Risultato della ricerca: EMILIO LUSSU
Sardegna Sardegna
Coraggio, tenacia e orizzonte: per un nuovo soggetto politico
di Fernando Codonesu
Il pungente articolo a firma di Amsicora comparso il 18 dicembre su Democraziaoggi in cui si ragiona sulla possibile convergenza tra Paolo Maninchedda e Mauro Pili, mi permette di intervenire ancora sul tema delle prossime elezioni regionali. Certo, Amsicora dall’alto della sua lunga storia ha gioco facile nel criticare alcune posizioni espresse dal duo Pili e Maninchedda e per certi aspetti non ha torto, ma io credo che ciò che è permesso ad Amsicora quale eroe della resistenza sarda contro la dominazione romana, non è permesso a tante persone come me che con le nostre limitate energie dobbiamo farci carico della fatica quotidiana della politica.
Una fatica, quella della politica, che ci impone una dose di generosità che non deve mai venir meno nella critica e nella proposta, al fine di smussare gli angoli sempre presenti in ciascuno di noi e che spesso diventano così preponderanti da condizionare persino le relazioni personali, figuriamoci se non condizionano i metodi propri di interazione e le relazioni tra le forze politiche.
Negli ultimi giorni, su input del Comitato di iniziativa costituzionale e statutaria (CoStat), a seguito dell’ultimo positivo confronto tra Murgia, Maninchedda, Zuncheddu, Mirasola, Deriu, ho tentato inutilmente di organizzare un altro dibattito al fine di una potenziale convergenza contro il centrodestra a trazione Salvini, tra i candidati presidente Zedda, Maninchedda, Murgia e Desogus. Dopo un’iniziale disponibilità Zedda si è ritirato senza alcuna spiegazione (purtroppo questo è un malcostume noto e sperimentato in più occasioni), Maninchedda ha spiegato che non avrebbe partecipato e a questo punto abbiamo rinunciato all’iniziativa per mancanza di interlocutori.
Detto questo, la fatica della politica ci impone di continuare a individuare convergenze possibili fin da subito e per quanto mi riguarda, ma non da oggi, il mio interesse si concentra sulla vasta area delle forze e dei movimenti identitari e indipendentisti che possono e dovrebbero imparare a convivere, rinunciando ognuno a qualcosa della propria parte per far fare un grande passo in avanti a tutti.
Le soggettività in campo
Il PDS vede nel duo Maninchedda-Sedda le figure di punta rappresentative come elaborazione politica e allo stesso tempo come “gestori” del partito e delle istituzioni. Sulla carta questo partito, anche a seguito dell’esperienza di cinque anni di maggioranza, dovrebbe (almeno doveva) avere la possibilità del superamento della soglia del 5%. Non mi interessa qui entrare nel merito di specifiche posizioni che potranno essere analizzate e discusse a tempo debito e negli spazi dedicati, ma dirò necessariamente qualcosa sulla recente consultazione delle Primarias che hanno costituito la più grande prova organizzativa del PDS di questi ultimi mesi. Un risultato che mette in forse il superamento della fatidica soglia del 5%, o almeno non la rende più facilmente a portata di mano e questo sarebbe, dal mio punto di vista, un ulteriore problema.
Sardi Liberi, la neo proposta di Mauro Pili, si è arricchita della qualificata presenza di Carta proveniente dal PSdAZ e di Giovanni Columbu, già presidente di quel partito. Di Mauro Pili conosciamo l’escursus politico e il suo passaggio nel centrodestra fino a diventare presidente della Giunta regionale per conto di Forza Italia.
Negli ultimi 10 anni è anche diventato un protagonista delle lotte della Sardegna e di questo bisogna dargli atto. L’innesto di Carta e Columbu aggiungono spessore e qualità al suo schieramento e se consideriamo il risultato delle precedenti elezioni che è stato ampiamente al di sopra della soglia prevista per l’unica lista, si trova nella possibilità concreta di superare lo sbarramento previsto, ancorché quest’ultimo non vada visto come un risultato acquisito
AutodetermiNatzione, dopo la negativa prestazione ottenuta nella recente consultazione politica del 4 marzo, allora coordinata da Anthony Muroni che, ricordo a tutti, da direttore dell’Unione Sarda è stato uno degli artefici principali del successo della più grande manifestazione antimilitarista dagli anni ’80 a questa parte svoltasi a Capo Frasca nel 2016, è ora in campo con Andrea Murgia, una persona competente, con un percorso politico riconosciuto e apprezzato. Di AutodetermiNatzione so che c’è un candidato Presidente, ancorché, mi ricorda qualcuno, non è capo politico, che deve quindi continuamente rispondere ad un Tavolo nazionale costituito, si fa per dire, dagli azionisti di controllo. Giacché ci siamo, mi chiedo anche se in tale Tavolo ci siano soggetti che si ritengono azionisti di maggioranza che quindi contano più di altri, e fin qui, nessuno scandalo, non ci sarebbe niente di male. Ma a casa mia, quando ci sono azionisti di maggioranza e si nomina un presidente di un Consiglio di Amministrazione (CdA) e un Amministratore delegato normalmente si affidano delle deleghe e la delega fondamentale è la rappresentanza della compagine aziendale così come del progetto politico. Il Presidente e l’AD rispondono prima del CdA delle decisioni aziendali e, per analogia, così dovrebbe essere per il portavoce o per i candidati Presidente. Così succede dalle nostre parti e nella prassi quotidiana, oltre che nelle norme giurisprudenziali, altrimenti si finisce col mettere in secondo piano il Conte di turno, formalmente Presidente del Consiglio, per dover telefonare ai Di Maio e Salvini quali azionisti unici, nemmeno di maggioranza relativa, quali “proprietari” del governo.
Se è questo il caso, il progetto di AutodetermiNatzione rischia di fare poca strada: c’è bisogno di chiarezza perché se si vuole lavorare per una convergenza di più forze politiche, movimenti e comitati presenti sul territorio è dirimente che il candidato Presidente sia riconosciuto come garante del progetto e decisore di ultima istanza, senza dover chiedere permesso al Tavolo interno, altrimenti, come già detto, viene continuamente bypassato, se ne sminuisce il ruolo e il progetto muore. Personalmente sono impegnato nell’allargamento del progetto di AutodetermiNatzione al fine del superamento della soglia di sbarramento del 5%, ma vorrei maggiore chiarezza e una trasparenza nelle decisioni perché un altro risultato negativo nella consultazione elettorale e il ricorso ad un altro capro espiatorio da immolare, questa volta non sarà accettato e tanto meno perdonato dall’elettorato. E parlare di un progetto politico che prescinde dal risultato elettorale, per quanto meritorio e politicamente nobile, nella situazione attuale lascia il tempo che trova.
Questa consultazione elettorale non può essere persa per nessuna ragione: tutti i tre raggruppamenti devono superare la soglia di sbarramento.
