Risultato della ricerca: Vanni Tola

Piccoli Candelieri crescono…



Dalla sedia fb di Vanni

La lotta degli operai della centrale elettrica di Fiume Santo contro la multinazionale E.On

Editoriale di Vanni Tola

La lotta degli operai della centrale elettrica di Fiume Santo contro la multinazionale E.On

di Vanni Tola
Si intensifica la lotta degli operai della centrale elettrica di Fiume Santo con la proclamazione di uno sciopero che, nei giorni 22 e 23 Luglio, interesserà i diversi gruppi produttivi dell’impianto con probabili difficoltà nella fornitura di energia elettrica dell’intera Sardegna. Una vertenza lunga e complessa, innescata qualche mese fa con l’annuncio della E.On di un consistente taglio occupazionale da realizzare nel 2013 e nel 2014. In realtà la perdita di 120 posti di lavoro è soltanto la punta dell’iceberg di una storia molto più complessa e articolata. Nel 2008, dopo una complessa trattativa, la multinazionale E.On acquisisce dall’Endesa il controllo della centrale di Fiume Santo confermando alla regione Sardegna e al Governo di volere mantenere gli impegni assunti da Endesa e, principalmente, l’impegno a costruire un nuovo gruppo a carbone da 410 Megawatt per un investimento di 500 milioni di euro, in sostituzione dei due gruppi a olio esistenti, i gruppi 1 e 2, molto inquinanti e che devono essere chiusi, per motivi ambientali, entro la fine del 2013. La centrale termoelettrica di Fiume Santo, di complessivi 1040 MW, è la più grande della Sardegna e svolge un ruolo fondamentale per il sistema elettrico dell’isola. Dal sito stesso della centrale parte il cavo elettrico SAPEI da 1000 MW che è stato realizzato recentemente da Terna con un investimento di circa 700milioni di euro per collegare la Sardegna con la penisola italiana con una prospettiva di crescente esportazione di energia elettrica che sarebbe supportata, principalmente, dalla realizzazione del quinto gruppo a carbone da 410 Megawatt. Un matrimonio per interesse che produce subito i primi contrasti. Da subito E.On manifesta riserve sull’opportunità di mantenere fino in fondo gli impegni assunti ma trova comprensione e accondiscendenza da parte della Regione Sardegna che, in seguito alla richiesta della multinazionale, accetta di modificare in misura sostanziale i contenuti economici dell’accordo sottoscritto nel 2007, ritenuto troppo oneroso dalla multinazionale tedesca. Non finisce qui, nel 2010 la Regione, con l’intesa degli enti locali interessati, stipula con E.On un nuovo accordo che, oltre a affermare l’interesse per la realizzazione del nuovo gruppo a carbone, favorisce le nuove iniziative della multinazionale nel campo della produzione di energia dal fotovoltaico nelle aree circostanti la centrale generosamente incentivate con denaro pubblico dal Conto Energia. Un mare di pannelli fotovoltaici ricopre centinaia di ettari lungo la strada che da Porto Torres conduce a Stintino. Nonostante ciò nel 2010 la multinazionale tedesca continua a manifestare la volontà di non volere mantenere gli impegni assunti abbandonando le attività di ingegneria per la realizzazione del quinto gruppo a carbone e non realizzando le previste attività di bonifica delle aree interessate alla realizzazione del nuovo impianto. La produzione elettrica continua quindi con deroghe delle autorità locali che consentono l’utilizzo dei gruppi 1 e 2 da 160 Megawatt ciascuno, alimentati a olio combustibile, molto inquinanti e fuori norma e con i gruppi 3 e 4 da 320 Megawatt ciascuno, alimentati a carbone che, ormai vecchi di 20 anni, cominciano a manifestare segni di cedimento. E arriviamo alla cronaca di questi ultimi mesi quando la multinazionale tedesca, per meglio garantire i propri azionisti, vara un drastico piano di riduzione dei costi del personale (in Sardegna 120 unità), taglia gli investimenti nei paesi europei per destinarli ad altri lidi quali Brasile e Turchia inseguendo il basso costo del personale e non pare neppure determinata a completare l’investimento di 100 Megawatt del fotovoltaico. Non per crisi del settore o mancanza di profitti ma soltanto con la prospettiva di profitti ancora maggiori. Nel 2012 E.On realizza, infatti, un utile netto di 280 milioni di euro al quale la centrale di Fiume Santo ha concorso con un guadagno di 78 milioni di euro. L’obiettivo di abbandonare la centrale di Porto Torres avviene quindi in un momento economicamente positivo. Con una tonnellata di carbone (che costa intorno ai 75 dollari) si producono 2,5 Megawatt di energia con un guadagno di 225 euro a Megawatt venduto. Quando poi, per richieste straordinarie di fornitura di energia, la Rete nazionale (Terna) chiede altri megawatt da vendere nel libero mercato, il guadagno diventa di 400 euro a Megawatt. Un esempio eclatante d’intervento industriale “corsaro” finalizzato esclusivamente al massimo profitto e del tutto slegato da qualunque logica di razionale programmazione di politiche per la crescita e sviluppo del territorio che mette in luce, ancora una volta, la totale incapacità di una classe politica che non riesce minimamente a governare i processi industriali e produttivi in atto che sono conseguentemente ”delegati” ai soli imprenditori corsari e predatori. Un’ultima connotazione riguarda poi la tutela della salute e dell’ambiente. Porto Torres è una delle aree maggiormente inquinate del paese, circolano da qualche tempo dati attendibilissimi che lo dimostrano. La mobilitazione per le bonifiche dei siti industriali, per uno sviluppo sostenibile cresce e si manifesta costantemente, principalmente con riferimento al progetto chimica verde. Nonostante ciò però, due gruppi della centrale di Fiume Santo, dichiarati fuorilegge, continuano a bruciare olio combustibile nell’atmosfera, altri due gruppi della stessa centrale funzionano alimentate a carbone con immaginabili effetti ambientali. E la proposta principale nelle strategie sindacali e nelle scelte delle amministrazioni locali sembra essere quella della realizzazione di un altro gruppo produttivo della centrale alimentato ancora col carbone. E’ evidente quindi che la contraddizione tra l’esigenza di sviluppo dell’occupazione e difesa della salute, lungi dall’essere risolta, continua a proporsi in tutta la sua drammaticità.

