaurazione di antichi anacronistici privilegi o espressione di una famelica, egoistica scalata agli impieghi civili e militari” (Cardia). L’individuazione delle leggi fondamentali recepite nelle cinque domande svela anche il contenuto del “compromesso raggiunto tra classi e ceti sociali dell’isola”, ci svela quali “interessi concreti, personali e di gruppo, di natura economica e sociale” vi siano confluiti. Si ripete: il sistema feudale, i privilegi dei nobili e del clero. Se è, come è, così, si può affermare “che gli interessi particolaristici venivano, in quel momento, […] sentiti e proposti come l’espressione degli interessi generali dell’intera collettività“? Certo ogni gruppo dominante scambia i propri per interessi generali. Ma il sistema feudale e i diritti dei baroni ricomprendono quelli dei vassalli? E in quel particolare momento storico li ricomprendevano se è vero come è vero che le campagne sopratutto nel Nord Sardegna erano in grande fermento contro quel sistema e quei diritti? Il compromesso, dunque, riguardava feudatari, nobili, clero e ceti professionali urbani con la rivendicazione della privativa degli impieghi, ma escludeva due dei protagonisti di quel tormentato periodo: i vassali e il mondo delle campagne e gli artigiani. Guarda caso i ceti che danno vita alla rivoluzione dal basso in quegli anni. Di più gli interessi di questi ceti sociali sono incompatibili con i privilegi feudali e nobiliari e in larga misura anche con quella parte dell’intellettualità delle professioni intimamente legata a quelli. La domanda di privativa degli impieghi è compatibile con gli interessi dei ceti subalterni solo in riferimento all’intellettualità culturalmente materialmente affrancata dal sistema feudale e nobiliare. Di per sé non contrasta con gli interessi degli artigiani, e più in generale con le esigenze dei ceti popolari urbani, e neppure con quelli dei vassalli. I punti di contrasto sono gli altri, in particolare i privilegi.
Non si è lontani dal vero, dunque, se si afferma che il compromesso alla base delle cinque domande vede come protagonisti i feudatari disponibili a “limitare” i loro privilegi a quelli previsti all’origine dalla carte di concessione, il clero e il ceto professionale subalterno ad essi. Ne rimangono fuori gli intellettuali indipendenti, i vassalli e i ceti artigianali e popolari delle città, anche se su questi ultimi i primi esercitano una certa egemonia.
Una conferma del carattere parziale e classista delle cinque domande viene dalle dieci domande degli artigiani e dei ceti popolari cagliaritano. Al culmine della mobilitazione popolare, tre giorni dopo l’uccisione del Pitzolo e l’arresto di Paliaccio, destinato alla stessa fine per mano dei capipolo, viene consegnata al Parlamento una Rappresentanza del popolo, con dieci richieste secche: I) accrescerela forza delle milizie cittadine; II) rifiutare l’arruivo di truppe provenienti dalla terraferma; III) togliere i cannoni (che il marchese della Planargia voleva utilizzare contro i sobborghi) dal Castello e collocarli fra le batterie della Maruna; IV) sequestrare le carte del Pitzolo e del Paliaccio; V) ripoporre la proposta del Consiglio di Stato; VI) sottrarre la materia hiuridica all’intendenza di finanza e trasferirla alla Reale Udienza; VII) avanzare di nuovo la richiesta della orivativa degli impieghi per i nazionali sardi, senza alcuna limitazione; VIII) reiterare la domanda dell’istituzione di un ministero per gli affari della Sardegna, con eslusione di qualunque altro ufficio che a Torino si occupasse dei problemi isolani; IX) nominare come ambasciatori degli stamenti Gianfranco Simon (abate Salvenero e Cea, membro delle sstamento ecclesiastico ed esponente della componente dei novatori) e Ludovico Baylle (giurista, stiorico, bibliofilo e antiquario di provata fede antiassolutistica) affinché ripresentassero al sovrano le domande del regno; X) vietare tassativamente a chiunque di condannare i protagonisti delle giornate del 29 aprile e del 6 luglio. Il documento chiedeva infine una rigorosa vigilanza “sulla condotta delle persone poco affette alla Nazione” e una richiesta da parte degli stamenti di una sollecita convocazione delle Corti per delberare dulle domande.
Non c’è dubbio che in queste richieste vi sia la pressione per una radicalizzazione della battaglia neu ruguardi del governo di Torino (Francioni), ma ciò che colpisce è quanto resta in esse delle cinque domande o meglio quanto di queste viene omesso. Ad una veloce analisi si può dire che alcune rivendicazioni sono strettamente connesse alle sollevazioni in corso: l’amnistia per i protagonisti di quei fatti, l’incrmento della milizia urbana, non si dimentichi comandata da Vincenzo Sulis, anch’esso protagonista di quelle giornate, e il rifiuto di armate provenienti dal Piemonte. Si voleva cioè scongiurare non solo una repressione giudiziaria, ma anche un intervento contro il popolo delle forze armate, sul preupposto che le milizie cittadine non avrebbero svolto quella funzione, avendo esse stesse contribuito alla conquista del Castello e allo scommiato dei Piemontesi e del vicerè. Delle cinque domande venicani reiterate quelle non sontrastanti con gli interessi popolari: la privativa degli uffici pubblici ai sardi, la creazione del Consiglio di Stato a Cagliari e il Ministero per gli affari della Sardegna a Torino. Nella stessa direzione si può considerare la richista di sottrazzione del contenzioso spettante all’intendenza di finanza per affidarlo alla Reale Udienza. Uno spostamento razionale di uno spezzone importante di attività giurisdizionale dall’amministrazione alla Magistratura ordinaria (una riforma che andrà curiosamente a buon fine solo in epoca recente in ossequio allaCostituzione repubblicana che preclude funzioni giurisdizionali aad organi amministrativi). Manca invece nelle domande di parte popolare la conferma della seconda domanda, quella contenente la richiesta di salvaguardia dei privilegi garantiti dalle leggi fondamentali del Regno, ossia il mantenimento del sistema feudale e dei privilegi nobiliari, previsti nel Trattato di Londra. Credere che questa sia una dimenticanza e non una omissione discussa e deliberata è una forzatura. No, bisogna ammettere che la parte popolare di Cagliari si batteva per l’autonomia del regno, ma non per i privilegi dei baroni e dei nobili, che mentre il vento della Grande Rivoluzione spazzava l’Europa non risparmiava di spandere, se non adesioni esplicite, positive suggestioni anche nelle forze più combattive della nostra isola. E, infatti, se i popolani cagliaritani non erano, almeno nelle componenti più agguerrite, dalla parte dei barones, certo non erano con loro i vassalli che anzi erano in fermento in tutta l’isola e da alcuni anni davano vita a lotte di grande forza e di indubbia intelligenza.
Come sempre accade in qusate vicende, la situazione era più complessa perché ogni ceto era attraversato da divisioni interne. E così fra i baroni c’era l’ala integralista, rappresentata principalmente dagli spagnoli e da quelli del Capo di Sopra che difendevano lo stato di cose esistente, compresi gli abusi, ossia le pretese non fondate sulle concessioni originarie, mentre ve ne erano altri, specie nel Capo di Sotto, che erano disponibli a rinunciare ai privilegi non concessi ma introdotti con la prepotenza. Fra gli ecclesiastici c’era poi il basso clero che faceva lega coi vassalli e fu uno dei soggetti che indirizzò e guidò le rivendicazioni insieme all’intellettualità indipendente, che si distingueva da quella delle professioni, parte della quale era legata ai feudatari per via delle lucrose cause feudali. Ma fra gli stessi artigiani, i sanculotti sardi, erano attraversati da divisioni. In una lettera del 6 giugno 1795, ossia un mese prima dell’uccisione di Pitzolo e di Paliaccio, avendo conoscenza di ciò che bolliva in pentola, “i maggiorali degli argentieri. di Sant’Erasmo, dei cavatori, dei bottai, dei vasellai, e mattonieri, dei fabbri ferrai, dei pescatori, dei faegnami, dei calzolai, e degli ortolani, prendevano rispoutamente posizione contro le voci di sommossa, i libelli eversivi, i discorsi di incitamento al tumulto ed i pressi esorbitanti stabiliti, secondo gli estensori frlla missiva, da alcuni artigiani nella vendita dei prodotti” (Francioni). Insomma, c’erano settori della componente più combattiva e decisa, che mettevano le mani avanti e si chiamavano fuori dalla mobilitazione, manifestando adesione alle posizioni moderate eistenti negli stamenti e negli organi di governo.
Questa situazione frammentata spiega l’altalenante andamento delle lotte dal 1794 al 1976 e il tragico sbocco repressivo degli anni successivi.
Si obietta che nel ‘93 sardo è ben individuabile uno spirito nazionale, ed è vero, ma di quale nazione? Di quella che faceva dire a Luigi XVI davanti al Parlamento di Parigi il 19 novembre 1787 “que le roi est souverain de la Nation et ne fait qu’un avec elle” o è quella contenuta nella risposta che il 14 febbraio 1790 l’assemblea gli risponde con la seguente apostrofe rivolta al popolo francese: “La nation c’est vous; la loi c’est encore vous; le roi n’est que le gardien de la loi”. Ora non sembra azzardato pensare che nelle 5 domande i proponenti pensassero ad una “nazione” simile quella che aveva in testa Luigi, mentre nelle compnenti popolari più agguerrite delle città e delle campagne e in una parte dell’intellettualità sarda protagonista del triennio 93/96 andava certamente formandosi e consolidandosi l’idea di nazione enucleata pochi anni prima dall’assemblea francese.
Tornando alle cinque domande, gli Stamenti decisero di mandare a Torino una delegazione di sei membri, due per ogni Stamenti, incaricata di presentare e illustrare al sovrano le rivendicazioni. I sei rappresentanti partirono per Torino divisi in due gruppi: il primo si imbarcò il 29 giugno da Porto Torres ed era composta dal rappresentante dello Stamento militare Girolamo Pitzolo e dal rappresentante dello Stamento reale Antonio Sircana; il secondo partì da Cagliari il 18 luglio e ne facevano parte i rappresentanti dello Stamento ecclesiastico Pietro Maria Sisternes e il vescovo di Ales Michele Aymerich, il rappresentante dello Stamento reale Giuseppe Ramasso e il rappresentante dello Stamento militare Domenico Simon.
