Risultato della ricerca: reddito di cittadinanza Gianfranco Sabattini
Materiali dell’Incontro “Lavorare meno Lavorare meglio Lavorare tutti”. Intervento di Gianfranco Sabattini.
Con il contributo di Gianfranco Sabattini proseguiamo nella pubblicazione degli interventi all’Incontro-dibattito sul Lavoro, che si è tenuto venerdì 5 del corrente mese, con la partecipazione del sociologo del lavoro Domenico De Masi. Abbiamo chiesto a ciascun relatore di inviarci il proprio contributo per iscritto, anche con eventuale rielaborazione rispetto a quello effettivamente svolto, pur rispettando contenuti e sintesi. Procederemo a pubblicare le relazioni nell’ordine in cui ci perverranno. Questa occasione potrà essere colta anche da quanti non abbiano avuto spazio nel convegno e vogliano intervenire nelle pagine della nostra News, che volentieri mettiamo a disposizione.
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Reddito di cittadinanza o riduzione del tempo di lavoro?
di Gianfranco Sabattini*
Nel recente “Incontro dibattito” sui problemi del lavoro svoltosi a Cagliari il 5 ottobre scorso, il Professor Domenico De Masi, autorevole docente di Sociologia del Lavoro, ha tenuto una dotta relazione sull’evoluzione che ha subito nel tempo il concetto e la funzione del lavoro, giungendo sino ai nostri giorni. Con riferimento al nostro tempo, De Masi ha posto in risalto come oggi la “questione del lavoro” si ponga in termini radicalmente diversi rispetto al passato, in quanto mai, prima di oggi, si era presentato il fenomeno della crescita e dello sviluppo senza lavoro.
Il fenomeno, com’è noto, e De Masi lo ha evidenziato a chiare lettere, è originato dal fatto che il mondo contemporaneo è caratterizzato, a causa del progresso scientifico e delle continue innovazioni tecnologiche, da una crescita continua della produzione materiale e immateriale, cui corrisponde una “distruzione” di posti di lavoro, con il conseguente dilagare di una disoccupazione strutturale irreversibile.
Data questa tendenza, secondo De Masi, sul piano della politica del lavoro, occorrerà contrastare la distruzione” dei posti di lavoro, innanzitutto attraverso la riduzione dell’orario di lavoro che dovrà verificarsi parallelamente all’aumentare della produttività; in secondo luogo, ai lavoratori che perderanno il lavoro dovrà essere corrisposto un sussidio di sopravvivenza, che potrà assumere la natura di un “reddito di cittadinanza”, limitato ai soli disoccupati e condizionato per il tempo necessario ad essere reinseriti nel lavoro (se lo troveranno), previo un corso di riqualificazione professionale (in pratica, un reddito di cittadinanza ridotto a semplice “reddito di inclusione di stampo welfarista.
Ciò che della relazione di De Masi stupisce maggiormente è il fatto che la situazione attuale del mercato del lavoro sia presentata quale esito naturale immodificabile del modo di funzionare capitalistico delle moderne economie industriali. La sua proposta circa il modo di governare le problematiche attuali di tale mercato attraverso la riduzione del tempo di lavoro, prescindendo dalla prefigurazione di un possibile progetto di futuro volto a conformare la distribuzione del prodotto sociale a un processo produttivo in continua espansione associata ad una crescente disoccupazione strutturale, ricade totalmente e contraddittoriamente all’interno della logica capitalistica, che rende il contrasto alla crescente disoccupazione pressoché inefficace.
Più efficace, in quanto reale alternativa alle forme tradizionali di governo del mercato del lavoro, è la proposta fondata sull’introduzione di un reddito di cittadinanza universale e incondizionato (irriducibile a qualsivoglia forma di reddito di inclusione o di sussidio alla disoccupazione). Il reddito di cittadinanza correttamente inteso, tra i sociologi del lavoro e molti economisti, non gode (almeno nel nostro Paese) di buona fama; non perché non sia uno strumento che, prima o poi, certo non fra molto tempo, sarà gioco forza accettare come rimedio alle procedure tradizionali obsolete con cui, all’interno delle società industriali contemporanee, si procede alla distribuzione dl prodotto sociale.
Attualmente, il reddito di cittadinanza, così com’è stato introdotto in Italia, privo del ruolo e delle finalità per cui è stato pensato e formalizzato, non è altro che una “misura” di politica economica inquadrabile all’interno del modello di welfare State, nella forma oggi vigente, ridotta a strumento erogante prevalentemente servizi caritatevoli di beneficenza, con l’unico scopo di contenere e “gestire” il crescente fenomeno della povertà.
Su tutti gli aspetti del reddito di cittadinanza correttamente inteso e della sua possibile e necessaria istituzionalizzazione in funzione della lotta contro il fenomeno alla disoccupazione strutturale irreversibile e di quello della povertà (propri dei sistemi sociali economicamente avanzati), ci si può informare consultando la ricca letteratura esistente. E’ importante, invece, svolgere qualche considerazione (a margine della relazione di De Masi) sulla possibilità di contrastare la disoccupazione strutturale attraverso la riduzione dell’orario di lavoro, che è stato poi il tema sul quale si è svolto il convegno sul problema del lavoro nell’ottobre dello scorso anno e anche quello dell’incontro dibattito del 5 ottobre di quest’anno.
Il titolo (lavorare meno, lavorare meglio, lavorare tutti) del convegno dello scorso anno (riproposto anche nella locandina dell’incontro dibattito di quest’anno) è sicuramente coinvolgente e accattivante, ma le difficoltà delle moderne economie industriali avanzate di creare nuovi posti di lavoro, di sconfiggere la disoccupazione e la povertà sono per loro natura troppo prosaiche, per lasciare spazio all’emotività che può essere tratta dal riferimento a slogan estetizzanti.
Da una robusta schiera di studiosi, che hanno poi ispirato lo slogan, tutti di orientamento di sinistra, quali, in particolare, Guy Aznar, Claus Offe e André Gorz, la lotta alla disoccupazione è stata ritenuta possibile solo attraverso una “riduzione dell’orario di lavoro”. Secondo questi autori, un reddito sociale, quale sarebbe il reddito di cittadinanza universale e incondizionato, svincolato dall’”unità indissolubile” che, secondo loro, deve sempre esistere tra diritto al lavoro e diritto al reddito, rientrerebbe nel novero dei palliativi di qualsiasi politica pubblica che fosse intenzionalmente diretta a proteggere i lavoratori (e i poveri) dalla decomposizione della “società del lavoro”, senza però promuovere una dinamica sociale in grado di aprire loro prospettive di emancipazione.
La contrazione continua dell’occupazione e il continuo aumento della povertà imporrebbero, perciò, la necessità di distinguere le “misure”, per loro natura temporanee, di qualsiasi politica pubblica finalizzate a lenire il disagio della disoccupazione e della povertà, dalla politica di riduzione continua dell’orario di lavoro, fondata sul tempo liberato dalla produttività crescente e sulla continua crescita del prodotto sociale.
Qual è il senso della proposta di Gorz, Offe e Aznar? Se tutti lavorassero sempre meno per effetto dell’aumentata produttività – essi affermano – significherebbe che tutti, oltre a lavorare, vedrebbero aumentare la quantità di tempo libero a disposizione che, opportunamente utilizzato, consentirebbe di porre fine all’esistente “società duale” (caratterizzata dalla compresenza di occupati, da un lato, e di disoccupati e poveri, dall’altro lato) e di creare una società caratterizzata dalla compresenza del lavoro determinato dalle esigenze funzionali del sistema economico e dal lavoro orientato allo svolgimento di attività autodeterminate, suggerite dalla condivisione di valori non riconducibili a quelli propri del mercato.
In questo modo, secondo Gorz, Offe e Azar, sarebbe possibile realizzare un’organizzazione del sistema sociale in cui tutti potrebbero lavorare sempre meno, sempre meglio (per via dell’aumento delle attività autodeterminate), pur continuando a conservare (e possibilmente a migliorare) il proprio tenore di vita. A differenza dei sistemi sociali che scegliessero di istituzionalizzare un reddito di cittadinanza universale e incondizionato per contrastare la disoccupazione strutturale e la povertà, i sistemi sociali che scegliessero, invece, la riduzione dell’orario di lavoro verrebbero a dotarsi di automatismi di controllo e di gestione preventivi della disoccupazione e, indirettamente, della povertà.
Secondo gli autori che sostengono questa tesi, la realizzazione di un sistema sociale “rivitalizato” sulla base della riduzione dell’orario di lavoro, non porrebbe problemi particolari sul piano macroeconomico; la difficoltà, secondo loro, consisterebbe nel trasportare sul piano microeconomico ciò che, dal punto di vista dell’economia nel suo insieme, non presenta contraddizioni. Se la riduzione della durata del tempo di lavoro è concepita non come “misura” di una politica pubblica a sostegno della disoccupazione, ma come una “politica di rivitalizzazione” del sistema sociale, essi affermano, la lotta contro la mancata disponibilità di un reddito non sarebbe tanto condotta attraverso una riduzione meccanica del tempo di lavoro, ma attraverso l’inserimento nel governo della dinamica del mercato del lavoro, di un processo che richiede, si, sempre meno lavoro, ma che crea ricchezza sempre in condizioni di equilibrio del sistema economico.
Dal punto di vista microeconomica, secondo Gorz, Offe e Aznar, le economie di tempo di lavoro si tradurrebbero, per le imprese che le realizzano, in economie sui salari; e sebbene si possa pensare che, dal punto di vista macroeconomico, un’economia che, utilizzando sempre meno lavoro e distribuendo sempre meno salari, debba cadere inesorabilmente nel baratro della disoccupazione e della pauperizzazione, per evitare che ciò accada, essi concludono, occorre che il potere d’acquisto del settore delle famiglie cessi di dipendere dalla quantità di lavoro che il sistema economico utilizza sulla base degli indici espressi dagli automatismi di mercato; occorre, invece, pur in presenza di un minor numero di ore lavorative prestate, che il settore delle famiglie continui a percepire, attraverso la riduzione del tempo di lavoro e l’aumento delle attività autodeterminate (rese possibili dall’aumento della produttività) un reddito complessivo (in parte, erogato dalle imprese e, in parte, erogato sotto forma di sussidio pubblico ai disoccupati e ai poveri) sufficiente a finanziare una domanda aggregata in grado di uguagliare il consumo dell’intero volume di beni e servizi prodotti.
La proposta di Gorz, Offe e Azar non può sottrarsi, però, alle considerazioni critiche che possono essere formulate riguardo a tutte le proposte fondate sull’ipotesi che il contrasto alla disoccupazione e alla povertà risulti sempre vincolato all’erogazione di un reddito condizionato all’esercizio di specifiche attività lavorative eterodirette, determinate dalle esigenze funzionali del mercato; in altri termini, la proposta di Gorz, Offe e Aznar (per lavorare meno, lavorare meglio, lavorare tutti) non rimuove la necessità di sottrarre l’organizzazione complessiva del sistema produttivo alla logica propria di ogni modello organizzativo del sistema economico fondato sulla centralità della produzione.
Prescindendo dall’osservazione che lo slogan “lavorare meno, lavorare meglio, lavorare tutti” manca di essere sorretto dalla dimostrazione che la contrazione del tempo di lavoro per effetto dell’aumentata produttività sia sempre sufficiente a garantire un efficace contrasto alla disoccupazione, ciò che lo slogan stesso sottende (e non potrebbe essere diversamente) è che, dopo una riduzione del tempo di lavoro, quest’ultimo continui a contrarsi; in conseguenza di ciò, tutti indistintamente godrebbero di una provvigione di tempo libero destinato a crescere, le cui forme d’impiego dovrebbero essere autodeterminate.
Ma come è possibile pensare che la crescita continua del tempo libero a disposizione possa essere “goduto” in termini autodeterminati, se la parte del prodotto sociale necessario per finanziare le attività autodeterminate deriva dalla necessità che essa risulti condizionata dalla logica di mercato che deve sottendere la razionalità economica all’interno delle imprese che devono accettare la contrazione del tempo di lavoro e contribuire attraverso la fiscalità a finanziare i sussidi da corrispondere a chi non riuscisse a reinserirsi nel mercato del lavoro e ai poveri, senza vedere compromessi i loro obiettivi di produzione e la loro permanenza sul mercato?
E’ evidente che la riduzione del tempo di lavoro, volta a rimuovere la disoccupazione e la povertà, non riuscendo a sottrarsi alle implicazioni di una rigida conservazione dell’”etica del lavoro”, vada incontro ai limiti di ogni politica finalizzata a finanziare una spesa per il funzionamento di un welfare State come quello oggi esistente, non più in grado di contrastare la disoccupazione strutturale e la povertà.
In conclusione, occorrerà riflettere in termini molto più approfonditi sulle funzioni che il reddito di cittadinanza correttamente inteso sarà chiamato a svolgere nel mondo globale di oggi, caratterizzato dal suo lento, ma continuo, passaggio dall’”età della scarsità” all’”età dell’abbondanza”. Il governo dei problemi connessi all’allargamento continuo dell’abbondanza, della quale godono, sia pure potenzialmente i moderni sistemi economici industriali avanzati, imporrà necessariamente che i nuovi meccanismi di distribuzione del prodotto sociale siano sempre più affrancati dalla logica tradizionale della produzione, pena la mancata possibilità di risolvere i mali del mondo attuale: disoccupazione e povertà.
*Anche su Democraziaoggi.
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Il Lavoro nel XXI Secolo
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Venerdì 5 ottobre il Comitato di iniziativa costituzionale e statutaria incontra Domenico De Masi
di Fernando Codonesu
E’ passato appena un anno da quando il 4 e il 5 ottobre del 2017 si è svolto a Cagliari un convegno sul lavoro dal titolo “Lavorare meno, lavorare meglio, lavorare tutti”, promosso da CoStat e Europe Direct Regione Sardegna.
Il senso del convegno era ampiamente rappresentato nel titolo perché le condizioni economiche, politiche e sociali del mondo attuale, ad ogni latitudine del pianeta, permetterebbero ampiamente di diminuire l’orario di lavoro per gli occupati attuali per favorire l’ingresso nel mondo produttivo di ampie masse lavoratrici, a partire dai nostri giovani. Allo stesso tempo, si è parlato dell’esigenza di lavorare meglio. Con questa espressione si intendeva e si intende la possibilità di scegliere il lavoro che meglio permette ad ogni essere umano di trovare la propria collocazione nel luogo in cui decide di vivere una vita dignitosa e poter autorealizzare i propri sogni e le proprie aspirazioni. Un lavoro si è detto che non confligga con l’ambiente e con i principi costituzionali: per questo nel titolo è riportato “lavorare meglio”.
E infine, certo, lavorare tutti, proprio in virtù del fatto che le risorse attuali del pianeta, l’organizzazione del lavoro e della società attuali e, a maggior ragione quella che si intravede nel prossimo futuro, permetterebbero già oggi, come già evidenziato da Keynes oltre 85 anni or sono, di pensare ed organizzare una settimana lavorativa cortissima per tutti, basata se non sulle 15 ore settimanali auspicate da Keynes, con riferimento all’Europa, almeno sulla settimana lavorativa della Germania che in alcuni settori (vedi il recente contratto alla Volkswagen) vede un tempo contrattuale di 28 ore.
Certo, al riguardo qualcuno può parlare facilmente di ingenuità o di accademia, ma personalmente sono convinto del contrario e i due giorni di dibattito dedicati al convegno, ricco di analisi e soprattutto di significative testimonianze imprenditoriali e proposte operative, ne costituiscono la più ampia dimostrazione.
Per questo parliamo di un convegno diverso, i cui atti saranno presentati il prossimo 5 ottobre a distanza di un anno da quell’evento, che soprattutto nella parte dedicata alla nostra isola può costituire un punto di confronto e di partenza per un programma serio sul lavoro da parte delle forze politiche regionali che si misureranno nella prossima scadenza elettorale del mese di febbraio.
