Risultato della ricerca: ITI Is Mirrionis

Coronavirus. Mobilitiamoci, fin che siamo in tempo, per evitare la catastrofe nella città metropolitana

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OGNI GIORNO É PREZIOSO
di Gianni Pisanu
L’emergenza Virus non ha risparmiato la nostra isola. Mentre sulla base degli ultimi dati alcuni studi hanno seppure con prudenza formulato previsioni di “spegnimento” per la maggior parte delle regioni, per la Sardegna non si sbilanciano. Con le Marche e la Basilicata infatti la Sardegna è in una situazione di imprevedibilità sulla base del susseguirsi dei dati.
Le esperienze finora maturate e richiamate negli ultimi giorni da numerosi scienziati fra i quali il Prof. Galli dell’ospedale Sacco di Milano, indicano come strada maestra oltre alla scrupolosa osservanza delle norme che limitano drasticamente i contatti interpersonali, l’isolamento delle persone infettate che oggi sono lasciati nelle loro abitazioni spesso del tutto inadeguate dove oltre a non potersi curare in modo accettabile, costituiscono un grave rischio di contagio per parenti e conviventi.
Il rischio di contagio per i familiari delle persone positive cosiddette isolate è calcolato fra dieci e cento volte superiore alla media. Facile in questo modo lo svilupparsi di sempre nuovi focolai. [segue]

Bonas noas

immaginedicaar1b5e857ce8-b7cc-4b28-85fa-428f7c5b12bfLa Fondazione di Sardegna ha pubblicato oggi gli esiti del Bando 2020 relativo ai progetti finanziabili. Nella sezione “Sviluppo locale” è stato finanziato il Progetto “NeighborHub” per gli spazi beni comuni urbani, presentato dall’Università in collaborazione con il Comitato Casa del quartiere di Is Mirrionis, Aladinpensiero, Istituto Gramsci Sardegna, TDM, NaturalMente, Sarditinera.
A fronte della richiesta di cofinanziamento di 45mila euro ne sono stati accordati 10mila, tenuto conto della distribuzione delle risorse bilanciate tra i numerosi progetti presentati. Si farà quanto si può, contando sulla disponibilità del Dipartimento universitario DICAAR, ma soprattutto su un apposito auspicato cofinanziamento del Comune di Cagliari, principale interlocutore (e beneficiario dei “prodotti” del progetto) che si è detto interessato (e propenso a un adeguato contributo) fin dalla stesura del medesimo da parte dei ricercatori universitari e della “committenza sociale”, in primis il Comitato Casa del Quartiere di Is Mirrionis, a seguire le associazioni socio-culturali Aladinpensiero, Istituto Gramsci Sardegna, TDM, NaturalMente, Sarditinera.
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Informazioni sul progetto: https://www.aladinpensiero.it/?p=102369

Addio don Vasco

IL MIO RICORDO DI DON VASCO PARADISI. DIO LO ABBIA IN SA SANTA GLORIA.
di Giacomo Meloni
Addio, don Vasco.
santelia-vasco-pPer molti anni ho seguito padre Vasco – frate carmelitano – dal suo impegno pastorale nella Chiesa del Carmine a Cagliari alla sua avventura
cristiana nel Quartiere di S. Elia.
Eravamo un bel gruppo di giovani universitari, gia’ impegnati nella Scuola Popolare di Is Mirrionis e promotori dei Comitati di Quartiere di Is Mirrionis, Stampace e Marina. [segue]

L’Università di Cagliari presenta un progetto in sintonia con le esigenze della partecipazione dei cittadini alla gestione dei beni comuni urbani

is-mirr-e-colle-san-michele-25-nov19immaginedicaar1bBONAS NOAS. Rispondendo alle esigenze e accogliendo le richieste dell’associazionismo di base il Dipartimento di Ingegneria Civile, Ambientale e Architettura dell’Università degli Studi di Cagliari (DICAAR) diretto dal prof. Giorgio Massacci, ha presentato alla Fondazione di Sardegna un progetto denominato: “NeighborHub: riconoscimento, riuso e gestione condivisa dei beni comuni urbani. Un modello per la creazione di distretti socio-culturali diffusi a partire dai quartieri di edilizia popolare”. Il progetto – che prevede la realizzazione di un modello di gestione dei beni comuni urbani a partire dai quartieri di edilizia popolare e di partecipazione dei cittadini all’amministrazione del territorio – trova perfetta corrispondenza nelle linee di ricerca-azione del DICAAR, specificamente seguite dal prof. Ivan Blečić e dalla dott.ssa Valeria Saiu (referente del progetto). Il progetto inoltre è sostenuto da numerose associazioni socio-culturali; in particolare fanno parte del partenariato [segue]

Save the date – Punta de billete

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Start up e giovane impresa opportunità di lavoro per i giovani e per lo sviluppo della Sardegna

farmacia-politica-cagliarifarmacia-politica-31-10-19Interessante dibattito promosso dall’Associazione Farmacia politica: occorre un’iniziativa forte e produttiva nei confronti del potere politico da parte dei giovani imprenditori e aspiranti tali
di Franco Meloni
Idee valutabili come eccellenti o comunque buone; ottima preparazione accademica degli aspiranti imprenditori; apprezzabile incubazione dei progetti di impresa finanziata dal sostegno pubblico… Ma complessiva impreparazione ad affrontare il mercato, con scarso sostegno pubblico proprio nella fase più complessa. Questa è la fotografia della situazione della giovane impresa innovativa cagliaritana consegnataci dall’incontro di giovedì 31 ottobre organizzato dall’associazione Farmacia Politica di Cagliari. [segue]

Supporto all’ITI Is Mirrionis ”Azioni innovative sperimentali: Enterprise Competition”

iti-is-m-enterprise-competitionOggi presso il TSE Sant’Eusebio, alle ore 19, “incontro aperto” promosso dal Comitato Casa di quartiere di Is Mirrionis per la promozione dell’azione dell’ITI Is Mirrionis ”Azioni innovative sperimentali: Enterprise Competition” . In particolare si discuterà dell’ipotesi di pertinenti “idee di impresa” che il Comitato intende supportare a vantaggio dei giovani del quartiere e della città [segnalazione del presidente del Comitato CdQ Ism, Terenzio Calledda].

Supporto di Aladinpensiero alle azioni dell’ITI di Is Mirrionis

iti-is-m-enterprise-competitionLa pagina dedicata nel sito del Comune di Cagliari. Novità. Ieri 21 ottobre è stato pubblicato sul sito del Comune di Cagliari l’allegato 1 all’Avviso ”Azioni innovative sperimentali: Enterprise Competition” che riporta la delimitazione dell’area di intervento dell’ITI Cagliari Is Mirrionis, con la precisa perimetrazione. E’ molto importante tale delimitazione, intanto perché supporta il ritorno alla denominazione originaria dell’intervento, concordato con Regione e Unione Europea “ITI Is Mirrionis”, che era stata “allargata” a San Michele. Nessun problema per quanto riguarda tale allargamento territoriale nella misura in cui consente l’intervento sul “centro diurno per la popolazione anziana” di via Abruzzi, ma ovviamente l’area più consistente riguarda il quartiere di Is Mirrionis, come precisamente definito dalla cartografia e dalla pertinente normazione comunale. Osserviamo come il nucleo edilizio in cui insistono l’edificio e le pertinenze della Scuola Popolare vi ricade pienamente, favorendo la localizzazione dell’intervento ITI (di sue particolari azioni) anche su tale zona del quartiere (f.m.).
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—————Altre informazioni utili—————-
Riportiamo l’art.9 – Ulteriori informazioni – dell’Avviso.
Per informazioni e chiarimenti è possibile contattare la Segreteria Organizzativa al seguente indirizzo email: iticagliarimpresa@fondazionebrodolini.eu. Le risposte ai quesiti considerati di maggiore rilevanza verranno pubblicati in un’apposita sezione Faq del sito dedicato all’intervento: www.comune.cagliari.it/portale/page/it/iti.
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Aladinpensiero, la Scuola di Cultura Politica Francesco Cocco, Rekko, l’Osservatorio Beni Comuni, il Comitato Casa di quartiere di Is Mirrionis… a Connessioni2019.