Il 4 settembre tutta la delegazione si riunì a Torino, ma il re Vittorio Amedeo III era impegnato nella guerra contro la Francia presso il quartier generale a Tenda; perciò non li ricevette subito e dispose, con un regio biglietto spedito al vicerè, la sospensione delle sedute degli Stamenti. Il viceré Balbiano non consegnò subito agli Stamenti il biglietto regio riguardante l’ordine di chiusura delle sedute stamentarie in quanto prima voleva prima assicurarsi che il Parlamento sardo votasse il donativo. Dopo il voto sul donativo il vicerè comunicò ai deputati degli Stamenti la chiusura delle sessioni, che venne accolta con molto disappunto, sebbene tutti e tre gli Stamenti alla fine abbiano obbedito all’ordine del sovrano.
A Torino l’ambasciata stamentaria fu ricevuta dal re solamente tre mesi dopo il suo arrivo e per l’intercessione del cardinale Costa d’Avignano, arcivescovo di Torino. Il re accolse così i deputati sardi e comunicò loro di voler fare esaminare le cinque domande da una commissione, presieduta proprio dall’arcivescovo. In effetti la discussione si accese sul punto che maggiormente interessava la rappresentanza sarda: la domanda del privilegio delle mitre e degli impieghi. Il dibattito fu vivace. Si prospettò alla commissione il pericolo di un sommovimento in caso di risposta contraria, perché ritenuto ingiusto e ontrario ai privilegi del Regno. Don Domenico Simon, ch’era uno storico oltre che un valente giurista, non mancò di richiamare l’origine della pretesa: nientemeno che la pace conslusa il 31 agosto del 1386 fra Pietro IV d’Aragona e gli ambasciatori di Eleonora d’Arborea. Fu lì che il re di Spagna assunse l’obbligo di accordare ai sardi il privilegio degli impieghi. Ma da parte della commissione si eccepì che nel fare quella concessione “non si voleva però astringere, nè legare il suo potere che dovea essere libero“; insomma “lo Senyor Rey […] non se streyneria com no “vulla ligar qui den esser franch“, non volle legare ciò che doveva essere libero. ( pag. 53 Scano). Insomma la risposta, salva un’apertutra sul Consiglio di Stato, fu negativa su tutto il fronte e sopratutto sul privilegio degli impieghi, ch’era ciò che più interessava. L’affronto sostanziale fu poi accompgnato da uno sgarbo formale, ma non meno grave. Il Ministro Graneri comunicò la rispsta direttamente agli stamenti, senza averla prima trasmessa ai rappresentanti.
La risposta negativa e lo sgarbo suscitarono il malcontento generale. Fu così che maturò l’idea della cacciata dei piemontesi dall’isola. Il vicerè per bloccare ogni manifestazione popolare sul nasce ebbe la pessima idea di ordinare l’arresto dell’Avv, Vincenzo Cabras e del genero avv. Efizio Pintor ch’erano stati i maggiori ispiratori delle cinque domande anche perché erano particolarmente interessati ad una: il privilegio degli impieghi. Fu così che la popolazione insorse e in breve invase il palazzo reale e disarmò i soldati e le guardie. Vincenzo Sulis, capo carismatico dei miliziani, prese il controllo militare del Castello. In base alle leggi fondamentali del regno, non potendo il vicerè e il comandante delle armi esercitare le loro funzioni, la Reale Udienza assunse immediatamente le redini del governo come nel 1668 dopo l’uccisione del viverè Marchese di Camarassa. I piemontesi furono tutti arrestati e rinchiusi in vari conventi. Il vicerè e il reggente fu concesso di stare nel palazzo reale in stato di arresto. Al segretario Valsecchi, distintosi per la sua ottusità, non fu concesso neanche questo riguardo e fu ronchiuso nella Torre dell’Aquila.
La Reale Udienza, data la situazione straordinaria, decise in buona sostanza di riunirsi in permanenza, così anche Giommaria Angioy fu della partita. Le riunioni, aperte al popolo, presero subito decisioni inportanti; la distribuzione di pane al popolo e alle milizie, il pronto imbarco dei piemontesi, ad eccezione dell’arcivescovo per rispetto e di alcuni funzionari come ostaggi fino al rientro da Torino dei deputati sardi. Lo scommiato del viceré e degli altri piemontesi avvenne la mattina del 30 cosìcché la Reale Udienza nella seduta del pomeriggio poteva annunziare che “si era eseguita l’imbarcazione del balio Balbiano e del Generale Le Flecher accompagnati da vari membri dei tre stamenti e da altre persone ragguardevoli del popolo con tutto silenzio e decenza“. (Scano, pag. 60). Ed è proprio questa compostezza che dimostra “la serità e la sincerità dei promotori e la maturità del popolo alla soluzione dei problemi cittadini (Scano). In realtà, prova un altro elemento rilevante, e cioè che la maggioranza stamentaria e la Reale Udienza avevano pienamente in mano la situazione, riuscendo a gestire con autorebolezza una situazione del tutto eccezionale, nientemeno che l’arresto e l’espulsione del vicerè, sull’onda di una sollevazione popolare. Il popolo era padrone della piazza, ma non dello sbocco da dare all’azione del novimento. Quanto ai protagonisti il Manno annovera fra i promotori anche quella magagna dell’Angioy, ma non fornisce prove. In realtà, l’uomo di Bono si occupa della sua coltivazione di cotone, della fabbrica delle berrette, nella quale aveva investito forti somme, ma sui fatti della primavera incide soltanto dalla sua postazione di membro della Reale Udienza, insomma in modo impersonale, concorrendo alle deliberazioni di un organo collettivo.
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Lunedì 1° maggio 2023
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IL NOSTRO 25 APRILE – LA NASCITA DI UNA REPUBBLICA
Costituente Terra Newsletter n. 114 del 26 aprile 2023
Chiesadituttichiesadeipoveri Newsletter n.295 del 26 aprile 2023
IL NOSTRO 25 APRILE – LA NASCITA DI UNA REPUBBLICA
Il 25 aprile è stato ricordato felicemente in tutta Italia con una viva e vasta partecipazione popolare. Di seguito nell’ambito dei nostri rapporti di collaborazione con le News Costituente Terra e ChiesadituttiChiesadeipoveri, pubblichiamo la celebrazione che ne è stata fatta a Reggio Calabria da Raniero La Valle.
Inoltre segnaliamo dal sito di Costituente Terra una sintesi di Massimo Nava per il “Corriere della Sera” di un saggio su “L’Occidente minoritario” dell’ex ministro degli esteri inglese David Miliband, tratto dal sito “Other News”.
Chiesa di Tutti Chiesa dei Poveri
Costituente Terra (Raniero La Valle)
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Una celebrazione a Reggio Calabria
IL NOSTRO 25 APRILE
26 APRILE 2023 / EDITORE / DICE LA STORIA /
La nascita gemellare della Repubblica e della Costituzione. Partigiani ed Esercito di liberazione. Gli ideali traditi: la revoca del ripudio della guerra, le armi all’Ucraina e la mancata accoglienza dei profughi e dei migranti. La nuova Liberazione
di Raniero La Valle
Pubblichiamo il discorso tenuto la mattina del 25 aprile nei Giardini Comunali di Reggio Calabria per la celebrazione unitaria della festa della Liberazione
Che cosa siamo venuti a celebrare? Stiamo celebrando la nascita di una Repubblica. Potremmo anche dire: la nascita di una Costituzione, perché Repubblica e Costituzione sono per noi dei sinonimi, “simul stabunt et simul cadent” dicono i giuristi, stanno insieme o cadono insieme, non possono stare l’una senza l’altra. Per questo quelli che tradiscono la Costituzione, che la deformano, che la violano, tradiscono la Repubblica o, come dicono loro, la Nazione.
Ma, come tutte le creature, anche la nostra Repubblica ha avuto una gestazione, ha sofferto le doglie del parto, e questa lunga e dolorosa gestazione fu l’antifascismo e la Resistenza. Durante la Resistenza ci fu l’azione partigiana contro le truppe di occupazione tedesche che marciavano in via Rasella a Roma. Per rappresaglia il giorno dopo, il 24 marzo 1944, i Tedeschi uccisero 335 uomini alle Fosse Ardeatine, che stanno a Roma, non stanno a Praga. Chi erano questi 335 uccisi, 10 per ognuno dei 33 tedeschi caduti, poiché questo era il calcolo della loro equazione tra Tedeschi e Italiani?
Io ne conoscevo uno, che abitava nel mio palazzo, in via Bosio 2, avevo allora 13 anni. Lui, la vittima, si chiamava Genserico Fontana, fu prelevato dai Tedeschi dal carcere di Regina Coeli, sotto gli occhi della moglie in lacrime, anch’ella detenuta per ragioni politiche. Chi era Genserico Fontana? Un italiano, certo, ma era un carabiniere di 26 anni, aveva organizzato un gruppo di partigiani per la Resistenza, catturato, si era rifiutato di svelarne i nomi, dopo mesi di carcere finì alle Fosse Ardeatine, di lui è rimasta una medaglia d’oro alla memoria e una targa sulla casa di via Bosio. Era dunque un italiano? Sì, ma era un carabiniere del Regio Esercito, un antifascista, un partigiano, un combattente per la libertà. Perché bisogna dire che anche dal Regio Esercito molti si schierarono contro i Tedeschi e si unirono ai partigiani. Dopo l’8 settembre l’esercito fu chiamato a combattere contro i Tedeschi, ci furono scontri a porta San Paolo, a Roma, a Cefalonia, nell’Egeo, a Corfù, a Spalato, in Sardegna, 87.300 furono i militari italiani caduti tra l’autunno del 1943 e la primavera del 1945.
Questo glielo diciamo a Giorgia Meloni, perché sappia da dove è nato il suo governo, sappia perché lei oggi può governare dopo il lungo tragitto fatto da “underdog”, come dice lei, dalla Garbatella a palazzo Chigi. Può governare perché in questo Paese con la lotta contro il fascismo abbiamo conquistato la democrazia, perchè con la Liberazione anche le donne sono state liberate, hanno ottenuto i diritti politici e sono state chiamate votare, non a dare figli alla Patria, anche senza lavoro, senza asili e senza cure adeguate, e se tutti oggi sono cittadini è perché abbiamo fatto una Costituzione che non è “afascista”, come voleva il monarchico on. Lucifero alla Costituente, ma antifascista.