Nel frattempo, nel mese di giugno, Domenico De Masi ha pubblicato un volume di grande interesse, quasi un’enciclopedia, dal titolo Il Lavoro nel XXI secolo.
Con questo volume, De Masi riporta in un unico libro alcuni degli argomenti più significativi dedicati al lavoro, un tema da lui affrontato nel corso di una vita intera, analizzati in almeno trenta libri pubblicati in precedenza, aggiornandone alcune analisi e proposte alla luce della situazione attuale del mondo del lavoro.
Una situazione caratterizzata da grandi trasformazioni nell’organizzazione produttiva come paradigma della più vasta organizzazione sociale e specchio in cui vediamo riflesso lo sviluppo dell’uomo nelle varie fasi della storia.
Un grande affresco, un libro complesso che può essere usato come guida per trovare riferimenti sul lavoro di ogni genere perché viene analizzato il lavoro nella società preindustriale, in quella industriale e nella presente fase postindustriale.
Tutto ciò viene proposto con una ricchezza di sguardi o punti di vista. Dal punto di vista religioso con una disanima dell’interpretazione cattolica e protestante a quella laica dalla parte dei datori di lavoro e dei lavoratori, fino agli sguardi di altre culture e religioni in altre parti del mondo.
Largo spazio viene dedicato al tema dell’automazione, della rivoluzione digitale con le attuali frontiere della robotica, del calcolo parallelo massivo, dell’intelligenza artificiale e delle influenze indotte nell’organizzazione del lavoro. Influenze che dal lavoro, ovvero dai settori produttivi si sono estese e si diffonderanno sempre di più nel mondo dei servizi e in tutti gli aspetti della nostra vista quotidiana.
Il libro spazia e approfondisce: invasività e pervasività come chiavi di volta dello sviluppo dell’informatica e dei computer, con riferimenti alla legge di Moore riguardante la crescita esponenziale della potenza dei microprocessori che, per altri, sconfina nella Singolarità. La nuova occupazione potrà riequilibrare quella che viene perduta con la robotica e l’automazione avanzata?
E’ innegabile che sul tema ci sia molta rassegnazione. Le forze sindacali sembrano insignificanti rispetto ad un trend totalmente dominato dalla forza travolgente delle multinazionali dell’ICT e del WEB.
C’è molta rassegnazione a livello mondiale sulla possibilità che si possa resistere a questa penetrazione massiva in ogni settore produttivo, nel mondo dei servizi e delle stesse relazioni sociali e familiari. Ma è veramente così oppure ci sono possibilità di resistere, arginare e invertire il trend a cui assistiamo giorno per giorno?
Allo stesso tempo, considerato che la ricchezza è e sarà sempre più prodotta dalle macchine e dai robot c’è la possibilità di sperimentare anche su vasta scala il reddito di cittadinanza per tutte le persone che sono e saranno escluse dal mondo del lavoro.
Come mettere insieme l’esigenza del lavoro per tutti con un reddito per gli esclusi?
Ecco, sui vari aspetti del lavoro e dei suoi effetti nella società, su tutti i punti di vista, è presente il suo, quello di un sociologo che testimonia pienamente un impegno civile, politico e sociale nel nostro paese e che gli viene unanimemente riconosciuto.
Il 5 ottobre metteremo insieme gli atti del nostro convegno con alcuni dei temi sviluppati nel libro di De Masi e avremo modo di approfondirne alcuni aspetti importanti, non dimenticando la situazione del lavoro nella nostra isola e gli ultimi provvedimenti governativi dedicati al tema con il DEF e con tutto ciò che ruota intorno all’obiettivo del reddito di cittadinanza.
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Presentazione del libro “Il lavoro nel XXI secolo” di Domenico De Masi
e “Lavorare meno, lavorare meglio, lavorare tutti”
Atti del convegno di Cagliari, 4-5 ottobre 2017
Incontro Dibattito con Domenico De Masi
[Comunicato stampa]
Venerdì 5 ottobre, con inizio alle 16.30, presso la sala conferenze del Banco di Sardegna, in viale Bonaria 33 (8° piano), si terrà un Incontro-dibattito sulle tematiche del Lavoro, con la partecipazione del sociologo Domenico De Masi, professore emerito dell’Università La Sapienza di Roma.
Nell’occasione verranno presentati due volumi: il primo, a cura di Fernando Codonesu, contenente gli atti del convegno tenutosi lo scorso anno (4-5 ottobre 2017) a Cagliari, dal titolo “Lavorare meno, lavorare meglio, lavorare tutti”, organizzato dal CoStat in collaborazione con Europe Direct Sardegna;
il secondo “Il lavoro nel XXI secolo” è l’ultimo libro sull’argomento scritto dal prof. De Masi.
Dall’inquadramento delle problematiche di carattere generale su come si è trasformato il lavoro nella storia e nelle varie fasi dello sviluppo sociale e ciò che succede oggi nel mondo del lavoro, fino alla sua tendenziale scomparsa come diritto per tutti, a causa soprattutto dell’inesorabile sviluppo delle tecnologie digitali che distruggono più lavoro di quanto ne riescono a creare di nuovo, si discuterà delle diverse proposte sia sul lavoro possibile che di “reddito di cittadinanza” (e istituti che spesso impropriamente ad esso si richiamano) teso in ultima analisi e nonostante affermazioni contrarie, a soppiantare il lavoro mancante.
Ma tutto ciò è un esito ineludibile?
Se ne dibatterà con il prof. Domenico De Masi, intervistato da Fernando Codonesu, preceduto dalle considerazioni di Gabriella Lanero, Tonino Dessì, Luisa Sassu, Gianna Lai e dei proff. Andrea Pubusa, Gianfranco Sabattini e Silvano Tagliagambe.
Seguirà un dibattito aperto a tutti.
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L’organizzazione è curata da Franco Meloni e Mariella Montixi.
Oggi sabato 29 settembre 2018
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La crisi del nostro tempo, quale futuro?
29 Settembre 2018
Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi
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COMMENTI
Una brutta manovra da non sottovalutare
Alfonso Gianni su il manifesto, EDIZIONE DEL 29.09.2018
(segue)
Venerdì 5 ottobre 2018 Incontro Dibattito con Domenico De Masi
Presentazione del libro “Il lavoro nel XXI secolo” di Domenico De Masi
e “Lavorare meno, lavorare meglio, lavorare tutti”
Atti del convegno di Cagliari, 4-5 ottobre 2017
Incontro Dibattito con Domenico De Masi
[Comunicato stampa]
Venerdì 5 ottobre, con inizio alle 16.30, presso la sala conferenze del Banco di Sardegna, in viale Bonaria 33 (8° piano), si terrà un Incontro-dibattito sulle tematiche del Lavoro, con la partecipazione del sociologo Domenico De Masi, professore emerito dell’Università La Sapienza di Roma.
Nell’occasione verranno presentati due volumi: il primo, a cura di Fernando Codonesu, contenente gli atti del convegno tenutosi lo scorso anno (4-5 ottobre 2017) a Cagliari, dal titolo “Lavorare meno, lavorare meglio, lavorare tutti”, organizzato dal CoStat in collaborazione con Europe Direct Sardegna;
il secondo “Il lavoro nel XXI secolo” è l’ultimo libro sull’argomento scritto dal prof. De Masi.
Dall’inquadramento delle problematiche di carattere generale su come si è trasformato il lavoro nella storia e nelle varie fasi dello sviluppo sociale e ciò che succede oggi nel mondo del lavoro, fino alla sua tendenziale scomparsa come diritto per tutti, a causa soprattutto dell’inesorabile sviluppo delle tecnologie digitali che distruggono più lavoro di quanto ne riescono a creare di nuovo, si discuterà delle diverse proposte sia sul lavoro possibile che di “reddito di cittadinanza” (e istituti che spesso impropriamente ad esso si richiamano) teso in ultima analisi e nonostante affermazioni contrarie, a soppiantare il lavoro mancante.
Ma tutto ciò è un esito ineludibile?
Se ne dibatterà con il prof. Domenico De Masi, intervistato da Fernando Codonesu, preceduto dalle considerazioni di Gabriella Lanero, Tonino Dessì, Luisa Sassu, Gianna Lai e dei proff. Andrea Pubusa, Gianfranco Sabattini e Silvano Tagliagambe.
Seguirà un dibattito aperto a tutti.
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Costat: ripartiamo con tre iniziative su lavoro, migranti ed elezioni regionali
di Andrea Pubusa*
Il Comitato d’iniziativa costituzionale e statutaria ha ripreso la sua attività dopo le ferie estive. Nella riunione di mercoledì ha messo a punto un nutrito programma d’iniziative sui temi di calda attualità: lavoro, migranti sicurezza, campagna per sbarrare la strada al centro destra nelle imminenti elezioni regionali.
Sulle questioni del lavoro si prosegue nel solco aperto lo scorso anno. Venerdì 5 ottobre, con inizio alle 16.30, presso la sala conferenze del Banco di Sardegna, in viale Bonaria 33 (8° piano), si terrà un Incontro-dibattito sulle tematiche del Lavoro, con una partecipazione di assoluto prestigio. Sarà con noi il sociologo Domenico De Masi, professore emerito dell’Università La Sapienza di Roma. Nell’occasione verranno presentati due volumi: il primo, a cura di Fernando Codonesu, contenente gli atti del convegno tenutosi lo scorso anno a Cagliari, dal titolo “Lavorare meno, lavorare meglio, lavorare tutti”, organizzato dal CoStat in collaborazione con Europa Direct Sardegna; il secondo l’ultimo libro dello stesso prof. De Masi, “Il lavoro nel XXI secolo”.
Dall’inquadramento delle problematiche di carattere generale su come va trasformandosi il lavoro nella società, fino alla sua tendenziale scomparsa come diritto per tutti, a causa soprattutto dell’inesorabile sviluppo delle teconologie che distruggono più lavoro di quanto ne creano nuovo, si discuterà delle diverse proposte di “reddito di cittadinanza” (e istituti che spesso impropriamente ad esso si richiamano) teso in ultima analisi e nonostante affermazioni contrarie, a soppiantare il lavoro mancante. Ma tutto ciò è un esito ineludibile? Ne dibatteremo con il prof. De Masi, intervistato da Fernando Codonesu, con interventi programamti di Andrea Pubusa, Gabriella Lanero, Tonino Dessì, Luisa Sassu, Gianna Lai e dei proff. Gianfranco Sabattini e Silvano Tagliagambe. Seguirà un dibattito aperto a tutti.
Dopo questa iniziativa di alto livello culturale, in cui si cercherà di individuare le linee di intervento sulle questioni dell’occupazione in Italia e in Sardegna, il CoStat, a metà ottobre (venerdì 19 ottobre, da confermare), metterà a confronto personalità e movimenti democratici sul tema caldo dell’immigrazione e della sicurezza, con particolare attenzione al Decreto sicurezza del Governo. Come sempre si punterà a raggiungere tre obiettivi: partecipazione ampia e qualificata in modo da avere un ampio ventaglio di opinioni; esame e critica di merito al di fuori di ogni prospettiva propagandistica e in vista di una battaglia politica volta a contrastare l’attuale testo e, possibilmente, a modificarlo nel dibattito parlamentare. L’incontro sarà dunque un momento della mobilitazione sulla questione dei migranti ed è volta ad ampliare il movimento e le iniziative.
Infine, ma non per importanza, ai primi di novembre avvieremo la nostra “campagna” per le regionali. Sarà un intervento volto a sbarrare la strada al centrodestra, il cui compattamento rende possibile la conquista da parte loro di viale Trento.
Come nelle elezioni politiche, non daremo indicazioni di voto specifiche. Per noi sono meritevoli del voto i candidati e le liste, fuori del centrodestra, che nel referendum costituzionale hanno votato e si sono apertamente battuti per il NO. Solo quelli! Con questa ispirazione forniremo alle forze democratiche argomenti, materiali e spunti programmatici per una svolta alla Regione dopo la deludente presidenza Pigliaru.
Come in occasione delle elezioni politiche del 4 marzo scorso, il CoStat creerà occasioni d’incontro e di confronto prima della presentazione delle liste e dopo, nella campagna elettorale vera e propria. Staremo fuori dall’agone partitico, ma non dai problemi su cui diremo la nostra liberamente e con forza. La nostra sarà insomma una speciale e combattiva campagna contro il centro-destra.
Questa attività richiede tempo, impegno, intelligenze. Facciamo appello a tutti coloro che sono stati con noi nella battaglia sul referendum costituzionale di riprendere l’impegno. La nostra isola merita questa mobilitazione, la nostra democrazia ci interroga e ci chiama all’impegno. Vi invitiamo perciò a partecipare alle iniziative e alle riunioni organizzative che si tengono, di norma, ogni mercoledì in via Roma 72 presso la sede del CSS, che generosamente di ospita. A si biri!
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* Anche su Democraziaoggi.
Verso l’Incontro-dibattito sul Lavoro del 5 ottobre con Domenico De Masi. Materiali su Economia e Etica.
L’economia non può fare a meno dell’etica
di Lorenzo Caselli*
17 settembre 2018 by Forcesi
Lectio al dottorato di Ricerca in Economia del Dipartimento di Economia dell’Università di Genova.
Grandi cambiamenti, ma per quali fini?
Non v’è ambito della vita sociale, economica, istituzionale che non sia percorso da grandi cambiamenti. Grandi cambiamenti certo. Ma per quali fini? In nome di quale progetto? Per questi interrogativi non esistono, oggi, risposte adeguate e convincenti. Da ciò discendono paure, incertezze, difficoltà.
Il calcolo, gli interessi egoistici di gruppo, di ceto, di categoria sembrano far premio sulle esigenze della solidarietà. Ciò concorre ad aumentare, secondo una circolarità viziosa, problemi e conflitti. “Il calcolo non ignora solo le attività non monetizzabili, gli aiuti reciproci, l’uso dei beni comuni, la parte gratuita dell’esistenza, ma ignora anche e soprattutto quello che non può essere calcolato né misurato: la gioia, l’amore, la sofferenza, la dignità, cioè il tessuto stesso della nostra vita.” [1]
Cresce e si consolida la tentazione di risolvere la complessità delle situazioni in nome della forza, sia direttamente sia indirettamente attraverso l’accordo bloccato degli interessi predominanti. E il più forte può assumere i nomi più diversi: oligarchie finanziarie, concentrazioni massmediatiche, burocrazie sovranazionali, poteri tecnocratici, ideologie contrabbandate come verità indiscutibili. Il futuro dell’umanità si gioca su molti tavoli: economici, politici, scientifici, militari. Troppo pochi, e non sempre identificabili, sono coloro che decidono al di fuori di ogni controllo collettivo, nel mentre aumenta l’area dell’impotenza e della rassegnazione. I margini di libertà reale appaiono pregiudicati sia dall’incapacità del corpo politico di elaborare progetti coerenti sia dal riflusso del dialogo sociale in fenomeni lobbistici e corporativi sia dall’emergenza di “governi privati” fautori di uno stato minimo e debole.
L’uomo d’oggi si presenta ricco di strumenti, ma povero di fini e di valori. Questa inversione tra mezzi e fini caratterizza – a ben vedere – le moderne forme di alienazione nell’ambito delle quali l’uomo perde il senso profondo di sé in rapporto agli altri uomini e al creato. Si priva cioè della possibilità di una “buona vita”. L’interdipendenza, svincolata da valori e fini più generali rispetto a quelli di una mera competizione acquisitiva genera contraddizioni e ambiguità crescenti.
I “numeri” finiscono per prendere il posto degli uomini specie dei più deboli e quindi più bisognosi di stato sociale. Alle le frontiere politiche tra gli stati, altre se ne affiancano a livello sociale ed economico. Trattasi di frontiere mobili, invisibili sulle carte geografiche, ma materializzate nella divisione del lavoro, negli assetti urbani, nelle regolamentazioni amministrative.