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- Connessioni’19.

L’economia da ripensare. In tema convergenze cattoliche e laiche.

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Zamagni: servono trasformazioni radicali e non semplici riforme
intervista a Stefano Zamagni, a cura di Paolo Lambruschi
in “Avvenire” del 24 settembre 2019

La Chiesa deve impegnarsi per invertire la rotta cercando un nuovo equilibrio economico tra ambiente, lavoro, ecologia e aspetti sociali. Lo ha affermato il vescovo di Fiesole Mario Meini, vicepresidente della Cei, nell’introduzione al Consiglio permanente affermando che «i Lineamenta delle prossime Settimane Sociali si inseriscono a pieno titolo nella denuncia di quanto un’economia, che non abbia riguardo per la sostenibilità sociale e ambientale, finisca per portare l’umanità nel baratro. Assumere la prospettiva di un’ecologia integrale – così come proposto dalla Laudato si’ – significa impegnarci in maniera corale per un’inversione di rotta». Inversione auspicata da anni dall’economista Stefano Zamagni, presidente della Pontificia Accademia delle scienze sociali, a patto che sia fatta chiarezza.
Su cosa?
Ci sono tre modelli economici: l’economia liberista di mercato anglosassone, l’economia sociale di mercato che ha origini tedesche e che i tedeschi hanno voluto mettere nel Trattato di Maastricht e infine l’economia civile di mercato italiana. Quando parliamo di economia sociale, la confondiamo con il modello tedesco ingenerando pericolose confusioni. Noi facciamo riferimento con questa definizione al terzo settore, quindi alle imprese sociali e alle coop sociali. L’economia sociale di mercato tedesca ha invece presupposti che non sono quelli favoriti dalla Dottrina sociale nella Chiesa, soprattutto negli ultimi tempi. Infatti non vi trovano spazio il principio di reciprocità né quello di sussidiarietà. Quindi la scelta è importante e mi auguro che nelle prossime Settimane Sociali venga fatta chiarezza dal magistero perché la gente è disorientata.
Per quale motivo la sostenibilità è diventata la parola chiave per cambiare i paradigmi economici?
Perché papa Francesco nella Laudato si’ ha detto cose che nessuno aveva mai sostenuto con tanta autorevolezza. E cioè che la questione sociale e quella ambientale sono due facce della stessa medaglia e non è possibile dissociarle. Non si può quindi perseguire la strategia della sostenibilità ambientale se questa al tempo stesso danneggia la sostenibilità sociale. Purtroppo non è chiaro a molti che è in crescita nel globo l’esclusione non solo dal reddito – le disuguaglianze – ma anche dall’appartenenza al territorio. Ora servono proposte concrete.
Lei cosa suggerisce?
In questo momento storico non bastano più le riforme, sono pannicelli caldi. Occorre quella che il Papa chiama strategia trasformazionale. Non basta proporre qualche miliardo alla famiglia, quella è una riforma. Bisogna resuscitare il concetto fondamentale di Giovanni Paolo II che non viene tirato in causa neppure dai cattolici, ovvero le strutture di peccato. Primo, bisogna trasformare l’impianto del sistema fiscale, detassando il lavoro e i produttori e inasprendo le tasse sulle rendite improduttive. La seconda trasformazione riguarda scuole e università. Vanno resi luoghi di educazione, non solo di istruzione e formazione. Terzo, bisogna avere coraggio di trasformare il welfare state in welfare di comunità. Infine la green economy che tecnicamente è possibile. Ma non trasformerà nulla se prima non si agisce sui valori con nuovo umanesimo.
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Economia Civile
Terenzio mercatino pop Is Mirrionis
La responsabilità dei mercati nei confronti della
società civile

di Gianfranco Sabattini su Aladinpensiero.