Les LUNETTES de PIERO

LA PRESA DELLA BASTIGLIA
Il 14 luglio 1789 il popolo di Parigi… ma lo sapete.

par Bomeluzo
… e molto altro

Investire in Welfare crea nuova occupazione

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di Vanni Tola

E’ opinione diffusa che il welfare, cioè i servizi e le prestazioni sociali, rappresenti per il paese un costo improduttivo o addirittura uno spreco di denaro che va ad alimentare la crescita del debito pubblico. Da tale convinzione traggono origine le scelte di consistenti e progressivi tagli alla spesa pubblica con la convinzione di poter cosi contribuire a ridurre il deficit nazionale.

In realtà investire oculatamente nel Welfare potrebbe significare non solo migliorare la qualità di vita delle persone e delle famiglie ma anche favorire celermente ed efficacemente l’occupazione. L’affermazione è contenuta in uno studio condotto dalla Rete “Cresce il Welfare, cresce l’Italia”.  Un punto di vista diametralmente opposto all’opinione diffusa sul Welfare che, se accolta, porterebbe a un radicale ripensamento delle politiche sociali del nostro paese. I ricercatori della Rete fanno notare che tra il 2008 e il 2012, cioè nel bel mezzo della crisi economica, a fronte di una perdita di occupazione nei comparti manifatturieri di 3 milioni e 123 mila unità (Eu 15), si è registrato un incremento nei servizi di welfare, cura e assistenza, pari a 1 milione e 623 mila unità (+7,8%). E’ indiscutibile l’enorme crescita della domanda di welfare favorita, tra l’altro, dall’aumento della durata della vita e dall’invecchiamento della popolazione. A fronte di tale aumento della domanda alcuni paesi europei hanno agito orientandosi verso un’occupazione formalizzata, pubblica e privata, relativa a tale domanda di servizi. Altri invece, e tra questi l’Italia, hanno delegato il soddisfacimento della domanda di servizi alle famiglie. Naturalmente gli esiti di tali scelte hanno ottenuto risultati differenti sia in termini di qualità della vita che di creazione di nuova occupazione.

La SEDIA di VANNI

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La filiera del cardo prossima ventura
di Vanni Tola
Firmato a Porto Torres, sotto un pittoresco gazebo collocato davanti a un campo sperimentale di cardo, un protocollo d’intesa tra Matrìca e Coldiretti per lo sviluppo della filiera agricola al servizio della chimica verde. Questa è la notizia che, naturalmente, non sorprende più di tanto ed era certamente attesa. Ciò che colpisce immediatamente invece è l’introduzione alla nota che annuncia l’avvenuto accordo. Testualmente recita: “Dopo aver preso atto delle informazioni ricevute da Matrìca durante il primo anno di sperimentazione e aver visitato i campi relativi al secondo anno di sperimentazione, Coldiretti ritiene che l’investimento sulla chimica verde possa rappresentare un’importante opportunità d’integrazione al reddito delle imprese agricole del territorio”. Un noto detto popolare, per sottolineare l’ovvietà e la scarsa produttività di determinati comportamenti recita “è come chiedere all’oste se il vino è buono” lasciando intendere che la risposta sarà comunque affermativa. La Coldiretti stipula un protocollo d’intesa per l’avvio della filiera del cardo esclusivamente sulla base delle informazioni ricevute da Matrìca relative al primo anno di sperimentazione e sulla base di una pittoresca “scampagnata” per vedere i campi di cardo sperimentali esistenti. In pratica a scatola chiusa, senza attendere le sperimentazioni di altri soggetti, per esempio la Facoltà di Agraria di Sassari, sulle reali possibilità di avviare la filiera del cardo in modo produttivo e realmente conveniente per i produttori e il territorio. Delega in bianco quindi alla “sapienza” dell’Eni e alla bontà dei suoi centri studi e dei suoi sperimentatori. I termini dell’accordo in sé non sono una novità, se ne parlava da qualche tempo. Il protocollo d’intesa rispecchia lo schema classico degli accordi di filiera agricola (es. quello annuale per la produzione e conferimento del pomodoro all’industria alimentare). Emergono invece ulteriori particolari su come sarà articolata la filiera del cardo. Vediamone alcuni.

Gli OCCHIALI di PIERO

NO F 35
  • SIDNEY LUMET (25 giugno 1924 – 9 aprile 2011), 50 anni di carriera. Comincia nel ’57 con un capolavoro La parola ai giurati. Indimenticabili anche: L’uomo del banco dei pegni, Serpico, Quel pomeriggio di un giorno da cani, Assassinio sull’Orient Express (si dirà: facile fare un buon film con tanti bravi attori, ma ci sono esempi di film bruttissimi con cast tutto di grandi attori), Quinto potere (che ha dato l’Oscar a entrambi i protagonisti). Ultimo film nel 2007 Onora il padre e la madre col bravo Philip Seymour Hoffman.

LA SEDIA DI VANNI

Chimica verde? Discutiamone con tutti i dati sul tavolo. E poi decidiamo (e questo è il punto!) innanzitutto nell’interesse di noi sardi e della Sardegna.