Perché non possiamo dimenticare l’antifascismo? Per due ragioni. Perché l’antifascismo non è un’ideologia, ma è una categoria interpretativa della storia come il Rinascimento, come il Risorgimento, come la decolonizzazione.
E la seconda ragione è che, proprio per questo, i fascisti li avremo ancora con noi, come è successo anche dopo la Liberazione. Oggi il presidente del Senato La Russa si ferma a Trieste nel suo viaggio per Praga per recarsi ad altri luoghi di sterminio, ma a Trieste egli dovrà fare i conti col ricordo di Ettore Messana che era stato questore fascista di Trieste ma prima aveva installato e diretto la Questura di Lubiana in Slovenia durante l’occupazione italiana, organizzando camere di tortura, espulsioni, internamenti e persecuzioni di ebrei e di altri cittadini sospetti : fu indicato come criminale di guerra dalla Commissione delle Nazioni Unite ma poi riciclato e inviato come Ispettore generale di Polizia in Sicilia, dove ha trescato con la mafia favorendo nei processi i padroni espropriati dei feudi e rapportandosi con la banda Giuliano fino alla strage di Portella della Ginestra.
Ma la Resistenza non è stata solo italiana. È stata anche la Resistenza europea. E basta leggere le lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana e di quelli della Resistenza europea per vedere come gli ideali degli uni e degli altri, il sogno per cui morivano, erano gli stessi, era il sogno della libertà, della giustizia, della pace per l’Italia e per ognuno dei Paesi europei coinvolti nel “flagello della guerra” che per due volte nel corso di quella generazione, come dice lo Statuto dell’ONU, aveva portato indicibili afflizioni all’umanità.
È per questa ragione che noi possiamo dire che non solo l’Italia, ma l’Europa, sta tradendo oggi il suo passato, che essa tradisce le ragioni per cui è nata, che sono la pace e l’accoglienza, l’apertura agli altri mondi. Lo ha fatto con la guerra in Jugoslavia, lo ha fatto sobillando e partecipando alla guerra del Golfo per la distruzione dell’Iraq, lo ha fatto abbandonando per 70 anni i palestinesi al loro destino di oppressione e di apartheid, e lo sta facendo ora come dispensiera di armi e partecipe di una guerra ad oltranza con la Russia, che è anch’essa Europa. Una guerra devastante che nella sua forma più cruenta certamente è stata iniziata l’anno scorso dalla Russia ma come guerra etnica era in corso dal 2014 nel Donbass ed è stata stimolata dalla NATO , andata ad abbaiare alle ultime frontiere rimaste sicure della Russia, come ha detto papa Francesco. Ed è questa una guerra che non può finire, perché essa non si può concludere con una vittoria, ma con una vera pace, con negoziati equi e capaci di mediare le ragioni degli uni e degli altri. La guerra si confermerà altrimenti come strutturante dell’ordine internazionale, e la prossima partita, una volta messa fuori gioco la Russia, come dicono i recenti documenti ufficiali pubblicati dalla Casa Bianca e dal Pentagono, sarà con la Cina, e questacomunque la si dovrà giocare e vincere, se inevitabile anche con la guerra, perché l’idea del mondo è che esso debba essere unificato sotto un unico potere, un solo dominio; questa è la “sfida suprema”, e a questa dovremmo partecipare anche noi, l’Occidente.
Ma noi per questo celebriamo il 25 aprile. Perché noi abbiamo un’altra idea del mondo. La nostra scelta è per la pace, è per la fedeltà ai valori e agli ideali della Resistenza italiana e della Resistenza europea. Noi pensiamo piuttosto che si debbano sviluppare le istituzioni e l’ “acquis communautaires” dell’ordinamento delle Nazioni Unite.
Nella Costituzione italiana c’è scritto che l’Italia ripudia la guerra. È un termine forte, vuol dire rompere un legame indissolubile, che nella storia c’è sempre stato, della politica con la guerra. Non c’è scritto che l’Italia ripudia una guerra sì e l’altra no, ripudio la guerra di aggressione ma non la guerra umanitaria, ripudia la guerra come mezzo per la soluzione delle controversie internazionali ma non la guerra per la democrazia, per affermare i valori dell’Occidente, per distruggere la Russia, la Cina e fare un unico Impero.
C’è scritto che ripudiamo la guerra e tutte le guerre, compresa la guerra contro i migranti che stiamo combattendo quando impediamo i soccorsi nel Mediterraneo e quando ai migranti togliamo la protezione che chiamiamo “speciale” e invece dovrebbe essere ordinaria e senza limiti, perché l’immigrazione è un fenomeno strutturale, e se 10 anni fa c’erano 60 milioni di migranti oggi ce ne sono 100 milioni. La nuova lotta di Liberazione la dobbiamo fare oggi, guardando questo mare, che dobbiamo rendere un mare di umanità e di accoglienza.
Certo i migranti sono diversi da noi, parlano altre lingue, praticano altre religioni, spesso hanno anche un altro colore. Ma la pace si fa appunto con quelli che sono diversi da noi, perché l’alternativa è una sola: o gli altri li riconosciamo come eguali, come compagni, come “fratelli” della stessa umanità, tutti “nati da donna”, come noi, oppure li trattiamo come nemici. La pace vuol dire non avere nemici. Cutro non si deve ripetere, la domanda di vita, di libertà, di accoglienza, di giustizia, viene oggi da lì. Da questo mare che da qui contempliamo.
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STEREOTIPI CADUTI
Cari amici,
lo smantellamento della protezione speciale per gli immigrati, appassionatamente perseguito dal governo, in realtà era stato sancito nel decreto legge varato dal macabro Consiglio dei ministri riunito a Cutro dopo il tragico naufragio. Si trattava di un messaggio rivolto ai cadaveri appena finiti sulla riva. Diceva loro: “siete venuti per godervi la protezione speciale, e noi ve la togliamo”. Di questa norma, in attuazione della linea Piantedosi, nessuno, tranne l’Avvenire, si era accorto, mentre l’attenzione generale si era rivolta alle fantasiose norme penali che la presidente Meloni voleva andare a far valere in tutto l’orbe terracqueo. Se ne sono accorti ora, quando il decreto legge è arrivato all’aula del Senato, e a questo punto l’unica speranza è che non sia convertito in legge. Le norme abrogate sono quelle, non a caso chiamate umanitarie (sicché è ora disumano abolirle), per le quali anche gli immigrati che non godevano della protezione internazionale ordinaria in virtù del diritto di asilo, non potevano essere espulsi dall’Italia se si erano inseriti in modo “effettivo” nella sua vita sociale, e se vi avevano contratto o potevano eccepire effettivi vincoli di natura familiare, sicché il loro allontanamento coatto avrebbe comportato “una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare del migrante”. Mettere ora i migranti fuori del diritto, significa renderli clandestini, ascritti a una “regola non bollata”, non più “occupabili”, se non in nero, e ridurli a “paria” (come i russi per Biden), esiliati e apolidi.
Aggiunto alla proclamazione dello stato di emergenza, alla lettura come errori di grammatica del fascismo di ritorno celebrato al vertice delle istituzioni, e a tutto il resto, lo smantellamento della protezione per i naufraghi, i profughi , i migranti e i loro familiari, fa cadere anche l’ultimo stereotipo della celebre definizione che Giorgia Meloni in spagnolo ha dato di se stessa. Infatti una donna non si fa chiamare “il Signor Presidente del Consiglio”, una madre non manda armi che imparzialmente vanno a uccidere bambini e altri figli di mamma che si combattono tra loro, una italiana non fa la sovranista in Italia e la suddita (o vassalla, come dice Macron) degli Stati Uniti e del norvegese Stoltenberg, e una cristiana non toglie protezione a nessuno, anzi addirittura dovrebbe soccorrere il prossimo, amare i nemici e considerare fratelli gli stranieri. E non va in Abissinia (come i fascisti chiamavano l’Etiopia) ad abbracciare i bambini neri “a casa loro”.
Resta però una domanda che riguarda Silvio Berlusconi. Le sue condizioni sono migliorate e l’augurio sincero (non come quello di certi “coccodrilli” troppo precipitosi) è che guarisca del tutto e torni al suo ruolo e alle sue responsabilità politiche. E la domanda è: che cosa c’entra Berlusconi con queste impietose politiche del governo? Non voleva interpretare una destra liberale, democratica, inclusiva, non voleva con le sue televisioni e promesse di governo raccontare un mondo di felicità e festose relazioni? Che cosa c’entra con l’accanimento contro i migranti e i naufraghi, cosa c’entra con la guerra ad oltranza che uccide l’Ucraina e vuole eliminare la Russia, che cosa c’entra con la riabilitazione del fascismo il cui abbandono da parte di Fini a Fiuggi consacrò sdoganando il Movimento Sociale-Alleanza Nazionale? Che c’entra con questo governo di destra retrodatata? Nella sua esperienza di governo egli ne ha fatte molte di cattive e sbagliate, ma come non vedere che quest’ultima, tenendo in piedi questo governo, è la peggiore, e perfino tradisce la coscienza che egli ha di sé? Non lo diciamo per tornare sulla sua vicenda personale, ma perché ne va della democrazia italiana.
Nel sito pubblichiamo di Gaetano Azzariti un articolo su “Un altro regionalismo è possibile”, di Domenico Gallo un articolo su “Guerra e finzione di guerre”, di Raniero La Valle una relazione a Brescia su “Origini vicine e lontane della guerra in Ucraina” e di Alessandro Marescotti un articolo sul fallimento dell’invio di armi e di Mauro Castagnaro un ricordo di Vittorio Bellavite.
Con i più cordiali saluti,
Chiesadituttichiesadeipoveri – Costituente Terra (Raniero La Valle)
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ORIGINI VICINE E LONTANE DELLA GUERRA IN UCRAINA
19 APRILE 2023 / COSTITUENTE TERRA / LA CONVERSIONE DEL PENSIERO /
Dalla concezione belluina dello Stato “sovrano” ai documenti sulla strategia nazionale della sicurezza e della difesa degli Stati Uniti. Nascita e fallacia di un Impero
Pubblichiamo dal sito web di Costituente Terra la relazione di Raniero La Valle per la presentazione a Brescia il 13 aprile 2023 al Centro Comboni per “I giovedì della Missione” del libro: “Leviatani, dov’è la vittoria?”