Primarias
Le Primarias proposte dal PDS hanno avuto il merito di proporre un candidato governatore Paolo Maninchedda sulla base di un consenso bulgaro dell’85% e hanno incominciato a proporre il quesito sulla “nazione sarda”, ancorché limitato ad elettori, simpatizzanti e no, del PDS.
I risultati possono essere valutati in maniera molto differente. Dal punto di vista del PDS si può parlare di risultato straordinario, ma se consideriamo i numeri personalmente ritengo che si debba parlare di debolezza e di fragilità della proposta, nonché di isolamento pesante del partito.
Il numero di partecipanti alla consultazione, poco più di 20.000, è perfettamente in linea con i voti ottenuti nelle precedenti elezioni regionali equivalenti a 18.188. Ma nel frattempo ci sono stati cinque anni di partecipazione alla Giunta Pigliaru anche con responsabilità assessoriali, una presenza continua nei media e, in quest’ultimo periodo, un grande risalto proprio della proposta delle Primarias che, ricordo, erano aperte e rivolte a tutti gli elettori sardi. Questo ha permesso a molti sardi di esprimersi anche non riconoscendosi nell’esperienza del PDS (io sono tra questi) al punto che hanno dichiarato il loro voto favorevole alla nazione sarda persone tra le più diverse, compresi noti esponenti del centrodestra e il vicepresidente della Giunta, Paci.
Personalmente ho votato come a suo tempo ho votato per le primarie del PD, pur non avendo mai fatto parte non solo di quel partito ma neanche, a suo tempo, del suo partito progenitore, il PCI. Ho sempre votato per le primarie perché le ho ritenute e le ritengo espressione della democrazia e quindi ho espresso il mio voto anche per le Primarias.
In effetti mi aspettavo non meno del doppio dei votanti, da 40.000 a 50.000 voti, che avrebbero permesso di parlare di una facile possibilità di superamento della soglia del 5% alle prossime elezioni regionali e soprattutto di una riconosciuta capacità di attrazione esercitata dal PDS sul tema della “nazione” come collante di quella vasta parte di popolo sardo che si sente nazione. In passato si è detto che questa area poteva valere fino al 40%, ma se ci basiamo sui voti espressi in diverse consultazioni elettorali recenti a favore delle varie forze politiche che si rifanno ai temi dell’identità e dell’autodeterminazione si arriva e si può superare abbondamente il 20%. Proprio perché i numeri sono questi, il risultato delle Primarias deve porre innanzitutto al duo Sedda e Maninchedda la constatazione di un isolamento di fatto che si traduce in debolezza strategica della proposta.
A mio avviso è necessario un cambio di rotta.
Da qui la necessità di non essere autoreferenziali perché in politica questo è un peccato mortale, ma di aprirsi alle altre forze e raggruppamenti di area, per concorrere a formare un unico schieramento e un’unica forza politica, magari dopo le elezioni e con una lavoro comune dall’opposizione.
Il consiglio che mi permetto di dare, ancorché non richiesto, se non lo avessero ancora capito, è che non si può più dire “le nostre porte sono aperte”, perché il risultato delle Primarias fa capire incontrovertibilmente che non c’è alcuna intenzione di entrare in quella casa, perché il progetto e il disegno degli spazi interni è stato fatto da altri, cioè da Paolo e Franciscu, ma si è disposti a progettarne una nuova, con un altro impianto strutturale e con spazi interni da ridisegnare in modo che tutti vi possano stare a proprio agio.
Osservo che l’area politica dell’autodeterminazione e dell’autogoverno vale oggi come cinque anni fa circa 160.000 voti, ovvero oltre il 10% del corpo elettorale che è pari a 1.480.000 e circa il 20% dei votanti, almeno se ci basiamo sul numero dei votanti delle precedenti elezioni regionali e delle recenti elezioni politiche del 4 marzo, rispettivamente 774.000 e 896.000 votanti.
Oggi questa vasta area di elettorato è così divisa che il voto si disperde in una numerosità di formazioni politiche che, a mio avviso, non trovano giustificazione se si analizzano gli obiettivi programmatici a medio e lungo termine di ciascuna formazione in campo e si ragiona sulla loro operatività dell’azione politica. Infatti, se si ragiona sui temi del lavoro, dello sviluppo locale, della sanità, dei trasporti, del decentramento istituzionale ed amministrativo, delle servitù militari ed energetiche, ecc., gli obiettivi, le analisi e le proposte sono identiche al punto che anche gli addetti ai lavori fanno fatica a trovare eventuali differenze.
Anche il grande obiettivo dell’autodeterminazione e la consapevolezza dell’essere nazione, ancorché “mancata” come ci ricorda Emilio Lussu, e quindi la necessità di individuare un realistico percorso democratico all’interno del presente stato unitario, con la Costituzione vigente e con lo Statuto che abbiamo il dovere di realizzare pienamente, consapevoli come siamo che così non è stato nel corso di questi decenni, sono ampiamente sentiti come facenti parte della nostra identità di sardi. Ma su questo, è inutile negarlo, ci sono dei distinguo tra le varie compagini e c’è qualche fuga in avanti che nasce molto da un protagonismo personale, che continuo a riconoscere come sano e positivo, ma non quando si traduce in autoreferenzialità perché alla fine non fa fare passi avanti alla causa del riconoscimento della nazione sarda. Una nazione non è un sentimento o una consapevolezza espressa con un voto e tanto meno con un “clic” in una piccola consultazione elettorale di parte. Vediamola come un seme di prova e non vale, spero, citare la parabola del buon seminatore, nota sicuramente a Maninchedda e a Sedda, e più che mai valida e necessaria.
Credo che sia indispensabile chiarirsi bene le idee sul concetto di nazione e su quello di Stato e come le due cose vadano viste insieme, aggiornando anche l’elaborazione politica fatta dai grandi pensatori e protagonisti della politica del passato. A me, per esempio, piace pensare alla Sardegna federata all’Italia e interna all’Unione europea. Ma siamo già dentro uno Stato unitario e centralizzato e non si è mai visto nella storia che uno stato unitario si trasformi in uno Stato federale. Certo tutto è possibile. Queste costruzioni statuali le fanno gli uomini e ogni periodo storico ha riconosciuto esigenze così variegate che non si può escludere neanche che in un prossimo futuro ci possa essere una nazione e uno stato sardo in un’Italia federale e all’interno di un’Europa delle Regioni. Ma non mi sembra questa l’aria e se possiamo dire che tutto è possibile, bisogna essere realisti e non scambiare i propri sogni con la realtà.
Certo, come ci ricordano diversi indipendentisti, ci sono tante nazioni senza Stato, ma su questo c’è molto da fare proprio perché qui da noi uno Stato c’è già, con una Costituzione ben definita entro la cui cornice troviamo un ottimo riparo al punto da definirla la nostra casa e allora bisogna che quando si parla seriamente di nazione e si vuole porre l’obbiettivo di farne un progetto politico, bisogna essere consapevoli che far vivere un’idea e un progetto di nazione che conviva con questo Stato e che abbia una sua collocazione in Europa, in quegli Stati Uniti dell’Europa la cui realizzazione sembra allontanarsi sempre di più dall’orizzonte, richiede un impegno senza pari, con molta umiltà, dedizione, tenacia e coraggio. Altro che una piccola consultazione online.