Spesso il desiderio di dimostrare un concetto viene concretizzato adattando informazioni e dati, che dovrebbero essere quanto più obiettivi, al proprio obiettivo. Il risultato, in termini di corretta comunicazione, diventa, in questi casi, controproducente e non favorisce di certo il miglioramento delle conoscenze di chi legge e l’arricchimento del dibattito. Affermare che il progetto Chimica Verde rappresenti una follia, che si tratti di un progetto rischioso e sorpassato che guarda al passato e rischia di pregiudicare lo sviluppo futuro della Sardegna, è un’opinione legittima e naturalmente rispettabile. Ma non si può descrivere un progetto complesso e articolato come quello di Matrìca in modo semplicistico e superficiale. Dall’articolo di V. Biolchini, pubblicato sul nostro notiziario, sembra di capire che l’obiettivo fondamentale del progetto Matrìca sia quello di “ creare una centrale elettrica a biomasse alimentata da due caldaie. La prima per la produzione di vapore, alimentata, come combustibile, da un residuo industriale speciale del cracking dell’etilene, denominato FOK (alla faccia dell’ecologia!). La seconda caldaia per la produzione di bioplastiche (e qui viene il bello) dovrebbe invece bruciare la bellezza di 500-600 mila tonnellate di cardi all’anno!”.

Procediamo con ordine. Il progetto Matrìca in realtà consiste, fondamentalmente, nel trasformare il vecchio impianto dell’Eni di Portotorres in una bioraffineria di terza generazione, una delle più importanti d’Europa, per produrre il bio-butadiene, un monomero impiegato nell’industria della gomma utilizzando, come materia prima biomasse. In pratica nel trasformare un cimitero industriale in una fabbrica di elementi base per la produzione di polimeri biodegradabili da prodotti vegetali che costituiranno la materia prima per la produzione di bioplastiche. La centrale elettrica alimentata da biomasse (cioè dal residuo del cardo dopo che sono stati estratti gli olii per la produzione dei polimeri) serve esclusivamente per produrre l’energia elettrica necessaria per il funzionamento della bioraffineria evitando di utilizzare combustibili fossili. La centrale elettrica ausiliaria, che originariamente doveva essere alimentata con il Fok, sostanza pericolosissima e cancerogena, sarà in realtà alimentata con altro combustibile. Questa è una notizia ufficiale emersa nell’incontro pubblico tra Eni e Comune di Portotorres di qualche mese fa. E’ priva di fondamento la notizia dei centomila ettari di suolo agricolo da destinare alla coltura del cardo. Al momento neppure l’Università di Agraria azzarda previsioni sulla superficie necessaria per la produzione del cardo che alimenterà la bioraffineria. Il responsabile agricoltura dell’Enimont, intervistato a margine della citata riunione di Portotorres, ha dichiarato che, sulla base delle loro sperimentazioni e nella migliore delle ipotesi, la superficie agricola interessata alla coltivazione del cardo non supererà i 25.000 Ha. Superficie notevole che, tuttavia, corrisponde si e no a circa la metà delle superfici agricole abbandonate in provincia negli ultimi cinque anni (dati Istat).

Chiarito ciò, è evidente che nessuno è disposto a mettere la mano sul fuoco sulla “bontà” del progetto Matrìca. I danni prodotti dall’Eni in Sardegna sono sotto gli occhi di tutti. I problemi da approfondire sono tanti, in primo luogo quello delle bonifiche ambientali del vecchio sito petrolchimico, la verifica del reale impatto ambientale della nuova bioraffineria. Il problema vero però, a mio avviso è un altro. La Sardegna può disinteressarsi di un grande progetto di riconversione della chimica di base. Può chiamarsi fuori dal mercato delle bioplastiche che presenta interessanti potenzialità economiche nel mondo e stravolge il vecchio modo di fare chimica da fossile o deve rincorrere, favorire e assecondare tali processi come una delle possibili scelte di sviluppo?

(Vanni Tola)

Le tre follie: Chimica verde, Carbosulcis, Progetto Eleonora. Il ruolo nefasto dei sindacati in Sardegna