L’esclusione è oggi un grande dramma e una grande paura. Essa è forse più grave delle tradizionali forme di sfruttamento proprie delle società industriali. Lo sfruttamento presuppone pur sempre un rapporto sociale di tipo oppositivo, intorno al quale sono sorte le diverse organizzazioni del movimento operaio e sindacale. Questo rapporto non esiste nell’area dell’esclusione. Qui troviamo soltanto degli individui, dispersi, praticamente invisibili, senza espressione propria, senza mezzi di appoggio e di lotta. Gli esclusi non possono prendere parola, non possono cooperare, non hanno parte nello scambio sociale.
L’invadenza e l’impotenza dell’economia
L’economia è oggi tanto invadente quanto impotente di fronte alla gravità dei problemi che sono sul tappeto. La logica del sempre di più delle stesse misure di politica economica va incontro a pericolosi effetti di rigetto. E’ questo il caso delle misure di austerity ove sempre più spesso il presunto rimedio è peggiore del male che vorrebbe curare. Nel giro di breve tempo siamo passati da una crisi finanziaria a una crisi economico produttiva che si è trasformata in crisi occupazionale. Questa è diventata crisi umana e sociale in gradò di incidere pesantemente sui fondamenti stessi della vita civile e democratica.
I tradizionali paradigmi della scienza economica – la ricerca del proprio tornaconto su orizzonti temporali sempre più brevi e una sorta di darwinismo sociale per cui i più forti vincono e prendono tutto- entrano in crisi tanto a livello interpretativo quanto normativo. Non sono in grado di spiegare ciò che sta succedendo e soprattutto non sono in grado di fornire ricette efficaci. Le grandi questioni dell’esclusione, della pace, dell’ambiente, delle generazioni future rivelano ampiamente sia l’insufficienza del mercato quale regolatore supremo sia dell’individualismo metodologico come norma comportamentale.
Il neoliberismo rischia di distruggere i fondamenti stessi del bene comune. Oggi ci se ne rende sempre più conto. L’economia ha finito per occupare tutti gli spazi della vita dell’uomo. Dall’economia di mercato si è passati alla società di mercato. Lo scambio mercantile si è esteso ad ambiti sempre più vasti quali la cultura, la salute, il tempo libero. L’individuo conta solo se è in grado di consumare e poco importa se per farlo si indebita ipotecando il proprio futuro.
Il neoliberismo non è soltanto un modo di intendere e di gestire l’economia ma è anche e soprattutto una ideologia, una cultura, una modalità di vita, un pensiero che si vuole unico e che nell’ambito della scienza economica pretende di mettere a tacere i punti di vista diversi da quelli dominanti . In questa ottica vanno ridotti al minimo l’intervento pubblico e più in generale i “condizionamenti” sociali, ritenuti inefficienti per definizione. Al contrario si richiedono deregolamentazioni, privatizzazioni, flessibilità.
L’inconsistenza di tali affermazioni è di piena evidenza. L’economia va pertanto ripensata. Va, per così dire, ri-legata alla persona e alla società a partire da alcune verità elementari che vogliamo riepilogare:
Il mercato non soddisfa il bisogno, bensì la domanda pagante ovvero fornita di adeguato potere di acquisto. Con la conseguenza che oggi cresce il superfluo, l’inutile nel mentre esigenze fondamentali di umanità restano inevase;
La dimensione finanziaria non coincide con la dimensione reale dell’economia (produzione di beni e di servizi), anzi la sua tossicità sta avvelenando la base materiale produttiva. La teoria insegna che i mercati finanziari dovrebbero riflettere i fondamentali. Non è più così: li determinano! Attraverso il gioco perverso della speculazione si assiste alla moltiplicazione artificiosa di una ricchezza che non cresce. La finanza si sta mangiando l’economia;
- L’impresa non “appartiene” soltanto agli azionisti o ai proprietari bensì a tutti gli stakeholder (lavoratori, clienti, fornitori, finanziatori, comunità). I loro apporti, su un piano di uguaglianza sostanziale, sono indispensabili per il bene dell’impresa e della collettività;
- L’utilità collettiva, il bene comune non sono la somma dei tornaconti individuali e dei beni privati: dai vizi privati non discendono pubbliche virtù. A sua volta l’economico non coincide con il sociale. La razionalità del primo non può espropriare quella del secondo. Devono semmai armonizzarsi. Non è infatti pensabile uno sviluppo economico che non sia anche sociale, culturale, morale. Lo sviluppo umano non può che essere integrale, riguardare ogni uomo e tutto l’uomo;
- La sfera dell’economia di mercato non è la biosfera. Non funzionano secondo la stessa logica. Questo fatto poteva essere ignorato quando la prima non minacciava l’esistenza della seconda. Ora non più. Lo sviluppo non può che essere sostenibile, fondato sull’alleanza tra uomo e ambiente;
- Tra reddito e felicità il legame non è scontato. Molte ricerche dimostrano che una volta che il reddito procapite ha superato una data soglia (quella che consente di vivere in modo decente) viene meno la sua correlazione con la felicità. Anzi l’aumento del reddito può bruciare i fondamenti della felicità affettiva, famigliare, relazionale… La questione degli stili di vita diventa pertanto fondamentale.
La definizione tradizionale di economia come scienza che insegna a trovare il mezzo migliore per perseguire un fine determinato si rivela oggi del tutto inadeguata. Come abbiamo visto i problemi economici non dipendono tanto dalla mancanza di risorse quanto dal fatto che le istituzioni economiche, politiche e culturali non sono più in grado di interpretare le esigenze della attuale fase di sviluppo. La questione vera sta nella scelta tra fini diversi. Per questo è essenziale il riferimento ai valori, all’etica.
Come ha osservato A. Sen, occorre guardare non al benessere definito in termini utilitaristici, bensì al bene tout-court, entro il quale il benessere gioca un ruolo ovviamente importante ma parziale. Valorizzare le persone e le loro capacità, promuovere la partecipazione congiuntamente al perseguimento della conoscenza e all’esercizio della solidarietà rappresentano obiettivi che, oltre ad essere significativi in sé, disegnano un universo di valori decisivi per lo stesso successo economico.
L’assunto antropologico dell’ homo oeconomicus su cui si regge tutta l’impalcatura neoliberistica va rifiutato con forza perché non giustificato né scientificamente né eticamente. Infatti chiediamoci cosa si può costruire se si assume come termine di riferimento “una figura astratta, eppure diffusissima, che non ha relazioni, né capacità di amare, né storia, né sentimenti all’infuori dell’avidità e dell’angoscia che porta a credere nelle regole brutali di un sistema che pure, per chi ha conservato la vista, è palesemente falso”.
Con altre parole e sempre in un’ottica di concretezza, perché la progettazione degli assetti economici deve poggiare sul presupposto (o pseudo verità) che le persone sono egoiste, edoniste, chiuse in loro stesse? Analogamente perché continuare a vedere il mondo come la foresta di cui parla Hobbes, nel cui ambito gli individui sono intrinsecamente incapaci di creare una comunione di obiettivi solidali e condivisi, di cooperare costruttivamente? L’esperienza storica e anche la riflessione teorica, nella misura in cui fuoriesce dalle secche del pensiero unico, ci dicono che è possibile realizzare una comunità di uomini liberi, uguali e pacifici e che ciò diventa fattore di crescita e di arricchimento per tutti.
Umanizzazione e trascendimento etico. La sfida della reciprocità e della solidarietà
L’economia richiede umanizzazione e trascendimento etico. Laddove all’etica si attribuisca il significato non tanto o non solo di norme di comportamento quanto di “dimora” ovvero di recupero di senso in ordine al lavorare, al consumare, al vivere. L’etica è connaturata alla razionalità economica. Ciò perché la dimensione morale è all’interno di tutti i gradi dell’agire umano, da intendersi come agire dell’uomo, per l’uomo, tra gli uomini. Con altre parole non esiste un’etica parziale, secondaria, derivata che si colloca a valle della “oggettività” dell’economia, della finanza, del sistema delle imprese. L’etica non è una “pietosa infermiera”.
Tutto si tiene e va pertanto assunto in quanto tale. Ogni società è posta di fronte a tre questioni fondamentali relative all’ordinamento dell’economia. Trattasi del cosa produrre, come produrre, per chi produrre.
Con riferimento alla prima questione, cosa deve produrre l’economia? La scelta è tra beni di consumo, beni di investimento, servizi; tra beni per scopi pacifici e beni per scopi militari; beni privati e beni collettivi. Tale scelta non è neutrale. Pertanto a quali beni e servizi dare le priorità?
Con riferimento alla seconda questione, come deve produrre l’economia? Come, in che rapporto, con quali modalità, impiegare i fattori della produzione (terra, materie prime, energia, lavoro, capitale, imprenditorialità, tecnologia)? Non esiste un’unica funzione di produzione. La teoria neoclassica parla di uguaglianza delle produttività marginali ponderate dei fattori utilizzati. Ma un conto è la produttività di un’ora di lavoro libero, un altro conto la produttività di un’ora di lavoro forzato!
Con riferimento alla terza questione, per chi deve produrre l’economia? Chi, alla fine, deve trarre vantaggio dai beni e dai servizi prodotti? Gli investitori? I produttori? I consumatori? E il surplus complessivo come deve essere ripartito fra i membri della società? In base alla prestazione fornita? In base ai bisogni? In base alla posizione di forza dei diversi attori in gioco? Possiamo accettare vistose diseguaglianze nella distribuzione dei redditi e dei patrimoni?
È di tutta evidenza che gli interrogativi dianzi posti sono, ad un tempo, interrogativi economici ed etici. Non c’è un prima e un dopo. Un ordinamento sociale ed economico per potersi sviluppare in maniera armonica ed equilibrata deve fare riferimento a tre principi regolativi. Il primo riguarda lo scambio di mercato fondato sul contratto e mediato dal pagamento di un prezzo, relativo al bene venduto e acquistato. Il secondo riguarda la redistribuzione pubblica della ricchezza prodotta, attraverso il sistema fiscale. Il terzo consiste nella reciprocità che si esprime attraverso la gratuità e il dono, come espressione di fraternità.
Lo scambio di mercato poggia sull’interesse personale e si propone l’uso efficiente delle risorse impiegate per produrre. La redistribuzione delle risorse, fondata sull’autorità e sull’obbligo, si propone l’equità. La reciprocità si propone il consolidamento delle relazioni sociali, alimenta il capitale sociale che sempre più si rivela fattore di competitività complessiva. Il dono genera l’alleanza tra le persone, promuove la fiducia, la cooperazione, l’amicizia, la solidarietà, la libertà. Il dono non è qualcosa per l’altro ma con l’altro.
In questa ottica la solidarietà costituisce un passaggio fondamentale. Però attenzione, non si può fare di ogni erba un fascio. C’è una solidarietà meramente compassionevole, assistenziale, passiva. Riconosce l’esistenza di situazioni di disagio, di povertà,di squilibrio. Cerca in qualche modo di addolcirle, di mitigarle con erogazioni private o pubbliche, senza però mettere in discussione le cause di tali situazioni. Non si crea un rapporto di fiducia con l’altro, questo rimane uno sconosciuto, senza un volto da guardare. C’è invece una solidarietà attiva, partecipativa. Essa è il prodotto di azioni personali e collettive finalizzate alla rimozione delle diseguaglianze, all’aumento della democrazia a livello politico, economico, sociale, all’allargamento degli spazi non solo di autodeterminazione ma anche di autorealizzazione.
La solidarietà che abbiamo definito attiva e partecipativa può manifestarsi secondo tre modalità tra di loro strettamente connesse. La prima, quando rinunciamo a una parte del nostro potere per donarlo a chi potere non ha. La seconda, quando usiamo del nostro potere per ottenere vantaggi per chi si trova in situazione di precarietà. La terza, quando ci impegniamo per creare le condizioni affinché tutti possano realizzare, valorizzare le proprie potenzialità. Come sottolinea Marta Nussbaum occorre eliminare gli ostacoli che impediscono agli individui (singoli, isolati, esclusi) di diventare persone, capaci di relazioni.
Con altre parole abbiamo bisogno di una economia multidimensionale, capace di prendere in carico gli ambienti socio-naturali e culturali sui quali essa si apre; dinamica e coevolutiva con il mondo nel quale si inscrive; a servizio dell’uomo e non padrona del suo destino. Una economia in grado di assumere una molteplicità di criteri oltre alla crescita del Pil. Che il Pil non sia in grado di esprimere compiutamente il benessere di un paese rappresenta ormai un convincimento largamente condiviso. La citazione d’obbligo riguarda Robert Kennedy che nel 1968 affermava che “il Pil misura tutto, eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta”.
Altri criteri dunque, sui quali fondare le scelte collettive. Criteri di salvaguardia (la terra non è soltanto per noi, abbiamo un obbligo verso le generazioni future); di umanità (il rispetto di ogni uomo è la cifra del vivere insieme); di responsabilità (se tutti nel soddisfare le proprie esigenze si comportassero tenendo conto delle esigenze e delle necessità degli altri, alla fine tutti si troverebbero in una situazione migliore di quella che deriverebbe da logiche strettamente individualistiche); di moderazione (la sobrietà è il modo per scoprire risorse che non hanno prezzo); di prudenza (nel senso di capacità di prevenzione e controllo dei rischi presenti e futuri); di diversità (ovvero di riconoscimento dell’altro come via per rispondere alla varietà delle situazioni); di cittadinanza (ognuno è membro a pieno titolo della comunità in cui vive).
Anche in economia più strade sono possibili. I problemi non hanno una sola soluzione. C’è spazio per l’impegno responsabile dei soggetti e per la loro progettualità, una progettualità eticamente e umanamente fondata. C’è spazio per una economia che nasce dal basso, fortemente radicata nella società civile, una economia dotata altresì di una forte carica di contaminazione nei confronti sia dello stato sia del mercato.
Le esperienze del mondo cooperativo, delle fondazioni, delle imprese sociali, del volontariato, del commercio equo e solidale, del microcredito, dell’economia di comunione ma anche delle imprese profit impegnate in progetti di responsabilità sociale e di welfare aziendale ci dicono che le frontiere dell’economia e del mercato possono essere allargate nella prospettiva del bene comune. Trattasi di esperienze che rovesciano la prospettiva del “do ut des”, dello scambio che non guarda alle persone, che evita il coinvolgimento.
In luogo di situazioni ove i più forti sfruttano a proprio vantaggio le posizioni di debolezza di chi ha dimeno, di chi non ha voce, non ha potere di mercato emergono relazioni di cura (darsi carico) attraverso le quali consumatori, lavoratori, risparmiatori, produttori si impegnano per offrire pari opportunità, costruire le capacità e promuovere inclusione per coloro che sono rimasti incagliati nella trappola della povertà. [2]
Se c’è fiducia reciproca, se c’è solidarietà il mercato può espletare pienamente la sua funzione economica. Diventa una istituzione fondamentale. E’ possibile pertanto operare per una grande riconciliazione o ricomposizione, anche semantica, tra:
- socialità ed economicità superando l’impostazione per cui la prima è considerata esclusivamente come un costo o un vincolo da minimizzare e la seconda come unica espressione della razionalità imprenditoriale;
- crescita della produttività e aumento dell’occupazione assumendo in termini contestuali lavoro e sviluppo, promuovendo altresì il finanziamento di attività di utilità sociale;
- flessibilità per far fronte al cambiamento e tutela dei valori fondamentali della persona che non possono essere strumentalizzati e precarizzati;
- uguaglianza fondamentale dei soggetti e valorizzazione delle professionalità personali in una prospettiva di reciproco arricchimento;
- profitto e uso sociale delle risorse nel quadro delle più vaste esigenze della crescita nella solidarietà.
Efficienza, giustizia, partecipazione non possono più essere separate e, in misura crescente, si pongono come condizioni per la sostenibilità dello sviluppo. Rispettare l’ambiente è alla lunga conveniente; il coinvolgimento dei lavoratori, dei consumatori, dei cittadini è essenziale per il successo delle stesse iniziative economiche; senza regole del gioco trasparenti e affidabili anche la funzionalità del mercato viene meno; la solidarietà crea le premesse perché abbiano a dispiegarsi le potenzialità di ciascuna persona e di ciascun gruppo sociale, perché sia possibile l’accesso più largo ai beni e ai servizi di base nell’interesse del maggior numero di soggetti e nel rispetto delle generazioni future.