Un progetto di nazione non prevede scorciatoie, ma richiede un lungo percorso tra le nostre popolazioni e i nostri territori affinché diventi maggioranza in Sardegna.
E’ su questo che bisogna lavorare e ciò impone la necessità di un’intelligenza collettiva e plurale da costruire, un’intelligenza collettiva che raccolga il meglio della classe dirigente presente nelle varie formazioni politiche, senza pretese autodefinizioni leaderistiche che possono valere a casa propria, ma non quando si intende lavorare per un unico progetto, quello di riunire tutte le forze identitarie e indipendentiste in un unico soggetto politico.
Insomma, a fronte di un’area potenziale del 20%, con tre schieramenti in campo si rischia che non ci sia l’auspicata rappresentanza. Sono convinto che sia necessario che le persone citate come le tante altre comunque presenti nelle lotte sociali, nei comitati, nei movimenti, nel campo della cultura abbiano il dovere della fatica della politica, anche con passi laterali e qualche vota indietro, coraggio, tenacia e con un orizzonte condiviso per concorrere alla costruzione di un unico soggetto politico che rappresenti tutta questa area e possa fungere da catalizzatore anche per quell’altra metà dell’elettorato sardo che da tempo non partecipa più al voto.
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Con AutodetermiNatzione si compatta il fronte di una forza alternativa che costruisce un progetto partecipato per il governo della Sardegna
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Cagliari, 18 dicembre 2018
Riceviamo e pubblichiamo volentieri il comunicato stampa che da conto del processo di unità politica ed elettorale di forze vitali per il futuro della nostra patria sarda.
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AutodetermiNatzione, un progetto per la Sardegna che diventa ogni giorno più largo e plurale
Oggi sono state poste le basi per un allargamento del progetto di Autodeterminatzione oltre la contingenza elettorale. Con la convergenza di Sardigna Libera e di larga parte di Sinistra italiana significativamente rappresentate da Claudia Zuncheddu e Roberto Mirasola, AutodetermiNatzione fa un passo avanti nella costruzione di una vasto fronte popolare che intende concorrere alle prossime elezioni regionali per l’affermazione di un’idea di Sardegna e del nostro popolo che mette al centro la possibilità del riscatto dei nostri territori.
Un progetto che ha tutte le possibilità di superare la soglia del 5% per avere i propri rappresentanti nel Consiglio regionale.
Ci rivolgiamo con convinzione a tutti i Comitati presenti sul territorio per consentire al nostro progetto politico di diventare ancora più forte, plurale e rappresentativo.
Ci rivolgiamo alle organizzazioni e raggruppamenti politici come Rifondazione, Comunisti italiani e Potere al popolo presenti in Sardegna ai quali chiediamo di unirsi al progetto di AutodetermiNatzione, quale casa comune in grado di rappresentare al meglio la fusione delle aspirazioni del nostro popolo di riferimento, una casa basata su pilastri solidi di cui fanno già parte soggetti istituzionali già presentatisi in elezioni precedenti, movimenti politici attivi da anni nei territori della nostra isola, esponenti della cultura e del mondo democratico.
Una casa che può diventare ancora più larga e più grande.
Abbiamo il dovere di costruire un fronte popolare compatto, forte, rappresentativo e plurale dove vengano salvaguardate le identità e le storie di ciascuna componente, ma che allo stesso intendano concorrere convintamente a scrivere e determinare un’altra storia, un altro percorso politico di riscatto e con una reale prospettiva di sviluppo del nostro popolo, contando sulle nostre forze e mettendo la Sardegna al centro della nostra azione e delle nostre energie.
Al centro dei nostri interessi vi sono la rappresentazione nelle istituzioni di tutti i Comitati e le lotte popolari che in questi orribili 5 anni di giunta Pugliaru si sono battuti contro la politica centralizzatrice della Giunta Pigliaru, di totale asservimento alle decisioni romane e di negazione dello sviluppo locale dei territori. Una politica folle e deleteria rappresentata innanzitutto dalla privatizzazione della sanità pubblica, la follia dell’azienda unica della salute, i 60 milioni di euro dei nostri soldi dati al Mater Olbia a discapito degli ospedali sardi, il ridimensionamento dei presidi ospedalieri territoriali: una politica sanitaria di questo centrosinistra che ha portato di fatto alla negazione del diritto alla salute.
Intendiamo dar voce e rappresentanza a tutto quel ricco arcipelago di comitati e assemblee spontanee che hanno continuato a difendere l’ambiente, contro il tentativo della nuova legge urbanistica voluta dai cementificatori e dal PD, a difendere il mondo della terra e delle campagne con tutto ciò che caratterizza il settore agroalimentare, contro la vergogna dell’accordo truffa firmato da Pigliaru sulle servitù militari, per il lavoro che può nascere a partire dalla messa in sicurezza del nostro territorio, dalle opere di bonifica ora più che mai necessarie, dall’innovazione tecnologica, da un mondo delle imprese che sia basato soprattutto sui nostri bisogni e su produzioni sostenibili sul mercato e nel nostro ambiente di vita.
AutodetermiNatzione - Andrea Murgia, candidato Presidente
Sardigna Libera - Claudia Zuncheddu
Sinistra Italiana - Roberto Mirasola
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Continua PazzaIdea
- Approfondimenti.
- Il Programma completo 2018.
Oggi
domenica 25 novembre
[segue dettaglio programma odierno]
Ci sarebbe ancora tempo per dare alla Sardegna una legge elettorale decente? Sì se i consiglieri regionali avessero coraggio e spirito democratico!
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LEGGE ELETTORALE SARDA: il tempo è passato inutilmente, ma ancora c’è tempo!
A proposito della necessità di una legge elettorale sarda che sostituisca quella schifosa vigente (la peggiore legge elettorale tra quelle in vigore nelle regioni italiane), riproponiamo un articolo di Aladinews del 19 novembre 2017.
di Franco Meloni.
Ricordate la vicenda della formazione dello statuto sardo quando Emilio Lussu e Mario Berlinguer, preoccupati dei ritardi della Consulta sarda nella redazione del testo statutario, proposero al governo di estendere alla Sardegna lo statuto che era stato ottenuto dalla Sicilia? Ma, nonostante la disponibilità governativa di accedere a tale richiesta, i consultori sardi rifiutarono sdegnosamente l’idea di uno statuto “concesso dall’alto”. Pertanto non se ne fece nulla. Sapete come andò a finire: il 31 gennaio 1948 – in articulo mortis, cioè allo scadere definitivo del suo mandato – l’Assemblea Costituente approvò lo Statuto proposto dalla Consulta sarda, dotato di minori competenze rispetto a quelle riconosciute alla regione Sicilia.