In “Responsabili. Come civilizzare il mercato”, Stefano Zamagni intende mostrare come nella prospettiva dell’economia civile (intesa come teoria economica di mercato alternativa al capitalismo e fondata sui principi solidaristici di reciprocità e fraternità) sia possibile avanzare un concetto di responsabilità dell’agire in grado di integrare sia l’etica della responsabilità che quella delle conseguenze. In una stagione come quella attuale – egli afferma – “nella quale le forze del mercato controllano ormai il pianeta, è urgente muovere passi decisivi verso l’elaborazione di un concetto di responsabilità che vada oltre la familiare imputabilità”; ciò, al fine di tener conto delle conseguenze dell’azione economica, non solo sul soggetto che l’ha posta in essere, ma anche sull’intera collettività (non necessariamente racchiusa all’interno di un determinato Stato-nazione).
L’urgenza di elaborare un concetto di responsabilità più comprensivo rispetto a quello implicito nella logica del comportamenti economico è resa palese dalla considerazione che, “se pensare l’atto senza ascriverlo a chi lo compie” significa cadere in un inaccettabile oggettivismo (come se l’azione potesse esistere indipendentemente da chi agisce), del pari inaccoglibile è “la posizione del soggettivismo, secondo cui basterebbe l’intenzione buona a rendere tale l’azione”.
Tradizionalmente, il concetto di responsabilità, per l’agente che deve rendere ragione del suo agire, veniva inteso – secondi Zamagni – nel senso di una chiamata dell’agente a rispondere solo delle conseguenze delle proprie azioni; tale concetto aveva a suo supporto l’autorità della filosofia del libero arbitrio, secondo la quale ogni agente è dotato della capacità di essere causa dei propri atti e, di conseguenza di essere responsabile degli esiti negativi che da essi (gli atti) possono derivare. Da un cinquantennio a questa parte – continua Zamagni – ha preso forma un’accezione di responsabilità che è valsa a collocarla “al di là del principio del libero arbitrio e della sola sfera della soggettività, per porla in funzione della vita”; una collocazione che ha comportato un obbligo morale vincolante l’agente ne confronti del mondo.
In questo contesto, il focus della responsabilità è divenuto la vulnerabilità “degli esseri investiti dagli effetti di azioni, individuali e collettive”. Mentre nel passato il problema della responsabilità si poneva nei confronti di agenti nettamente individuabili, oggi, “di fronte alla portata cosmica del mercato e della nuova tecno-scienza”, le azioni individuali e collettive “possono turbare le stesse prospettive di sopravvivenza nonché le stesse basi biologiche della vita”. In queste condizioni – sottolinea Zamagni – il non danneggiare gli altri (che per l’etica liberale tradizionale è l’unico limite alla libertà d’agire a livello personale) non è più sufficiente, in quanto occorre fuoriuscire dall’indeterminatezza e stabilire chi siano “quelli” che non devono essere danneggiati.
Zamagni ritiene che, per uscire dall’incertezza si debba adottare la prospettiva di analisi della responsabilità fondata sull’”etica del futuro”, formulata dal filosofo tedesco Hans Jonas, in “Il principio di responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica”. L’interpretazione del concetto di responsabilità offerta dal filosofo tedesco presuppone la liberazione dell’uomo dai problemi posti dal “dominio sconfinato della tecnoscienza” e della possibilità che le azioni ad essa informate “possano trasformare o alterare le strutture originarie della vita umana”. A tal fine, secondo Jonas, occorre che la responsabilità sia definita sulla base di un “imperativo non eludibile”, ovvero sulla base di un dovere, per l’essere umano, di non danneggiare se stesso con le proprie azioni e di difendere la specie umana, per garantirne la sopravvivenza. Da ciò consegue che l’uomo contemporaneo debba sempre comportarsi senza mai fare dell’esistenza una “posta in gioco nelle scommesse dell’agire”.
Secondo Jonas, le possibilità aperte dal potere conferito dai progressi della tecnoscienza hanno messo in crisi i presupposti impliciti all’etica della responsabilità tradizionale; in particolare è stato messo in crisi quello secondo cui l’azione dell’uomo non sarebbe mai stata in grado di violare la natura. Proprio per questo, in passato, la riflessione sulla responsabilità non aveva bisogno di porsi il problema della sopravvivenza della specie umana.
Tuttavia, secondo Zamagni, la prospettiva di analisi del concetto di responsabilità di Jonas presenta il limite di ridurre il fine “dell’uomo alla pura sopravvivenza, intesa in senso basicamente biologico”. Per l’economia civile, invece, il fine dell’uomo, e della società alla quale egli appartiene, non è il semplice sopravvivere, ma il “vivere bene”; ciò, per rendere possibile la “piena realizzazione di tutte le capacitazioni [nel senso di Amartya Sen] della persona”. Sul piano del vivere insieme, ciò implica – sostiene Zamagni – “una disponibilità da parte della politica alla trasformazione dell’assetto istituzionale esistente, non tanto alla sua conservazione con interventi meramente riformisti”, quanto al suo continuo adattamento alle aspirazioni dell’uomo alla realizzazione piena del proprio progetto di vita.
Dopo la lunga premessa sull’evoluzione del concetto di responsabilità e sulla più comprensiva definizione dello stesso formulata all’interno della prospettiva di analisi di Jonas, Zamagni si chiede: “Se il fondamento di un comportamento responsabile non può essere il solo calcolo economico, né il rispetto formale della norma legale, né la libertà di fare ciò che si vuole, dove lo si può cercare? [...] Se il fine ultimo è il compimento della persona [...], come un tale fine può essere perseguito in un ambito come quello economico”, dove la massimizzazione del risultato dell’azione individuale è “considerata condizione di successo nel mondo degli affari?”. Se è impossibile vivere senza un’economia di mercato – risponde Zamagni -, non è detto che questa sia l’unica via del progresso. Se il mercato è necessario, in esso possono essere oggetto di scambio solo le cose, non anche le persone e l’insieme delle loro reciproche relazioni, che stanno a fondamento del loro “vivere bene”. Esistono valori, asserisce Zamagni, che possono essere realizzati attraverso il mercato, solo se, secondo la prospettiva dell’economia civile, lo si considera come luogo in cui sia possibile perseguire la “virtù” e non solo la ricerca di “rendite”.
E’ noto come il mercato sia stato originariamente definito come il luogo all’interno del quale l’uomo è capace di dare vita, con le proprie azioni, a conseguenze buone o cattive a seconda delle circostanze, del tutto imprevedibili e non intenzionali; quindi del tutto indipendenti da ogni considerazione sulla moralità dell’agente. Con l’inizio della modernità e la progressiva affermazione del mercato, si è dovuto affrontare il problema di trovare il modo di “assicurare un ordine sociale senza ricorrere al principio d’autorità o a presupposti teologici”; se, con l’istituzionalizzazione del mercato, non si poteva prescindere che in esso potesse prevalere il “vizio” della ricerca di rendite da parte di agenti egoisti, occorreva trovare le particolari condizioni che in qualche modo valessero a “giustificare” il loro comportamento. La soluzione della “mano invisibile” di Adam Smith è servita allo scopo; secondo il filosofo-economista morale scozzese non era necessario assumere la moralità delle azioni degli agenti di mercato, a condizione che fossero stati “predisposti (e fatti correttamente funzionare) ben definiti meccanismi di mercato”. La genialità della metafora di Smith, a parere gi Zamagni, è consistita proprio nel fatto d’aver consentito di dimostrare che “gli individui servono l’interesse collettivo proprio quando sono guidati nelle loro azioni dall’interesse proprio”.
Nel mercato guidato dalla mano invisibile smithiana, gli esiti finali del processo economico “non conseguono dalla volontà di un qualche ente sovrastante [...], ma dalla libera interazione di una pluralità di soggetti, ognuno dei quali persegue razionalmente il proprio obiettivo, sotto un ben definito insieme di regole”. Per Zamagni, l’elegante dimostrazione di Smith, che il libero mercato, quando razionalmente governato, produce risultati ottimali, sia per gli agenti che in esso operano che per l’intera collettività, nasconde in realtà “elementi di fragilità”. Ciò perché, il ragionamento alla base del convincimento che il mercato possa consentire con libere scelte individuali, il perseguimento di risultati ottimali per tutti, “non è quasi mai vero”; sarebbe vero “se il soggetto che sceglie avesse preso parte alla definizione del menù di scelta”.
Infatti, la scelta sarebbe libera solo se gli agenti avessero preso parte alla definizione dell’insieme delle alternative tra le quali essi possono scegliere; se l’insieme delle alternative è gia dato, perché fissato da altri, la condizione di libertà di scelta non è soddisfatta. Si deve allora concludere – sottolinea Zamagni – “che l’inganno e la manipolazione delle preferenze degli agenti, essendo endemici al meccanismo di mercato”, determinino il venir meno della responsabilità degli agenti. Così stando le cose, accettare il libero mercato alla base dell’ordine sociale non implica necessariamente una sua organizzazione deresponsabilizzante; ciò perché esso (il mercato) può essere organizzato in maniera tale da fare sempre risaltare la responsabilità delle azioni degli agenti che in esso operano.
Quanto ciò sia necessario è reso evidente dal fatto che nella produzione di beni e servizi nelle condizioni storiche attuali (caratterizzate dalla presenza del fenomeno della globalizzazione), è “l’anonimato” dei suoi protagonisti (in particolare delle organizzazioni d’impresa) e gli effetti di lunga gittata delle loro operazioni che “tendono a scoraggiare o addirittura a dispensare gli individui dal sentirsi responsabili di quel che fanno”.
Negli ultimi due secoli, la scienza economica è stata in grado di far valere il senso di superiorità che le derivava dal fatto d’essere considerata la più scientifica delle scienze sociali; una presunzione fondata sul nucleo duro espresso “dal celebrato modello della scelta razionale”, posto a fondamento dell’agire dell’homo oeconomicus. Da qualche tempo – sostiene Zamagni – si è affermato “un interesse crescente degli economisti nei confronti del problema riguardante i presupposti antropologici del discorso economico”, ancora dominato da una concezione limitata del benessere personale e dall’incapacità di riconoscere la rilevanza dell’esistenza nell’uomo di “disposizioni che vanno oltre il calcolo dell’interesse personale”.
Tali insufficienze del discorso economico hanno motivato molti economisti a interiorizzare la necessità di un cambiamento del “raggio d’azione della ricerca economica”. Da questo allargamento è emerso con chiarezza – secondo Zamagni – “il segnale del disagio di continuare a muoversi entro una camicia di Nesso che impone di credere alla presunta neutralità del discorso economico”. I limiti del discorso economico tradizionale sono emersi con “conseguenze devastanti” in ambiti specifici della teoria economica, quali ad esempio quello della giustizia distributiva e quello della qualità dell’impatto sull’ambiente naturale delle moderne attività industriali.
I limiti che la teoria economica tradizionale ha sempre presentato riguardo al problema della giustizia distributiva sono riconducibili, a parere di Zamagni, innanzitutto al permanere del convincimento tra gli economisti della validità dei dogmi dell’ingiustizia, considerata l’esito di “una sorta di legge ferrea cui il genere umano mai si sarebbe potuto sottrarre”; oppure, l’esito della credenza che l’”elitarismo” dovesse essere sempre incoraggiato, nel convincimento che il “benessere dei più” potesse crescere “maggiormente con la promozione delle abilità dei pochi”. Riguardo al problema ecologico, l’insufficienza della teoria economica tradizionale è invece riconducibile alla persistenza di un altro dogma, quello secondo il quale il sistema economico, “attraverso i suoi stessi meccanismi”, sarebbe sempre riuscito a superare, con un continuo flusso di innovazioni tecnologiche, qualsiasi impatto negativo del processo produttivo sull’ambiate. Si tratta di un dogma smentito dalle modalità di funzionamento delle attuali economie industriali, i cui effetti esterni sull’ambiente, se nel passato potevano essere considerati trascurabili, oggi causano invece danni irreversibili sulle risorse naturali indispensabili per la vita dell’uomo.
Gli effetti delle ineguaglianze distributive e dei danni ambientali irreversibili sulla stabilità dell’attività produttiva e della tenuta della coesione sociale impongono oggi, conclude Zamagni, non solo una completa ristrutturazione degli attuali metodi produttivi, ma anche e soprattutto “nuove categorie di pensiero per una disciplina – l’economia appunto –troppo a lungo rimasta estranea” alle problematiche che agitano il mondo contemporaneo e all’urgenza di una più puntuale definizione di bene comune.
Non si può che condividere l’analisi critica che Stefano Zamagni formula nei confronti delle categorie proprie della teoria economica tradizionale; ugualmente va condiviso il suo convincimento che la ristrutturazione degli attuali metodi produttivi e l’introduzione, nel corpus teorico della teoria economica, di nuove categorie di pensiero dipendano dalla necessità che gli economisti, nello svolgimento della loro professione (per stabilire quali “regole e quali strumenti” rispondono a una più comprensiva definizione dei bene comune), si aprano più alla ragione sapienziale che a quella strumentale; il problema di fondo, però, sta nel fatto che, nell’esercizio della loro professione, la maggior parte degli economisti tende, oggi come ieri, ad aprirsi molto più alla ragione strumentale che a quella sapienziale.
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Economia Civile