La necessità di nuovi criteri di giudizio
Non è la scarsità delle risorse che genera la competizione e la lotta tra gli uomini. Piuttosto è vero il contrario: la competizione e la lotta depotenziano le risorse, nel mentre la condivisione solidale e creativa le moltiplica. In questo quadro la questione dei beni comuni diventa cruciale. Occorre a scala globale costruire un ordinamento e una strategia di azione secondo cui i beni della terra (ambiente, clima, acqua, conoscenza) non appartengono a coloro che per primi se ne impossessano o li sfruttano, ma son destinati a tutti gli uomini. Sono appunto “beni pubblici globali”.
Di fronte a una crisi sempre più pervasiva e incidente, si impongono grandi mutamenti culturali, l’assunzione di criteri di giudizio diversi da quelli ordinari. Gli ultimi, i poveri, in un’ottica di globalità e di interdipendenza diventano chiave interpretativa del vivere sociale. Gli ultimi hanno bisogno dei primi, i primi hanno bisogno degli ultimi. Gli ultimi hanno bisogno della imprenditoria, competenza, scienza, abilità dei primi. I primi a loro volta hanno bisogno degli ultimi per trovare un senso alle loro ricchezze: l’accumulo fine a se stesso non genera una nuova qualità della vita bensì una cultura di disperazione.
Innovazione e trasformazione dei sistemi rappresentano certamente una discriminante ineludibile per le moderne società industriali e postindustriali. Si tratta però di verificare se lo sviluppo e la crescita debbano, necessariamente ed esclusivamente, poggiare sugli squilibri, le disuguaglianze (che il gioco economico finanziario inevitabilmente rafforza), con la conseguente distinzione e selezione tra vincitori e vinti oppure se lo sviluppo e la crescita – nella misura in cui sono autentici- non possano invece trovare stimolo ed innesco nella “solidarietà creatrice” con l’inserimento dei processi di cambiamento in una prospettiva comunitaria, con la diffusione di valori di comunicazione, dialogo, apprendimento, cooperazione, valorizzazione di tutte le risorse.
Certamente la prima alternativa o ipotesi è, al presente, largamente maggioritaria. Il progetto di società, proposto come modello all’opinione pubblica, poggia sull’apologia del migliore (o del più forte): che i migliori (o i più forti) vincano, stabiliscano le regole del gioco, le modalità di risoluzione dei conflitti, di allocazione delle risorse e di suddivisione dei redditi. I successi di pochi grandi attori diventano espressione di interesse generale.
La seconda alternativa o ipotesi, nella misura in cui si rivela scarsamente strutturata o strumentata metodologicamente ed operativamente, potrebbe apparire come una illusoria o consolatoria fuga in avanti. Purtuttavia la complessità e novità dei problemi dai quali siamo interpellati ci portano ad intravedere in tale alternativa o ipotesi il fondamento di una razionalità più ricca ed autentica. Occorre allargare il campo, occorre ragionare per futuri possibili a partire dai pezzi di progetto che sono elaborabili dai vari protagonisti sociali. Vincoli e possibilità possono essere spostati in avanti, liberando nuove energie e nuove risorse.
Sulla scena del mondo non ci sono problemi settoriali, ma interdipendenti. Diritti umani e sociali, ambiente, educazione, sviluppo, scambi commerciali, salute, conflitti, instabilità sono altrettante tessere di un unico mosaico sul quale si gioca la possibilità di una buona società in cui vivere a scala globale. Il sapere scientifico-tecnologico, la comunicazione, la rete, ma anche la paura di processi incommensurabili e incontrollabili in termini di rischio, quasi per assurdo, unificano in comunità la globalità degli uomini con la loro storia, cultura, appartenenze. Lotta alla povertà e sviluppo sostenibile – come evidenzia la Laudato si’ – sono le due facce della stessa medaglia. L’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme o si salvano insieme. Qui sta il punto di forza del quale ha bisogno la leva della razionalità sia per capovolgere situazioni di ingiustizia e esclusione che non possono più essere accettate dalla comunità mondiale, sia per cogliere e valorizzare tutte le potenzialità del bene condiviso.
La globalizzazione può avere un’anima; può essere ancorata a un fondo comune di valori condivisi e vissuti nel profondo che merita di essere portato alla luce non ostante i molti conflitti, le molte diversità. Valori di verità (poter credere in quello che ci viene detto), di giustizia (non sentirsi discriminati per nessun motivo), di umanità (non essere trattati come oggetti ma come soggetti di pari dignità). Da qui il dovere di una cultura di non violenza, di pace, di rispetto di ogni vita e della natura; il dovere di una cultura della solidarietà e di un ordine economico giusto; il dovere di una culture dell’accoglienza reciproca nella piena valorizzazione dialogante delle differenze. L’interculturalità non è semplice accostamento tollerante di culture molteplici. Esprime piuttosto la possibilità di imparare dagli altri e fare strada insieme a loro.
Messo con le spalle al muro l’uomo deve ricostruire se stesso. Il sentiero è stretto ma percorribile. Non mancano segni di inquietudine e anche di speranza. Sempre più ci si interroga sulla validità e sui rischi dei modi di agire a livello di produzione, consumo, utilizzo delle risorse ambientali. Si fa strada la consapevolezza della necessità di modelli plurali e interdipendenti di modernizzazione, in grado di sviluppare le capacità e le peculiarità delle persone secondo le loro specificità a partire dai più deboli. Ci si accorge che non si è soli e che si è responsabili verso gli altri che dipendono, per il bene e per il male, dalle nostre azioni. E la catena della responsabilità non ha confini né di spazio né di tempo. L’umanità, il calore umano, il senso di comunità possono far sì che qualsiasi luogo smetta di essere un inferno e diventi il contesto di una vita degna. (Ls, 150 – 154).
Lorenzo Caselli*
* Lorenzo Caselli è Direttore Emerito di “Impresa Progetto”; è Professore Emerito presso il Dipartimento di Economia (DIEC) dell’Università degli Studi di Genova; email: lcaselli@economia.unige.it
[1] E. Morin, La via. Per l’avvenire dell’umanità, Raffaele Cortina Editore, Milano, 2012.
[2] L. Becchetti, La transizione dal Welfare State alla Welfare Society, in Paradoxa, 3, 2010.
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Incontro – Dibattito
Cagliari, venerdì 5 ottobre 2018, ore 16.30. Sala conferenze del Banco di Sardegna, in viale Bonaria, 33, Cagliari.
Presentazione Atti del Convegno Lavorare meno, lavorare meglio, lavorare tutti, Edizioni Aracne.
Ore 16.30: Introduce Andrea Pubusa. Intervengono: Luisa Sassu, Antonio Dessì, Gianna Lai, Gianfranco Sabattini, Gabriella Lanero, Silvano Tagliagambe.
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Ore 18.00 – Il lavoro nel XXI secolo
Domenico De MASI.
intervistato da Fernando Codonesu.
Segue dibattito.
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Verso l’Incontro-dibattito sul Lavoro del 5 ottobre con Domenico De Masi. Materiali su Reddito di cittadinanza e dintorni
Movimenti intorno al Reddito di cittadinanza
di Emanuele Ranci Ortigosa | 20 settembre 2018
Che il tema del contrasto alla povertà occupi ora uno spazio senza precedenti nell’agenda politica è molto importante e va ascritto a merito del Movimento 5 Stelle che lo ha inserito nel Contratto di governo e anche a Di Maio che se ne è assunto la responsabilità politica come Ministro del Lavoro. Merita quindi attenzione la mozione approvata dalla maggioranza di Governo alla Camera che traccia linee per futuri interventi e in particolare per l’introduzione del Reddito di cittadinanza. Il testo della mozione richiama in apertura il Reddito di Inclusione (Rei), la misura introdotta dal governo Renzi e ampliata poi dal governo Gentiloni, riconosciuta come “misura unica nazionale di contrasto alla povertà” e come “livello essenziale delle prestazioni da garantire uniformemente su tutto il territorio nazionale”, ma sviluppa poi su di essa interessanti valutazioni.
“Dal punto di vista teorico, afferma la mozione, la scelta tra selettività e universalismo riflette una diversa concezione circa il ruolo dello stato. Nel caso del cosiddetto Rei, il modello di riferimento è quello di uno stato sociale con compiti residuali, in cui la fornitura delle prestazioni non può che essere subordinata alla prova dei mezzi e il livello dei benefici deve essere appena sufficiente a garantire un livello minimo di risorse; i presentatori del presente atto di indirizzo ritengono invece che uno stato sociale debba avere compiti redistributivi, erogando, in moneta o in natura, prestazioni sociali volte a garantire alla generalità dei propri cittadini un tenore di vita adeguato, comunque commisurato anche a uno standard di povertà relativa”.
Secondo loro “una delle principali motivazioni addotte a favore del ricorso a criteri selettivi, ovvero al cosiddetto Rei, è da ricercarsi nella presunta minore onerosità per il bilancio statale unita ad una maggiore efficacia in termini di equità”. Ma così “la misura del Rei avvantaggia esclusivamente coloro che si collocano nelle posizioni reddituali inferiori della distribuzione, mentre l’erogazione di un beneficio universale comporta benefici anche per le classi medie”. Il Rei insomma “attua misure tradizionali allo scopo di garantire un livello minimo di sussistenza nel caso i singoli individui non dispongano di fonti alternative di reddito: tale misura agisce come una sorta di protezione contro il rischio di non lavorare e si configura sostanzialmente come misura redistributiva per combattere esclusivamente la povertà di reddito”.
Selettività e universalismo
Il testo vuole marcare una differenza concettuale fra ReI, selettivo, assistenzialistico e rivolto ai più poveri, e il Reddito di cittadinanza più universalistico e meno selettivo, più ispirato quindi alla teoria originaria del reddito di cittadinanza, il “reddito di base universale”. Questo prevede infatti l’erogazione di un contributo a ogni cittadino come tale, senza alcuna indagine sul beneficiario e senza alcuna selettività sulla sua condizione economica, per consentirgli di fare libere scelte sull’uso del suo tempo, e anche sul tempo di lavoro o di non lavoro.
La mozione taccia quindi il ReI di selettività eccessiva, dato che assume come selettore dei beneficiari una modesta frazione della povertà assoluta, pari a 180 euro netti al mese per un singolo, “tale da avvantaggiare esclusivamente coloro che si collocano nelle posizioni reddituali inferiori della distribuzione. L’erogazione di un beneficio universale comporta invece benefici anche per le classi medie”, e per questo la proposta del M5Stelle assume una soglia di riferimento ben più elevata, quella del rischio di povertà definito dalle statistiche europee, pari a 780 euro netti al mese per un singolo. E potrebbe anche con passi ulteriori aprire verso le classi medie: “erogando un importo più elevato rispetto al sussidio economico, gli 80 euro, che il governo Renzi ha introdotto, si potrà determinare persino, nel prossimo futuro, una riduzione degli ammortizzatori sociali presenti nel sistema, andando così a sgravare il bilancio dell’Inps da una serie di costi e, in aggiunta, verrebbe garantita una riduzione dei contributi sociali a vantaggio sia dei salari, sia dei redditi da lavoro”.
Le risorse, dove trovarle?
Queste affermazioni potrebbero preludere a un riutilizzo, prossimo o futuro, per il finanziamento del Reddito di cittadinanza, delle risorse oggi assorbite dagli 80 euro di Renzi (9 miliardi), più quelle destinate agli ammortizzatori sociali contro la disoccupazione temporanea (951 milioni), al ReI (2.750 milioni), cui si potrebbero aggiungere l’assegno personale di ricollocazione e la garanzia giovani (2 miliardi), il bonus per l’acquisto dai giovani di beni culturali (290 milioni), per un totale di ben 14.951 milioni. Una tale riconversione della spesa è stata proposta da una rivista vicina al Movimento, Politica ed economia, ed è stata riportata da Di Vico sul Corriere della sera. Forse non entrerà nella prossima legge di bilancio, ma indica una prospettiva che viene considerata, e che risulterebbe anche coerente con la teoria del Reddito di cittadinanza, che prevede appunto il riassorbimento in tale misura di altri interventi sociali e dei relativi costi.
Il ReI ha rappresentato un’importante svolta, da tempo attesa, nelle nostre politiche contro la povertà, ma l’attuale sua consistenza e diffusione è assolutamente inadeguata. L’eccessiva lentezza con cui i passati Governi hanno implementato la misura a fronte di un disagio sociale diffuso e crescente, ha avuto del resto puntuale riscontro nell’esito delle recenti elezioni, con il ridimensionamento del PD e la crescita del consenso del Movimento 5 Stelle.
Quanto alla profonda revisione dell’attuale imputazione e distribuzione della spesa assistenziale a sostegno dei redditi, anch’io da tempo ne condivido la necessità, ma l’ipotesi ora prospettata non è per ora inserita in una prospettiva più generale di riforma del sistema e non è accompagnata da una attenta verifica sugli effetti di tale operazione, e in particolare sulle aree e le situazioni di scopertura rispetto a bisogni seri e concreti che probabilmente aprirebbe. In attesa di maggiori approfondimenti appare quindi per ora azzardata.
I quasi 15 miliardi che la riconversione indicata libererebbe dalle attuali destinazioni renderebbero praticabile finanziariamente la proposta di Reddito di cittadinanza assunta nel contratto di governo: soglia della povertà relativa di 780 euro mensili, 500 euro di importo medio mensile per famiglia, 8 milioni di individui beneficiari, 17 miliardi di costo. Di Maio su questa insiste, e anche in tv a Cartabianca ha escluso di poter accettare soluzioni riduttive come l’assunzione dell’attuale soglia del ReI (per un singolo 180 euro al mese, importo mensile medio per famiglia stimato a 300 euro), sia pur associata a un raddoppio degli attuali beneficiari del ReI, da 2 a 4 milioni di persone (con passaggio da 2,5 a 5 miliardi di costo), o a una sua estensione a tutti i poveri assoluti, 5 milioni di individui, con 6,3 miliardi di costo.
Alcuni commentatori ipotizzano che se i vincoli di bilancio risultassero insuperabili, una mediazione accettabile come primo passo di un processo che dovrà andare oltre potrebbe configurarsi con l’assunzione di una o più soglie nel range di quelle della povertà assoluta Istat, per un target di 5 milioni di beneficiari e un costo di 10 miliardi. La definizione della soglia selettiva dei beneficiari e di integrazione del reddito sarebbe politica, e non certo l’assunzione delle soglie territoriali Istat già molto discusse, in particolare perché, basate sul costo della vita, avvantaggerebbero il nord, non considerando adeguatamente le carenze di infrastrutturazione e servizi del Mezzogiorno. Anche tale ipotesi risulta ad oggi finanziariamente poco praticabile se non si intendesse procedere a revisione delle misre in atto ad integrazione di redditi carenti, quelle sopra indicate o altre, ad esempio quelle da noi proposte con analisi approfondite nel 2016.
Lavoro e anche pensione di cittadinanza?
Tornando alla mozione, il testo si concentra poi sul lavoro: “in un mercato del lavoro sempre più flessibile, dove diventa sempre più facile perdere e trovare un nuovo lavoro, il reddito di cittadinanza consentirebbe di avere una continuità economica per i periodi in cui non c’è occupazione, e ciò è positivo innanzitutto per i lavoratori, ma anche per il mercato stesso in un’ottica di flexsecurity connotata dalla flessibilità per chi assume da una parte e da uno stato in grado di formare, riqualificare e reinserire il lavoratore, incrociando la domanda con l’offerta di lavoro dall’altra; (…) attraverso una misura, qual è il reddito di cittadinanza, è sicuramente possibile prevenire l’esclusione sociale degli individui con un reddito non continuo ed esiguo”.