Tale vicenda mi è tornata in mente rispetto alla pressante richiesta del Comitato d’Iniziativa costituzionale e statutaria di dotare la Sardegna di una nuova legge elettorale, che sostituisca quella indecente attualmente vigente. Stiamo parlando evidentemente di due questioni diverse, ma con analogie nel metodo proposto e nelle conclusioni, che così sintetizziamo: Cari consiglieri regionali sardi, se non ce la fate a proporre una legge elettorale che garantisca la rappresentatività democratica dei sardi, adottate la legge siciliana, con alcune importanti correzioni che la facciano corrispondere sostanzialmente a tale scopo. Infatti la legge elettorale siciliana, con alcune importanti modifiche, può corrispondere nella sostanza alle indicazioni contenute nell’apposito documento di principi formulato dal Comitato d’Iniziativa costituzionale e statutaria, a cui rimando.
Per spiegare in dettaglio questa proposta di seguito riporto gli interventi di Andrea Pubusa e di Gianni Pisanu, rispettivamente coordinatore e componente del CoStat.
(segue)
Michele Columbu
Il 10 luglio del 2012 ci lasciava Michele Columbu, gran padre nobile del Sardismo. Un gigante intellettuale e politico.
Nella foto sopra, a casa sua a Capitana, ove ragionavamo di politica ma soprattutto di storia, cultura, letteratura e lingua sarda (Francesco Casula).
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Ricordando Michele Columbu a 6 anni dalla sua scomparsa.
di Francesco Casula
[segue]
12° edizione della Giornata Mondiale del Rifugiato
Il Progetto SPRAR “Accoglienza Metropolitana” (ex “Emilio Lussu”) è lieto di invitarvi alla 12° edizione della Giornata Mondiale del Rifugiato.
L’iniziativa si svolgerà OGGI venerdì 22 giugno dalle ore 18.30 presso la Comunità La Collina a Serdiana.
Il giornalista Vito Biolchini dialogherà con due celebri autori del fumetto italiano sul tema del viaggio.
Bepi Vigna partirà dal mito del viaggio per eccellenza, l’Odissea, per raccontare una storia fantastica, un’avventura interiore dai risvolti inediti, offrendo una personale rilettura di una delle più celebri e archetipiche storie dell’Occidente.
Lelio Bonaccorso racconterà invece un altro tipo di viaggio, reale e non fantastico, ovvero un reportage a fumetti che descrive la sua personale esperienza a bordo di una nave di una ONG, impegnata in un’operazione di soccorso di migranti nel Mediterraneo.
Giornata Mondiale del Rifugiato
Il Progetto SPRAR “Accoglienza Metropolitana” (ex “Emilio Lussu”) è lieto di invitarvi alla 12° edizione della Giornata Mondiale del Rifugiato.
L’iniziativa si svolgerà venerdì 22 giugno dalle ore 18.30 presso la Comunità La Collina a Serdiana.
Il giornalista Vito Biolchini dialogherà con due celebri autori del fumetto italiano sul tema del viaggio.
Bepi Vigna partirà dal mito del viaggio per eccellenza, l’Odissea, per raccontare una storia fantastica, un’avventura interiore dai risvolti inediti, offrendo una personale rilettura di una delle più celebri e archetipiche storie dell’Occidente.
Lelio Bonaccorso racconterà invece un altro tipo di viaggio, reale e non fantastico, ovvero un reportage a fumetti che descrive la sua personale esperienza a bordo di una nave di una ONG, impegnata in un’operazione di soccorso di migranti nel Mediterraneo.
Celebrazioni ufficiali per il centenario della conclusione della Grande Guerra. Il sindaco di Villanovaforru, contro la retorica patriottarda sulla Grande Guerra
Maurizio Onnis, sindaco di Villanovaforru, contro la retorica patriottarda sulla Grande Guerra. “Villanovaforru non aderirà all’iniziativa e invito i sindaci degli altri Comuni sardi a sottrarsi a una strumentalizzazione così smaccata. Noi non siamo e non possiamo essere ingranaggi passivi di una storia dettata dall’alto”
di Francesco Casula
Scrive Onnis: ”Dalla prefettura, ricevo un invito. Partecipare a un progetto particolare. Inviare a Biella una pietra di Villanovaforru, con sopra inciso il nome del paese e il numero dei nostri caduti durante la Prima guerra mondiale. La pietra, assieme a molte altre provenienti dai Comuni del Piemonte e della Sardegna, deve pavimentare l’area di accesso al Nuraghe Chervu, alle porte della città. Il tutto nell’ambito delle celebrazioni ufficiali per il centenario della conclusione della Grande Guerra, a suggello del “forte legame” tra Piemonte e Sardegna, a memoria del sacrificio dei fanti della Brigata Sassari.
Ed è come se d’improvviso tutto ciò che sento dissonante nella retorica dell’italianità si concentrasse: stesso luogo, stesso tempo, stessi interpreti.
L’invito, rivolto a tutti i sindaci, arriva dalla prefettura: non a caso, l’organo di controllo e di pressione dello Stato sui territori periferici. Il Nuraghe Chervu, finto nuraghe in territorio piemontese, è il simbolo perfetto della banalizzazione della nostra storia. Il Nuraghe Chervu avvolto nella fascia tricolore e attorniato da sardi in abito tradizionale (già visto) è il simbolo perfetto dell’inserimento della nostra storia nella narrazione nazionalista governativa. Abbondanti testimonianze mostrano che la fanteria sarda combatté per una guerra che non sentiva sua e di cui non coglieva significato e portata storica. Tra Piemonte e Sardegna vi è certo stato un “forte legame”, ma di dominio e sudditanza.
Il centenario della fine della Grande Guerra diventa così il culmine del processo di normalizzazione della nostra vicenda, inserita a forza e in modo posticcio nella cornice della più grande e benevola vicenda italiana.
Villanovaforru non aderirà all’iniziativa e invito i sindaci degli altri Comuni sardi a sottrarsi a una strumentalizzazione così smaccata. Noi non siamo e non possiamo essere ingranaggi passivi di una storia dettata dall’alto”.
Ebbene la storia gli dà ragione.
[segue]
Sa die de Sa Sardinia
(RAS) Sa die de Sa Sardigna
Domani, Sabato 28 aprile 2018, ricorre la festa di “Sa die de sa Sardigna”, istituita dal Consiglio regionale della Sardegna con Legge Regionale n. 44 del 14 settembre 1993, in ricordo della sommossa dei vespri sardi del 28 aprile 1794.
Il programma prevede la celebrazione a Palazzo Viceregio e la messa solenne in Cattedrale (piazza Palazzo) a partire dalle ore 9. Nel pomeriggio sono previste diverse attività culturali e della tradizione presso l’Exma (via San Lucifero, 71).