Parafrasando il grido di Isaia, “Sentinella, quanto resta della notte?” che Giuseppe Dossetti riprese in un celebre discorso per la commemorazione di Giuseppe Lazzati, dobbiamo gridare: a che punto è la notte?, a che punto è la notte nella quale siamo sprofondati con questa guerra in Europa e in Ucraina?
Perché questa notte non accenna affatto a finire, anzi diventa sempre più fonda, una a una si spengono le stelle del cielo e le costellazioni spariscono tra le nubi; non siamo nemmeno d’accordo tra noi che la guerra debba finire, non c’è un giornale, tranne due, che ancora dicano che ci voglia la pace, perfino la cultura torna al pessimismo antropologico, dice con Kant che la guerra è secondo natura e la pace invece è un artificio, ma nessuno mette in atto questo artificio, perché i cuori si sono induriti.
E non è solo una questione di cuore. È che anche le menti si sono perdute. I linguaggi, la stampa, la televisione, le radio che maneggiano le notizie, impongono un unico pensiero, veicolano una sola opinione, e fanno sì che perfino il tassista dica che Putin è una belva, e che le armi bisogna mandarle.
In tal modo viene propagata una fede. Ma non è la fede pasquale, non è la fede che arriva alla parola inaudita dell’amore dei nemici, perché siamo “fratres omnes”, fratelli tutti, ma è la fede nelle armi; sono loro che stanno al comando, sono loro che decidono quante guerre si devono fare, e quanto devono essere lunghe perché i profitti salgano e le scorte siano consumate, e le armi di vecchia generazione siano distrutte sui campi di battaglia, e siano sostituite con armi sempre nuove, con tecnologie tali che i soldati devono andare in Germania, in Inghilterra, o venire in Italia, a Sabaudia e in Sardegna, per addestrarsi, per imparare l’arte della guerra, come la chiama Isaia, per imparare ad uccidere con queste armi.
E armi, sempre più armi, si mandano da tutto il mondo in Ucraina, sicché ci sono più armi che soldati, e mentre i soldati finiscono e muoiono, le armi non finiscono mai, perché sono sempre rimpiazzate. E Zelensky, che sempre più ne chiede, non sa cosa farsene, e allora progetta piani per riconquistare perfino la Crimea, compresa la base navale russa di Sebastopoli; ed è anche prevista la distruzione del ponte che unisce la Russia alla Crimea, un ponte di 16 chilometri, da poco costruito, il più lungo d’Europa; questi piani potrebbero attuarsi però solo attraverso una completa disfatta della Russia; il New York Times scrive che gli americani sono “entusiasti” di aiutare l’Ucraina a conquistare la Crimea, e ciò conferma che appunto per annientare la Russia essi stanno sostenendo e prolungando la guerra in Europa.
E con le armi mandate dagli inglesi la guerra si farà sporca e contaminerà e deturperà la popolazione del Donbass, eventualmente liberata, per i prossimi millenni, perché sono armi ad uranio impoverito che come ha spiegato lo stesso “Corriere della Sera”, per migliaia di anni restano nell’ambiente, modificano il DNA e causano linfomi, leucemie e malformazione di feti. Ma nessuno pensa al bene del popolo, questo vuole l’irredentismo ucraino, questo vuole l’amor proprio, il mito della nazione. l’importante è che il Donbass stia con l’Ucraina e non con la Russia, anche se ha una popolazione russofona, sicché per il Donbass e per la Crimea combattono due sanguinosi nazionalismi, quello russo e quello ucraino; ed è per riconquistare il Donbass che i carri armati tedeschi avanzano in terra ucraina come i Panzer tedeschi della seconda guerra mondiale, quando invasero la Russia nell’operazione Barbarossa nella quale trovarono il gelo e la morte almeno 90.000 soldati del Corpo di spedizione italiano.
Ed è per questo infinito profluvio di armi mandate dall’America, dall’Europa e dall’Italia che quella che, secondo la sconsiderata e arbitraria offensiva di Putin non doveva essere nemmeno una guerra, ma solo un colpo di mano militare, è diventata una guerra ad oltranza fino al rischio di una guerra nucleare mondiale.
Ed oggi siamo a tragedie senza fine. Città distrutte, centinaia di migliaia di soldati caduti, civili uccisi. Respinto, senza nemmeno una lettura, il piano di pace della Cina, che pure per la sua equità poteva essere un’ottima base di trattativa. Martedì della scorsa settimana poi la Finlandia è entrata nella NATO, e la Russia ha annunciato inquietanti contromisure sulla sua frontiera occidentale, mentre ai missili a uranio impoverito risponde minacciando di usare armi atomiche tattiche. Intanto a san Pietroburgo una statuetta imbottita di tritolo fa saltare in aria un certo Tatarsky nella sala dove egli teneva una conferenza, e non si sa se i mandanti siano stati gli ucraini o russi dissidenti.
La tragedia diventa ancora più severa per il coinvolgimento delle Chiese. Zelensky arriva a infliggere gli arresti domiciliari al metropolita Pavel del monastero ortodosso delle Grotte e a mettergli un braccialetto elettronico ad una caviglia, sotto l’accusa di collaborare con la Russia; e questa accusa equivale all’accusa di esistere come Chiesa, perché il metropolita arrestato appartiene alla Chiesa unita al patriarcato di Mosca, a differenza della Chiesa autocefala che si è separata da Mosca per divenire una Chiesa nazionale ucraina. D’altra parte il patriarca russo Kirill ha dato all’Ucraina il pretesto dello scisma e a Zelensky l’alibi per arrestare Pavel, avendo sposato la politica di Putin e facendosi, come ha detto col suo vivido linguaggio papa Francesco, chierico di Stato e addirittura “chierichetto di Putin”, suscitando del patriarca moscovita le ire. Così la guerra ha portato una divisione anche tra le Chiese, e in Ucraina si è tornati ai fasti della “Chiesa del silenzio” di sovietica memoria.
E allora bisogna chiedersi come siamo arrivati a questo punto, quali sono le origini vicine e lontane della guerra in Ucraina.
Le origini lontane sono quelle a cui allude il titolo di questo libro quando parla dei Leviatani. I Leviatani sono dei mostri biblici, delle bestie feroci di terra o di mare, evocate nei libri sapienziali e profetici della Bibbia, ed è questo il nome che il filosofo Thomas Hobbes ha dato allo Stato moderno nell’illustrarne la genesi. Fino ad allora la comunità politica era declinata in categorie teologiche, ma con Thomas Hobbes nel XVII secolo si teorizza e si consuma il passaggio dalle categorie teologiche alle categorie politiche, si passa dalla trascendenza divina al nomos umano. Dice Hobbes che lo Stato è il Dio mortale, è il Leviatano; esso è ormai una costruzione totalmente artificiale, è la grande macchina che inaugura l’età della tecnica. Lo Stato nasce, secondo Hobbes, come reazione ad una situazione di pericolo e di paura in cui si trovano gli uomini nello stato di natura dell’homo homini lupus; nasce da una scintilla di ragione degli uomini che, per superare questa condizione di uccidibilità generalizzata, che poi in realtà era lo stato delle guerre civili in atto in quel momento in Europa. decidono di fare un patto, da cui nasce lo Stato; essi rinunciano a difendersi da sé, e trasferiscono a un’altra entità, a una persona sovrana, allo Stato, la loro sicurezza, la loro sopravvivenza. Così nasce lo Stato; e siccome lo Stato deve assumere i poteri di questi cittadini per garantirli, prende obbedienza e restituisce protezione; esso nasce pertanto nelle forme dell’assolutismo; nasce con la polizia all’interno e la guerra all’esterno; e nasce assumendo la nazione come suo fondamento, come materia della sua identità, come sua legittimazione o, come dice qualcuno, come suo alibi[1]. Ma le nazioni sono straniere le une alla altre, gli stranieri diventano nemici, e la soluzione del loro conflitto è la guerra. Essa è frutto della sovranità, che Jean Bodin aveva teorizzato come la summa in cives ac subditos legibusque soluta potestas, vale a dire come potestà “assoluta”, cioè sciolta dalle leggi, nei confronti dei cittadini e dei sudditi; ed era stato Francisco De Vitoria che, per legittimare la guerra degli spagnoli che avevano conquistato (o, come si dice, “scoperto”) l’America, aveva introdotto la legittimazione della guerra, come espressione esterna della sovranità. Il domenicano spagnolo aveva fatto questo ragionamento: il sovrano rappresenta la perfezione e l’autosufficienza della comunità politica, intesa aristotelicamente come perfetta, come societas perfecta. Pertanto egli non può riconoscere alcuna autorità al di sopra di sé, superiorem non recognoscens, allora quando ha da affermare un proprio diritto, si fa giustizia da sé, non può appellarsi a nessun altro, il sovrano è giudice nella sua causa; e il modo in cui egli si fa giustizia, la forma della sua giurisdizione, è la guerra; e quindi la guerra, come estremo modo di rapporto tra poteri sovrani, viene posta a fondamento e cardine del diritto internazionale inteso appunto come norma di rapporti tra poteri sovrani. E dal ‘500 al 1945 la guerra è precisamente questo; sta dentro il diritto internazionale, non è una patologia, non è un catastrofico accidente, è la forma culminante di un rapporto internazionale considerato come un rapporto pattizio fra Stati sovrani; nel momento in cui questo patto si rompe, non c’è altro modo di risolvere la controversia se non la guerra; quindi guerra perfettamente legittima. Questo è il Leviatano.
Ma la storia è anche sempre piena di sorprese, di altre possibilità. Perché nello stesso tempo si sviluppa il diritto, come monopolio sì dello Stato, ma anche come suo limite, il diritto che è una forza simmetrica alla violenza. E la lotta per il diritto che si sviluppa in tutti questi secoli fino a noi, mina le basi dell’assolutismo, mette vincoli alla forza, cerca di dare limiti e regole alla guerra, scopre e proclama, di rivoluzione in rivoluzione, i diritti fondamentali e universali dell’uomo.
