Risultato della ricerca: Pietro Greco

Palabanda nella Guida della città e dintorni di Cagliari, del can. Giovanni Spano, 1861.

giovanni_spano[Can. Giovanni Spano] Uscendo da questo Convento [Cappuccini], nella vallata che si trova incontro, si vede un piccolo giardino ornato con lusso di opere d’arti, parte scavate nella roccia, e parte con monumenti antichi trovati nel sito (1) Viene chiamato Palabanda, e sebbene non sappiamo da che abbia preso il nome, pure è storico perché adesso fu la culla dei rivolgimenti politici del 1812. Era questo un predio dell’infelice avv. Salvatore Cadeddu il quale l’aveva adornato di sedili e di altre comodità per ricrearsi. Quivi soleva trattenersi quotidianamente nelle ore d’ozio dove concorrevano gli amici più cari che aveva, e distinti cittadini. All’ombra di due cipressi di morte, che allora vi sorgevano, sieduti tutti solevano biasimare gli atti del Governo, e quindi meditavano il modo di farlo crollare. Ma non ebbe effetto, perché fu scoperta la trama, e parte di essi terminarono la vita coi supplizj, e parte nell’esilio (1)
[Pag. 352] (1) Vi si vede una bella sfinge di granito, un capitello di marmo, ed altri pezzi che annunziano di esservi esistiti antichi edifizi. Nella parte superiore della roccia vi sono alcune cisterne scavate nella medesima roccia, ed il canale che si vede intorno all’anfiteatro si estende sino a questo sito.
[Pag. 353] (1) V. Martini, Storia della Sardegna dell’anno 1799-1516. Cagl. Timon 1852, pag.255.
——————————–I personaggi————

Editoriali Aladinpensiero online

convergenza-1-440x264Mercoledì 3 luglio 2019 nasce un nuovo soggetto politico di ispirazione cristiana. Un nuovo partito? O forse qualcosa di diverso.
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2d5a5e6d-bdf3-4ad4-9771-eadf7da1fae0Storia della Sardegna. La nostra Storia.
SA BATALLA DE SEDDORI: niente da celebrare, ma da ricordare e studiare.
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L’euro sfiderà il dollaro?
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Che ne facciamo della plastica?
di Pietro Greco, su Rocca.
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di Guglielmo Ragozzino, su Sbilanciamoci.
sbilanciamoci
Working it (mettercela tutta?)
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Palabanda murale
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di Franco Meloni, Editoriale aladinpensiero online.
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20181127_1_65098320E se il sabato si trasformasse per tutti nel giorno del ‘voto con il portafoglio’ a favore della sostenibilità ambientale e sociale?
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I giovani possono cambiare le abitudini di spesa delle famiglie
di Leonardo Becchetti ed Enrico Giovannini.
mercoledì 19 giugno 2019 su Avvenire
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Salviamo il Pianeta Terra, con intelligenza

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Che ne facciamo della plastica?
di Pietro Greco, su Rocca

E allora, che ne facciamo della plastica? Ogni anno nel mondo vengono prodotti all’incirca 400 milioni di diversi polimeri collettivamente chiamati con questo nome, plastica. Oltre il 40% trova impiego in quello che gli inglesi chiamano packaging, sì insomma nel settore dell’imballaggio. Un altro buon 20% nel settore dell’edilizia. La stessa percentuale, all’incirca, nel tessile. Una buona percentuale nel settore delle automobili e, anche, dei computer.
La plastica (ma faremmo meglio a dire le plastiche) ha diverse caratteristiche che hanno assicurato un loro rapido successo. Le principali ce le ricordava Gino Bramieri già mezzo secolo fa a proposito del poli-propilene (celebre con il nome commerciale di Moplen): inconfondibile, leggera, resistente. Ma possiamo aggiungerne tranquillamente altre due: flessibile ed economica.
La plastica è stata a lungo, dopo la seconda guerra mondiale, il simbolo stesso della modernità. La materia di una nuova era. Ma, parafrasando il chimico Luciano Caglioti, possiamo dire che oggi la plastica mostra un altro volto. Anzi, due. La sua immagine si è trasformata negli ultimi lustri e da espressione di progresso si è trasformata in emblema di una materia senz’anima. È fredda e inespressiva quella persona – si dice –, sembra fatta di plastica.