Scarica la locandina [file.pdf]
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“SA DIE DE SA SARDIGNA” A SASSARI: VENERDI’ 27 APRILE SPETTACOLO ITINERANTE
A Sassari, venerdì 27 aprile, alla vigilia di Sa die de sa Sardigna e nell’ambito delle iniziative promosse per questa ricorrenza, la compagnia “Arza Teatro”, diretta da Romano Foddai, proporrà uno spettacolo itinerante che avrà inizio alle ore 18 in piazza Santa Caterina, proseguirà in piazza del Comune e si concluderà in piazza Duomo.
25 aprile
Le iniziative del Comitato 25 aprile per la Liberazione dal nazifascismo, su SardiniaPost e comunicato Anpi.
Oggi martedì 27 febbraio 2018
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Emilio Lussu ieri si è rivoltato nella tomba, irritato!
27 Febbraio 2018
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Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
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La storia non si cancella
Prima Guerra mondiale, Vittorio Emanuele III e il colpo di stato.
di Francesco Casula
La salma di Vittorio Emanuele III, il 17 dicembre scorso è ritornata in Italia. Con il beneplacito del Governo Gentiloni e del Presidente della Repubblica Mattarella. Con un volo di stato. Ovvero pagato dai contribuenti. Una scelta sciagurata. Una vergogna. Dimenticandosi della politica funesta di Sciaboletta, “le cui colpe – si ricorda in un bell’articolo su Il Manifesto – sono ben antecedenti alle infami leggi razziali del 1938: in sintesi, la sua intera carriera politica è stata all’insegna del tradimento degli interessi della nazione, della volontà del suo popolo, degli stessi orientamenti politici del Parlamento. Nel maggio 1915 egli firmò l’entrata in guerra dell’Italia, contro il volere della larga maggioranza del Parlamento, d’accordo soltanto con il primo ministro (Salandra) e il responsabile degli Esteri (Sonnino). Si trattò di un vero e proprio colpo di Stato: il primo di una serie, come ricordò il grande Luigi Salvatorelli”1.
Ma vediamo, analiticamente come andarono le cose.
Dopo i fatti di Saraievo e la dichiarazione di guerra dell’impero austro-ungarico, l’Italia assume una posizione neutralista, firmando la sua dichiarazione ufficiale il 3 agosto 1914 . “Essa – ricorda Salvatorelli – riscosse consenso pressoché generale nella opinione pubblica e nel mondo politico” 2 .
Il Parlamento, per la stragrande maggioranza, era contrario alla guerra. Le elezioni del 1913 avevano sancito infatti la vittoria dei liberali, socialisti e cattolici, tutti neutralisti, con questo risultato: Unione liberale (270 seggi con il 47,62%); Partito Socialista Italiano (52 seggi con il 17,62%); Unione elettorale cattolica italiana (20 seggi con il 4,23%).
Dopo la dichiarazione di neutralità il Governo inizia la trattativa con l’Austria, che è disposta a cedere all’Italia il Trentino. Ma forse anche di più. Giolitti infatti il 1 febbraio 1915 in una pubblica dichiarazione ebbe a sostenere che “nelle attuali condizioni dell’Europa, parecchio possa ottenersi senza una guerra” 3. (Segue)
Decadenza delle classi dirigenti e “dipendentismo”, ecco la nuova Questione sarda
Decadenza delle classi dirigenti e “dipendentismo”, ecco la nuova Questione sarda
4 gennaio 2018 Pronto intervento
Paolo Fadda su SardiniaPost.
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Che si sia di fronte nuovamente ad una “questione sarda”, come problema dell’arretratezza economica dalla nostra Isola, non vi possono essere molti dubbi. Certo, rispetto a quel che sostenevano in passato il Tuveri ed il Lei-Spano, appare forse mutata la sua sostanza, ma ne rimangono sostanzialmente immutate le distanze dalle regioni continentali in tema di progresso e benessere generali. In più sembrerebbe essersi ancor più aggravata la dipendenza dalle economie esterne per via d’una bilancia commerciale che vede le importazioni prevalere nettamente sulle esportazioni, determinando un’effettiva sudditanza dalle risorse e dai trasferimenti provenienti dall’esterno.
Quel che assimila comunque le due condizioni sta proprio in quel comune riferimento ai ritardi su quel che avviene all’al di là del mare, come raffronto, subordinazione ed inferiorità. Perché, ora come allora, si è determinata quella distanza che gli economisti di scuola anglosassone definiscono backwardness, cioè arretratezza economica.
Un ritardo che era già stato affrontato un secolo fa con le leggi “speciali” del ministro Cocco-Ortu e, successivamente, con la legislazione “straordinaria” della Casmez e della Rinascita: un obiettivo, peraltro, lasciato incompiuto, o mancato, anche perché punteggiato da frequenti fermate e deviazioni. Per cui oggi è certamente corretto sostenere che continui a permanere una “questione sarda” da affrontare, in modo da colmare quell’attardamento che penalizza e mortifica l’Isola nei confronti delle economie continentali.
Proprio Pietrino Soddu, autorevole politico della stagione della Rinascita, ha sottolineato recentemente, in un suo lucido intervento, come continui a permanere l’attualità della “questione”, come segnale del forte distacco esistente, in termini di progresso, tra la Sardegna ed il resto del Paese. Perché, a suo giudizio, nell’Isola si va aggravando «la dipendenza mentre è diminuita l’autonomia in tutti i campi, con la perdita del controllo dell’apparato bancario e del sistema informativo, e con il progressivo indebolimento delle classi dirigenti e della specificità delle sue strutture economiche. Con il pericolo di divenire sempre più una passiva destinataria delle decisioni altrui».
Infatti, a causa della perdita di questi fondamentali asset socio-economici, la “questione” va assumendo, per noi sardi, il carattere di un handicap di natura strutturale che, se non affrontato decisamente, continuerà a condizionare pesantemente il nostro futuro prossimo venturo. Proprio perché oggi, assai più di ieri e ieri l’altro, ha posto di fronte i fattori più antichi e resistenti della tradizione isolana (quelli che si identificano in “su connottu”) con i grandi mutamenti di una incalzante modernità avvenuti nel mondo. Una contrapposizione che ha provocato, e continua a provocare, dei gravi ritardi nell’inserimento dell’economia sarda nel grande scacchiere di mercati divenuti sempre più globali e competitivi. Quasi che l’economia sarda intenda affrontare i suoi competitors economici forniti di micidiali bazooka e kalashnikov con i soli suoi antiquati fucili “modello ’91” e le inutili “guspinesi”. O che la nostra massima velocità verso il progresso sia rimasta quella lumacosa del nostro “pendolino” in raffronto con quella delle gazzelle continentali del tipo “freccia rossa” o TGV francese!
Infatti, l’economia sarda continua a soffrire di una cronica lentezza nell’innovarsi e nel progredire. Perché continua a ricercare un ritorno ad antiche felicità aurorali (mai esistite) nella mitica e fantasiosa Ichnusa, in alternativa all’esigenza di dover realizzare innovativi modelli di civiltà assai più prodighi di benessere sociale. Basti pensare che il reddito medio di un sardo è oggi poco più della metà d’un lombardo e che il nostro Pil per abitante (cioè la capacità di produrre ricchezza) diventa sempre più distante da quello medio del Paese, avendo allungato il distacco di oltre 10 punti percentuali sul dato degli anni ’80.