di Vito Biolchini

Tre follie, una più grande dell’altra. Mettetele voi in ordine di assurdità, il mio intanto è questo: progetto Matrica sulla cosiddetta “chimica verde”, Carbosulcis, Progetto Eleonora. Tre progetti industriali uno più improponibile dell’altro. Perché rischiosi, sorpassati, falsi e bugiardi. Tre progetti che guardano al passato e che rischiano di pregiudicare lo sviluppo futuro della Sardegna.
Chimica verde, riassunto delle puntate precedenti. L’Eni smantella il suo polo industriale nel nord Sardegna e propone, per compensare l’emorragia dei posti di lavoro, la realizzazione di un impianto da un miliardo di euro (secondo loro) in grado di creare (secondo loro) settecento posti di lavoro. Ma cos’è poi in concreto questa cosiddetta chimica verde?
Di fatto, Eni Power e Versalis vogliono creare una centrale elettrica a biomasse alimentata da due caldaie. La prima per la produzione di vapore, alimentata, come combustibile, da un residuo industriale speciale del cracking dell’etilene, denominato FOK (alla faccia dell’ecologia!). La seconda caldaia per la produzione di bioplastiche (e qui viene il bello) dovrebbe invece bruciare la bellezza di 500-600 mila tonnellate di cardi all’anno! Cardi che noi sardi dovremmo produrre, destinando a questa speciale coltivazione qualcosa come centomila ettari del nostro territorio! Mezza Sardegna coltivata a cardo, destinato poi ad essere bruciato: questa è la famosa chimica verde di cui sentite parlare nei telegiornali. Se non è follia questa, ditemi voi come la dobbiamo definire. Come ha raccontato La Nuova Sardegna, il progetto è stato presentato alla commissione del Consiglio regionale. Tutto bene fino a quando non è intervenuto un rappresentante dell’Università di Sassari che ha detto chiaro e tondo due cose: la prima “che il cardo non è la migliore materia prima per estrarre dai suoi semi l’olio naturale alla base della produzione di bio-plastiche” (incredibile!); la seconda che “la coltivazione intensiva del cardo (la centrale a biomasse ha bisogno di grandi quantità) potrebbe avere contraccolpi sulle coltivazioni tradizionali”. Appunto: l’agricoltura sarda stravolta. Una follia.
Carbosulcis: c’è qualcosa che ancora non sapete? La miniera è della Regione e il carbone che si estrae è di pessima qualità: non lo vuole manco l’Enel che lo compra perché obbligata dalla politica e poi lo lascia lì nei piazzali. Per cercare di dare un futuro ai quasi 400 lavoratori della miniera tempo fa qualcuno si è inventato un progetto fantascientifico che prevede l’estrazione del carbone, la sua gassificazione e lo stoccaggio delle scorie nelle gallerie. Il progetto è stato già bocciato tre volte dalla Commissione europea (che dovrebbe finanziarlo), perché evidentemente impraticabile: la produzione a Nuraxi Figus dovrebbe salire vertiginosamente e a Bruxelles vogliono garanzie che l’impianto non sia costruito solo per giustificare l’esistenza in vita della miniera ma perché realmente competitivo. Eja.
Qualche mese fa la Carbosulcis sembrava avere i giorni contati, poi in piena campagna elettorale il deputato del Pdl Mauro Pili si è barricato nelle gallerie, è successo un gran casino e i lavoratori hanno avuto l’ennesima rassicurazione che il progetto sarebbe stato ritenuto prioritario dal Governo nei suoi rapporti con l’Unione Europea. Da allora cos’è successo? Che l’ennesimo ultimatum posto dall’Europa sta scadendo, il progetto richiesto da Bruxelles non si vede e che dunque la chiusura della miniera si avvicina. Nel frattempo però la Regione, nell’ultima finanziaria, ha buttato nei pozzi di Nuraxi Figus altri venti milioni di euro (no comment) mentre i politici del centrodestra (ultima in ordine di apparizione, la Polverini) hanno ripreso il loro pellegrinaggio alla Carbosulcis, perché questa bufala del nuovo progetto sarà in realtà uno dei cavalli di battaglia di Ugo Cappellacci o Claudia Lombardo (chissà chi la spunterà) nella campagna elettorale per le prossime regionali. Cavallo di battaglia solo del centrodestra? Siamo sicuri? Ma andiamo avanti.
Progetto Eleonora. La Saras vuole estrarre ad Arborea un miliardo di metri cubi di metano, mettendo a rischio l’esistenza del polo zootecnico più importante dell’isola. Perché, a parte chi si ritroverà i pozzi di estrazione sotto casa (e a poche centinaia di metri da un’area naturale protetta), ad essere contraria è soprattutto la 3A che teme per le falde acquifere ma soprattutto per l’immagine di un territorio che dovrebbe evocare una situazione ben diversa. Peraltro la 3A non ha nulla contro il metano (infatti vorrebbe realizzare un deposito al porto di Oristano dove stoccarlo, una volta acquistato sul mercato) ma teme i contraccolpi di questa iniziativa. Iniziativa che peraltro riguarderà prestissimo altre zone dell’isola, soprattutto Serramanna, Uta e Assemini, dove la Saras (ma anche altre società) hanno già richiesto l’autorizzazione alle trivellazioni. Perché non mi convince il Progetto Eleonora? L’ho capito parlando ieri con il mio amico Gigi, che mi ha detto: “Il nuovo modello di sviluppo che tutti auspicano si deve basare su un nuovo modello di energia e questo dell’estrazione del metano non lo è. La Sardegna produce già molta energia ma non ne risparmia abbastanza e non punta abbastanza sulle rinnovabili”.
Su questi tre progetti (Matrica, Carbosulcis, Eleonora) la politica sarda è profondamente spaccata. Non nel senso che centrodestra e centrosinistra la pensano diversamente, no: nel senso che sia nel centrodestra che nel centrosinistra ci sono posizioni opposte. Ad esempio, i giovani del Pdl sono contro il Progetto Eleonora, i consiglieri regionali invece a favore. E così anche per gli altri due progetti, sia nel Pd che nel Pdl.
E ora preparatevi perché quello che avete letto finora è solo l’antipasto. Vi faccio una domandina semplice semplice: qual è il soggetto che in Sardegna è a favore, senza spaccature, di tutti i tre i progetti sopra indicati? Rispondete voi? Lo faccio io? Lo faccio io: i sindacati.
Cgil, Cisl e Uil sostengono in misura diversa (ma sostengono) sia la chimica verde, sia il rilancio della Carbosulcis, sia il progetto Eleonora. Laddove gli schieramenti politici hanno dubbi, spaccature e ripensamenti significativi, i sindacati no, sono sempre molto compatti al loro interno. È questa la loro forza vera: sono uniti ad ogni livello.
I sindacati si lamentano (e giustamente) con la politica regionale per la sua inconsistenza. Ma in che misura le tre sigle confederali possono essere considerate responsabili della crisi di senso che attraversa l’isola? Sono credibili queste organizzazioni che sostengono senza batter ciglio ogni iniziativa industriale, anche quella più inverosimile? Perché parlano di “nuovo modello di sviluppo” se poi sono le prime a sostenere con forza quello vecchio?
Ma il punto non è neanche solo questo, il punto è (scusate se ho la fissa) culturale. Nel momento in cui sempre di più ci si rende conto che la Sardegna ha bisogno di un progetto di autogoverno, che nulla o poco di buono potrà arrivare dall’Italia ormai incasinata di suo e non certo attenta alle esigenze del due per cento della sua popolazione, nel momento in cui sarebbe invece opportuno realizzare uno “strappo” dalle grandi organizzazioni nazionali per rimettere al centro realmente le necessità dei sardi, i sindacati confederali (quanto se non più dei grandi partiti italiani) restano fedeli ad una logica nazionale e subordinano tutto ad essa.
Al pari dei partiti, la crisi di senso che la Sardegna sta attraversando è provocata anche dai sindacati che, per miopia o convenienza, continuano a riprodurre dinamiche ormai fallimentari. Ecco perché i loro quadri appoggiano Matrica, Carbosulcis ed Eleonora: perché stanno in Sardegna ma sono stati formati a Roma e a Milano, questo è il guaio.
Lungi da me ovviamente sminuire il ruolo del sindacato per il suo impegno a difesa dei diritti dei lavoratori, ci mancherebbe pure, il primo che mi fa dire cose che non penso neanche lontanamente lo attacco al muro. Ma anch’io, come ha scritto bene e con coraggio l’esponente della Federazione delle Sinistre, Enrico Lobina nel suo post “Rivoluzioniamo la Cgil”, penso che
“la Cgil rivoluziona se stessa o declina (…) Bisogna porsi pochi obiettivi, ma chiari. Unificare il lavoro, rivoluzionare l’organizzazione e la trasparenza totale sono i nostri obiettivi. Uni­ficare il lavoro significa parlare a tutti coloro che hanno meno di 40 anni, non hanno sindacato e non lo possono avere. È la parte più sfruttata del mondo del lavoro, e non lo rappresentiamo. (…) Non si può rispondere alla fine di un modello di sviluppo con la difesa di quello stesso modello. Su questo aspetto siamo al capolinea”.
I sindacati che difendono la Carbosulcis, ad esempio, si allontanano drammaticamente dalla nuova classe egemone di lavoratori di oggi, concretamente rappresentata da quelle migliaia di giovani che non sono riusciti ad accedere agli stage da 500 euro al mese, e anzi sostanzialmente li condannano alla loro condizione di lavoratori senza rappresentanza e senza consapevolezza. Quelli per la Carbosulcis, con tutto il rispetto che va dato ai lavoratori della miniera, sono ormai soldi buttati e tolti ai giovani senza lavoro, quello vero però, non quello assistito. Con le loro posizioni inverosimili, i sindacati sardi sono oggi un elemento di conservazione del sistema, non di innovazione. Sono un tappo al nuovo sviluppo dell’isola.
E se ci aggiungiamo che i sindacati, questi sindacati, con i loro apparati simbolici e concreti, sono l’unica vera organizzazione rimasta a sinistra, ci rendiamo anche conto dei motivi della crisi di senso e di consenso che conoscono i partiti della sinistra storica e lo stesso Pd (che a Roma oggi ha come segretario l’ex segretario nazionale della Cgil, per dire).
Conclusione: se non cambiano i sindacati sardi, non cambia la politica sarda, e dunque l’isola resta quella che è. Forse qualcuno passerà dal sindacato al consiglio regionale o al parlamento e siamo contenti per lui, ma per la Sardegna non mi sembra una grande cosa avere l’immobilismo come prospettiva. Se non cambiano i sindacati sardi (e dunque la politica, perché i partiti non hanno oggi la forza di contrapporsi alle organizzazioni sindacali e ne sono invece succubi), bisognerà inventarsi in fretta qualcosa di nuovo perché qui la barca sta affondando e la gente, come si è visto bene ad Arborea, ha voglia di partecipare e non si beve più come se niente fosse ogni cosa che arriva dai partiti, dalla Saras e dall’Eni. E da Cgil, Cisl e Uil.
Fine del ragionamento.