il volto cattivo della plastica
Ma più di recente la plastica è diventata anche l’emblema di un inquinamento pervasivo e inaccettabile. Emblema stesso di un modello di sviluppo insostenibile.
Se il primo volto negativo della plastica, quello di materia fredda, è tutto sommato ingiusto, il secondo, quello di materiale emblema di un modello economico (e, quindi, tecnologico) insostenibile è più che giustificato. Non che la colpa sia della plastica in sé – non esistono materiali buoni o cattivi in sé, esiste un buon uso o un cattivo uso di ogni materiale.
Il guaio è che sono i numeri a disegnare il volto cattivo della plastica (dell’uso della plastica): una parte non banale della pro- duzione mondiale di questi materiali – tra l’1,6 e il 4,2%, secondo Jenna Jambeck, della University of Georgia di Athens ne- gli Stati Uniti –, finisce in mare. Significa, dunque, che ogni anno gli oceani ricevono tra 6 e 17 milioni di tonnellate di plastica. Il mare non sa come smaltirla.
Già, perché molte di queste plastiche sono di sintesi, ovvero create in laboratorio in tempi recenti (da meno di cento anni) e la natura non riesce a digerirli. Detto in maniera più rigorosa, di quei 400 milioni di tonnellate annue di plastica che produciamo, meno del 2% (meno di 10 milioni di tonnellate) sono biodegradabili. Il resto subisce una serie di processi, più fisici che chimici, che non la rimettono in circolo nella biosfera. Il principale di questi processi è la frammentazione. La plastica che finisce in mare si riduce in grossi pezzi, in pezzettini e in briciole microscopiche: le cosiddette microplastiche.
Queste plastiche (dipende dal tipo) galleggiano in superficie, flottano a mezz’altezza o si sedimentano sul fondo. Provocando conseguenze ambientali ben poco desiderabili. Entrano persino nella catena alimentare, uccidono pesci e mammiferi marini, risalgono fino allo stomaco dei loro produttori. In pratica ce le troviamo disperse anche nei nostri corpi di Homo sapiens.
Secondo un recente rapporto del Wwf, i rifiuti plastici prodotti ogni anno e dispersi nell’ambiente (non solo in mare, dun- que, ma anche in terraferma) ammontano addirittura a 100 milioni di tonnellate. Con i medesimi problemi di cui sopra e con un punto interrogativo progressivamente più grande: che ne facciamo, dunque, della plastica?
Qualcuno sostiene, semplicemente, eliminiamola, non produciamola più e l’impronta ecologica dei polimeri di sintesi sparirà. Ma il discorso è più complesso e, dunque, va meglio articolato.

un obiettivo inderogabile
Partiamo da una premessa, che diamo per scontato. Dobbiamo tendere a una dispersione zero delle plastiche nell’ambiente. E, anzi, dobbiamo iniziarlo a ripulire sistematicamente, l’ambiente, dai frammenti plastici macro, medi e micro che già vi sono diffusi in milioni di tonnellate. Questo è l’obiettivo: assolutamente inderogabile. Ma come raggiungerlo, in un contesto di più generale sostenibilità?
La domanda non ammette una risposta semplice. Facciamo un esempio. Oggi molte plastiche vengono utilizzate, come abbiamo detto, nel settore automobilistico, il che consente di avere vetture più leggere e di risparmiare fino al 20% di energia di origine fossile. Se eliminassimo la plastica e tornassimo al metallo, le auto diventerebbero più pesanti e i conseguenti consumi di energia crescerebbero. Il risultato finale per l’ambiente sarebbe negativo. Più inquinamento, invece che meno.
L’esempio suggerisce che non dobbiamo avere un approccio ideologico verso la plastica (verso i diversi tipi di plastica). Come tutta la materia e l’energia che utilizziamo, anche i polimeri, come abbiamo detto, hanno una doppia faccia. Dobbiamo valorizzare la faccia positiva della plastica e fare il contrario con quella negativa. Sapendo bene che le differenze tra l’una e l’altra non sono sempre facili da cogliere e, a volte, sono i dettagli che contano.
Ritornando al nostro esempio: sappiamo bene che una parte della plastica usata sulle automobili finisce nell’ambiente a fino uso vettura. Per evitare che succeda abbiamo tre opzioni: produrre meno automobili; produrre automobili senza plastica; riciclare la plastica quando l’automobile viene dismessa. La prima è un’opzione generale, riguarda il modello di sviluppo. Riusciremo a fare a meno delle auto private e a sostituire con altri mezzi di trasporto o con una minore domanda di trasporto? In ogni caso una risposta positiva a questa domanda, che è sia di tipo culturale che economico e sociale, è di medio o lungo periodo. La seconda opzione, come abbiamo detto, non è ecologicamente sostenibile. La terza opzione è già oggi praticabile. Possiamo e, dunque, dobbiamo riciclare i materiali plastici usati nel settore automobilistico.
Semplice, no? Niente affatto. Prendiamo a esempio le plastiche utilizzate nel tessile. Si trasforma in camicie, magliette e quant’altro. Non sono il massimo, i tessuti sintetici: né di eleganza né di comodità. Ma sono economici e leggeri. In ogni caso il problema, del tutto inatteso solo qualche anno fa, è che essi producono micro frammenti quando vengono lavati. Così che le lavanderie sono tra le grandi fonti di produzione di microplastiche.