C’è stata invero della crescita sul fronte dei consumi, ma al di fuori del sistema produttivo, come andamento in progressione del redditi individuali, per via principalmente dell’espansione abnorme del pubblico impiego, passato da 1,5 a 3,4 dipendenti ogni 10 sardi, e della distribuzione commerciale, che ha più che doppiato i suoi organici, sfiorando il 47 per cento. Un’evidente dicotomia rispetto ad agricoltura e industria che avrebbero visto invece diminuire di un terzo abbondante i propri addetti, oggi a non più di 1,9 occupati ogni 10 sardi. A conferma di quel “dipendentismo” strisciante che pare essere oggi il maleficio principale della nostra “questione”.
I germi che l’hanno provocato sono essenzialmente due: il primo può essere individuato nell’isolamento geografico, cioè nelle forti diseconomie che penalizzano di un buon 25-30 per cento il reddito delle imprese produttrici sarde nei confronti dei loro competitors continentali; il secondo, ma non proprio un second-best, nel progressivo decadimento delle sue classi dirigenti, ovunque siano situate: nella politica, negli affari, nel sindacato e nella cultura. Ci sarebbe poi, come aggiunta, il fatto che i centri decisionali degli attuali agenti di sviluppo, da quelli finanziari a quelli industriali, siano locati ormai tutti al di fuori dell’isola. Per cui oggi i problemi sardi vengono affidati a soluzioni assunte a Modena o a Milano, come a Roma o a Zurigo o Mosca, da personaggi spesso molto “distratti o disattenti”, di fatto lontani, anche per proprio interesse, da quel che serve all’Isola.
È anche questo l’effetto di quel “dipendentismo” vizioso che va caratterizzando e mortificando l’economia isolana, e che è la controfaccia, o l’opposto, di quelle capacità d’autogoverno e di autosviluppo che erano state il sogno, e la speranza, di una pattuglia di grandi nostri conterranei, da Attilio Deffenu a Camillo Bellieni e a Emilio Lussu. E che s’era poi realizzato con quell’Autonomia “speciale” conquistata poi, tra non poche difficoltà e diffidenze, proprio ottant’anni or sono all’interno della Costituzione repubblicana.
Per risolvere la “questione” occorrerebbe quindi fare ricorso ad una nuova ingegneria politica dello sviluppo, che sia capace di rimuovere quei vincoli a cui s’è fatto prima riferimento. Innanzitutto affrontando il problema dell’insularità che non è soltanto un problema di mobilità facilitata per persone e merci: è un problema, anche e soprattutto, di sottocultura, nel senso che richiede, per superarlo, di un’infusione massiccia di conoscenze, di risorse e di virtuose “connection” con centri esterni di produzione e di ricerca.
A seguire vi è la debolezza e l’inadeguatezza delle classi dirigenti, ed è certamente il problema più grave. S’impone la volontà di dover cambiare, o almeno di tentare attraverso alcuni passaggi: selezionando innanzitutto delle élite che abbiano alto il senso della responsabilità civica e del rigore etico prima che il tornaconto privato e l’ossequio verso i politici; facendo sì che le selezioni premino competenze e meriti e non favori clientelari o furbizie varie; riportando ancora nella società economica dell’isola il primato del profitto da attività d’impresa nei confronti delle rendite da contributi e aiuti pubblici; liberando infine le imprese dall’infeudamento politico e dalle tagliole burocratiche degli aiuti c.d. “a bando” e dalle rendite di posizione più o meno clientelari.
La “questione sarda” in questo XXI secolo consiste proprio nell’aggravarsi di quella condizione di dipendenza (che è l’opposto dell’autonomia proclamata in statuto) che penalizza oggi l’isola e precarizza il suo futuro: per affrontarla e superarla occorre agire su più fronti, ad iniziare da quel che appare come il male più pericoloso: la mediocrità delle sue élite di comando, della politica, dell’economia, delle libere professioni e della cultura.
Soddu ritiene che occorra prendere atto che si sia ormai giunti ad una fase che chiama “post-autonomistica”, nel senso che negli ultimi sessant’anni la Sardegna è profondamente cambiata, e con essa dovrebbe modificarsi radicalmente anche l’impostazione ed i contenuti della politica regionale. Per cui ritiene necessario che le classi dirigenti prendano atto delle mutazioni avvenute ed agiscano di conseguenza, adottando soluzioni coerenti con le nuove esigenze ed i nuovi contenuti dettati dal progresso. Propone quindi la necessità di aprire un negoziato con lo Stato per definire un nuovo “patto costituzionale” che possa rappresentare il superamento dell’attuale Statuto del 1948. Fondato quindi su «nuove norme, regole, procedimenti, strumenti e soprattutto istituzioni pensate e costruite secondo il principio di una “sovranità federale”, di una “sovranità condivisa”, per poter partecipare pienamente alla “seconda modernizzazione” in corso nel mondo».
Si possa condividere o meno quest’indicazione, quel che appare necessario ed urgente è la predisposizione di una nuova “cassetta degli attrezzi” istituzionali, in modo da poter intervenire per risollevare le malconce sorti di questa nostra Sardegna. Perché lo scenario nazionale ed internazionale che si ha davanti in questo 2018 è ben differente da quello del 1948, e le “specialità autonomistiche” di allora paiono ben poca cosa di fronte alle complessità sociali ed economiche di questa seconda modernizzazione in atto nel mondo. All’interno di questo scenario, una nuova ed importante responsabilità compete alle nostre classi dirigenti, dovunque siano collocate: a loro spetta l’ideazione e la predisposizione di idonee proposte operative che affrontino decisamente, e sconfiggano definitivamente, quell’antico maleficio, che incombe sulla Sardegna, d’essere sempre più colonia: ieri politica ed oggi economica. Serva e suddita, comunque, di decisioni, di voleri e di interessi esterni.
Paolo Fadda
Economista, saggista, già dirigente del Banco di Sardegna
La storia non si cancella
Le 4 “Infamie” di Vittorio Emanuele III
di Francesco Casula
La salma di Vittorio Emanuele III tornerà in Italia, Con il beneplacito di Mattarella. Una vergogna. Ma è stato “il padre della patria”. No, è stato il padre di 4 ciclopiche infamie. Che niente e nessuno potrà cancellare né dimenticare.
1. Vittorio Emanuele III e la Prima Guerra mondiale
La decisione di entrare in guerra fu presa esclusivamente dal sovrano, in collaborazione con il primo ministro Salandra, desideroso com’era di completare la cosiddetta “unità nazionale” con la conquista di Trento e Trieste, ancora in mano austriaca. Il conflitto fu, come noto, tremendo per le forze armate italiane, che andarono incontro ad una spaventosa carneficina, tra il fango, la neve delle trincee e tra indicibili stragi e sofferenze.