È con queste premesse che si giunge alla grande crisi del ‘900. Con la I e la II guerra mondiale, con il nazifascismo, con la Shoà, prevalgono le categorie della distruzione, della guerra, della sovranità incondizionata, della demonizzzione dell’altro, dello straniero; tutte queste cose giungono alla loro estrema aberrazione, portano l’umanità alla più grande tragedia mai conosciuta. E qui c’è il colpo di reni, qui c’è la grande svolta, la grande revisione del 1945, l’anno in cui tutto sembra dover cambiare, dover cominciare di nuovo. Si mette fuori legge la guerra, viene dichiarata come “un flagello”, nella Costituzione italiana sarà addirittura “ripudiata”, si ridimensiona la categoria della sovranità, perché si stabilisce un ordinamento internazionale che dovrebbe vincere anche l’assolutezza delle prerogative sovrane, si afferma l’uguaglianza di tutte le persone, senza distinzione di razza, sesso, religione, nazionalità ecc., ma non solo delle persone, anche delle nazioni grandi e piccole, tutte sono eguali, dice la Carta dell’ONU, si fondano le Nazioni Unite, si inaugura, con la Carta dell’ONU, un nuovo diritto internazionale, che non è più solamente pattizio, nato da un contratto, ma che aspira a diventare uno ius cogens, un diritto cogente per tutti; si sanziona il delitto di genocidio, addirittura si inventa una parola che prima non esisteva, i popoli venivano sterminati ma ancora nessuno aveva definito questo delitto con un termine specifico, genocidio; si dà avvio alla decolonizzazione, si sogna la nuova comunità universale delle nazioni.
Ma è, come ben sappiamo, una rivoluzione incompiuta. Subito, a partire da quello stesso anno, vengono seminati i germi della nuova crisi; irrompe la bomba atomica sui cieli del Giappone, si riaccende lo scontro irriducibile tra i sistemi, l’Europa è divisa, si formano i blocchi, comincia la guerra fredda, la decolonizzazione si impantana in sanguinosi conflitti. C’è anche chi cerca di fondare un mondo diverso: nel 1986 Gorbaciov e il leader dell’India Rajiv Gandhi firmano la dichiarazione di New Delhi per un mondo libero dalle armi nucleari e non violento, ma l’Occidente non la raccoglie. E nell’ultimo decennio del secolo, con la dissoluzione dell’impero sovietico, mentre nasce la grande speranza che si possa costruire un mondo diverso, la storia prende un altro corso. La grande speranza dell’89 svanisce. Viene ripristinata la guerra, la quale con la guerra del Golfo riceve una nuova legittimazione, tornano i nazionalismi, si riaffaccia il mito dello Stato nazione, si fomenta la divisione dei vecchi Stati secondo linee che sono insieme etniche e religiose, si torna a legittimare il principio cuius regio eius et religio, come negli accordi di Dayton per l’ex Jugoslavia che stabiliscono confini che passano tra etnia e etnia, tra religione e religione, mentre ci sono moltitudini di migranti, di stranieri, che premono sulle frontiere dell’Europa; decadono e deperiscono le vecchie sovranità statuali, anche la nostra, assorbite in contesti più ampi, e si erge, di nuovo affermandosi come legibus soluta, una nuova sovranità universale, che non è più quella dell’ONU, ma è quella della NATO che tende a sostituirsi ad essa, mentre esplode il mercato globale.
E proprio la globalizzazione intesa come deregulation e competizione di tutti contro tutti, ripristina quello stato di natura da cui, secondo Hobbes si doveva uscire con il Leviatano, ripristina quello stato di guerra civile che però, nel villaggio globale, è ormai guerra civile mondiale.
Tutto quello che ne segue, fino alla guerra d’Ucraina, è raccontato in questo libro. Ma in esso manca l’ultimo tassello: quello che è successo nell’ottobre del 2022, dunque pochi mesi fa, là dove questo libro si arresta. È a quel punto che escono due documenti cruciali dell’amministrazione americana.
Si tratta dei due documenti programmatici in cui, in piena guerra d’Ucraina, il 12 e 27 ottobre 2022, la leadership americana enuncia le due strategie fondamentali degli Stati Uniti: il primo è la “National Security Strategy” del Presidente Biden, il secondo ne è la pianificazione operativa sul piano militare, ed è la “National Defense Strategy of The United States of America 2022” firmata dal capo del Pentagono Lloyd Austin,
Questi due documenti,investono il destino del mondo come tale, e non solo di una sua parte.
Essi infatti postulano un unico potere che si protende alla totalità del mondo, e presumono che questo debba avere un unico ordinamento politico, economico e sociale e corrispondere a un unico modello di convivenza umana; questo è un presupposto che da tempo gli Stati Uniti hanno posto a base della loro relazione col mondo, da quando, dopo l’11 settembre 2001 e lo shock dell’attacco alle Due Torri, avevano enunciato l’ideologia a cui doveva essere conformato l’assetto del mondo, come era concepito dagli Stati Uniti. Secondo quella ideologia il solo modello valido per ogni nazione sarebbe riassumibile in tre termini: Libertà, Democrazia e Libera Impresa; dunque un modello che mette insieme una definizione antropologica, una indicazione di regime politico ed una forma obbligatoria di organizzazione economico-sociale.
A questo punto io potrei illustrarvi nei dettagli questi due lunghi documenti, che porto qui con me; ma non ne abbiamo il tempo e non credo che lo gradireste. Perciò vi racconto solo le grandi scelte che con essi vengono fatte. Sono documenti che ben pochi conoscono in Italia e in Occidente, perché sono stati occultati dalla stampa e nascosti dai governi, per l’effetto negativo che avrebbero sull’opinione pubblica riguardo ai rapporti con l’America.
Riflessioni & Dibattito
Impegno nella Chiesa e subito andare in “mare aperto”
di Franco Meloni*
Nel dibattito su “Cattolici e Politica”, meritoriamente lanciato da L’Unione Sarda, concordo con quanti ritengono oggi improponibile una riedizione di un partito politico cattolico o che si ispiri ai principi cristiani, sulle orme del Partito Popolare di don Sturzo e della Democrazia Cristiana. Beninteso, queste esperienze sono state positive, fondamentali, se solo pensiamo che i cattolici sono stati determinanti nella grande alleanza antifascista che ci ha dato la democrazia e la Costituzione. Pur ritenendo legittime tali proposte, dubito di consistenti successi elettorali, nonostante recenti sondaggi secondo cui circa il 25% degli elettori italiani sarebbero favorevoli alla nascita di un partito cattolico. Interpreto questo dato non come ricerca di un nuovo soggetto politico, bensì come un’esigenza di recupero dei valori fondamentali per il “bene comune”. Dove la politica deve ri-trovare il suo fondamento. A questo fine i cattolici devono impegnarsi, più di quanto facciano attualmente, senza separarsi dal resto del mondo. In fondo seguendo l’esortazione di Papa Francesco: “partecipare, in mezzo agli altri e con gli altri, a costruire la casa comune, che richiede fraternità, giustizia, accoglienza, amicizia sociale”. Questo messaggio attualmente trova tanti cattolici impegnati soprattutto nel volontariato, mentre l’agone più propriamente politico viene da essi disertato, ingrossando le fila degli astensionisti. E’ ora di invertire la rotta, anche in Sardegna, dove è urgente rilanciare proposte coraggiose, non importa se considerate utopistiche. Cosa possono fare i cattolici insieme con tutte le persone di buona volontà disposte a un percorso comune? Partire dalla fiducia. La Sardegna ne ha bisogno più che di risorse materiali: creare un clima di fiducia che consenta di affrontare i problemi e di risolverli mettendo a frutto le capacità personali e delle comunità di appartenenza. Tutto ciò sembra banale, ma non lo è affatto. Sicuramente è difficile. Pensate cosa significa creare fiducia nel mondo della politica: praticare rapporti di scambio intellettuale e collaborazione fattuale tra persone che nella ricerca del bene comune, nel confronto e nello scontro dialettico, arrivino a soluzioni ottimali. La condizione è che si pratichi l’ascolto reciproco e che si persegua l’obbiettivo della massima partecipazione. Cosa abbastanza diversa da quanto accade oggi, laddove la politica tende a selezionare le idee e le scelte sulla base degli interessi dei gruppi prevalenti e la partecipazione popolare alla gestione della cosa pubblica è sempre più ristretta. Allora occorre allargare gli spazi di partecipazione democratica sia per quanto riguarda l’accesso alle rappresentanze istituzionali (riforma delle leggi elettorali), sia per la promozione della cittadinanza attiva, sia per la valorizzazione delle competenze che devono prevalere sulle appartenenze. E’ la “partecipazione” la chiave giusta per ridare speranze di rinascita al popolo sardo e i cattolici devono essere in prima fila nell’impegno concreto per favorirla, avendo come chiaro e virtuoso riferimento la nostra Costituzione. Ma i cattolici dove possono trovare le ragioni e la forza del loro impegno? La risposta è nella Chiesa, nelle sue innumerevoli espressioni organizzative, nelle parrocchie come negli altri ambiti aggregativi, formali o spontanei, praticando spazi pubblici reali, contigui e non opposti a quelli liturgici, in cui, come dice il monaco Enzo Bianchi: “delineare le istanze evangeliche irrinunciabili, che poi i singoli cattolici con competenza e responsabilità tradurranno in impegni e azioni diverse a livello economico, politico, giuridico”. Esattamente come previsto dai percorsi sinodali, sulla scia degli insegnamenti del Concilio Vaticano II, in cui da due anni è impegnata la Chiesa universale unitamente alle Chiese particolari, ovviamente sorretti da spirito evangelico e da correlato ottimismo della volontà! In conclusione i cattolici devono ripartire dall’impegno nella Chiesa, come detto, e subito andare “in mare aperto” (la “Chiesa in uscita” di papa Francesco) per navigarvi e operare insieme con tutti gli uomini e le donne di buona volontà. In definitiva per la Salvezza dell’Umanità e di tutto il Creato.
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Gli interventi nel dibattito su L’Unione Sarda
1) 02/3/2023 Antonello Menne, I cattolici e la politica.
2) 04/3/2023 Sergio Nuvoli, L’impegno dei cattolici.
3) 11/3/2023 Tonino Secchi, La diaspora dei cattolici.
4) 14/3/2023 Luca Lecis, Valori, non partiti.
*5) 1/04/2023 Franco Meloni, I cattolici tornino in mare aperto. Su Aladinpensiero/Editoriali e L’Unione Sarda/Il dibattito dell’1/4/2023.
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E’ online Rocca n.8 del 15 aprile 2023.