Terenzio mercatino pop Is Mirrionis
La responsabilità dei mercati nei confronti della
società civile

di Gianfranco Sabattini

In “Responsabili. Come civilizzare il mercato”, Stefano Zamagni intende mostrare come nella prospettiva dell’economia civile (intesa come teoria economica di mercato alternativa al capitalismo e fondata sui principi solidaristici di reciprocità e fraternità) sia possibile avanzare un concetto di responsabilità dell’agire in grado di integrare sia l’etica della responsabilità che quella delle conseguenze. In una stagione come quella attuale – egli afferma – “nella quale le forze del mercato controllano ormai il pianeta, è urgente muovere passi decisivi verso l’elaborazione di un concetto di responsabilità che vada oltre la familiare imputabilità”; ciò, al fine di tener conto delle conseguenze dell’azione economica, non solo sul soggetto che l’ha posta in essere, ma anche sull’intera collettività (non necessariamente racchiusa all’interno di un determinato Stato-nazione).
L’urgenza di elaborare un concetto di responsabilità più comprensivo rispetto a quello implicito nella logica del comportamenti economico è resa palese dalla considerazione che, “se pensare l’atto senza ascriverlo a chi lo compie” significa cadere in un inaccettabile oggettivismo (come se l’azione potesse esistere indipendentemente da chi agisce), del pari inaccoglibile è “la posizione del soggettivismo, secondo cui basterebbe l’intenzione buona a rendere tale l’azione”.
Tradizionalmente, il concetto di responsabilità, per l’agente che deve rendere ragione del suo agire, veniva inteso – secondi Zamagni – nel senso di una chiamata dell’agente a rispondere solo delle conseguenze delle proprie azioni; tale concetto aveva a suo supporto l’autorità della filosofia del libero arbitrio, secondo la quale ogni agente è dotato della capacità di essere causa dei propri atti e, di conseguenza di essere responsabile degli esiti negativi che da essi (gli atti) possono derivare. Da un cinquantennio a questa parte – continua Zamagni – ha preso forma un’accezione di responsabilità che è valsa a collocarla “al di là del principio del libero arbitrio e della sola sfera della soggettività, per porla in funzione della vita”; una collocazione che ha comportato un obbligo morale vincolante l’agente ne confronti del mondo.
In questo contesto, il focus della responsabilità è divenuto la vulnerabilità “degli esseri investiti dagli effetti di azioni, individuali e collettive”. Mentre nel passato il problema della responsabilità si poneva nei confronti di agenti nettamente individuabili, oggi, “di fronte alla portata cosmica del mercato e della nuova tecno-scienza”, le azioni individuali e collettive “possono turbare le stesse prospettive di sopravvivenza nonché le stesse basi biologiche della vita”. In queste condizioni – sottolinea Zamagni – il non danneggiare gli altri (che per l’etica liberale tradizionale è l’unico limite alla libertà d’agire a livello personale) non è più sufficiente, in quanto occorre fuoriuscire dall’indeterminatezza e stabilire chi siano “quelli” che non devono essere danneggiati.
Zamagni ritiene che, per uscire dall’incertezza si debba adottare la prospettiva di analisi della responsabilità fondata sull’”etica del futuro”, formulata dal filosofo tedesco Hans Jonas, in “Il principio di responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica”. L’interpretazione del concetto di responsabilità offerta dal filosofo tedesco presuppone la liberazione dell’uomo dai problemi posti dal “dominio sconfinato della tecnoscienza” e della possibilità che le azioni ad essa informate “possano trasformare o alterare le strutture originarie della vita umana”. A tal fine, secondo Jonas, occorre che la responsabilità sia definita sulla base di un “imperativo non eludibile”, ovvero sulla base di un dovere, per l’essere umano, di non danneggiare se stesso con le proprie azioni e di difendere la specie umana, per garantirne la sopravvivenza. Da ciò consegue che l’uomo contemporaneo debba sempre comportarsi senza mai fare dell’esistenza una “posta in gioco nelle scommesse dell’agire”.
Secondo Jonas, le possibilità aperte dal potere conferito dai progressi della tecnoscienza hanno messo in crisi i presupposti impliciti all’etica della responsabilità tradizionale; in particolare è stato messo in crisi quello secondo cui l’azione dell’uomo non sarebbe mai stata in grado di violare la natura. Proprio per questo, in passato, la riflessione sulla responsabilità non aveva bisogno di porsi il problema della sopravvivenza della specie umana.
Tuttavia, secondo Zamagni, la prospettiva di analisi del concetto di responsabilità di Jonas presenta il limite di ridurre il fine “dell’uomo alla pura sopravvivenza, intesa in senso basicamente biologico”. Per l’economia civile, invece, il fine dell’uomo, e della società alla quale egli appartiene, non è il semplice sopravvivere, ma il “vivere bene”; ciò, per rendere possibile la “piena realizzazione di tutte le capacitazioni [nel senso di Amartya Sen] della persona”. Sul piano del vivere insieme, ciò implica – sostiene Zamagni – “una disponibilità da parte della politica alla trasformazione dell’assetto istituzionale esistente, non tanto alla sua conservazione con interventi meramente riformisti”, quanto al suo continuo adattamento alle aspirazioni dell’uomo alla realizzazione piena del proprio progetto di vita.
Dopo la lunga premessa sull’evoluzione del concetto di responsabilità e sulla più comprensiva definizione dello stesso formulata all’interno della prospettiva di analisi di Jonas, Zamagni si chiede: “Se il fondamento di un comportamento responsabile non può essere il solo calcolo economico, né il rispetto formale della norma legale, né la libertà di fare ciò che si vuole, dove lo si può cercare? [...] Se il fine ultimo è il compimento della persona [...], come un tale fine può essere perseguito in un ambito come quello economico”, dove la massimizzazione del risultato dell’azione individuale è “considerata condizione di successo nel mondo degli affari?”. Se è impossibile vivere senza un’economia di mercato – risponde Zamagni -, non è detto che questa sia l’unica via del progresso. Se il mercato è necessario, in esso possono essere oggetto di scambio solo le cose, non anche le persone e l’insieme delle loro reciproche relazioni, che stanno a fondamento del loro “vivere bene”. Esistono valori, asserisce Zamagni, che possono essere realizzati attraverso il mercato, solo se, secondo la prospettiva dell’economia civile, lo si considera come luogo in cui sia possibile perseguire la “virtù” e non solo la ricerca di “rendite”.