Fu lo stesso Papa Benedetto XV a definire quella guerra una inutile strage. Ma in una enciclica del 1914 Ad Beatissimi Apostolorum Principis lo stesso papa era stato ancora più duro definendola una gigantesca carneficina.
Sarà il sardo Emilio Lussu, in una suggestiva testimonianza storica e letteraria come Un anno sull’altopiano a descrivere gli orrori di quella guerra. Egli infatti al fronte sperimenterà sulla propria pelle l’assurdità e l’insensatezza della guerra: con la protervia e la stupidità dei generali che mandano al macello sicuro i soldati; con i miliardi di pidocchi, la polvere e il fumo, i tascapani sventrati, i fucili spezzati, i reticolati rotti, i sacrifici inutili.
Una guerra che comportò oltre a immani risorse (e sprechi) economici e finanziari, lutti, con decine di migliaia di morti, feriti, mutilati e dispersi. A pagare i costi maggiori fu la Sardegna: “Pro difender sa patria italiana/distrutta s’est sa Sardigna intrea”, cantavano i mulattieri salendo i difficili sentieri verso le trincee, ha scritto Camillo Bellieni, ufficiale della Brigata” (Brigaglia, Mastino, Ortu, Storia della Sardegna, Editori Laterza, 2002, pagina 9).
Infatti alla fine del conflitto la Sardegna avrebbe contato bel 13.602 morti (più i dispersi nelle giornate di Caporetto, mai tornati nelle loro case). Una media di 138,6 caduti ogni mille chiamati alle armi, contro una media “nazionale” di 104,9.
E a “crepare” saranno migliaia di pastori, contadini, braccianti chiamati alle armi: i figli dei borghesi, proprio quelli che la guerra la propagandavano come “gesto esemplare” alla D’Annunzio o, cinicamente, come “igiene del mondo” alla futurista, alla guerra non ci sono andati.
In cambio delle migliaia di morti ci sarà il retoricume delle medaglie, dei ciondoli, delle patacche. Ma la gloria delle trincee – sosterrà lo storico sardo Carta-Raspi – non sfamava la Sardegna.
2. Vittorio Emanuele III, il Fascismo e le leggi razziali
Una delle massime responsabilità storiche di Vittorio Emanuele III fu l’aver favorito l’avvento e l’affermarsi del Fascismo. In seguito alla cosiddetta Marcia su Roma infatti, incaricò Benito Mussolini di formare il nuovo governo. Avrebbe potuto far intervenire l’esercito per combattere e disperdere gli “insorti”, invece, mentre le forze armate si preparavano a fronteggiare “le camicie nere”, Vittorio Emanuele III si rifiutò di firmare il decreto di stato d’assedio, di fatto aprendo la strada al fascismo e alle leggi razziali.
Poco interessa oggi sapere se lo abbia fatto per viltà, opportunismo e calcolo politico: fu comunque il re a nominare Mussolini capo del Governo, dando il via alla tragedia ventennale di quel regime la cui maggiore infamia furono le leggi razziali del 1938. Esse saranno firmate da un sovrano che accettava l’antisemitismo e la furia xenofoba dell’alleato tedesco, fiero di un Mussolini che l’aveva fatto re d’Albania ed imperatore d’Etiopia!
3. Vittorio Emanuele e la seconda guerra mondiale
La seconda guerra mondiale rappresenterà l’evento più drammatico che mai si sia verificato nella storia dell’umanità. Ma c’entra il re con la seconda guerra mondiale? Certo che sì: ecco come icasticamente si esprime nella bella Commedia s’Istranzu avventuradu, Bastià Pirisi: su Re nostru hat dadu manu libera ai cuddu ciacciarone de teracazzu de s’anticristu fuidu dae s’inferru… Sincapat qui sa corona de imperadore l’hat frazigadu su car¬veddu
Lo storico Franco della Peruta facendo una analisi complessiva scriverà: ”Il bilancio del conflitto appariva sconvolgente perché la guerra, l’ecatombe più micidiale degli annali del genere umano, tre volte superiore a quella della grande guerra, aveva fatto 50 milioni di vittime fra militari e civili…Alle perdite umane si sommarono quelle materiali”. (Franco Della Paruta, Storia del Novecento, Le Monnier, Firenze, 1991, pagine 249-250).
Anche la Sardegna pagò un grande tributo. Subirà infatti “numerosi bombardamenti dapprima di lieve entità, ma poi, dopo lo sbarco americano nell’Africa settentrionale, frequentissimi e massicci. Furono danneggiati circa 25 comuni, fra cui Alghero, Carloforte, Carbonia, La Maddalena, Sant’Antioco, Palmas Suergiu, Setzu, Olbia, Oristano, Milis e, più gravemente degli altri, Gonnosfanadiga, dove si ebbero 114 morti e 135 feriti. Presa di mira fu soprattutto Cagliari. Le tristi giornate del 17, 26, 28 febbraio 1943 e quella del 13 maggio (per citare le più terribili) non saranno mai dimenticate dai Cagliaritani, che hanno visto la furia devastatrice venire dal cielo e distruggere la loro città, sventrando interi rioni, sconvolgendo le vie, lasciandosi dietro una scia di cadaveri e di feriti nelle strade e nelle macerie. Migliaia di morti (che alcuni fanno ascendere a 7.000 e il 75% dei fabbricati distrutti o resi inabitabili, furono il tragico bilancio di quei giorni”. (Natale Sanna, Il cammino dei Sardi, volume terzo, Editrice Sardegna, Cagliari, 1986, pagine 487-488).
4. Vittorio Emanuele III e la fuga a Brindisi.
Persa la guerra e convinto ormai che il disastroso esito del conflitto potesse segnare non solo la fine del regime fascista ma anche quello della monarchia, Vittorio Emanuele arresta Mussolini (25 luglio 1943) e nomina nuovo capo del Governo il maresciallo Badoglio. Il giorno dopo l’Armistizio, il 9 settembre, insieme a Badoglio stesso abbandona Roma e fugge prima a Pescara e poi a Brindisi, nella zona occupata dagli alleati. L’ignominiosa fuga avrà conseguenze devastanti. E la Sardegna pagherà un altissimo tributo a questa fuga: 12.000 mila i soldati sardi IMI (fra i 750-800 mila militari italiani fatti prigionieri dai tedeschi dopo l’armistizio) verranno rinchiusi nei lager nazisti. E molti, lì moriranno.