il riciclo
È chiaro, allora, che la domanda «che fare della plastica?» è mal posta. Perché non ammette una sola risposta, ma molte. Anche quando ci riferiamo non alla materia in sé, ma al suo uso. Queste risposte le possiamo, in questa sede, solo provare a riassumere in tre grandi classi.
Non alcune plastiche, ma alcuni usi delle plastiche vanno effettivamente messi al bando. Con prudenza e capacità selettiva. Il Wwf propone di mettere al bando almeno i contenitori monouso ed avremo eliminato il 40% dei rifiuti plastici. In realtà tutta la filiera del packaging va ripensata. E non è semplice. Ma alcuni contenitori in materiale polimerico forse vanno conservati. Pensiamo alle siringhe di plastica monouso che hanno sostituito quelle di vetro riutilizzabili. In questo caso il processo «usa e getta» si è rivelato utile, perché contribuisce a tenere sotto controllo la diffusione di molte malattie infettive (Aids compreso). È il «getta», semmai, che anche in questo caso va modificato. Nulla deve essere gettato, tutto deve essere riciclato.
Questa è la prima delle grandi strategie per contenere e minimizzare l’impatto ambientale della plastica. Le tecnologie già
esistono. Altre tecniche e altri materiali plastici possono essere messi a punto investendo di più nella ricerca. Ma il riciclo è già oggi possibile. A frenarlo non è l’impossibilità, ma la cultura diffusa e una mancanza di organizzazione. Cosa impedisce, per esempio, ai produttori e agli utilizzatori di flaconi di plastica di uniformare forme e chiusure, in modo che il riciclo possa essere totale?

sostituzione con altri materiali
Certo, anche in altri settori la plastica può essere sostituita da altri materiali, tradizionali (le finestre di legno invece che in Pvc, per esempio) o innovativi. Però facendo attenzione a effettuare una corretta valutazione di impatto ambientale. In modo che la pezza non si dimostri peggiore del buco. Facciamo un esempio: siamo proprio sicuri che piatti di carta monouso siano più sostenibili di piatti di plastica monouso? Non lo sappiamo. Dipende da tanti fattori. Che vanno attentamente valutati, prima di effettuare scelte improvvide.

ripensare la nostra economia e i nostri stili di vita
Oltre al riciclo (e all’eventuale sostituzione con altri materiali più ecosostenibili), c’è un’altra strada maestra da percorrere: il risparmio. O, se volete, l’abbattimento dei consumi inutili. Una parte rilevante del packaging non ha alcuna funzione utile. Spesso ha solo una (malintesa) funzione estetica. In questo caso non è (solo) la plastica che va eliminata, è il packaging in sé.
In conclusione. Non accettiamo l’uso della plastica così com’è oggi. Modifichiamolo profondamente. Senza fare una battaglia ideologica al materiale, ma ripensando la nostra economia e i nostri stili di vita. Senza fare in modo che la demonizzazione della plastica come materiale diventi l’alibi per conservare il nostro modello economico e i nostri stili di vita fondati sui consumi individuali. Essi sì insostenibili alla radice.