E’ noto come il mercato sia stato originariamente definito come il luogo all’interno del quale l’uomo è capace di dare vita, con le proprie azioni, a conseguenze buone o cattive a seconda delle circostanze, del tutto imprevedibili e non intenzionali; quindi del tutto indipendenti da ogni considerazione sulla moralità dell’agente. Con l’inizio della modernità e la progressiva affermazione del mercato, si è dovuto affrontare il problema di trovare il modo di “assicurare un ordine sociale senza ricorrere al principio d’autorità o a presupposti teologici”; se, con l’istituzionalizzazione del mercato, non si poteva prescindere che in esso potesse prevalere il “vizio” della ricerca di rendite da parte di agenti egoisti, occorreva trovare le particolari condizioni che in qualche modo valessero a “giustificare” il loro comportamento. La soluzione della “mano invisibile” di Adam Smith è servita allo scopo; secondo il filosofo-economista morale scozzese non era necessario assumere la moralità delle azioni degli agenti di mercato, a condizione che fossero stati “predisposti (e fatti correttamente funzionare) ben definiti meccanismi di mercato”. La genialità della metafora di Smith, a parere gi Zamagni, è consistita proprio nel fatto d’aver consentito di dimostrare che “gli individui servono l’interesse collettivo proprio quando sono guidati nelle loro azioni dall’interesse proprio”.
Nel mercato guidato dalla mano invisibile smithiana, gli esiti finali del processo economico “non conseguono dalla volontà di un qualche ente sovrastante [...], ma dalla libera interazione di una pluralità di soggetti, ognuno dei quali persegue razionalmente il proprio obiettivo, sotto un ben definito insieme di regole”. Per Zamagni, l’elegante dimostrazione di Smith, che il libero mercato, quando razionalmente governato, produce risultati ottimali, sia per gli agenti che in esso operano che per l’intera collettività, nasconde in realtà “elementi di fragilità”. Ciò perché, il ragionamento alla base del convincimento che il mercato possa consentire con libere scelte individuali, il perseguimento di risultati ottimali per tutti, “non è quasi mai vero”; sarebbe vero “se il soggetto che sceglie avesse preso parte alla definizione del menù di scelta”.
Infatti, la scelta sarebbe libera solo se gli agenti avessero preso parte alla definizione dell’insieme delle alternative tra le quali essi possono scegliere; se l’insieme delle alternative è gia dato, perché fissato da altri, la condizione di libertà di scelta non è soddisfatta. Si deve allora concludere – sottolinea Zamagni – “che l’inganno e la manipolazione delle preferenze degli agenti, essendo endemici al meccanismo di mercato”, determinino il venir meno della responsabilità degli agenti. Così stando le cose, accettare il libero mercato alla base dell’ordine sociale non implica necessariamente una sua organizzazione deresponsabilizzante; ciò perché esso (il mercato) può essere organizzato in maniera tale da fare sempre risaltare la responsabilità delle azioni degli agenti che in esso operano.
Quanto ciò sia necessario è reso evidente dal fatto che nella produzione di beni e servizi nelle condizioni storiche attuali (caratterizzate dalla presenza del fenomeno della globalizzazione), è “l’anonimato” dei suoi protagonisti (in particolare delle organizzazioni d’impresa) e gli effetti di lunga gittata delle loro operazioni che “tendono a scoraggiare o addirittura a dispensare gli individui dal sentirsi responsabili di quel che fanno”.
Negli ultimi due secoli, la scienza economica è stata in grado di far valere il senso di superiorità che le derivava dal fatto d’essere considerata la più scientifica delle scienze sociali; una presunzione fondata sul nucleo duro espresso “dal celebrato modello della scelta razionale”, posto a fondamento dell’agire dell’homo oeconomicus. Da qualche tempo – sostiene Zamagni – si è affermato “un interesse crescente degli economisti nei confronti del problema riguardante i presupposti antropologici del discorso economico”, ancora dominato da una concezione limitata del benessere personale e dall’incapacità di riconoscere la rilevanza dell’esistenza nell’uomo di “disposizioni che vanno oltre il calcolo dell’interesse personale”.
Tali insufficienze del discorso economico hanno motivato molti economisti a interiorizzare la necessità di un cambiamento del “raggio d’azione della ricerca economica”. Da questo allargamento è emerso con chiarezza – secondo Zamagni – “il segnale del disagio di continuare a muoversi entro una camicia di Nesso che impone di credere alla presunta neutralità del discorso economico”. I limiti del discorso economico tradizionale sono emersi con “conseguenze devastanti” in ambiti specifici della teoria economica, quali ad esempio quello della giustizia distributiva e quello della qualità dell’impatto sull’ambiente naturale delle moderne attività industriali.
I limiti che la teoria economica tradizionale ha sempre presentato riguardo al problema della giustizia distributiva sono riconducibili, a parere di Zamagni, innanzitutto al permanere del convincimento tra gli economisti della validità dei dogmi dell’ingiustizia, considerata l’esito di “una sorta di legge ferrea cui il genere umano mai si sarebbe potuto sottrarre”; oppure, l’esito della credenza che l’”elitarismo” dovesse essere sempre incoraggiato, nel convincimento che il “benessere dei più” potesse crescere “maggiormente con la promozione delle abilità dei pochi”. Riguardo al problema ecologico, l’insufficienza della teoria economica tradizionale è invece riconducibile alla persistenza di un altro dogma, quello secondo il quale il sistema economico, “attraverso i suoi stessi meccanismi”, sarebbe sempre riuscito a superare, con un continuo flusso di innovazioni tecnologiche, qualsiasi impatto negativo del processo produttivo sull’ambiate. Si tratta di un dogma smentito dalle modalità di funzionamento delle attuali economie industriali, i cui effetti esterni sull’ambiente, se nel passato potevano essere considerati trascurabili, oggi causano invece danni irreversibili sulle risorse naturali indispensabili per la vita dell’uomo.
Gli effetti delle ineguaglianze distributive e dei danni ambientali irreversibili sulla stabilità dell’attività produttiva e della tenuta della coesione sociale impongono oggi, conclude Zamagni, non solo una completa ristrutturazione degli attuali metodi produttivi, ma anche e soprattutto “nuove categorie di pensiero per una disciplina – l’economia appunto –troppo a lungo rimasta estranea” alle problematiche che agitano il mondo contemporaneo e all’urgenza di una più puntuale definizione di bene comune.
Non si può che condividere l’analisi critica che Stefano Zamagni formula nei confronti delle categorie proprie della teoria economica tradizionale; ugualmente va condiviso il suo convincimento che la ristrutturazione degli attuali metodi produttivi e l’introduzione, nel corpus teorico della teoria economica, di nuove categorie di pensiero dipendano dalla necessità che gli economisti, nello svolgimento della loro professione (per stabilire quali “regole e quali strumenti” rispondono a una più comprensiva definizione dei bene comune), si aprano più alla ragione sapienziale che a quella strumentale; il problema di fondo, però, sta nel fatto che, nell’esercizio della loro professione, la maggior parte degli economisti tende, oggi come ieri, ad aprirsi molto più alla ragione strumentale che a quella sapienziale.