Emilio Lussu, riferimento fondamentale della Scuola Popolare dei Lavoratori del Quartiere di Is Mirrionis
QUARTIERE DI IS MIRRIONIS. ASSEMBLEA DELLA SCUOLA POPOLARE. 11.05.1975
L’11 maggio 1975, a due mesi dalla morte di Emilio Lussu (Roma 5 marzo 1975) la Scuola Popolare e il Circolo culturale di quartiere di Is Mirrionis organizzarono un’assemblea popolare per onorare il Grande Sardo. La relazione introduttiva venne tenuta da Giuseppe Caboni, uno dei massimi studiosi della vita e dell’opera di Emilio Lussu, nonché personale amico, sia pure considerando la grande differenza di età tra i due. Ringraziamo il nostro amico Giuseppe per averci ricordato quell’importante iniziativa, trasmettendoci il testo della sua relazione, che, come abbiamo riconosciuto, mantiene una straordinaria inalterata validità, oggi come allora. Tutto ciò anche a testimonianza della preziosa presenza politico-culturale della Scuola Popolare e del Centro Culturale nel quartiere di Is Mirrionis, nella città ed oltre.
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Ricordando Emilio Lussu, il suo esempio e i suoi attualissimi insegnamenti
di Giuseppe Caboni
Chi lavora comanda. È questa una delle indicazioni morali fondamentali che Emilio Lussu trasse dalla sua vita col padre. Era attorno ai 10 anni quando la prepotenza con un mezzadro gli costò, per l’intervento del padre appunto, una settimana al suo servizio, a lavorare la terra.
Da questa e da altri simili esperienze sosteneva di aver acquisito la prima apertura alla democrazia sostanziale, al senso dell’uguaglianza (in un breve saggio del 1952, “Nascita di uomini democratici”).
Lo spirito d’indipendenza, l’apprezzamento del coraggio come dote primaria, la lealtà e la socialità: anche queste sono state qualità di Lussu che lui stesso riportava ai valori propri della società pastorale di Armungia, il paese dove era nato nel 1890. L’ha definita – nel racconto “il cinghiale del diavolo”- una società senza classi e senza stato, all’interno della quale la distinzione tra patrizi e plebei, fra pastori da una parte e commercianti o scribacchini dall’altra, era “morale”, e non sociale. A questo modo di sentire, assorbito intensamente sin dall’infanzia, Lussu riportava sempre il suo radicale, irriducibile antifascismo, la sua avversione profonda alla ripartizione in classi della società capitalista, in cui quelli che lavoravano più duramente e produttivamente – contadini, pastori, operai – non esercitano affatto il potere, ma subiscono quello di strati privilegiati, autoritari e parassitari, e sono – in modo sempre più violento – vittime dello sfruttamento e del bisogno materiale.
Il primo grande scontro con la logica della società classista Lussu lo ebbe nelle trincee della prima guerra mondiale, a cui partecipava come interventista, ma di cui imparò presto a comprendere le contraddizioni. Le pagine di “Un anno sull’altopiano” descrivono con sobrietà il processo psicologico che portò il tenente sardo a capire come i veri “nemici” fossero i generali e i profittatori di guerra – e dietro l’intera struttura di potere della grande borghesia italiana ed europea – e a fraternizzare con i formidabili soldati della brigata Sassari, per il 95% pastori e contadini, e per il resto, operai, minatori ed artigiani.
Sul fronte Lussu divenne un capo leggendario. Al rientro in Sardegna le intuizioni che riuscì progressivamente a inserire nelle rivendicazioni degli ex combattenti, sino al 1920, e poi nel Partito Sardo d’Azione, muovevano in direzione del socialismo, di un socialismo originale, basato – allora – sull’autogestione, sull’antiburocratismo, sullo spirito di iniziativa e d’indipendenza. (segue)
Emilio Lussu, riferimento fondamentale della Scuola Popolare dei Lavoratori del Quartiere di Is Mirrionis
QUARTIERE DI IS MIRRIONIS. ASSEMBLEA DELLA SCUOLA POPOLARE. 11.05.1975
L’11 maggio 1975, a due mesi dalla morte di Emilio Lussu (Roma 5 marzo 1975) la Scuola Popolare e il Circolo culturale di quartiere di Is Mirrionis organizzarono un’assemblea popolare per onorare il Grande Sardo. La relazione introduttiva venne tenuta da Giuseppe Caboni, uno dei massimi studiosi della vita e dell’opera di Emilio Lussu, nonché personale amico, sia pure considerando la grande differenza di età tra i due. Ricordando quella circostanza ringraziamo il nostro amico Giuseppe per averla puntualmente documentata, trasmettendoci il testo della sua relazione, che, come abbiamo riconosciuto, mantiene inalterata validità oggi come allora. Tutto ciò anche a testimonianza della preziosa presenza politico-culturale della Scuola Popolare e del Centro Culturale nel quartiere di Is Mirrionis, nella città ed oltre.
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Ricordando Emilio Lussu, il suo esempio e i suoi attualissimi insegnamenti
di Giuseppe Caboni
Chi lavora comanda. È questa una delle indicazioni morali fondamentali che Emilio Lussu trasse dalla sua vita col padre. Era attorno ai 10 anni quando la prepotenza con un mezzadro gli costò, per l’intervento del padre appunto, una settimana al suo servizio, a lavorare la terra.
Da questa e da altri simili esperienze sosteneva di aver acquisito la prima apertura alla democrazia sostanziale, al senso dell’uguaglianza (in un breve saggio del 1952, “Nascita di uomini democratici”).
Lo spirito d’indipendenza, l’apprezzamento del coraggio come dote primaria, la lealtà e la socialità: anche queste sono state qualità di Lussu che lui stesso riportava ai valori propri della società pastorale di Armungia, il paese dove era nato nel 1890. L’ha definita – nel racconto “il cinghiale del diavolo”- una società senza classi e senza stato, all’interno della quale la distinzione tra patrizi e plebei, fra pastori da una parte e commercianti o scribacchini dall’altra, era “morale”, e non sociale. A questo modo di sentire, assorbito intensamente sin dall’infanzia, Lussu riportava sempre il suo radicale, irriducibile antifascismo, la sua avversione profonda alla ripartizione in classi della società capitalista, in cui quelli che lavoravano più duramente e produttivamente – contadini, pastori, operai – non esercitano affatto il potere, ma subiscono quello di strati privilegiati, autoritari e parassitari, e sono – in modo sempre più violento – vittime dello sfruttamento e del bisogno materiale.
Il primo grande scontro con la logica della società classista Lussu lo ebbe nelle trincee della prima guerra mondiale, a cui partecipava come interventista, ma di cui imparò presto a comprendere le contraddizioni. Le pagine di “Un anno sull’altopiano” descrivono con sobrietà il processo psicologico che portò il tenente sardo a capire come i veri “nemici” fossero i generali e i profittatori di guerra – e dietro l’intera struttura di potere della grande borghesia italiana ed europea – e a fraternizzare con i formidabili soldati della brigata Sassari, per il 95% pastori e contadini, e per il resto, operai, minatori ed artigiani.
Sul fronte Lussu divenne un capo leggendario. Al rientro in Sardegna le intuizioni che riuscì progressivamente a inserire nelle rivendicazioni degli ex combattenti, sino al 1920, e poi nel Partito Sardo d’Azione, muovevano in direzione del socialismo, di un socialismo originale, basato – allora – sull’autogestione, sull’antiburocratismo, sullo spirito di iniziativa e d’indipendenza. (segue)