L’Editoriale di Mariano Borgognoni
Se fossi andato a votare ai gazebo piddini non avrei avuto dubbi nel mettere la mia croce sul nome di Elly. La rianimazione del partito (p rigorosamente minuscola) richiedeva infatti uno shok. Qualsiasi scelta che anche lontanamente somigliasse alla continuità sarebbe stata letale. Quel partito infatti era ormai diventato una sorta di partito tecnico, il cui segretario naturale sarebbe potuto essere Mario Draghi o Mario Monti o proprio mari e monti, come quelle cucine che scelgono di non scegliere. Con i rischi conseguenti: ricordate la storia dell’asino di Buridano? Gli iscritti sono andati dritti… pel tratturo antico. Gli elettori hanno dato uno schiaffo di correzione. Salutare. I primi frutti si intravedono dopo la glaciazione lettiana, una sorta di tutti a nanna nel supremo interesse nazionale, dell’Occidente (con la O rigorosamente maiuscola), della nuovo soggetto politico, appena Nato. Né riforma elettorale, né campo largo, né orizzonte lungo. Così il Pd, sorto con il proposito di mettere a frutto i riformismi comunista, socialista e cristiano, tenuti lontani dalla guerra fredda, li ha semplicemente rimossi. Anzi li ha fatti marcire, mischiati e irriconoscibili, nella poltiglia di correnti, divenute via via stagni di potere bisognosi, per sopravvivere fuori dal cimento del consenso, di qualunque porcellum elettorale. Oh! naturalmente non è tutta responsabilità di Letta. Molti sono andati ai gazebo, molti altri no. Anzitutto perché credono, questi ultimi, che a votare, in questo sistema elettorale, bisognerebbe andare per scegliere i candidati al Parlamento. Non i leader di partito. Per come la vedono costoro, che comprendo molto, i partiti sono associazioni in cui gli iscritti dovrebbero contare, se no perché consumare la suola delle scarpe per andare in sezione o nei circoli? Bisogna ammettere però che a partito mezzo morto è stato meglio chiamare il medico che il becchino. E stavolta sembra che l’elettore si sia messo il camice bianco piuttosto che il mantello nero. L’inatteso successo della Schlein non è stato tanto il frutto della scelta tra opzioni diverse che, per la verità, nella competizione con Bonaccini non sono apparse così nettamente, ma di un robusto voto di protesta, da parte di coloro che hanno resistito o desistito alle elezioni, contro il ceto politico che ha guidato il partito soprattutto in questi ultimi anni. Abili guidatori di un aereo mai decollato. Non ha vinto quindi una linea, ha perso una linea. Proprio per questo ora viene la prova più difficile e in essa impareremo a conoscere meglio la fisionomia politico-culturale di Elly Schlein e le sue doti di leader. Oltre al volto del nuovo Partito Democratico. Molti commentatori molto approssimativi hanno parlato di una ricollocazione del partito su posizioni di sinistra-sinistra. A parte l’inconsistenza della definizione non mi pare affatto che Schlein possa essere ricondotta ad un chiaro posizionamento ideologico. Lo stesso termine di radicalità, più volte evocato, è variamente declinabile; potrebbe per esempio riferirsi all’idea di dar vita ad un partito liberal o ad un partito radicale di massa o ad un partito laburista e popolare moderno. Non si tratta della stessa cosa. Nelle prime riunioni mi è parso di notare che la Schlein non usa il termine compagni, non evoca mai la parola socialismo, non fa riferimento al concetto di persona. Non sono affatto considerazioni banali come qualcuno astutamente obietterà: quasi sempre il linguaggio dice la cosa. I termini che ho citato, insieme ai simboli delle lotte per il lavoro e la libertà, sono lingua in uso in tutti i partiti socialisti, socialdemocratici e della sinistra europea. Si vuole rimanere creativamente o uscire da questo orizzonte? Che fa riferimento anche ad una base sociale tipica, sia pure profondamente cambiata, nel mondo del lavoro, nella centralità dei diritti sociali e nella capacità di proteggere gli strati sociali più fragili, senza sottovalutare i diritti civili ma anche senza prender su ogni pratica solo perché presente; ad un modo di stare in occidente aperto all’idea di un mondo multipolare e pacifico che veda nella prospettiva il recupero del ruolo di una Europa di cui siano parte, in qualche modo, sia l’Ucraina che la Russia; ad un governo delle migrazioni che salvi ed integri ma che si accompagni alla cooperazione internazionale e all’impegno internazionalista per l’emancipazione dei popoli e la liberazione da regimi corrotti sostenuti dalle classi dominanti dei Paesi dominanti. Dentro questo orizzonte si tratta altresì di attingere al patrimonio del solidarismo cristiano e a quell’idea di persona e di comunità che mette in discussione le opposte derive del collettivismo senza libertà e dell’individualismo senza uguaglianza che già Maritain da una parte e Adorno dall’altra avevano visto molti decenni fa. Si vuole far riferimento a queste fonti che sono sotto la pelle della nostra storia nazionale ed europea, si pensa ad un partito radicato nel territorio, comunità democratica organizzata e solida o si tenta una carta diversa che guarda all’esperienza americana, all’idea di un partito leggero, fortemente interclassista, molto tattico, veloce e iperleaderistico che marca la sua differenza prevalentemente sui diritti civili? Insomma quello che di solito viene definito un partito radicale di massa con un insediamento borghese colto largamente prevalente. In fondo il primo corso del Pd veltroniano si collocava lungo questa traiettoria ed anche la primitiva collocazione del Pds occhettiano tentava con un doppio salto di guadagnare la sponda liberal, immaginando lì la collocazione della cosa nuova. Ma oggi è lo stesso Occhetto che nell’intervista a noi rilasciata, oltre che nel titolo del suo ultimo libro, spiega «perché non basta dirsi democratici». Insomma avremo tempo per studiare la fenomenologia di Elly Schlein. Le prime schermaglie sui capigruppo di Senato e Camera e sugli assetti esecutivi piddini ci rimettono davanti la forza d’inerzia del corpaccione dei collocati da una parte e dall’altra il mandato che la nuova Segretaria sente essergli venuto dall’opinione democratica di dar vita a un vero mutamento. Anche se la domanda: quale mutamento? è quella sulla quale si registrano le maggiori opacità. E d’altra parte è ancora presto per poter dare una valutazione fondata. Insomma chi vivrà vedrà. Noi cercheremo di monitorare il cammino. Con questo editoriale, un po’ ruvido, si voleva solo aprire un confronto che non ci può vedere indifferenti. Per chi continua a credere nella fatica della democrazia l’alternativa alla politica può essere solo una politica alternativa, per cambiare la società nel segno che hanno lasciato sulla nostra Costituzione coloro che coltivarono l’ambizione di tenere insieme libertà ed uguaglianza.
P.S. Abbiamo voluto dedicare la copertina a quella grande parte del popolo israeliano che, con una mobilitazione senza eguali nella storia di quel Paese, ha per ora bloccato la riforma di Netanyahu, volta ad azzerare i poteri della Corte Suprema (il Parlamento, oltre a scegliere i giudici, potrebbe annullare le decisioni della Corte). La partita tuttavia rimane drammaticamente aperta. Nel prossimo numero approfondiremo la questione con l’attenzione che merita per l’importanza che, da diversi punti di vista, rivestono quel Paese e quella tormentata area del mondo.
ROCCA 15 APRILE 2023 l’editoriale di Mariano Borgognoni
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Evento venerdì 21 aprile 2023.
L’incontro, dal titolo “Laicità e laicismo: una questione aperta”, si terrà venerdì 21 aprile 2023, alle ore 17.30, nell’Aula magna della Facoltà Teologica della Sardegna. Dopo i saluti del Preside della Facoltà, Mario Farci, interverrà Luca Diotallevi, docente ordinario di Sociologia all’Università Roma Tre. Modererà il giornalista Franco Siddi. L’evento è organizzato dalla Facoltà Teologica della Sardegna e dall’Associazione Suor Giuseppina Nicoli, con la collaborazione degli Amici del Cammino sinodale.
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Cattolici e Politica
Impegno nella Chiesa e subito andare in “mare aperto”
di Franco Meloni*
Nel dibattito su “Cattolici e Politica”, meritoriamente lanciato da L’Unione Sarda, concordo con quanti ritengono oggi improponibile una riedizione di un partito politico cattolico o che si ispiri ai principi cristiani, sulle orme del Partito Popolare di don Sturzo e della Democrazia Cristiana. Beninteso, queste esperienze sono state positive, fondamentali, se solo pensiamo che i cattolici sono stati determinanti nella grande alleanza antifascista che ci ha dato la democrazia e la Costituzione. Pur ritenendo legittime tali proposte, dubito di consistenti successi elettorali, nonostante recenti sondaggi secondo cui circa il 25% degli elettori italiani sarebbero favorevoli alla nascita di un partito cattolico. Interpreto questo dato non come ricerca di un nuovo soggetto politico, bensì come un’esigenza di recupero dei valori fondamentali per il “bene comune”. Dove la politica deve ri-trovare il suo fondamento. A questo fine i cattolici devono impegnarsi, più di quanto facciano attualmente, senza separarsi dal resto del mondo. In fondo seguendo l’esortazione di Papa Francesco: “partecipare, in mezzo agli altri e con gli altri, a costruire la casa comune, che richiede fraternità, giustizia, accoglienza, amicizia sociale”. Questo messaggio attualmente trova tanti cattolici impegnati soprattutto nel volontariato, mentre l’agone più propriamente politico viene da essi disertato, ingrossando le fila degli astensionisti. E’ ora di invertire la rotta, anche in Sardegna, dove è urgente rilanciare proposte coraggiose, non importa se considerate utopistiche. Cosa possono fare i cattolici insieme con tutte le persone di buona volontà disposte a un percorso comune? Partire dalla fiducia. La Sardegna ne ha bisogno più che di risorse materiali: creare un clima di fiducia che consenta di affrontare i problemi e di risolverli mettendo a frutto le capacità personali e delle comunità di appartenenza. Tutto ciò sembra banale, ma non lo è affatto. Sicuramente è difficile. Pensate cosa significa creare fiducia nel mondo della politica: praticare rapporti di scambio intellettuale e collaborazione fattuale tra persone che nella ricerca del bene comune, nel confronto e nello scontro dialettico, arrivino a soluzioni ottimali. La condizione è che si pratichi l’ascolto reciproco e che si persegua l’obbiettivo della massima partecipazione. Cosa abbastanza diversa da quanto accade oggi, laddove la politica tende a selezionare le idee e le scelte sulla base degli interessi dei gruppi prevalenti e la partecipazione popolare alla gestione della cosa pubblica è sempre più ristretta. Allora occorre allargare gli spazi di partecipazione democratica sia per quanto riguarda l’accesso alle rappresentanze istituzionali (riforma delle leggi elettorali), sia per la promozione della cittadinanza attiva, sia per la valorizzazione delle competenze che devono prevalere sulle appartenenze. E’ la “partecipazione” la chiave giusta per ridare speranze di rinascita al popolo sardo e i cattolici devono essere in prima fila nell’impegno concreto per favorirla, avendo come chiaro e virtuoso riferimento la nostra Costituzione. Ma i cattolici dove possono trovare le ragioni e la forza del loro impegno? La risposta è nella Chiesa, nelle sue innumerevoli espressioni organizzative, nelle parrocchie come negli altri ambiti aggregativi, formali o spontanei, praticando spazi pubblici reali, contigui e non opposti a quelli liturgici, in cui, come dice il monaco Enzo Bianchi: “delineare le istanze evangeliche irrinunciabili, che poi i singoli cattolici con competenza e responsabilità tradurranno in impegni e azioni diverse a livello economico, politico, giuridico”. Esattamente come previsto dai percorsi sinodali, sulla scia degli insegnamenti del Concilio Vaticano II, in cui da due anni è impegnata la Chiesa universale unitamente alle Chiese particolari, ovviamente sorretti da spirito evangelico e da correlato ottimismo della volontà! In conclusione i cattolici devono ripartire dall’impegno nella Chiesa, come detto, e subito andare “in mare aperto” (la “Chiesa in uscita” di papa Francesco) per navigarvi e operare insieme con tutti gli uomini e le donne di buona volontà. In definitiva per la Salvezza dell’Umanità e di tutto il Creato.