La mozione conclude impegnando il Governo in primo luogo “ad assumere iniziative per istituire il reddito di cittadinanza, quale misura per il contrasto alla povertà, alla diseguaglianza e all’esclusione sociale nonché a favorire la promozione delle condizioni che rendano effettivo il diritto al lavoro e alla formazione, attraverso politiche volte al sostegno economico e all’inserimento sociale di tutti i cittadini italiani in pericolo di marginalità, nella società e nel mondo del lavoro”; e a tal fine “a valutare l’opportunità di assumere iniziative per fissare un ammontare, parametrato alla soglia di rischio di povertà, calcolata sia per il reddito che per il patrimonio, alla base della scala Ocse per nuclei familiari italiani più numerosi”. Viene così finalmente chiarito che, come per il ReI, la situazione economica dei potenziali beneficiari verrà ricostruita considerando sia la componente reddituale che quella patrimoniale.
Da ultimo la mozione impegna il Governo “a valutare l’opportunità di assumere iniziative per assegnare una pensione di cittadinanza ai cittadini italiani che vivono sotto la soglia minima di povertà, attraverso l’integrazione dell’assegno pensionistico, inferiore a 780 euro mensili, secondo i medesimi parametri previsti per il reddito di cittadinanza”. Indicazione questa vaga (si riferisce solo alle pensioni minime integrate? O anche ad altri assegni?, che suscita non poche perplessità. Perché o è inutile, nel senso che i detentori di pensione minima debbono poter usufruire del reddito di cittadinanza come tutti gli altri cittadini, o mira invece a privilegiare l’aumento dei minimi pensionistici, con i relativi rilevanti costi, rinviando al futuro la ben più impegnativa realizzazione del reddito di cittadinanza. Sarebbe una scelta analoga a quella che già all’inizio del secondo millennio ha affossato il tentativo della ministra Turco di introdurre una misura specifica di contrasto alla povertà, il RMI, che se avesse avuto successo avrebbe contribuito a contrastare il drammatico aumento della povertà avvenuto negli anni della crisi, dal 2007 ad oggi, anche per la mancanza di uno strumento specifico di protezione. Anche allora si preferì integrare i minimi pensionistici piuttosto che finanziare l’avvio del Rmi. Si rischia allora di ripetere la passata scelta elettoralistica assicurando la pensione di cittadinanza alla soglia dei 780 euro ai titolari di pensione minima, in piena contraddizione con l’evoluzione della povertà che vede penalizzati soprattutto minori, giovani, famiglie con più figli, mentre lascia largamente indenni le persone anziane e con qualche percorso lavorativo formalizzato, meglio protette dai tradizionali interventi assistenziali. E ancora una volta si privilegerebbe la facile erogazione di un sussidio, scisso da strumenti di inclusione e promozione sociale, che richiedono impegno pazienza fatica, ma danno ritorni certo meno immediati ma ben più qualificati e efficaci.
Solo per gli italiani?
Con un grave cedimento al “dagli all’immigrato!” la mozione afferma ripetutamente che beneficiari del reddito e della pensione di cittadinanza saranno solo gli italiani. Il criterio generalmente assunto della residenza, nel caso di una certa durata, teso a impedire incursioni occasionali e opportunistiche che l’introduzione di un beneficio consistente a integrazione di redditi inadeguati potrebbe stimolare, per riservare il beneficio solo a chi abbia scelto di stare con continuità sul nostro territorio, assumendo oneri e vantaggi, verrebbe così sostituito da quello della nazionalità. Certo così si risparmierebbero anche non poche risorse, dato che le famiglie di soli stranieri, o miste, registrano una percentuale di povertà, sia assoluta che relativa, di molto superiore a quelle delle famiglie di soli italiani. Ma a scapito di una grave regressione sul piano dei valori e dei conseguenti diritti: dovremo sperare ancora una volta nella magistratura, ordinaria o costituzionale, o europea, per la loro riaffermazione?
Per concludere non posso che ribadire quanto ho affermato nel mio recente libro e più volte qui su welforum: l’impegno dei 5 stelle sul tema povertà è salutare, le critiche all’insufficienza e tardività del ReI sono giustificate e condivisibili ma non devono condurre a ignorare ciò che con esso finalmente si è avviato, come affermazione di un livello essenziale con un corrispondente diritto e come processo di sviluppo di interventi di inclusione sul territorio. Si cambi pure il nome, ma non si azzeri il lavoro finora svolto perché ReI e Reddito di cittadinanza presentano rilevanti differenze ma, malgrado le osservazioni della mozione che prima riportate, non risultano alternativi. Quanto fatto per il ReI è funzionale e utile anche ad uno sviluppo del Reddito di cittadinanza. Va quindi salvaguardato, e però integrato e implementato per superarne i forti limiti e per introdurre nuovi orientamenti e sviluppi, in particolare sul fronte dell’inserimento lavorativo, più corrispondenti alla visione della attuale maggioranza di governo.
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Fonte: https://welforum.it/movimenti-intorno-al-reddito-di-cittadinanza/
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Incontro – Dibattito
Cagliari, venerdì 5 ottobre 2018, ore 16.30. Sala conferenze del Banco di Sardegna, in viale Bonaria, 33, Cagliari.
Presentazione Atti del Convegno Lavorare meno, lavorare meglio, lavorare tutti, Edizioni Aracne.
Ore 16.30: Introduce Andrea Pubusa. Intervengono: Luisa Sassu, Antonio Dessì, Gianna Lai, Gianfranco Sabattini, Gabriella Lanero, Silvano Tagliagambe.
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Ore 18.00 – Il lavoro nel XXI secolo
Domenico De MASI.
intervistato da Fernando Codonesu.
Segue dibattito.
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PER UNA NUOVA STAGIONE DI LOTTA PER LA COSTITUZIONE
«La Costituzione italiana, da molti anni al centro dell’attenzione demolitrice delle diverse maggioranze parlamentari e di governo, sempre uscite sconfitte dal tentativo di modificarne la struttura e gli strumenti posti a garanzia per i cittadini, è nuovamente oggetto di aggressione». E’ una situazione «mai sopita di pericolo per la democrazia». Per questo il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale invita ad «una nuova stagione di lotta per la Costituzione», nella consapevolezza che difendere uniti la democrazia costituzionale costituisce «il principale ostacolo ai disegni reazionari e autoritari di mutamento delle nostre istituzioni».
E’ questo il cuore dell’appello che il Coordinamento per la Democrazia costituzionale rivolge a tutte «le culture, i cittadini, i soggetti sociali e le formazioni associative che si riconoscono nei valori della democrazia costituzionale», dando anche la propria disponibilità a sostenere tutte le iniziative che vadano in questo senso (dalla Marcia Perugia-Assisi alla manifestazione promossa dal quotidiano Il Manifesto).
«Mai come ora – si legge nel documento del Cdc – si assiste ad un’azione politica diretta ad insinuare e coltivare nella vita civile la discriminazione tra le persone». L’aggressione alla Costituzione italiana, infatti, è contrassegnata «da un’unica matrice di fondo: la negazione dei diritti fondamentali e universali delle persone, dei principi di solidarietà ed eguaglianza, che dal 1948 accompagnano e rafforzano la democrazia costituzionale in cui viviamo».
«Si vive quotidianamente in questo Paese – continua l’appello – la privazione effettiva dei diritti al lavoro, ad una efficiente sanità pubblica, all’istruzione, alla casa», mentre contemporaneamente vengono messi in campo «propagande e comportamenti» che spingono alla «logica del capro espiatorio che negli anni 30 del secolo scorso portò all’abiezione estrema delle leggi razziali».
Appare chiaro, sostiene ancora il documento del Cdc, «che l’attuazione concreta della Costituzione non sia, come dovrebbe, il riferimento fondamentale dell’agire politico. (…) Nuove forme di attacco alla Costituzione sono in atto, con fatti compiuti, e non possono escludersi, perché già annunciati, rinnovati tentativi formali di modifica della Carta. Siamo in presenza di una deriva autoritaria e presidenzialista, destinata anche a ridurre drasticamente il ruolo del Parlamento, la cui centralità come sede rappresentativa della sovranità popolare viene apertamente messa in discussione. Ciò richiede una reazione e un rinnovato impegno per ricostruire le energie democratiche per impedire tentativi di annullamento dei diritti e di esasperazione delle disuguaglianze». Occorre anche «avviare una campagna politica a lungo termine che sappia vigilare e incidere sulle scelte legislative ed esecutive, affinché siano ripristinati i valori costituzionali su cui si fonda la convivenza civile». E «occorre l’impegno concreto perché i diritti e i doveri dettati dalla Costituzione trovino realizzazione pratica nella vita democratica del Paese».
«La vittoria del NO nel referendum costituzionale del dicembre 2016 – ricorda infine il Cdc – ha tracciato la strada per la rinascita di una coscienza collettiva democratica; la mobilitazione e l’impegno di tanti cittadini sono riusciti a fermare chi voleva stravolgere la Costituzione per modificarne soprattutto la forma di governo».
Roma, 18 settembre 2018
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DIBATTITO. SinistraCheFare?
Un Piano del lavoro per la sinistra
di Laura Pennacchi, 05.09.2018
Italia. Il pilastro di una «politica della speranza» opposta alla «politica della paura» in cui indulgono le destre è un progetto ispirato al New Deal di Roosevelt.
Una sinistra animata dalla volontà di uscire dall’afasia e dalla irrilevanza in cui è precipitata sbaglierebbe a lasciare nelle sole mani dei 5Stelle – per quanto opportunistiche, demagogiche e improvvide esse possano essere – la questione del nuovo intervento pubblico (e quella, correlata, della necessaria autocritica rispetto alle passate esperienze di privatizzazione), sposando la tesi neocentrista che rispolvera un’antica avversione allo Stato per assimilare in un medesimo giudizio di condanna sovranismo e statalismo.
Bisogna operare opportune distinzioni. Proprio l’Europa è il terreno migliore per indicare a quale abbaglio altrimenti si andrebbe incontro. Infatti la globalizzazione equa da sostituire alla globalizzazione iniqua che ci ha retto finora richiede l’esercizio di una sovranità europea, continentale non nazionale, e l’intervento pubblico oggi auspicabile va traguardato a scala europea, nel solco di grandi ispirazioni come il Piano Delors e di straordinari progetti quale fu il progetto Galileo.
Qui si motiva la connessione tra «rilancio degli investimenti pubblici» e «riscoperta del lavoro», connessione che manca nell’operare del governo Salvini-Di Maio, il quale alla sua esplorazione preferisce l’insistenza sul perverso binomio «flattax/reddito di cittadinanza» con tanto di accompagnamento di condono fiscale.
PIÙ SPECIFICAMENTE ciò che manca al governo gialloverde è una visione generale ancorata a un progetto strategico di riscatto e di rinascita del Paese, surrogata dall’alimentazione fascistoide delle ansie e delle fobie razzistiche provocata da Salvini e dall’affastellamento di misure tradizionali e prive di incisività (politiche attive del lavoro, formazione, decontribuzione, incentivi fiscali, ecc.) sul lato «sociale» a cui è dedito Di Maio. Così rimaniamo pur sempre nell’ambito di forme di supply side economics di matrice ordoliberale in cui non c’è nessuno spazio per la creazione diretta di lavoro, perché le misure a cui ci si affida sono soprattutto benefici fiscali e trasferimenti monetari – quale è anche il reddito di cittadinanza –, dimostrando quanto spurio possa essere l’impasto populismo/neoliberismo/sovranismo.
Intanto, a livello sia internazionale che interno, investimenti, consumi, scambi, produttività sono tutt’altro che forti e crescono le diseguaglianze, mentre il sostegno monetario della Bce si sta esaurendo. Il commercio globale si va indebolendo anche in conseguenza del protezionismo di Trump, i mercati azionari (e immobiliari) rimangono molto turbolenti, è elevata la divergenza tra tassi di interesse tra le maggiori economie – da cui nasce il famoso spread che è tornato a penalizzare pesantemente l’Italia –, risultano accentuati i rischi, la volatilità dei tassi di cambio, la vulnerabilità agli shocks esterni.
OCCORREREBBE, dunque, un eccezionale slancio della fantasia e dell’intelligenza per identificare una «riforma chiave» che faccia da baricentro e da catalizzatore per tutte le problematiche che si agitano. Anche la sinistra vi troverebbe un laboratorio con cui liberarsi dalla soggezione a un blairismo più o meno vetero, magari rieditato sotto forma di macronismo e di indistinto «repubblicanesimo». Ciò che ci si ripropone come cruciale, infatti, è la profondità della trasformazione a cui dobbiamo aspirare. Una «riforma chiave» di tal fatta – il pilastro di una «politica della speranza» opposta alla «politica della paura» in cui indulgono le destre – è un Piano del Lavoro ispirato al New Deal di Roosevelt che assuma la questione della disoccupazione non come un «fallimento del mercato» tra gli altri, ma come la contraddizione fondamentale ricorrente del capitalismo finanziarizzato.
BERNIE SANDERS negli Usa fa sua la prospettiva del «lavoro garantito» e punta a schierarvi l’intero Partito Democratico. Da noi la scala corretta a cui collocare il Piano del lavoro è quella europea, perché esso contiene intrinsecamente non un angusto sovranismo ma un rilancio della dimensione e della sovranità continentale non nazionale. Per l’Europa e per l’Italia, infatti, costituisce un problema ma anche una straordinaria opportunità lo sviluppo di una domanda interna troppo coartata dal prevalere del mercantilismo che la Germania ha imposto a se stessa e ai suoi partner. Per l’Europa e per l’Italia i bisogni dei cittadini possono costituire un volano prodigioso di sviluppo.
Il Piano del lavoro configura qualcosa di drasticamente diverso dalle scelte che sono diventate standard, anche nella versione temperata del neoliberismo prevalsa a sinistra, dopo la fine dei «trent’anni gloriosi»: politiche attive del lavoro, occupabilità dei lavoratori, decontribuzioni spinte, benefici fiscali. Un grande piano per il lavoro prevede un mix di investimenti pubblici e investimenti privati, ma anche lo Stato «occupatore di ultima istanza» (secondo le indicazioni di Keynes, Minsky, Meade, Atkinson e tanti altri), offrendo lavori pubblici utili socialmente, anche temporanei, al salario minimo legale ai disoccupati che cerchino e non trovino lavoro o per integrare l’occupazione di coloro che abbiano un lavoro parziale involontario.
SOLO COSÌ SI PUÒ TORNARE a prendere nuovamente sul serio l’obiettivo della piena occupazione – eluso dalla maggior parte dei paesi Ocse dagli anni ’70 – facendo sì che i governi offrano anche «lavoro pubblico garantito» agendo come employer of last resort. Al contrario, predisporsi alla jobless society creata dal funzionamento spontaneo del capitalismo – l’argomento fallace con cui molto sostengono il reddito di cittadinanza – equivarrebbe a non frapporre alcun argine alla catastrofe.
La creatività istituzionale del New Deal, con Agenzie pubbliche vigorose in molti campi di attività, così come l’inventiva del Piano del lavoro della Cgil del 1949 e quella con cui Ernesto Rossi – uno dei promotori del Manifesto di Ventotene per l’Europa – coniugava la sua proposta di «Esercito del lavoro» alla generalizzazione del «servizio civile», possono essere le fonti di inesauribile modernità a cui ispirarsi.
UNA MOBILITAZIONE di energie fuori del comune andrebbe sollecitata in tutti i settori e in tutte le direzioni. Non dobbiamo dimenticare che l’anima del New Deal di Roosevelt furono straordinari progetti collettivi (quali l’elettrificazione di aree rurali, il risanamento di quartieri degradati, la creazione dei grandi parchi, la conservazione e la tutela delle risorse naturali) piegati al fine di creare lavoro in vastissima quantità e per tutte le qualifiche (perfino per gli artisti e gli attori di teatro) attraverso i Job Corps – le «Brigate del lavoro» –, identificando per questa via nuove opportunità di investimento e di dinamismo per l’intero sistema economico.