Cagliari al voto. Con Francesca Ghirra nel nome della Costituzione repubblicana, democratica e antifascista!

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di Franco Meloni
Nella mia vita ho sempre esercitato il diritto-dovere di votare. L’ho fatto spesso con convinzione, anche quando si trattava di “mera testimonianza“, altre volte “de mala gana” quando l’offerta politica era veramente mediocre. Perfino in questi ultimi casi, pur considerando legittima la scelta dell’astensionismo, ho preferito comunque votare, magari rifugiandomi sulla qualità della persona individuata tra quelle candidate. Ma sempre a sinistra, perché quella è la mia casa, almeno ideale: laddove sono i valori della solidarietà, dell’uguaglianza, dei diritti per tutte le persone. Che poi sono i valori della nostra Carta Costituzionale, costruita mirabilmente dalle componenti culturali e politiche affermatesi sulle rovine del fascismo e del nazismo. Domenica voterò con convinzione Francesca Ghirra come Sindaca della mia città. Francesca è giovane, soprattutto rispetto alla mia età, e fa parte dei “nuovi politici“, che come capita ormai a me e ad altri miei coetanei che pur abbiamo alle spalle molti anni di militanza politica, spesso non conosciamo personalmente, di alcuni piuttosto i loro genitori. Nel caso di Francesca conoscevo il nonno Salvatore Ghirra, politico di vaglia che potei apprezzare come mio compagno di consiliatura (1980-1985) del Consiglio comunale di Cagliari. Meglio conosco e sono da tempo immemorabile amico del padre di Francesca, Giancarlo, ottimo giornalista professionista, anche lui per un periodo – degli anni 90 – prestato alla politica come consigliere regionale. Francesca l’ho conosciuta personalmente da non molto tempo, precisamente dal 4 ottobre 2014, quando abbiamo fatto insieme, a piedi, il percorso insolito del progetto “Passu passu” che dal circolo Gramsci di via Doberdò ci portò a “via Is Mirrionis-segue numerazione”, dove si trovava e tuttora giace il rudere di un vecchio edificio -progettato da un grande architetto del Novecento italiano, Maurizio Sacripanti - per me e per tanti altri fondamentalmente noto per essere stato sede dell’esemplare esperienza della Scuola Popolare di Is Mirrionis, negli anni 70. Da lì è nata un’amicizia e una collaborazione politica e culturale, che nella rivendicazione del ricupero di quello spazio per il quartiere di Is Mirrionis e per la città continua ad avere un punto di impegno – anche simbolico per i processi partecipativi dei cittadini – ribadito da Francesca nell’assemblea del quartiere del 10 giugno scorso. Francesca Ghirra unisce alla competenza accademica e professionale quella di esponente politico e di amministratrice comunale, come consigliera della penultima consiliatura e assessore all’Urbanistica dell’ultima giunta di Massimo Zedda. Anche tenendo conto di questi ultimi profili è pienamente affidabile e senz’altro capace di ricoprire degnamente la prestigiosa carica di Sindaca del Capoluogo. Secondo me in grado di fare ancora meglio delle precedenti amministrazioni. Sapete perché? Per la sua comprovata apertura al dialogo con i cittadini e alla disponibilità a recepirne le istanze e a promuoverne la cittadinanza attiva. Le posizioni di quanti si riconoscono nella direzione della nostra rivista sono note, ma mi piace sintetizzarle in quattro grandi temi che sotto riporto. E aggiungo che per molti buoni cittadini, tra loro anche tanti cari amici e compagni tentati dall’astensionismo, vi è una ragione fondamentale, la più importante che dovrebbe portare a sostenere Francesca Ghirra, comunque. Quella che la vede misurarsi e scontrarsi con un candidato del centro destra, Paolo Truzzu, che forse non fa più preciso riferimento al fascismo, ma senza dubbio non trae convinta ispirazione dalla Carta Costituzionale, indispensabile condizione per quanto dicevo in premessa. Ecco perché al riguardo mi piace ricordare a me e a tutti i concetti cari a Piero Calamandrei, racchiusi nel Discorso sulla Costituzione, da lui fatto ai giovani il 26 gennaio 1955.
Mi sembra infine doveroso fare una annotazione sulla candidatura di Angelo Cremone, di cui ho sempre apprezzato la generosità dell’impegno per le battaglie per l’ambiente e per la pace. Mi piacerebbe che lui e la sua lista avessero un successo tale perlomeno da portarlo in Consiglio comunale, dove poter esercitare un importante ruolo tribunizio, rappresentando una voce di proposizioni radicali anche lontana dalle pur necessarie mediazioni. Ma mi auguro che questo accada senza togliere voti a Francesca Ghirra, sulle spalle della quale grava in questa circostanza uno scontro decisivo, come portatrice di un cambiamento positivo, rammentando che anche il suo diretto avversario si fa paladino del cambiamento, quello, crediamo noi, che ci porterebbe indietro, che ci farebbe pagare alti costi, soprattutto di farci perdere l’occasione per realizzare una città migliore di questa, più bella, accogliente ed inclusiva, che pur in questi anni ha fatto passi da gigante, in avanti. E avanti vogliamo continuare ad andare!
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Appunti per Francesca Ghirra e non solo

I 4 grandi temi.