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* Anche su L’Unione Sarda/Il dibattito, del 1° aprile 2023 (pag. 44)
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L’etica della cura: una nuova prospettiva.
26 Marzo 2023 by Fabio | su C3dem
di Sandro Antoniazzi
Che cos’è l’etica della cura?
La parola cura ha molti significati.
Alcuni più medico-sanitari, altri più sociali, ma il carattere comune più significativo è indubbiamente quello relazionale.
La parola americana “care” è indubbiamente più espressiva, perché significa “prendersi cura di…”, ”interessarsi di…”, “preoccuparsi di…” (“I care” era il motto che don Milani che opponeva a “me ne frego”).
Dunque, cura dice che nelle relazioni è contenuto un interesse per l’altro, una preoccupazione per l’altro da noi.
Ogni attività sociale – in famiglia e nelle convivenze, coi vicini e nel quartiere, nel lavoro, nei servizi, nelle istituzioni – è fatta di relazioni; l’etica della cura se ne occupa in modo integrale, cioè sia a livello soggettivo che in quello collettivo-sociale.
Consideriamo alcune di queste situazioni.
Il campo delle attività e dei servizi sociali è di fatto un settore marginale, femminilizzato, considerato come un costo e quindi mal sopportato, accettato per necessità.
Non produce surplus e dunque si presenta economicamente povero, dotato di scarse risorse perché dipendente dai contributi pubblici (sempre lesinati) e dalla spesa delle famiglie. E’ in corso anche un processo di privatizzazione che però riguarda solo i ceti benestanti che se lo possono permettere (basta guardare le rette delle RSA).
E’ tradizionalmente un settore con occupazione femminile, sia perché si pensa che la cura sia un’espressione più propria delle donne, sia perché è quasi “naturale” pagare le donne meno degli uomini.
Le ristrettezze delle risorse economiche e il carattere personale del lavoro, fa sì che si esprima una forte pressione nei confronti dei lavoratori (spesso cooperative di immigrati) perché rendano il più possibile; così i lavoratori vengono a trovarsi in conflitto tra le esigenze di rendimento massimo e quelle di un lavoro di cura che richiede attenzione alle persone da curare.
Ecco, dunque, un settore dove si manifesta in modo evidente l’esigenza di un’attenzione primaria alla dimensione della cura.
Passando al lavoro domestico, si può dire che tradizionalmente esisteva una divisione del lavoro per cui l’uomo lavorava fuori casa guadagnando un salario e la donna rimaneva in casa ad allevare i figli e svolgere i lavori casalinghi.
Questo sistema è stato in larga misura superato dall’evoluzione della società e dalle lotte delle donne (a partire da quelle sul salario domestico).
Ma nella realtà non è cambiato molto e la maggior parte del lavoro domestico è tuttora a carico delle donne.
L’etica della cura spinge a una profonda revisione di questo stato di cose: da una parte sostenendo che dove l’attività svolta in casa costituisce un vero e proprio lavoro sociale deve essere riconosciuto e pagato (riguarda il mantenimento e l’allevamento dei figli e l’accompagnamento degli anziani e dei disabili che hanno bisogno di cura), dall’altra affermando che il lavoro di cura che ora continua a gravare prevalentemente sulle donne, venga più equamente ripartito e condiviso anche dagli uomini.
Procedere in questa direzione porterebbe a un profondo cambiamento della nostra vita sociale e personale, a una condizione di maggiore giustizia e anche a più democrazia (perché una più giusta redistribuzione del lavoro di cura permetterebbe anche alle donne di partecipare maggiormente).
Esiste poi un campo, per certi versi nuovo, dove il lavoro di cura viene oggi richiamato: si tratta della dimensione relazionale (e intellettiva) che sta assumendo una parte del lavoro recente.
Le trasformazioni tecnologiche ed economiche tendono a ridurre il lavoro manuale (svolto sempre più dalle macchine) e a sviluppare un lavoro, quello terziario (commercio, finanza, servizi alle imprese e alla persona, consulenza) in cui assume importanza primaria il lavoro della persona.
Ora il lavoro della persona è fatto di intelligenza e di sentimento che necessariamente si esprimono nel lavoro; anzi spesso costituiscono fattori essenziali per l’esecuzione del lavoro stesso, fattori che secondo alcuni il padrone “sfrutta” per il suo profitto.
Esistono diversi lavori, dunque, dove si manifesta questa dimensione “relazionale” come caratteristica inerente al lavoro e in questi casi appare evidente che il tradizionale sistema di remunerazione in base alle ore di lavoro non è più adeguato.
Come tenere conto nella valutazione del lavoro di questa dimensione relazionale di cura?
Questi sono alcuni esempi, in settori fondamentali, di applicazione dell’etica della cura nel campo sociale e del lavoro, ma è stata avanzata anche un’altra problematica non meno rilevante; gli ambientalisti definiscono spesso il loro impegno ecologico con il termine “cura del pianeta”.
E’ evidente che qui la parola cura è usata in una forma ben diversa, si può dire in modo prevalentemente simbolico. Si apre così una serie di problemi importanti.
La cura della persona comporta, si può dire logicamente, anche la cura dell’ambiente in cui si vive; si tratta però dell’ambiente prossimo.
Questa cura dell’ambiente porta a sua volta riconsiderare il rapporto uomo-natura, rapporto personale, ma che stimola una riflessione filosofica.
Addentrandosi in questi problemi, dato che la questione ambientale riveste un carattere mondiale, si apre l’esigenza di confrontarsi con culture diverse, dei tanti popoli che abitano il pianeta.
E poi come far concordare questa cura per il pianeta con quella più strettamente relazionale tra persone, al di là degli accostamenti logici e di linguaggio?
Insomma, l’ordine di problemi che si pongono all’etica della cura è estremamente vasto, ma nello stesso tempo affascinante perché affronta i problemi in una prospettiva nuova che può offrire nuove soluzioni, nuovi modi di vedere, intuizioni inedite.
Nascita e sviluppo dell’etica della cura
Si fa giustamente risalire la nascita dell’etica della cura a Carol Gilligan, psicologa allieva di Lawrence Kohlberg, e al suo libro “Con voce di donna”.
Criticando la concezione del proprio maestro che considerava i maschi più maturi sul piano della razionalità etica, perché più capaci di astrazione, Gilligan dimostrava che questo dipendeva dalla scala di valori usata: in realtà l’approccio degli uomini e delle donne era semplicemente diverso e dunque diversa era anche la loro valutazione morale, più relazionale per le donne, più astratta per gli uomini.
Ma mentre questa differenza veniva tradizionalmente usata per sostenere una condizione di inferiorità delle donne, Gilligan ne fa la base per sostenere un diverso approccio morale, basato sulla relazione più che su principi astratti.
Gilligan, almeno inizialmente, riferiva questo modo di vedere come proprio delle donne, ma il dibattito sviluppatosi sulla sua tesi e soprattutto il contributo di Joan Tronto, ha spostato decisamente il discorso su un piano generale.
Ogni persona è vulnerabile e ha bisogno di relazioni e di cura e dunque l’etica della cura ha un valore universale: se l’etica della giustizia, che rimane necessaria e ineludibile, si basa su principi astratti, l’etica della cura è altrettanto necessaria perché invece più aderente alla condizione in cui si trovano le persone.
Il dibattito che poi si è sviluppato nel mondo femminista ha riguardato in particolare il confronto con l’etica della giustizia, soprattutto quella di Rawls, criticando in particolare le sue carenze nell’affrontare le situazioni reali.
Le critiche che si rivolgono all’etica della cura manifestano la preoccupazione che serva a riproporre e quasi a confermare una diversità/inferiorità della donna e inoltre vi sono tesi delle femministe marxiste che tendono a contrapporre all’etica della cura il modello della “riproduzione”.
Che la riproduzione sia essenziale al capitalismo è un fatto indiscutibile (siamo in un sistema capitalistico e tutto è necessariamente integrato e funzionale al sistema), ma l’etica della cura è però, forse, più in grado di rispondere ai problemi sociali che ne derivano.
Dunque, l’etica della cura è cresciuta, ha chiarito i suoi fondamenti, le sue distanze ma anche la sua compatibilità con l’etica della giustizia; deve ora, anche se nata in ambiente femminista, andare oltre e dimostrare nella pratica di saper affrontare in modo convincente i molti problemi della società attuale.
La cura in campo sociale
Il campo più naturale in cui l’etica della cura può trovare applicazione è certamente quello sociale.
Consideriamo il lavoro domestico. Le battaglie storiche delle donne erano partite dal salario per il lavoro svolto a casa, sostenendo che il loro non era un’attività naturale morale dovuta al ruolo di madre e di moglie, ma che si trattava di un lavoro vero e proprio, secondo alcune “produttivo” a tutti gli effetti.