È questo il varco da cui oggi si può sollecitare la svolta da un modello di sviluppo malato – basato sulla droga delle «bolle» finanziarie e immobiliari, dell’incremento esponenziale di valore degli asset e dell’indebitamento speculativo privato – a un nuovo modello di sviluppo, orientato a benessere umano e civile, rivoluzione verde, rigenerazione urbana e riqualificazione dei territori, immigrazione integrata, invecchiamento demografico, salute, istruzione e Università, beni culturali.
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© 2018 IL NUOVO MANIFESTO SOCIETÀ COOP. EDITRICE
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Incontro – Dibattito
Cagliari, venerdì 5 ottobre 2018, ore 16.30. Sala conferenze del Banco di Sardegna, in viale Bonaria, Cagliari.
Atti del Convegno Lavorare meno, lavorare meglio, lavorare tutti
Ore 16.30: Introduce Andrea Pubusa.
Intervengono: Luisa Sassu, Antonio Dessì, Gianna Lai, Gianfranco Sabattini, Gabriella Lanero, Silvano Tagliagambe.
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Ore 18.00 – Il lavoro nel XXI secolo
Domenico De MASI
intervistato da Fernando Codonesu
Segue dibattito
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Dibattito. Reddito di Cittadinanza. Parliamone (e agiamo) con cognizione di causa
Il reddito di cittadinanza non è una “misura” per contrastare solo la povertà
di Gianfranco Sabattini*
Le ultime elezioni hanno avuto tra gli argomenti oggetto di confronto pubblico la possibile introduzione in Italia del reddito di cittadinanza; Nel corso del confronto, contro questa forma di reddito, sono state formulate critiche riduttive, sempre orientate a considerarla, tra l’altro, come “misura” diretta unicamente a rimuovere la “piaga” delle povertà.
A questa tendenza non sfugge una delle ultime iniziative editoriali, il cui autore, Emanuele Ranci Ortega, presidente e direttore scientifico dell’Istituto per la ricerca scientifica, nonché fondatore e direttore dell’Osservatorio nazionale sulle politiche sociali (Welforun.it), ha pubblicato il libro titolato “Contro la povertà. Analisi economica e politiche a confronto”.
Il libro costituisce un esempio paradigmatico della tendenza in atto che, facendo come si suole dire, di “tutta l’erba un fascio”, manca di cogliere le specifiche differenze esistenti tra il reddito di cittadinanza correttamente inteso e la altre ”misure” di politica sociale, finalizzate al sostegno del livello del reddito dei cittadini (o delle famiglie) che, versando in condizioni di povertà assoluta, non dispongono delle primarie risorse esistenziali.
Le finalità del libro sono rese esplicite da Tito Boeri (presidente dell’INPS), il quale, nella Prefazione, afferma esplicitamente che i pregi dell’analisi di Ranci Ortega è quello di “porre all’attenzione dell’opinione pubblica la piaga della povertà in Italia, proponendo misure sostenibili, sia sul piano finanziario che su quello amministrativo, per ridurla”, ma anche quello di indicare che, a tal fine, sarebbe sufficiente introdurre e finanziare adeguate “misure di contrasto alla povertà che selezionino i beneficiari in base unicamente al loro reddito e patrimonio”.
Le critiche formulate contro il reddito di cittadinanza, tutte caratterizzate, come si è detto, dal limite dovuto alla sua riduttiva considerazione come “misura” di politica sociale utilizzabile unicamente per contrastare la povertà, sono condivise da Ranci Ortega; questi, infatti, sulla base di considerazioni che, se possono essere valide rispetto alle ipotesi avanzate dal “Movimento 5 stelle”, non possono esserlo, però, quando il reddito di cittadinanza sia inteso correttamente e inserito in una prospettiva di politica economica volta al superamento dei limiti del welfare State, che appare largamente inidoneo a contrastare, non tanto la povertà, quanto la causa principale che la genera, ovvero la disoccupazione strutturale e irreversibile dei sistemi economici avanzati.
Ciò che stupisce dei ragionamenti di Ranci Ortega è che, pur riconoscendo la necessità di riformare in Italia il sistema assistenziale, per meglio contrastare la povertà, egli giunga a formulare una proposta che, se attuata, comporterebbe la necessità dell’esercizio di tanti controlli che avrebbero l’effetto, a causa delle complicazioni burocratiche, di vanificare qualsiasi riforma dell’attuale welfare State. Di ciò, Ranci Ortega dovrebbe avere consapevolezza, considerato che, nella sua descrizione della storia dei tentativi effettuati in Italia per ridurre la povertà, egli individua proprio nelle complicanze burocratiche e politiche i principali ostacoli che hanno concorso a ridurre in un “nulla di fatto” la maggior parte delle “misure” di volta in volta adottate.
In Italia – afferma Ranci Ortega – negli anni della crisi il reddito dei poveri si è ridotto e la disuguaglianza distributiva è cresciuta; secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), l’Italia ha registrato in quegli anni “uno dei maggiori aumenti delle disparità tra i Paesi industrializzati”. Ciò è dimostrato dal fatto che il “coefficiente di Gini” (misura, compresa tra 0 e 1, della disuguaglianza della distribuzione del reddito e della ricchezza) è aumentato, in Italia, da 0,313 nel 2007 a 0,325 nel 2014, con un incremento dell’1,20%, uno dei maggiori registrati nei Paesi aderenti all’Ocse.
In Italia, il coefficiente nel 2015 è ancora aumentato sino a raggiungere il valore di 0,331, arrivando ad un livello superiore a quello medio europeo. Sul piano territoriale, il coefficiente di disuguaglianza è risultato superiore nel Mezzogiorno (0,349), rispetto al centro (0,322), al Nord-Ovest (0,310) e al Nord-Est (0,282). Tra i Paesi europei, l’Italia è giunta ad occupare la ventunesima posizione, risultando, tra gli Stati con i più alti livelli di disuguaglianza, superata solo da Portogallo, Grecia, Spagna e alcuni Paesi dell’Est europeo. La forte disuguaglianza distributiva e la diffusa povertà sono state seguite da una diminuita crescita economica in termini di prodotto interno lordo.
Negli anni, anche in Italia, si era protratto a lungo il confronto tra chi sosteneva che una forte disuguaglianza distributiva avrebbe favorito la crescita e chi, invece, riteneva che essa l’avrebbe compromessa; molti studi e ricerche, però, hanno dimostrato che le disuguaglianze hanno un significativo effetto negativo sulla crescita a medio-lungo termine, cui si accompagna, se non vengono contrastati, un ulteriore loro aumento e una maggiore diffusione della povertà. Rispetto a tutti questi fenomeni negativi, il sistema welfarista esistente si è rivelato ampiamente inadeguato nell’affrontare le cause, sia delle disuguaglianze, che della povertà; fatti, questi, che hanno contribuito a rendere pressoché inefficaci le politiche pubbliche volte a contenere la decrescita economica.
In particolare, negli anni della crisi, l’Italia si è trovata nella condizione di non poter disporre di un sistema di sostegno del reddito delle famiglie non basato su un’unica misura di integrazione, ma su una molteplicità di parametri, via via introdotti negli anni, senza che si procedesse ad una loro ricomposizione unitaria; si è giunti così agli anni della crisi, con l’esistenza di un insieme di provvedimenti che si differenziavano per l’entità dei finanziamenti e per i requisiti richiesti per avere accesso al sostegno. Secondo Ranci Ortega, è stato solo a partire dal 2012 che si sono avuti i “primi promettenti segnali” per il riordino del sostegno a favore di chi versava in stato di povertà, aumentando la consistenza delle erogazioni e il loro collegamento a “progetti di inserimento sociale e lavorativo di chi ne beneficiava”.
L’impostazione del lavoro di riordino dei provvedimenti ereditati è stato condotto nella prospettiva dell’introduzione, su basi sperimentali, di un reddito minimo di inserimento a favore di platee di beneficiari molto contenute; il suo carattere innovativo, rispetto alle “misure” tradizionali, a parere di Ranci Ortega, ha incontrato però “molte difficoltà attuative e conseguenti slittamenti nel tempo”. Il carattere sperimentale delle iniziative intraprese è valso in ogni caso ad inaugurare un “percorso istituzionale promettente”, concretizzatosi con la costituzione di una commissione di esperti, allo scopo di definire una proposta per l’istituzione di un reddito minimo denominato “sostegno all’inclusione attiva – SIA” (all’insegna della moltiplicazione delle sigle e della confusione che contribuirà a rendere sempre più opaco il dibattito su come affrontare il problema della riforma del welfare esistente).
Con la legge di stabilità del 2016, sotto l’incalzare delle difficoltà a superare gli effetti negativi della crisi del 2007/2008 sulle condizioni di vita dei cittadini più indigenti, è stata compiuta un’ulteriore innovazione, finanziando una legge delega al governo per la “riforma delle politiche di contrasto alla povertà”, riforma che metterà capo all’approvazione definitiva del SIA. Non è bastato; nel 2017, sempre nella prospettiva dell’attuazione della legge delega di contrasto alla povertà, il SIA è stato sostituito dal REI o reddito di inclusione, adottato come “misura” unica a livello nazionale: a partire dal 2018, tutti coloro che versavano in stato di povertà hanno acquisito il diritto a ricevere un’”integrazione economica fino a una soglia prestabilita”, sotto condizione d’essere assoggettati a un “progetto di inserimento sociale e lavorativo per loro appropriato”.
Con l’apertura, all’inizio del 2018, della campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento, il problema del contrasto alla povertà ha ricevuto ulteriore attenzione da parte dei partiti, sia “per la perdurante consistenza del fenomeno e l’estendersi del rischio [...], sia – afferma Ranci Ortega – per l’attenzione sollecitata dal Movimento 5 stelle con la proposta di un reddito di cittadinanza”, alla quale si sono aggiunte proposte alternative avanzate da altre formazioni politiche.
La varietà delle proposte ha indotto Ranci Ortega a dichiararsi preoccupato dal fatto che, a seconda delle maggioranze di governo che si formeranno, essa (la varietà) possa causare la messa in discussione di quanto fatto precedentemente. In particolare, ciò che sembra essere in cima alle preoccupazioni di Ranci Ortega è la proposta del “M5S” di introdurre il tanto discusso reddito di cittadinanza. Com’è noto, questa forma di reddito, correttamente intesa, prevede l’erogazione di una prestazione monetaria fissa a favore di tutti i cittadini (al limite, di tutti i residenti), indipendentemente dalla loro situazione reddituale e dalla loro volontà o possibilità di lavorare.
Prescindendo dal fatto che la proposta del “M5S” ha più i caratteri del reddito di inclusione già vigente, che quelli del reddito di cittadinanza correttamente inteso, Ranci Ortega riconosce che quest’ultima forma di reddito “garantirebbe la libertà di scelta delle persone su cosa fare nella loro vita”, eliminando ogni negativa connotazione dei destinatari per la possibilità di false dichiarazioni riguardanti il proprio reddito e semplificando “molto l’attività burocratica con conseguenti risparmi”; egli tuttavia denuncia gli eccessivi costi che l’istituzionalizzazione del reddito di cittadinanza “vero” finirebbe per comportare per le casse dello Stato. A sostegno delle sue perplessità, Ranci Ortega sa solo indicare le usuali critiche, consistenti nel ritenere il reddito di cittadinanza moralmente e politicamente non condivisibile, perché scoraggerebbe la propensione a lavorare, perché il suo finanziamento comporterebbe un eccessivo aumento della pressione tributaria e perché darebbe origine, se fosse esteso a tutti i residenti, al cosiddetto “effetto magnete”, incentivando i flussi migratori in entrata, in quanto offrirebbe “ai nuovi residenti” la possibilità di godere delle garanzia di un reddito incondizionato.
Il rimedio alle sue preoccupazione, Ranci Ortega lo rinviene nella necessità di evitare di azzerare quanto fatto sinora in Italia, per “andare oltre”; a tale fine, per sostituire o integrare l’attuale reddito di inclusione, egli formula una proposta, che stupisce per i molti “condizionamenti” cui tutte le famiglie in stato di povertà dovrebbero essere sottoposte: la forma di reddito di sostegno dovrebbe essere, secondo Ranci Ortega, un reddito minimo da corrispondere sino alla soglia della povertà assoluta, accompagnato da progetti personalizzati di promozione e di inclusione sociale; reddito minimo, eventualmente integrato, previa prova dei mezzi, da un assegno di sostegno e da servizi alle famiglie con figli minori o studenti a carico fino al 25° anno di età, o con persone non autosufficienti o invalide e così via.
Ranci Ortega è consapevole che l’istituzionalizzazione di un reddito di sostegno, quale quello da lui prospettato richieda un certo numero di anni e varie tappe per essere attuato; ma ammette che un valido contrasto alla povertà non sia possibile realizzarlo attraverso “semplici aggiunte a un sistema assistenziale [...] non efficace e non efficiente”, qual è quello in vigore. Nel contempo, egli riconosce anche la possibilità di una riforma del welfare attuale, grazie a risorse reperite attraverso i risparmi realizzabili con la riduzione della complicata e complessa burocrazia oggi operante per il funzionamento del sistema di sicurezza sociale esistente.
Ma se questo è lo stato delle cose, dove stanno le ragioni dell’esistenza delle preoccupazioni causate dall’eventuale istituzionalizzazione del reddito di cittadinanza? Esse, soprattutto quelle connesse alla reperibilità delle risorse necessarie, non hanno giustificazione alcuna, considerato che queste ultime sarebbero “ricavate” dalla riforma complessiva del welfare attuale; riforma ormai ineludibile, se si considera che la piaga sociale maggiore delle società moderne avanzate non può essere rimossa orientando le politiche sociali solo ad una mitigazione della povertà assoluta.
L’azione deve essere, invece, orientata contro la causa della povertà, ovvero contro la disoccupazione, non più congiunturale, ma strutturale e irreversibile; un orientamento, questo, che può essere reso possibile solo mediante l’erogazione di un reddito di cittadinanza correttamente inteso. Questa forma di reddito, infatti, è l’unica che può consentire di rimuovere radicalmente, in termini universali e senza intermediazioni burocratiche, tutti gli aspetti negativi delle disuguaglianze personali, dotando, tra l’altro, il sistema sociale di meccanismi distributivi del prodotto nazionale conformi alle modalità di funzionamento dei moderni sistemi economici avanzati.
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* Anche su Avanti! online.
Oggi giovedì 21 giugno 2018
————Avvenimenti&Dibattiti&Commenti———-
Da oggi giovedì 21 giugno e fino a mercoledì 4 luglio 2018 l’aggiornamento quotidiano della News non sarà tempestivo come di consueto, per ragioni di carattere organizzativo. La News comunque non chiuderà per ferie neppure quest’anno.
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RetroTrump
Un momento delle proteste alla frontiera con il Messico contro la separazione di oltre 2mila bambini dai genitori [da il manifesto online]
Dopo le critiche internazionali e del papa, la Casa bianca fa marcia indietro e annuncia il decreto per la riunione degli oltre 2mila bambini separati dai genitori e chiusi in gabbie alla frontiera con il Messico. Ma per tanti minori l’inferno potrebbe continuare [da il manifesto online]
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L’”accesso al cibo” e il diritto alla dignità della persona
Gianfranco Sabattini su Aladinews.
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A tre mesi dal 4 marzo: il ritorno del dualismo optimates-populares?
21 Giugno 2018
Lorenzo Marilotti su Democraziaoggi.
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M5S, come uscire dall’angolo stretto dell’alleanza
Le proposte. Riscrivere il Jobs Act, rovesciare la logica aziendalistica della “buona scuola”, assumere l’iniziativa su corruzione e conflitto di interessi, avviare una politica sul Mezzogiorno
Massimo Villone su il manifesto
EDIZIONE DEL 21.06.2018 [segue]
DIBATTITO. A partire dalla riflessione di Stefano Rodotà su “Solidarietà. Un’utopia necessaria”. Dai “beni comuni” alla riforma dell’attuale welfare e l’istituzionalizzazione di un reddito di cittadinanza universale e incondizionato.