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Il presente contributo viene pubblicato anche in altri siti/blog, nell’ambito di un accordo tra diverse persone (tutte impegnaei nel movimento culturale “In sardu”), le quali dispongono di detti spazi virtuali che mettono a disposizione per favorire la circolazione di idee (e l’organizzazione di iniziative di carattere politico-culturale) sulle problematiche della Sardegna, senza limiti di argomenti e nel pieno rispetto delle diverse opinioni e impostazioni politiche e culturali, ovviamente nella condivisione dello spirito e dei comportamenti democratici. I contributi saranno pubblicati in italiano e/o in sardo.

Ecco i siti/blog (a cui nel tempo se ne aggiungeranno altri, auspicabilmente) :

- aladinews

- vitobiolchiniblog

- Fondazione Sardinia

- Tramas de amistade

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Il primo intervento di Salvatore Cubeddu
Il secondo intervento di Fabrizio Palazzari
Il terzo intervento di Nicolò Migheli
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Il dipinto di anonimo pittore, datato XVII sec., situato nello studio del rettore dell’Università di Cagliari, spesso viene considerato come l’immagine di Eleonora d’Arborea. In realtà è più accreditata la tesi che rappresenti l’immagine di Giovanna la pazza.

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Sull’argomento “chimica verde e dintorni” le posizioni di Aladinews sono espresse da Vanni Tola, negli interventi quì segnalati

LA SEDIA DI VANNI
Chimica verde? Discutiamone con tutti i dati sul tavolo. E poi decidiamo (e questo è il punto!) innanzitutto nell’interesse di noi sardi e della Sardegna.

Spesso il desiderio di dimostrare un concetto viene concretizzato adattando informazioni e dati, che dovrebbero essere quanto più obiettivi, al proprio obiettivo. Il risultato, in termini di corretta comunicazione, diventa, in questi casi, controproducente e non favorisce di certo il miglioramento delle conoscenze di chi legge e l’arricchimento del dibattito. Affermare che il progetto Chimica Verde rappresenti una follia, che si tratti di un progetto rischioso e sorpassato che guarda al passato e rischia di pregiudicare lo sviluppo futuro della Sardegna, è un’opinione legittima e naturalmente rispettabile. Ma non si può descrivere un progetto complesso e articolato come quello di Matrìca in modo semplicistico e superficiale. Dall’articolo di V. Biolchini, pubblicato sul nostro notiziario, sembra di capire che l’obiettivo fondamentale del progetto Matrìca sia quello di “ creare una centrale elettrica a biomasse alimentata da due caldaie. La prima per la produzione di vapore, alimentata, come combustibile, da un residuo industriale speciale del cracking dell’etilene, denominato FOK (alla faccia dell’ecologia!). La seconda caldaia per la produzione di bioplastiche (e qui viene il bello) dovrebbe invece bruciare la bellezza di 500-600 mila tonnellate di cardi all’anno!”.