LA DIGNITA’
Finalità della politica è prima di tutto il rispetto della dignità della persona umana. Ogni persona è portatrice di una inalienabile dignità che si manifesta nei diversi cicli di vita, a seconda della età, del sesso e delle condizioni personali di ciascuno.
La dignità non è retorica affermazione ideale, bensì fondamento di specifici diritti della persona ad aver garantite condizioni di vita adeguata, significa il diritto al lavoro, ad un ambiente salubre, all’assistenza in caso di necessità …
L’amministrazione pubblica è debitrice del rispetto di tali diritti e deve informare la propria azione al loro soddisfacimento.
Ciò comporta, tra l’altro, che la erogazione dei servizi fondamentali della persona, come la salute, l’acqua, i trasporti, l’istruzione …. non può essere delegata al mercato ed ai suoi movimenti speculativi, bensì garantita direttamente dall’Amministrazione pubblica.

LA PARTECIPAZIONE
Le attuali regole democratiche prevedono l’istituto della delega dei poteri, che originariamente appartiene al popolo, alle istituzioni che rappresentato i cittadini. Ciò tuttavia, non può e non deve significare cessione definitiva del diritto dei cittadini a partecipare della cosa pubblica. Partecipare significa, prima di tutto riaffermare il diritto all’autodeterminazione. I cittadini, anche, ma non solo, attraverso le istituzioni alle quali affidano l’amministrazione, conservano il diritto di decidere della propria appartenenza. Nonostante l’Amministrazione comunale non sia una sede deliberativa per molti dei diversi assetti istituzionali, tuttavia, con la sua sua azione, partecipa ad un processo di affermazione dell’autonomia. La partecipazione implica il diritto dei cittadini ad essere consultati nel momento delle scelte fondamentali che riguardano la vita della città. Implica il diritto alla creazione di organismi intermedi che consentano l’espressione della volontà popolare e, in taluni casi a realizzare forme di autogoverno compatibili con l’interesse collettivo che riguardino specifiche collettività territoriali o fondate su interessi comuni. Implica pertanto la disponibilità di strumenti (anche attraverso normazioni e pratiche innovative della sperimentata “democrazia partecipativa”), e strutture/spazi partecipativi, promossi e tutelati dall’amministrazione pubblica, che contribuiscono a renderla effettiva.

L’APPARTENENZA. SALVAGUARDIA DELLE PROPRIE CULTURE
La città, il suo territorio, la sua cultura, la sua aria, il suo mare, le sue strade, i suoi commerci appartengono ai suoi cittadini. La città evolve e si modifica, per un verso, per incontrollabili fenomeni esterni, di carattere economico, sociale, istituzionale, ma, per altro verso, come conseguenza delle scelte operate dai suoi amministratori.
Queste scelte, in grado di modificare le sembianze materiali ed immateriali della città, sono operate dai suoi amministratori. L’azione di governo della città deve essere effettuata in nome e per rispondere agli interessi dei propri cittadini e di chi la abita.
Poiché la città appartiene ai suoi cittadini, dovrà essere governata per rispondere al meglio alle loro aspirazioni collettive. Una città dove siano garantiti prima di tutto gli elementi fondamentali del vivere civile, a partire dalla qualità dell’aria, dell’igiene, della mobilità, l’istruzione, la salvaguardia della propria cultura, intese anche come volano per la creazione di opportunità che favoriscano l’attività economica ed il lavoro. Dovrà sempre essere chiaro che le politiche dell’Amministrazione dovranno sempre essere finalizzate alla edificazione non di una città da “vendere”, ma di una città da abitare.

LA SOLIDARIETA’
La città potrà vivere e svilupparsi solo se avrà capacità di aprirsi e di mostrare segni di solidarietà. Solidarietà interna, con i soggetti più deboli che richiedono maggiori attenzione e maggiori risorse nelle politiche sociali. Solidarietà territoriale, perché la città si apre all’area vasta e con essa condivide l’esigenza di fornire servizi adeguati che, non di rado, non possono essere forniti senza una forte collaborazione. Solidarietà con i nuovi cittadini, sia che arrivino dai paesi vicini che da altri Paesi, il cui contributo alla crescita, economica e culturale, della comunità è talora misconosciuto eppure essenziale e ricco di potenzialità, se ben governato e non lasciato a uno spontaneismo irresponsabile.
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Discorso sulla Costituzione
di Piero Calamandrei, 26 gennaio 1955

L’art.34 dice: “I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Eh! E se non hanno i mezzi? Allora nella nostra costituzione c’è un articolo che è il più importante di tutta la costituzione, il più impegnativo per noi che siamo al declinare, ma soprattutto per voi giovani che avete l’avvenire davanti a voi. Dice così: ”E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. E’ compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana: quindi dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare una scuola a tutti, dare a tutti gli uomini dignità di uomo. Soltanto quando questo sarà raggiunto, si potrà veramente dire che la formula contenuta nell’art. primo- “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro “- corrisponderà alla realtà. Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica perché una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto una uguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale, non è una democrazia in cui tutti i cittadini veramente siano messi in grado di concorrere alla vita della società, di portare il loro miglior contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i cittadini siano messe a contribuire a questo cammino, a questo progresso continuo di tutta la società. E allora voi capite da questo che la nostra costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte è una realtà. In parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere. Quanto lavoro avete da compiere! Quanto lavoro vi sta dinanzi!

È stato detto giustamente che le costituzioni sono anche delle polemiche, che negli articoli delle costituzioni c’è sempre anche se dissimulata dalla formulazione fredda delle disposizioni, una polemica. Questa polemica, di solito è una polemica contro il passato, contro il passato recente, contro il regime caduto da cui è venuto fuori il nuovo regime. Se voi leggete la parte della costituzione che si riferisce ai rapporti civili politici, ai diritti di libertà, voi sentirete continuamente la polemica contro quella che era la situazione prima della Repubblica, quando tutte queste libertà, che oggi sono elencate e riaffermate solennemente, erano sistematicamente disconosciute. Quindi, polemica nella parte dei diritti dell’uomo e del cittadino contro il passato. Ma c’è una parte della nostra costituzione che è una polemica contro il presente, contro la società presente. Perché quando l’art. 3 vi dice: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana” riconosce che questi ostacoli oggi vi sono di fatto e che bisogna rimuoverli. Dà un giudizio, la costituzione, un giudizio polemico, un giudizio negativo contro l’ordinamento sociale attuale, che bisogna modificare attraverso questo strumento di legalità, di trasformazione graduale, che la costituzione ha messo a disposizione dei cittadini italiani. Ma non è una costituzione immobile che abbia fissato un punto fermo, è una costituzione che apre le vie verso l’avvenire. Non voglio dire rivoluzionaria, perché per rivoluzione nel linguaggio comune s’intende qualche cosa che sovverte violentemente, ma è una costituzione rinnovatrice, progressiva, che mira alla trasformazione di questa società n cui può accadere che, anche quando ci sono, le libertà giuridiche e politiche siano rese inutili dalle disuguaglianze economiche dall’impossibilità per molti cittadini di essere persone e di accorgersi che dentro di loro c’è una fiamma spirituale che se fosse sviluppata in un regime di perequazione economica, potrebbe anche essa contribuire al progresso della società. Quindi, polemica contro il presente in cui viviamo e impegno di fare quanto è in noi per trasformare questa situazione presente.