L’”accesso al cibo” e il diritto alla dignità della persona
Gianfranco Sabattini*
“L’identità – la sostanza di ciò che siamo e del modo in cui siamo in relazione con gli altri – si trova nel mezzo di uno straordinario tumulto”; con questa frase, di uno studioso americano, riferita al rapporto sempre più intenso della persona con la “Rete” Stefano Rodotà, nel volume postumo “Vivere la democrazia”, apre la riflessione “sul tumultuoso vivere” dell’età contemporanea, che ha determinato un concetto di “identità digitale” della persona, allontanandola da quella fisica.
L’avvento delle tecnoscienze informatiche, infatti, “sembra portare con sé – afferma Rodotà – il congedo dell’identificazione della fisicità”; in tal modo, l’identità personale ha teso a farsi astratta, affidata a “codici segreti, parole chiave, algoritmi”, ma l’incertezza della identificazione del soggetto, connessa alla digitalizzazione dei suoi “dati” personali, ha determinato un ritorno alle sue “componenti fisiche”.
Ciò è accaduto anche per via del fatto che la normativa europea sul problema dell’identità “ha privilegiato l’attenzione per la persona nella dimensione del consumo, facendo appunto della tutela del consumatore uno degli oggetti primari della sua attenzione”. Si tratta, però, secondo Rodotà, di un’identificazione parziale della persona, in quanto espressiva di una identificazione formulata solo in funzione del mercato; non casualmente, questa formulazione è stata giudicata insufficiente dalla stessa Unione Europea, che nella “Carta dei diritti fondamentali”, proclamata nel 2000, ha messo in evidenza l’insufficienza di un quadro istituzionale concernente la persona “sostanzialmente organizzato intorno al mercato”.
Spostando l’attenzione “dalla sola logica economica a quella dei diritti”, la “Carta” europea ha sottratto la definizione dell’identità personale ad un unico fattore totalizzante, considerando che se la persona fosse, ad esempio, identificata con il consumatore, si costituzionalizzerebbe solo un’identità personale impoverita, “collocata interamente nel mercato”, mentre i “dati” dell’identità assumerebbero una valenza solo funzionale al funzionamento di quest’ultimo. In tal modo, la “Carta” ha stabilito che l’identità della persona non possa essere definita in funzione degli interessi di soggetti esterni ad essa; al contrario, deve essere formulata per il tramite di un contesto all’interno del quale i diritti fondamentali della persona “possano ottenere non solo riconoscimento, ma attuazione”.
Il contesto all’interno del quale definire l’identità personale, pertanto, non può che essere il diritto; così come è avvenuto in corrispondenza di ogni stadio del processo di civilizzazione dell’umanità; il diritto può contribuire a creare una nuova “antropologia”, incorporante nella naturalità dell’uomo i nuovi valori che si sono affermati sul piano culturale. Infatti, ogni grande operazione giuridica che ha scandito il lento processo di civilizzazione, è valsa a disegnare un “suo modello di persona, che non era mai la semplice registrazione di una natura ‘umana’, ma un gioco sapiente [...] di selezione di ciò [...] che poteva trovare accoglienza nello spazio del diritto e quel che doveva restarne fuori, di ciò che poteva entrare in quello spazio con i suoi connotati ‘naturali’ e quello che esigeva una metamorfosi resa possibile proprio dall’artificio del diritto”. Lungo tutto il percorso della civilizzazione è stata di continuo realizzata un’estrazione “dalla naturalità dell’uomo di una figura sommamente artificiale qual è il cittadino, affidando alla legge, e solo alla legge, la definizione del suo perimetro”. Proprio per questo, sostiene Rodotà, è legittimo parlare di creazione di una nuova antropologia.
Durante il percorso di civilizzazione, se l’affermazione dei valori della Rivoluzione del 1789 (libertà, uguaglianza e solidarietà) è stata il connotato della modernità, l’affermazione del valore della dignità rappresenta il caratteri specifici del Novecento; non casualmente, perciò, a partire dalla modernità, si può parlare del passaggio dall’“homo hierarchicus” di prima dell’89, all’”homo aequalis” di dopo, sino all’”homo dignus” dell’età contemporanea, dove la rilevanza assunta dalla dimensione della dignità ha indotto a proporne una considerazione che – afferma Rodotà – “la assume come sintesi di libertà ed eguaglianza, rafforzate nel loro essere fondamento della democrazia”.
Il processo di costituzionalizzazione del valore della dignità, passando attraverso le costituzioni democratiche del periodo successivo alla seconda guerra mondiale, ha continuato sino alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 2000, la quale ha sancito che “proprio la dignità fosse il segno forte della prima dichiarazione dei diritti del nuovo millennio”, associando ad essa la dimensione esistenziale dell’uomo: “Dignità e lavoro – afferma Rodotà – sono i due nuovi punti di avvio” del processo di civilizzazione, che è valso a collocarli “in un contesto nel quale assume rilevanza primaria la condizione reale della persona, per ciò che la caratterizza nel profondo (la dignità) e per quel che la colloca nella dimensione delle relazioni sociali (il lavoro)”. Così, il soggetto astratto è stato calato nella sua dimensione di persona concreta, è stata rivestita di un esoscheletro che, tramite il diritto, è valso a sottrarla al pericolo che le tecnoscienze la trasformassero in “persona digitale”, sconnessa dalla sua fondazione umana.
La tutela costituzionale della dignità dell’uomo ha cessato d’essere affidata a un qualche principio astratto, sovrastante i valori delle modernità (libertà, uguaglianza e solidarietà), per essere calata all’interno del loro intrecciarsi con il valore della dignità stessa, dal quale l’uomo “riceve maggiore pienezza di vita e, quindi, più intensa dignità umana”, fondata sul diritto alla vita e, dunque, sul diritto di accesso alle risorse materiali per il pieno e autonomo svolgersi della sua esistenzialità.
L’affermazione del diritto di “accesso al cibo” – secondo Rodotà – è recente e rappresenta il traguardo di una lunga trasformazione caratterizzata dal passaggio da forme di benevolenza individuale e collettiva a specifici doveri delle istituzioni pubbliche, impegnate a rendere possibile un accesso sempre più diretto delle persone ai “beni della vita”. Il diritto alla vita (o diritto al cibo) è divenuto così il “punto di convergenza di molteplici principi giuridici, dando ad essi particolare concretezza e contribuendo alla fondazione di un nuovo ambiente politico-istituzionale”. In questo modo, il diritto alla vita si è trasformato in una componente ineludibile della dignità della persona, che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea ha dichiarato, come si è detto, “inviolabile”.
Ciò significa che il diritto alla vita dei componenti le comunità politiche, che hanno costituzionalizzato il valore della dignità della persona, è divenuto il centro di un’”articolata costellazione istituzionale”, nella quale si invera la democrazia dei diritti. Nello stesso tempo, l’assunzione, da parte dell’organizzazione dello Stato, della responsabilità di garantire il diritto di “accesso al cibo”, come lo chiama Rodotà, sta imponendo alla società contemporanea specifiche modalità di governo; modalità implicanti, da una parte, che l’obbligazione pubblica di assicurare il diritto alla vita dei cittadini sia presa sul serio; dall’altra parte, che il coinvolgimento degli stessi cittadini nel determinare le forme con cui soddisfare i loro stati di bisogno esistenziali avvenga non “attraverso proclamazioni astratte”, ma con la promozione di tutte le iniziative sul piano dell’informazione e della formazione, perché essi (i cittadini) siano resi consapevoli del fatto che le politiche pubbliche attuate rispondono realmente al rispetto di tutti i loro diritti.
In tal modo, la soddisfazione del diritto alla vita assume caratteristiche – osserva Rodotà – “che contribuiscono alla migliore definizione dello stesso processo democratico”, diventando essenziali per il pieno e reale rispetto dei principi fondamentali della modernità, ovvero dei principi di libertà, uguaglianza e solidarietà. Il diritto al cibo, concorrendo a dare piena attuazione alla dignità personale, diventa infatti il presupposto per dare una risposta sul piano sostanziale a quei principi che, sanciti dalla Rivoluzione del 1789 e ribaditi da tante costituzioni ad essa successive, sono rimasti per lo più solo delle proclamazioni, che non sono valse, malgrado i progressi realizzati con l’età moderna, a rimuovere i fenomeni della disuguaglianza sociale e della povertà ereditati dal passato. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 2000, dichiarando l’inviolabilità della dignità della persona, ha statuito la congiunzione della sfera privata e di quella pubblica, collocando il diritto al cibo – afferma Rodotà – “a pieno titolo tra quei diritti di cittadinanza che devono accompagnare nel mondo ogni persona, quale che sia la sua condizione”.
In questa prospettiva è divenuto evidente il novo ruolo che è chiamata a svolgere l’economia, nel momento in cui essa si sta trasformando da “economia della scarsità” (qual era nell’età premoderna e per gran parte di quella moderna), in “economia dell’abbondanza”, le cui conseguenze sono destinate ad affievolire e, alla lunga, a rimuovere del tutto la possibilità che il diritto al cibo (e, dunque, alla dignità personale) sia garantito attraverso il lavoro, tradizionale titolo in base al quale la persona ha potuto partecipare alla ripartizione del prodotto sociale.
Oggi, con il restringersi delle tradizionali opportunità lavorative a causa del crescente approfondimento capitalistico dell’attività produttiva, la ripartizione del prodotto sociale non può che avvenire sulla base di nuove modalità; questa ineludibile necessità, compatibile con uno stabile funzionamento dell’intero sistema produttivo, può essere soddisfatta solo attraverso quella che Rodotà definisce una “vera e propria” nuova rivoluzione costituzionale, con cui sostituire la rivoluzione della modernità, che aveva legato i valori della libertà, dell’uguaglianza e della solidarietà al soggetto moderno, con quella della contemporaneità, per legare la dignità della persona, oltre che ai valori della prima rivoluzione costituzionale, alla “sua concretezza e materialità”.
L’implicazione di questa conclusione non può che essere la messa a punto di una nuova strumentazione istituzionale, che adegui la distribuzione del prodotto sociale alle nuove modalità di funzionamento dell’economia dell’abbondanza. Rodotà lega la nuova strumentazione istituzionale alla identificazione dei cosiddetti “beni comuni”, cioè a quei beni che, in virtù del loro caratteristiche strutturali, sono “direttamente” necessari per la soddisfazione dei diritti fondamentali della persona.
In realtà, ipotizzare di poter garantire la dignità “costituzionalizzata” della persona sulla base dei soli beni comuni è riduttivo. L’utilizzazione di tali beni, è sicuramente un corollario di tutta l’analisi compiuta da Rodotà, ma riferirsi unicamente ad essi per garantire l’accesso al cibo, non consente di cogliere le urgenze sollevate dall’avvento dell’economia dell’abbondanza.
L’analisi di Rodotà risponde sicuramente meglio alle conclusioni cui egli era pervenuto nel volume “Solidarietà. Un’utopia necessaria”, dove egli affermava che la questione del “diritto all’esistenza” può essere risolta statuendo per lo Stato il “dovere di assicurarne la garanzia” attraverso un’utilizzazione delle risorse disponibili che consideri prioritari gli impieghi per la soddisfazione dei diritti fondamentali, tra i quali appunto il “diritto all’esistenza”. A tal fine, lo Stato dovrà stabilire una distribuzione delle risorse “costituzionalmente consentita”, e giustificata in funzione della soddisfazione dei diritti fondamentali, invertendo la prassi politica tradizionale, che sinora ha considerato prioritarie le destinazioni finalizzate alla crescita, e residuali, invece, quelle destinate alle soddisfazione dei diritti.
Ciò, però, significa che la nuova strumentazione istituzionale, compatibile con la rivoluzione costituzionale della contemporaneità, deve sostituire le modalità di stabilizzazione del funzionamento del sistema produttivo fondato sul welfare, proprio dell’economia della scarsità, con nuovi strumenti; questi ultimi, con la riforma dell’attuale welfare e l’istituzionalizzazione di un reddito di cittadinanza universale e incondizionato, dovranno essere in grado di assicurare la stabilità dell’economia, mediante regole distributive del prodotto sociale fondate su specifiche priorità che cessino di considerare residuale la soddisfazione del diritto alla dignità dei cittadini. Fuori da queste condizioni, il diritto all’esistenza e alla dignità degli individui può solo continuare a dipendere dal “ricatto politico” delle maggioranze politiche di turno, esercitato in funzione delle transeunti situazioni contingenti.
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* Anche su Avanti! online
Gli Editoriali e altro del mondo Aladin
È necessario costruire una nuova infrastruttura intelligente di Terza Rivoluzione Industriale. Se su questo si creasse consenso trasversale, avremmo una nuova visione capace di ispirare le prossime tre generazioni in Italia. L’opinione dell’economista americano di JEREMY RIFKIN
19 aprile 2018 su L’Espresso
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Ripreso da Aladinews Editoriali
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Si riaccende il dibattito sulle Macroregioni/Euroregioni? Ne saremo contenti. Intanto alcuni contributi datati, ma tuttora validi di Aladinews.
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Significato del 25 aprile 25 Aprile 2018 Festa della Liberazione.
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Peppe Sini, responsabile del “Centro di ricerca per la pace e i diritti umani” di Viterbo, su Democraziaoggi.
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I fondamenti etico-politico, giuridico-costituzionale ed economico-sociale del “reddito di cittadinanza”. di Gianfranco Sabattini.
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Oggi martedì 24 aprile 2018
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Il “reddito di cittadinanza” secondo Ferrajoli
24 Aprile 2018
Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi.
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Dibattito su reddito di cittadinanza e dintorni
I fondamenti etico-politico, giuridico-costituzionale ed economico-sociale del “reddito di cittadinanza”
di Gianfranco Sabattini
Il volume “Manifesto sull’uguaglianza” di Luigi Ferrajoli, professore emerito di Filosofia del diritto nell’Università di “Roma Tre”, rappresenta un contributo, oltre che all’approfondimento del “principio di uguaglianza”, anche alla corretta definizione del tanto discusso “reddito di cittadinanza”; Ferrajoli differenzia quest’ultimo da altre forme di reddito di sostegno, per l’impatto che esso, se attuato, potrebbe avere sul piano politico, sociale, economico, nonché su quello costituzionale.
E’ interessante seguire l’analisi svolta in questo “Manifesto”, con particolare riferimento al difficile problema del finanziamento del reddito di cittadinanza; le considerazioni dell’autore sul “costituzionalismo dei beni” suggeriscono una soluzione appropriata, che potrebbe valere a “tranquillizzare” tutti coloro che si dimostrano preoccupati degli esiti economici negativi che potrebbero verificarsi se il finanziamento del reddito di cittadinanza fosse realizzato attraverso l’inasprimento della tassazione.
Quello di uguaglianza – afferma Ferrajoli – “è il principio politico dal quale, direttamente o indirettamente, sono derivabili tutti gli altri principi e valori politici. Esso equivale all’uguale valore associato a tutte le differenze di identità e al disvalore associato alle disuguaglianze nelle condizioni materiali di vita”. Tale principio è il presupposto della solidarietà sociale e, per questo, “è il termine di mediazione delle tre classiche parole della Rivoluzione francese”. La sua mancata attuazione (o, se si vuole, il parziale smantellamento di quanto è stato sinora attuato al riguardo con la costruzione, a partire soprattutto dalla fine del secondo conflitto mondiale, del welfare State) e l’approfondimento delle disuguaglianze già esistenti, causato dall’aumentata globalizzazione delle economie nazionali, anche in quelle ad economia avanzata, sono all’origine “di tutti i problemi che stanno oggi minacciando le nostre democrazie e la convivenza pacifica”.