Procediamo con ordine. Il progetto Matrìca in realtà consiste, fondamentalmente, nel trasformare il vecchio impianto dell’Eni di Portotorres in una bioraffineria di terza generazione, una delle più importanti d’Europa, per produrre il bio-butadiene, un monomero impiegato nell’industria della gomma utilizzando, come materia prima biomasse. In pratica nel trasformare un cimitero industriale in una fabbrica di elementi base per la produzione di polimeri biodegradabili da prodotti vegetali che costituiranno la materia prima per la produzione di bioplastiche. La centrale elettrica alimentata da biomasse (cioè dal residuo del cardo dopo che sono stati estratti gli olii per la produzione dei polimeri) serve esclusivamente per produrre l’energia elettrica necessaria per il funzionamento della bioraffineria evitando di utilizzare combustibili fossili. La centrale elettrica ausiliaria, che originariamente doveva essere alimentata con il Fok, sostanza pericolosissima e cancerogena, sarà in realtà alimentata con altro combustibile. Questa è una notizia ufficiale emersa nell’incontro pubblico tra Eni e Comune di Portotorres di qualche mese fa. E’ priva di fondamento la notizia dei centomila ettari di suolo agricolo da destinare alla coltura del cardo. Al momento neppure l’Università di Agraria azzarda previsioni sulla superficie necessaria per la produzione del cardo che alimenterà la bioraffineria. Il responsabile agricoltura dell’Enimont, intervistato a margine della citata riunione di Portotorres, ha dichiarato che, sulla base delle loro sperimentazioni e nella migliore delle ipotesi, la superficie agricola interessata alla coltivazione del cardo non supererà i 25.000 Ha. Superficie notevole che, tuttavia, corrisponde si e no a circa la metà delle superfici agricole abbandonate in provincia negli ultimi cinque anni (dati Istat).

Chiarito ciò, è evidente che nessuno è disposto a mettere la mano sul fuoco sulla “bontà” del progetto Matrìca. I danni prodotti dall’Eni in Sardegna sono sotto gli occhi di tutti. I problemi da approfondire sono tanti, in primo luogo quello delle bonifiche ambientali del vecchio sito petrolchimico, la verifica del reale impatto ambientale della nuova bioraffineria. Il problema vero però, a mio avviso è un altro. La Sardegna può disinteressarsi di un grande progetto di riconversione della chimica di base. Può chiamarsi fuori dal mercato delle bioplastiche che presenta interessanti potenzialità economiche nel mondo e stravolge il vecchio modo di fare chimica da fossile o deve rincorrere, favorire e assecondare tali processi come una delle possibili scelte di sviluppo?

(Vanni Tola)

No! No! Ho detto no!

di Vanni Tola
Poche cose uniscono i Sardi come la propensione alla costituzione di Comitati contro qualcosa, di Comitati per il No. Voci attendibili riferiscono dell’esistenza in Sardegna di circa centottanta Comitati di lotta o di protesta e di esplicita opposizione contro qualcosa. Di per sé, un elevato numero di Comitati spontanei rappresenta una preziosa risorsa. E’ un indicatore di partecipazione popolare alle scelte e alle decisioni sui destini del territorio. Pur tuttavia appare indispensabile riflettere su alcune particolarità di questo variegato mondo dei Comitati antagonisti. Una prima considerazione generale, che non vuole essere in alcun modo ironica o polemica. Non c’è traccia di nessun Comitato per il Sì o a favore di qualcosa ma soltanto comitati per il No. Come mai? I programmi, le parole d’ordine, le prospettive dei diversi Comitati antagonisti talvolta appaiono non ben definiti. L’affermazione “No alla chimica verde”, per esempio, che significa esattamente? No al progetto dell’Eni (Matrìca) per riconvertire il polo petrolchimico di Portotorres (ex Sir) verso produzioni che utilizzino materia prima di origine vegetale in sostituzione del petrolio e producano polimeri biodegradabili? O sott’intende un generale rifiuto della chimica in quanto tale a prescindere dalla materia prima impiegata? Nel primo caso andrebbero documentati e argomentati i perché del no, nel secondo caso sarebbe utile invece indicare quale modello alternativo di sviluppo dell’isola si ha in mente. Può il sistema Sardegna rinunciare all’industria chimica, al recupero e alla riconversione di quel che resta dei poli petrolchimici a favore di produzioni meno inquinanti? Non esiste in Sardegna alcun progetto per la produzione di energia con le cosiddette “fonti energetiche alternative” che non abbia fatto registrare una forte opposizione delle popolazioni interessate all’intervento. I generatori eolici altererebbero in modo irreparabile la bellezza del paesaggio . Lo afferma anche chi non ha mai speso una parola sulle centinaia di chilometri di elettrodotti e le migliaia di tralicci d’acciaio disseminati ovunque. Gli impianti eolici in mezzo al mare (off shore – vedi la foto dell’impianto di Malta), solitamente collocati a notevole distanza dalla costa e quindi invisibili dalla terra ferma, rappresenterebbero un grave oltraggio per le nostre rinomate spiagge. Gli impianti solari e le centrali fotovoltaiche sono definiti “ecomostri” di specchi che stravolgono le vaste distese di pascolo, spesso indiscutibilmente incolti o quasi abbandonati. Della realizzazione d’impianti per lo smaltimento dei rifiuti è quasi vietato parlarne. Lo smaltimento dei rifiuti è un problema anche per la Sardegna ma si preferisce fingere che non esista, rimuoverlo piuttosto che confrontarsi su possibili soluzioni ragionevolmente praticabili anche nell’isola. Poco importa che nel centro economico e commerciale di Vienna, una delle più belle città d’Europa, faccia mostra di se un grande inceneritore di rifiuti (vedi foto) che svolge magnificamente il proprio compito senza inquinare, senza deturpare l’ambiente circostante e rappresentando perfino un luogo di grande interesse turistico. Il geotermico, l’utilizzo del calore degli strati profondi del sottosuolo per produrre vapore e, da questo, corrente elettrica e acqua calda per riscaldamento industriale e domestico è qualcosa d’innominabile nell’isola. Si può quindi ragionevolmente affermare che una delle poche certezze espresse dei sardi, in questi anni, sia stata la determinazione nel rifiutare qualunque forma di produzione di energia con le fonti energetiche rinnovabili. Scelta che implica, piaccia o no, essere, di fatto, condannati a continuare a produrre energia con le fonti energetiche tradizionali, il fossile che inquina e genera costi energetici elevati. Ma non era l’alto costo dell’energia uno dei principali ostacoli per lo sviluppo industriale? L’Euroallumina non ha chiuso i battenti per l’impossibilità di ottenere forniture di energia a costi contenuti? Discorso a parte meriterebbe la vicenda della ricerca del metano nella zona di Arborea e in alcune aree del Campidano. E’ evidente che l’eventuale impiego del metano nell’isola comporterebbe certamente la realizzazione d’impianti di estrazione e lavorazione del prodotto con possibili effetti negativi sull’ambiente circostante. Detto questo rimane il problema fondamentale. Una volta accertata la disponibilità di metano nel sottosuolo sardo, una risorsa che in qualunque parte del mondo utilizzerebbero ben volentieri, il nostro sistema produttivo può permettersi di rinunciare tout court a produrre energia a basso costo? Non sarebbe meglio impostare un discorso di razionale impiego di questa importante risorsa fatta salva, naturalmente, l’esigenza di tutelare al meglio la salute degli abitanti e la difesa dell’ambiente? E questo discorso ci porta a un’ultima considerazione, forse quella che rappresenta l’essenza del problema. In Sardegna non esiste un piano energetico regionale. Non si conoscono neppure le reali esigenze energetiche dell’isola né quanta energia è attualmente prodotta né quali siano i fabbisogni energetici del sistema economico regionale. La conseguenza è la programmazione d’interventi energetici i più vari, calati in un sistema economico produttivo nel quale è assente un quadro definito di bisogni e necessità energetiche per l’immediato e in una prospettiva di medio e lungo periodo. E’ questa una delle cause del proliferare d’interventi totalmente slegati da un’ipotesi di sviluppo realistica e praticabile che la classe politica regionale stenta a definire. E i sardi allora continuano a dire no. No grazie, no non vi vogliamo, no al petrolio, no al trattamento dei rifiuti, no ai cardi, no alla chimica verde. Ma per fare che? Questo pochi lo sanno, solitamente, quando ci si esprime nel merito, non si va oltre l’enunciazione di programmi generici e indefiniti riassunti con termini quali lo sviluppo dell’agricoltura, del turismo, dei prodotti tipici, la tutela del paesaggio. Torna alla mente la canzone napoletana “basta che c’è sta o sole, che c’è rimasto o mare”. Purtroppo non basta.
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Vanni Tola
Nelle foto: incerenitore di Vienna, impianto eolico offshore di Malta