Questa via teorica è stata abbandonata perché infruttuosa e anche l’idea del salario è andata perdendosi a favore del più popolare Reddito di base.
Queste proposte sottintendono problemi teorici importanti.
Intanto se si sostiene il Reddito di base, il quale è indipendente da qualsiasi attività, si rinuncia in pratica alla tesi del lavoro domestico, che è un lavoro vero e proprio il quale va ricompensato: rinuncia negativa di un’acquisizione importante.
In secondo luogo, il lavoro domestico non è un lavoro “produttivo, né in senso marxiano né per l’economia capitalistica; è un lavoro a tutti gli effetti, ma è un lavoro sociale, un lavoro utile, un lavoro di utilità sociale che, in quanto tale, va retribuito dal pubblico o dalla società.
In questo senso è molto più propria la proposta del “care income”, sostenuta da femministe americane (un contributo elevato per ogni figlio sino alla maggiore età e per ogni anziano bisognoso di cura).
Per il lavoro sociale istituzionalizzato si possono prendere le RSA come l’esempio più chiaro su cui sviluppare la riflessione.
L’economia di queste strutture è povera: il settore pubblico riconosce un contributo che è inferiore al 50% e il resto è a carico della famiglia (per un costo che attualmente in Lombardia si aggira tra i 2.000 e i 3.000 euro mensili). L’inflazione recente ha ulteriormente aggravato l’onere familiare.
Così le direzioni aziendali cercano di far tornare i conti assumendo cooperative di immigrati al costo più basso possibile e sfruttando al massimo questi lavoratori, chiedendo tempi e carichi di lavoro a limite delle loro possibilità. Ma le RSA non sono fatte per prendersi cura degli anziani, coi tempi e i modi necessari?
Dunque, il problema delle RSA è trovare un equilibrio finanziario che non spinga a questa produttività esasperata che contraddice la finalità dell’ente e, inoltre, una sua “collocazione” nella città o paese come un luogo centrale della vita sociale comune.
Del resto, la “Ca’ Granda”, l’ospizio o albergo dei poveri di Milano, non era stata costruita al centro della città di Milano?
E poi la responsabilità pubblica/sociale non è solo quella dello Stato. Perché non pensare a una responsabilità sociale attraverso una proposta di finanziamento mutualistico regionale o provinciale? Basterebbe qualche centinaio di euro a testa per abitante per coprire l’attuale spesa di ricovero, insostenibile per la maggior parte delle famiglie.
Infine, la componente relazionale del lavoro attuale: qui i problemi di principio sono molti e trattandosi di problemi nuovi si presentano più complessi e variegati, perché molte e creative sono le ipotesi in circolazione. Vediamo quelli principali.
Il primo riguarda un classico problema teorico (“teoricissimo” per la quantità di dibattiti che ha sollevato nel tempo), quello del valore-lavoro.
Secondo un gruppo di economisti di sinistra la teoria del valore-lavoro di Marx non sarebbe più valida, perché non in grado di misurare l’attuale lavoro, intellettivo e affettivo.
In verità il limite del pensiero di Marx non è considerare il lavoro come generatore di valore, ma invece di pensare che questo potesse essere considerato come strumento di misura; non lo era neppure ieri, lo è tanto meno oggi.
Ma questi nuovi intellettuali di sinistra criticando il valore-lavoro, non criticano solo lo strumento di misura, ma rigettano il lavoro: il lavoro non è più un valore.
Invece il lavoro riveste un valore rilevante, ieri come oggi, tanto per Marx quanto per noi (lo dimostrano, se ce ne fosse bisogno, la presenza di 3,5 miliardi di lavoratori nel mondo).
25 marzo 2023. Ricorrenza del Trattato di Roma, alle origine dell’UE. La Sardegna si salva solo con l’Europa.
Da domani giovedì 2 marzo 2023 prime innovazioni grafiche di Aladinpensiero
Da domani 2 marzo il tradizionale puzzle di loghi che dava conto della quotidianità della nostra News sarà sostituito da un disegno ogni giorno diverso del graphic designer Bobo, che dà continuità alla serie dei personaggi targati Bomeluzo. A domani.
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Eventi, Opinioni, a Commenti e Riflessioni—————-————-
Oggi 1° marzo 2023 mercoledì
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Elly, una bella novità, ora la prova dei fatti
1 Marzo 2023
A.P. Su Democraziaoggi
Che Schlein costituisca una novità è innegabile. Anzitutto l’età, che non è solo un dato anagrafico. È un salto, una rottura rispetto ad una sinistra sospesa ancora fra novecento e nuovo contesto. La sua partecipazione ai movimenti per i diritti civili, la sua capacità di utilizzare modalità di coinvgimento popolare, mutuati da Obama, ne […]
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Oggi lunedì 20 febbraio 2023
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Autonomia differenziata e presidenzialismo per scardinare il paese
20 Febbraio 2023
Alfiero Grandi su Democraziaoggi
Oggi è in campo la mina dell’autonomia regionale differenziata, figlia del nuovo Titolo V, che ha scatenato gli appetiti di alcune regioni ricche del Nord (Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna), che oggi trovano in Calderoli l’interprete che punta a strappare poteri e soldi per le aree più ricche, mentre per gli altri resterà […]
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Rassegna del 19.02.2023
19 Febbraio 2023 by Fabio | su C3dem
Opzioni per la pace: Jürgen Habermas, Europa tra guerra e pace (Repubblica). Domenico Quirico, Il ritornello della pace impossibile ora il cessate il fuoco, come in Corea (la Stampa). Jugen Habermas, Longform – Europa tra Guerra e Pace (Repubblica)
Le risposte della Comunità internazionale: Domenico Gallo, Roger Waters all’Onu striglia i guerrafondai (il Fatto Quotidiano). Francesca Mannocchi, Donbass offensiva d’inverno (La Stampa). Maurizio Molinari, A Kiev un test per Meloni (la Repubblica). Marta Ottaviani, L’Europa: altre armi a Kiev. E Pechino annuncia una proposta di pace (la Nazione). Daniele Raineri, Pechino: presto il piano di pace – Gelo Usa: non dovete aiutare Putin (Repubblica). Michele Pignatelli, La Finlandia accelera, voto di ratifica Nato il 28 febbraio (Il Sole 24 Ore). Giuseppe Sarcina, Non è l’ora del dialogo con Putin (Corriere della Sera). Ekaterina Pravilova, A ogni Zar la sua guerra (Il Foglio). Matteo Sacchi intervista V.Emanuele Parsi, Siamo di fronte a rischi del tutto nuovi e duraturi (il Giornale).
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Oggi sabato 11 febbraio 2023
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ANPI: assemblea nazionale contro la guerra
11 Febbraio 2023
Gianna Lai su Democraziaoggi.
Sull’Assemblea Nazionale dell’ANPI a Cervia, il 4 e 5 febbraio, ecco un report di Gianna Lai, dell’esecutivo nazionale.
Il tema della pace e della guerra, l’uso dell’arma atomica, al centro dell’Assemblea nazionale ANPI a Cervia, sabato 4 e domenica 5 febbrario. “Quale patologia mentale ha colpito le nostre classi politiche in Europa e in Russia”, […]
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Un terremoto, due narrazioni: Turchia e Siria 2023
11 Febbraio 2023
Rosamaria Maggio su Democraziaoggi
Il terremoto in Turchia e Siria è uno dei più gravi dell’ultimo secolo in termini di magnitudo – 7,8 – e per numero di morti (gli ultimi dati parlano di oltre 21 000) ed il bilancio si aggiorna di ora in ora.
Dobbiamo tornare indietro a quello di Valdivia (Cile) 1960, la cui forza fu […]
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Oggi sabato 4 febbraio 2023
Eventi,Opinioni,Commenti e Riflessioni——————–——————
Pagliarulo ANPI: “Siamo vicini a scenari catastrofici, dovremo essere in tanti alle nostre manifestazioni con Europe for Peace del 24/26 febbraio”
4 Febbraio 2023 su Democraziaoggi
Lettera del Presidente nazionale ANPI agli iscritti all’Associazione: “La pace, garantita in Europa per più di 70 anni, è stata il risultato di un lungo percorso politico, istituzionale e giuridico seguito alla devastazione di due guerre mondiali. Abbiamo bisogno di riprendere immediatamente quella visione e quel progetto, frutto della Resistenza al nazifascismo, e lascito dei nostri resistenti e dei nostri partigiani”[…]
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Divide et impera
di Lucio Garofalo
I lavoratori francesi si confermano una entità popolare estremamente combattiva, cosciente ed intelligente: essi si mobilitano in massa, con coesione, per salvaguardare i propri diritti ed i propri interessi sociali e materiali, di classe…
E gli italiani?
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Cospito e 41 bis
Oggi giovedì 19 gennaio 2023
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https://monasterodibose.it/preghiera/vangelo-del-giorno/15411-gesu-sta-traOggi
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L’Autonomia nel Paese arlecchino
19 Gennaio 2023
Massimo Villone su Democraziaoggi
In vista dell’assemblea pubblica a Cagliari contro l’autonomia differenziata del 24 prossimo, ad iniziativa della Scuola di cultura politica F. Cocco, pubblichiamo sull’argomento questo articolo di Massimo Villone, autorevole costituzionalista e presidente del Coordinamento per la democrazia Costituzionale (CDC).
Le sollecitazioni scomposte di Zaia e Salvini a sostegno della accelerazione impressa da Calderoli sul tema della […]
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BETTINI SU CATTOLICI E PD. MANCUSO SUL PACIFISMO
16 Gennaio 2023 by Giampiero Forcesi | su C3dem
Domenica 16 aprile 2023 Commenti Opinioni riflessioni eventi
Carbonia. Togliatti a Carbonia: L’8 maggio le sinistre si affermano in città e in Sardegna Manifestazioni per la pace e contro il Patto Atlantico mentre nascono l’OECE e il Consiglio d’Europa
16 Aprile 2023
Gianna Lai su Democraziaoggi
Oggi ecco di nuovo, dal 1° settembre 2019, un post sulla storia di Carbonia, non pubblicato la scorsa domenica di Pasqua.
Grande attesa per quelle elezioni, la partecipazione dei cittadini in quanto lavoratori alla formazione della volontà generale, nuovo banco di prova dopo il 18 aprile. Così la cronaca dell’arrivo a Carbonia del leader comunista, […]
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