Però, vedete, la costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La costituzione è un pezzo di carta: la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile, bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità. Per questo una delle offese che si fanno alla costituzione è l’indifferenza alla politica, l’indifferentismo politico che è -non qui, per fortuna, in questo uditorio, ma spesso in larghe categorie di giovani- una malattia dei giovani. ”La politica è una brutta cosa”, “che me ne importa della politica”: quando sento fare questo discorso, mi viene sempre in mente quella vecchia storiellina,, che qualcheduno di voi conoscerà, d quei due emigranti, due contadini, che traversavano l’oceano su un piroscafo traballante. Uno di questi contadini dormiva nella stiva e l’altro stava sul ponte e si accorgeva che c’era una gran burrasca con delle onde altissime e il piroscafo oscillava: E allora questo contadino impaurito domanda a un marinaio: “Ma siamo in pericolo?”, e questo dice: “Se continua questo mare, il bastimento fra mezz’ora affonda”. Allora lui corre nella stiva svegliare il compagno e dice: “Beppe, Beppe, Beppe, se continua questo mare, il bastimento fra mezz’ora affonda!”. Quello dice: ” Che me ne importa, non è mica mio!”. Questo è l’indifferentismo alla politica.

È così bello, è così comodo: la libertà c’è. Si vive in regime di libertà, c’è altre cose da fare che interessarsi alla politica. E lo so anch’io! Il mondo è così bello, ci sono tante cose belle da vedere, da godere, oltre che occuparsi di politica. La politica non è una piacevole cosa. Però la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni, e che io auguro a voi, giovani, di non sentire mai, e vi auguro di non trovarvi mai a sentire questo senso di angoscia, in quanto vi auguro di riuscire a creare voi le condizioni perché questo senso di angoscia non lo dobbiate provare mai, ricordandovi ogni giorno che sulla libertà bisogna vigilare, dando il proprio contributo alla vita politica. La costituzione, vedete, è l’affermazione scritta in questi articoli, che dal punto di vista letterario non sono belli, ma è l’affermazione solenne della solidarietà sociale, della solidarietà umana, della sorte comune, che se va a fondo, va a fondo per tutti questo bastimento. È la carta della propria libertà, la carta per ciascuno di noi della propria dignità di uomo. Io mi ricordo le prime elezioni dopo la caduta del fascismo, il 2 giugno 1946, questo popolo che da venticinque anni non aveva goduto le libertà civili e politiche, la prima volta che andò a votare dopo un periodo di orrori- il caos, la guerra civile, le lotte le guerre, gli incendi. Ricordo- io ero a Firenze, lo stesso è capitato qui- queste file di gente disciplinata davanti alle sezioni, disciplinata e lieta perché avevano la sensazione di aver ritrovato la propria dignità, questo dare il voto, questo portare la propria opinione per contribuire a creare questa opinione della comunità, questo essere padroni di noi, del proprio paese, del nostro paese, della nostra patria, della nostra terra, disporre noi delle nostre sorti, delle sorti del nostro paese.

Quindi, voi giovani alla costituzione dovete dare il vostro spirito, la vostra gioventù, farla vivere, sentirla come cosa vostra, metterci dentro il senso civico, la coscienza civica, rendersi conto- questa è una delle gioie della vita- rendersi conto che ognuno di noi nel mondo non è solo, che siamo in più, che siamo parte di un tutto, nei limiti dell’Italia e nel mondo. Ora vedete- io ho poco altro da dirvi-, in questa costituzione, di cui sentirete fare il commento nelle prossime conferenze, c’è dentro tutta la nostra storia, tutto il nostro passato. Tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre glorie son tutti sfociati in questi articoli. E a sapere intendere, dietro questi articoli ci si sentono delle voci lontane. Quando io leggo nell’art. 2, ”l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”, o quando leggo, nell’art. 11, “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”, la patria italiana in mezzo alle alte patrie, dico: ma questo è Mazzini; o quando io leggo, nell’art. 8, “tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge”, ma questo è Cavour; quando io leggo, nell’art. 5, “la Repubblica una e indivisibile riconosce e promuove le autonomie locali”, ma questo è Cattaneo; o quando, nell’art. 52, io leggo, a proposito delle forze armate, ”l’ordinamento delle forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica” esercito di popolo, ma questo è Garibaldi; e quando leggo, all’art. 27, “non è ammessa la pena di morte”, ma questo, o studenti milanesi, è Beccaria. Grandi voci lontane, grandi nomi lontani. Ma ci sono anche umili nomi, voci recenti. Quanto sangue e quanto dolore per arrivare a questa costituzione!

Dietro a ogni articolo di questa costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi, caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta. Quindi, quando vi ho detto che questa è una carta morta, no, non è una carta morta, questo è un testamento, un testamento di centomila morti. Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra costituzione.

Piero Calamandrei, 26 gennaio 1955
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IS MIRRIONIS: Le 5 DOMANDE AI CANDIDATI ALLA CARICA DI SINDACO

img_04295 DOMANDE AI CANDIDATI ALLA CARICA DI SINDACO

Angelo CREMONE, Francesca GHIRRA, Paolo TRUZZU

IS MIRRIONIS A CHI APPARTIENE IL FUTURO
1)- Quali impegni e azioni amministrative e quali altre iniziative per migliorare la qualità della vita nel quartiere e rigenerare edifici e spazi urbani a vantaggio della cittadinanza?

TOSSICODIPENDENZA-SPACCIO-VIOLENZA
2)- I ricorrenti blitz della polizia testimoniano che il fenomeno della tossicodipendenza in quartiere è drammaticamente presente. In un’intervista, Don Carlo Follesa, dichiarò che ormai dei padri di famiglia ammettono candidamente di ricorrere allo spaccio di droga per garantire un reddito di sussistenza per la propria famiglia e in certe zone si calcola che 1 casa su 3 è un market di spaccio. Per quanto nelle sue competenze, oltre alla doverosa repressione, come intende il futuro Sindaco contrastare, questo devastante fenomeno?
[segue]

ELEZIONI AMMINISTRATIVE 2019 PER IL RINNOVO DEL CONSIGLIO COMUNALE DI CAGLIARI CONFRONTO CON I CANDIDATI ALLA CARICA DI SINDACO

42b6d617-82d5-4d15-9210-bd55521e84e5CASA DEL QUARTIERE IS MIRRIONIS
TEATRO TSE VIA QUINTINO SELLA 1 – CAGLIARI

10 GIUGNO 2019 ore 19.00
ELEZIONI AMMINISTRATIVE 2019
PER IL RINNOVO DEL CONSIGLIO COMUNALE DI CAGLIARI

CONFRONTO CON I CANDIDATI ALLA CARICA DI SINDACO

Angelo CREMONE, Francesca GHIRRA, Paolo TRUZZU

Moderatore: Franco Meloni
Introduzione: Terenzio Calledda, Presidente CASA DEL QUARTIERE IS MIRRIONIS

DOCUMENTAZIONE SU… ITI

Approvati dalla Commissione Europea il PON Metro e il POR-FESR. A Cagliari la gestione di 55 milioni
16 luglio 2015, 07:48
Investimenti da 15 milioni di euro sui quartieri di Is Mirrionis e San Michele
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