La SEDIA di VANNI

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Il Pecorino Romano esce dalla crisi

La notizia è sicuramente positiva quanto inattesa. La crisi del formaggio Pecorino Romano non sarebbe più tale. Una notizia dell’Agenzia Agi indica, infatti, una forte crescita nella produzione del Pecorino Romano in termini di fatturato, di prezzo ed esportazione. Un trend positivo che fa ben sperare anche per la produzione del 2013. In un anno il fatturato del pecorino è aumentato del 16,6%, passando dai 120 milioni del 2011 ai 140 del 2012 con una previsione di 160 milioni di euro per l’anno in corso. Particolarmente clamoroso poi è il dato concernente l’esportazione per la quale si prevede, per il 2013, un volume di 86mln di euro. In pratica il 50% in più rispetto al 2012. Si aprono nuovi mercati, aumenta il prezzo medio del formaggio del 10% e la domanda interna del prodotto è stabile. Il mercato di riferimento del Pecorino Romano non è più l’America, ma anche Brasile, Russia, Paesi asiatici. Anche la domanda europea è positiva. Compressivamente quindi l’export cresce del 15 % con 155mila quintali di formaggio pecorino romano venduti nel mondo. Un miracolo? Forse.  Molto più logico pensare a un miglioramento delle capacità imprenditoriali dei produttori e a un’attenta gestione delle politiche promozionali e commerciali.   A parere del Consorzio Pecorino Romano il Pecorino, alla cui produzione si destina oltre il 50% della produzione di latte ovino, è l’unico prodotto ovi caprino che oggi regge il mercato e tiene alto il prezzo del latte. L’incremento del prezzo del pecorino romano è certamente legato anche a un calo di produzione (173.614 quintali nella campagna 2010-2011, 171.670 quintali nell’ultima) con una contrazione dell’1,12%. Anche se meriterebbe approfondimento la notizia secondo la quale, mentre la produzione sarda ha una diminuzione pari al 3,41%, nel Lazio si registra un incremento del 64,75% (si è passati da 5.846 a 9.631 quintali). Sorge qualche dubbio sul fatto che i meriti del buon andamento commerciale del Pecorino Romano siano tutti del Consorzio regionale e non anche di altri importanti produttori non sardi che nella filiera del pecorino romano hanno introdotto tecniche di produzione, di commercializzazione e di promozione all’avanguardia. C’è ancora molto da fare quindi per stabilizzare la filiera, restano aperti problemi riguardanti la destagionalizzazione della produzione e la commercializzazione del prodotto (pezzatura, riduzione contenuto sale, presentazione sul mercato, razionalizzazione punti vendita e rete di commercializzazione). Una strada da percorrere con convinzione e determinazione è poi quella delle associazioni di produttori. Oltre a quelle storiche, si è costituita la “PAS – Pastori Associati Sardegna” di Sanluri, che ha già ottenuto il riconoscimento come organizzazione dei produttori e la “Allevatori Uniti Sardegna”, di Nuoro, in attesa del riconoscimento come organizzazione dei produttori. Entrambe le organizzazioni sono attive in tutta la Sardegna e rappresentano quasi 500 allevatori, con una produzione di circa quindici milioni di litri di latte. Tali organizzazioni rappresentano un importante elemento della filiera del pecorino, della quale costituivano finora l’elemento mancante. Possono contribuire a migliorare concretamente le condizioni di vita dei produttori con una migliore contrattazione sul prezzo del latte e l’efficienza complessiva dell’intera filiera.