La crescita delle discriminazioni personali e delle disuguaglianze materiali è dovuta, secondo Ferrajoli, al crollo della politica, per avere “abdicato al suo ruolo di tutela degli interessi generali e di governo dell’economia” e per essersi assoggettata alle leggi del mercato non regolato. Perché, egli si chiede, il principio di uguaglianza è cosi importante da risultare sancito da tutti gli ordinamenti costituzionali avanzati? La risposta del filosofo del diritto è che la ragione è duplice: innanzitutto, perché gli uomini sono “differenti”, nel senso che hanno identità personali diverse; in secondo luogo, perché gli uomini che “vivono insieme” presentano condizioni di vita materiale differenti. Quindi, l’uguaglianza sancita dagli ordinamenti costituzionali è giustificata dal fatto che “siamo differenti e disuguali”, per cui essa corrisponde alla necessità che siano tutelate le differenze personali e contrastate le disuguaglianze materiali.
Infatti, a parere di Ferrajoli, quello di uguaglianza include due principi diversi: da un lato, il principio dell’uguale valore associato a tutte le “differenze che formano l’identità di ciascuna persona”; dall’altro lato, il principio di disvalore associato “alle eccessive disuguaglianze economiche e materiali, dalle quali anche l’uguale valore delle differenze risulta di fatto limitato, o peggio negato”. In entrambi i casi, sostiene il filosofo del diritto, è una ”égalité en droit“, cioè un’uguaglianza stabilita in “punto di diritto”, perché è tramite il diritto che essa viene garantita. Dei due principi di uguaglianza, il più violato allo stato attuale è il secondo (quello dell’uguaglianza sociale e materiale), non solo tra i diversi gruppi sociali all’interno dei singoli Paesi, ma anche tra i diversi Paesi, a livello internazionale.
Le attuali dimensioni della disuguaglianza materiale, che non hanno precedenti nella storia, sono di solito giustificate dall’ideologia neoliberista sulla base di diverse assunzioni prive di fondamento: innanzitutto – si afferma – esse sarebbero una conseguenza delle differenze di merito, per cui la loro conservazione favorirebbe un aumento complessivo dei livelli di benessere e agirebbero come stimolo della crescita economica; infine, non esisterebbero altre politiche alternative a quelle attuali, compatibili con le ferree leggi del marcato. Si tratta di giustificazioni “false”, perché smentite dall’esperienza. Al contrario, quest’ultima evidenzia l’esistenza di una stretta correlazione positiva tra il “grado di uguaglianza sostanziale”, da un lato, e dall’altro, rispettivamente, il “grado di uguaglianza delle differenze personali”, il “grado di democrazia”, il “grado di benessere collettivo” e il “grado di sviluppo dell’economia”.
La prima correlazione (tra il grado di uguaglianza sostanziale e quello di effettiva uguaglianza delle differenze personali) evidenzia, per un verso, che la riduzione della disuguaglianza sostanziale costituisce la condizione necessaria per la salvaguardia del pari valore attribuito a tutte le differenze personali; per un altro verso, che il livello di uguaglianza sostanziale realizzato dipende dal grado di effettiva salvaguardia delle differenze personali, strumentali al perseguimento dei differenti progetti di vita. Tra i diritti sanciti a garanzia dell’uguaglianza sostanziale e quelli posti a garanzia delle differenze personali esiste, pertanto – sostiene Ferrajoli – un rapporto di sinergia, nel senso che l’uguaglianza sostanziale forma il necessario presupposto dell’uguaglianza dei diritti personali; i quali, a loro volta, costituiscono “la necessaria condizione dell’esercizio consapevole dei diritti civili e dei diritti politici”.
La seconda correlazione (tra il grado di uguaglianza sostanziale e quello di democrazia) mostra che l’uguaglianza sostanziale costituisce il presupposto della democrazia, oggi compromessa dalla subalternità della politica alle leggi del mercato senza regole. L’assenza di una sfera pubblica autonoma, capace di regolare gli esiti negativi del libero mercato e delle leggi dell’economia, causa inevitabilmente una concentrazione della ricchezza in chi è già titolare di cospicui patrimoni, cui corrisponde un aumento della povertà di tutti gli altri.
La terza correlazione (tra il grado di uguaglianza sostanziale e quello del benessere collettivo) evidenzia che l’uguaglianza sostanziale costituisce la base per la crescita del benessere collettivo, inteso questo, non solo in termini quantitativi (in termini cioè di crescita della disponibilità pro-capite dei beni prodotti), ma anche in termini qualitativi, di progresso civile generato, oltre che “dalla sicurezza della sopravvivenza, dal senso di appartenenza a una comunità di uguali nei diritti [...] che, grazie al senso e alla percezione dell’uguaglianza, formano il necessario sostegno di qualunque democrazia”.
Infine, la quarta correlazione (tra il grado di uguaglianza sostanziale e quello di sviluppo dell’economia) è la più importante; essa contraddice “in toto” gli assunti dell’ideologia neoliberista, in merito ai vincoli che l’uguaglianza materiale imporrebbe alla crescita economica. La spesa pubblica per finalità sociali non è “solo un costo – dice Ferrajoli -, ma anche una condizione esenziale dello sviluppo, cioè [dell’aumento] della produttività individuale e collettiva”. La spesa pubblica finalizzata alla riduzione della disuguaglianza materiale è infatti “un fattore decisivo della crescita economica”, perché, elevando le condizioni di vita, cresce anche la produttività del lavoro. In assenza della spesa pubblica, crescerebbe la disuguaglianza e con essa la povertà. La condizione per contrastare queste due crescite (della disuguaglianza e della povertà), per Ferraioli, è l’abbandono della tesi ideologica neoliberista, secondo cui al contenimento della spesa pubblica, attuato in funzione dello sviluppo quantitativo e qualitativo, non esisterebbero alternative. Occorre, al contrario, contrastare la disuguaglianza materiale, rimuovendo la povertà attraverso l’introduzione di un “reddito di base”.
Al riguardo – afferma Ferrajoli – si possono distinguere due tipi di reddito idonei a sconfiggere la povertà: il “reddito minimo garantito” e il “reddito di cittadinanza”. Il primo è previsto a favore dei soli bisognosi, previo accertamento della mancata disponibilità dei mezzi, e viene erogato in ossequio al diritto alla vita che, dal punto di vista economico, non elimina per il beneficiario lo stigma dello stato di povertà e della costrizione a sottoporsi a procedure umilianti per acquisire la possibilità di ricevere l’”obolo caritatevole”, sia pure di natura pubblica; inoltre, dal punto di vista sociale, esso non esclude la possibilità del rischio del permanere della povertà, diventando la conservazione di questa, a causa dell’”effetto ricchezza sul reddito”, motivo che può indurre il beneficiario a preferire il reddito minimo garantito, anziché un possibile reddito da lavoro.
La seconda ipotesi di reddito è, secondo Ferrajoli, “ben più radicale e ambiziosa”. Essa comporta l’attribuzione di un reddito di base a tutti (perciò, universale), in modo incondizionato, sganciato da ogni obbligo da parte del beneficiario, nel senso che chi lo riceve non è tenuto ad accettare alcuna condizione o l’obbligo di controprestazioni, perché corrisposto a “garanzia della dignità personale”. Ferrajoli ritiene che la rimozione, attraverso l’erogazione del reddito di cittadinanza, dello stigma dell’essere povero all’interno della società, soprattutto se si tratta di una società economicamente avanzata, abbia un triplice fondamento: etico-politico, giuridico-costituzionale ed economico-sociale.
Sotto l’aspetto etico-politico, il reddito di cittadinanza rappresenta la garanzia della vita contro gli esiti negativi della irrazionalità delle leggi che sottostanno al libero funzionamento del mercato; la “disoccupazione crescente e strutturale” dei moderni sistemi economici non può essere contrastata dalle politiche tradizionali del lavoro.
Sotto l’aspetto giuridico-costituzionale, il reddito di base universale e incondizionato è prescritto dalle Costituzioni moderne, inclusa quella italiana, che prevedono il diritto al mantenimento, per chiunque sia inabile al lavoro e non disponga dei mezzi necessari per vivere.
Infine, sotto l’aspetto economico-sociale, il reddito di base è lo strumento col quale è possibile ridurre la disuguaglianza, come condizione dell’inclusione sociale del beneficiario e dello stabile funzionamento del sistema economico.
I tre fondamenti illustrati, che stanno alla base dell’istituzionalizzazione dell’erogazione di un reddito di cittadinanza universale e incondizionato, a parere di Ferrajoli, sono giustificati da diverse ragioni. In primo luogo, l’erogazione di un reddito di base, o di dignità personale, si “accorda con il costituzionalismo” delle democrazie avanzate; in secondo luogo, tale erogazione è affrancata da ogni “connotato caritatevole ed assistenziale”, presente invece nelle prestazioni erogate dall’attuale welfare State; in terzo luogo, l’assegnazione di un reddito di garanzia personale, operando “ope legis”, elimina la mediazione burocratica, partitica e sindacale; infine, l’istituzionalizzazione di un reddito di base universale e incondizionato, determina la necessità di una profonda revisione del welfare State, “sviluppatosi fino ad oggi in forme prevalentemente burocratiche e assistenziali, all’insegna della trasparenza, dell’uguaglianza, dell’universalismo dei diritti e della loro garanzia automatica ex lege”.
Sinora, l’introduzione in Italia del reddito di cittadinanza è stata contrastata anche dai sindacati e dalle forze di sinistra per due ordini di motivi, espressi da una superata ideologia lavorista e dalla presunta indisponibilità delle risorse necessarie a garantirne l’erogazione. Le tesi dell’ideologia lavorista devono essere superate, non solo perché non più rispondenti alle modalità di funzionamento dei moderni sistemi economici ad economia di mercato, ma anche perché il reddito di base non è affatto in contrasto – osserva Ferrajoli – con il valore associato al lavoro, così come indicato all’articolo uno della Costituzione; il reddito di base è infatti lo strumento – egli dice – posto a presidio del “principio che fa del lavoro un fondamento della Repubblica. [...] Non certo sul lavoro come merce, bensì sul lavoro come autodeterminazione e sviluppo della persona, e perciò come espressione delle sue capacità e fattore di realizzazione personale e sociale”.
L’importanza del “Manifesto” di Ferrajoli sta anche nella dimostrazione di quanto sia fuorviante la tesi secondo cui l’istituzionalizzazione del reddito di base sarebbe impossibile a causa dell’insufficienza delle risorse disponibili, in quanto sarebbe impensabile poterle reperite attraverso una maggiore tassazione. A parte l’autofinanziamento, realizzabile attraverso una necessaria riforma dei meccanismi ridistributivi del prodotto sociale e del welfare State tradizionale, è rilevante ciò che Ferrajoli indica come possibile fonte di risorse la necessità di un riordino giuridico dei beni pubblici, fondato sulla distinzione al loro interno della funzione e del ruolo di quelli “fondamentali” e di quelli “patrimoniali”: i primi (i beni comuni) destinati al soddisfacimento dei diritti fondamentali delle persone e, in quanto tali, da sottrarre alle logiche di mercato; i secondi, in quanto di proprietà pubblica (e, dunque, acquisiti dallo Stato con il contributo di tutti) esitabili, ma non trasferibili, sul mercato, non per destinare le rendite alla copertura delle “esigenze di cassa” delle maggioranze politiche di turno, ma per la costituzione di un “fondo” da utilizzare come ulteriore finanziamento del reddito di cittadinanza universale e incondizionato.
Il discorso di Ferrajoli merita attenzione, perché spesso, nel dibattito politico corrente, le critiche portate contro la fattibilità del reddito di cittadinanza sono fuorvianti, in quanto riferibili, quasi sempre, a un reddito di sostegno alla vita che non ha i caratteri dell’universalità e dell’incondizionalità; gli unici, questi caratteri, che assegnano al reddito di cittadinanza il triplice fondamento etico-politico, giuridico-costituzionale ed economico-sociale, come chiaramente emerge dalle puntuali considerazioni formulate da Ferrajoli.
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Anche su Democraziaoggi.
Oggi mercoledì 18 aprile 2018
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Le “promesse politiche” senza copertura? Bufale!
18 Aprile 2018
Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi.
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(…) Bene ha fatto, quindi, Perotti ad evidenziare la confusione in cui spesso si incorre, quando si parla di reddito di cittadinanza; confusione che non facilita certo la comprensione del significato delle proposte politiche (…).
L’idea di introdurre nei moderni sistemi economici un reddito di cittadinanza incondizionato e universale può essere attuata e finanziata solo nella prospettiva di una riforma complessiva dell’attuale ordinamento dello Stato sociale, con cui evitare, sia il rischio della trappola della povertà, sia il problema del reperimento delle risorse necessarie, sia anche gli effetti della dinamica tecnologica dei sistemi produttivi capitalisticamente avanzati; effetti, questi ultimi, che i meccanismi istituzionali distributivi esistenti trasformano in disoccupazione strutturale e permanente, e quindi in diffusa povertà (coinvolgente quote crescenti della popolazione), che il welfare State non è più in grado di fronteggiare.
In conseguenza di ciò (…) sarebbe necessario che il Paese avviasse una approfondita riflessione, sul piano culturale, economico, politico e sindacale, per rimuovere tutti i motivi impropri di discussione e di perplessità su una riforma non più eludibile dei meccanismi distributivi del prodotto sociale; motivi che trovano la loro ragion d’essere solo nella permanenza di uno stato di crisi, che impedisce al Paese di riformare le proprie istituzioni politiche ed economiche, compromettendo in tal modo la possibile crescita qualitativa e quantitativa futura.
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Reddito di Cittadinanza: cerchiamo di fare chiarezza!
di Gianfranco Sabattini
26 Marzo 2018
Cari Direttori, dopo la pubblicazione su Aladinews e su Democraziaoggi degli articoli sul problema dell’introduzione in Italia del reddito di cittadinanza e di alcuni commenti sull’argomento da parte dei lettori, consentitemi di esporre alcune brevi riflessioni.
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Il reddito di cittadinanza incondizionato e universale correttamente inteso non è una “misura welfarista”; esso consente di dare risposte, economicamente e socialmente significative, di natura strutturale, ai problemi connessi con l’allargamento e l’approfondimento del fenomeno della disoccupazione irreversibile, della precarizzazione del lavoro e della povertà.
L’istituzionalizzazione del reddito di cittadinanza corrisposto incondizionatamente a tutti i componenti (per alcuni a tutti i residenti) di un sistema sociale comporta una profonda trasformazione della tradizionali forme organizzativa della sicurezza sociale, soprattutto di quella particolare che si è espansa ed approfondita dopo la critica keynesiana al libero mercato di concorrenza.
La crisi di questo mercato comporta, non solo la necessità di una sua riforma, ma anche della riforma del modello di distribuzione del prodotto sociale, al fine di adeguare quest’ultimo al prevalere crescente del fenomeno della disoccupazione irreversibile (che riassume in sé, sul piano delle conseguenze, anche la precarizzazione del lavoro e lo stato di povertà). Conseguentemente, la riforma del welfare State, o tiene conto dell’inadeguatezza del sistema della “copertura dei rischi sociali”, nato e consolidatosi nell’epoca pre-fordista, o si espone alle critiche neoliberiste, finalizzate a sottoporre lo Stato sociale ad un drastico ridimensionamento, in quanto considerato causa della continua espansione della spesa pubblica. La riforma del welfare State fordista, perciò, href=”http://www.movimentorete.org/2016/02/reddito-di-cittadinanza-cose-e-come-distinguerlo-da-interventi-anacronistici-di-roberto-ciavatta/”>come osservano, Agostino Mantegna e Andrea Tiddi in “Reddito di cittadinanza”, deve, da un lato, “garantire i diritti acquisiti dai padri ‘fordisti’…, dall’altro consegnare ai figli un sistema di garanzie adeguate alla nuova forma del lavoro post-fordista”. In questa prospettiva, trova giustificazione l’istituzionalizzazione di un reddito di cittadinanza a vantaggio del disoccupati (e dei poveri) permanenti, in grado di assicurare l’accesso al reddito a tutta quanta la forza lavoro che perde involontariamente la stabilità delle condizioni della propria “esistenza”. [segue]