La SEDIA di Vanni Tola

 

Bonas noas: si avvia il “Laboratoriu Gaddhura”

Laboratoriu Gaddhura – Riunificare il Movimento Indipendentista Sardo
di Vanni Tola
Olbia – Interessante iniziativa di analisi e discussione politica intorno ai temi dell’indipendenza della Sardegna. Il nome del progetto è Laboratorio Gallura. Tra i promotori Lidia Fancello e Tino Careddu (PSd’Az.), Pino Giordo ( di Sardigna Libera), Nino Fancello ( dirigente di Sardigna Natzione), Gion Loi (Sardigna Natzione), Salvatore Crobe (IRS), Marco Oggianu e Giuseppe Maricosu (ProgRes), Eta Beta Fancello e Antonello Pulito, indipendentisti liberi.  Il Laboratorio promuoverà, con una serie d’incontri, il dialogo intorno ad un’ipotesi di riunificazione o coalizione, dei partiti sardisti, indipendentisti e identitari, finalizzata alla presentazione di liste per le prossime elezioni regionali e allo sviluppo di azioni comuni nell’interesse del territorio. Ragionare quindi intorno al tema dell’indipendenza della Sardegna intesa come traguardo concreto e raggiungibile attraverso un percorso pacifico e democratico. La volontà di unità all’interno dell’area indipendentista non è una novità ma si è finora affrontata con una logica puramente elettoralistica. Una riunificazione intorno a un simbolo comune piuttosto che a progetti concreti. I risultati elettorali non sono stati soddisfacenti. La particolare situazione politico ed economica della nostra isola, induce oggi a considerare assolutamente indispensabile e non più rimandabile, creare convergenze per intraprendere un cammino unitario per la conquista del governo della Sardegna.

Alle origini dell’imprenditoria sarda

DIZIONARIO STORICO DEGLI IMPRENDITORI IN SARDEGNA
di Vanni Tola
E’ stato presentato a Sassari, nella sede dell’Associazione degli Industriali, il primo volume del Dizionario storico degli imprenditori in Sardegna (Aipsa edizioni). L’opera, curata da Cecilia Dau Novelli e Sandro Ruju, è il risultato di una ricerca, ancora in corso, realizzata con un finanziamento della Fondazione Banco di Sardegna. Un’opera che, colmando una lacuna della storiografia, indaga il mondo dell’imprenditoria sarda dell’Ottocento e del Novecento partendo dalle conoscenze biografiche dei diversi protagonisti e analizzando, nello stesso tempo, il ruolo svolto dagli imprenditori nella nascita e nell’evoluzione del sistema industriale sardo. Lo strumento del Dizionario è apparso agli autori il più efficace per riportare alla luce personaggi poco conosciuti o dimenticati del mondo imprenditoriale.

La SEDIA di VANNI

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I RIFIUTI IN EUROPA, STORIE DALL’ALTRO MONDO
di Vanni Tola

In Italia, in quasi tutte le regioni, il problema dello smaltimento dei rifiuti è un’importante emergenza. La raccolta differenziata e il riciclaggio sono un obiettivo apparentemente irraggiungibile. Le discariche, principalmente in prossimità dei grandi agglomerati urbani, sono ormai delle bombe ecologiche che stanno per esplodere. Servirebbero meno discariche e più inceneritori. In realtà gli inceneritori non li vuole nessuno perché considerate ingombranti presenze ecologiche. Si continua a progettare nuove discariche o ampliare quelle esistenti innescando proteste a manifestazioni delle comunità interessate. Ma che accade negli altri paesi d’Europa?
Partiamo da un dato di riferimento quantitativo. In Europa dai rifiuti si ricava energia per 100 milioni di MWh, in Italia soltanto 0,425 milioni di MWh, una percentuale molto bassa. In alcuni paesi dell’Europa settentrionale, la percentuale di rifiuti che subisce il riciclaggio o il compostaggio è molto elevata: Germania 62%, Paesi Bassi 60%, Belgio 56%, Svezia 48%, Norvegia 40%. In Italia soltanto il 34 % dei rifiuti segue questo percorso, meno di noi soltanto la Spagna e la Grecia. In alcuni paesi europei si fa un largo uso degli inceneritori come strumento ottimale per lo smaltimento dei rifiuti. In Norvegia il 57% dei rifiuti alimenta un inceneritore, in Danimarca il 54%, in Svezia il 51%, in Belgio il 42%, nei Paesi Bassi il 38%, in Germania il 37%. In Italia soltanto il 17%. Molti di questi inceneritori fanno bella mostra di se al centro d’importanti città senza creare alcun problema particolare, per es quello di Spittelau a Vienna, l’Energy Tower in Danimarca. Essendo diffuso in questi Paesi il riciclaggio e l’impiego degli inceneritori ne consegue che la percentuale di rifiuti che finisce in discarica sia bassissima. Soltanto l’1% in Germania, Paesi Bassi, Belgio, Svezia. Il 2% in Norvegia e il 3% in Danimarca. Si continua invece a fare largo uso delle discariche In Grecia con l’82 % dei rifiuti destinati alla discarica, segue la Spagna con il 58% e l’Italia con il 49%.

Gli OCCHIALI di PIERO

6 maggio…
GIULIO ANDREOTTI
Scompare oggi un genio della destra politica.
Incredibile a dirsi, ci lascia in mani peggiori delle sue.