Pietro Greco
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SOLO UNA PAROLA: PLASTICA. Dal film IL LAUREATO.
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moplen

I Martiri di Palabanda. Chi furono?

QUANDO I SARDI MORIVANO PER LA LIBERTA’. I martiri di Palabanda: cosa successe (il moto di libertà), chi erano (i protagonisti), come finirono (il loro destino e … il nostro!).
“I MARTIRI DI PALABANDA ALLA FINE DEL VENTENNIO RIVULUZIONARIO, 1794 – 1812”.
Nota. La vicenda storica sulla congiura di Palabanda è contenuta subito qui sotto all’interno della biografia del suo più importante esponente, Salvatore Cadeddu. Tutte le schede sono tratte dal volume di VITTORIA DEL PIANO, GIACOBINI MODERATI E REAZIONARI IN SARDEGNA, Saggio di un dizionario biografico 1793 – 1812, Edizioni Castello, Cagliari 1996.
[segue]

Alzare la voce per non perdere la speranza

24-maggio-19-greta
Le ragioni scientifiche di Greta
di Pietro Greco su Rocca

Lasciamo perdere i costi, che ammonteranno ad (appena) lo 0,15% del Prodotto interno lordo dell’Unione europea. Ma gli obiettivi vincolanti di riconversione energetica per contrastare i cambiamenti del clima che, nero su bianco, si sono dati i 27+1 paesi del Vecchio Continente che si riconoscono nella Commissione di Bruxelles sono piuttosto ambiziosi. Anzi,
diciamo subito che sono gli obiettivi più ambiziosi a scala planetaria: riduzione del 40% delle emissioni di gas serra rispetto ai livelli di riferimento del 1990; una quota delle rinnovabili nel paniere energetico non inferiore al 27%; un miglioramento dell’efficienza energetica del 27% (quest’ultimo obiettivo verrà riesaminato nel 2020 per raggiungere un traguardo minimo del 30%).

Tutto questo in vista di giungere al 2050 con la possibilità concreta di ridurre le emissioni di biossido di carbonio, metano e altri gas serra di almeno l’80/95%. No, non c’è dubbio. Il progetto che si è dato l’Unione Europea per rispettare gli Accordi di Parigi del 2015 e, anzi, fare da traino è davvero ambizioso. Non sarà facile portarlo a termine. Di certo, allo stato, nessuno al mondo ne ha uno analogo.
Eppure la piccola Greta Thunberg sta raccogliendo consensi di massa in giro per l’Europa e mobilitando folle di giovani sostenendo che tutto questo non basta. È andata al parlamento europeo per dire che noi adulti le stiamo rubando il futuro e che se vogliamo restituirglielo (a lei e alle future generazioni) l’obiettivo di riduzione dei gas serra dell’Unione Europea da qui al 2030 deve almeno raddoppiare e raggiungere la quota dell’80%.

la comunità scientifica sul clima
Qualcuno ha detto che, nella sua ingenuità giovanile, Greta è, allo stesso tempo, irrealistica e ingenerosa. Eppure… Vediamo cosa dice la comunità scientifica, nella sua parte maggioritaria e più autorevole in fatto di clima. Lo scorso mese di ottobre l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), il gruppo di scienziati internazionali che opera su mandato delle Nazioni Unite ha messo, anche lui, nero su bianco concetti e numeri chiari. Cerchiamo di riassumerli.
Il clima del pianeta Terra non cambierà in futuro. È già cambiato e sta continuando a farlo. La temperatura media del globo è già aumentata di 1,1 °C rispetto all’epoca preindustriale. E gli effetti già si vedono: eventi meteorologici estremi più frequenti, aumento del livello dei mari di una decina di centimetri; scioglimento dei ghiacci ai poli e sulle montagne; aumento della
desertificazione; cambiamento del ciclo delle acque; aumento delle migrazioni per cause ambientali.
Le cause, ormai è certo, sono quasi tutte ascrivibile alle attività umane. E, in particolare, all’uso dei combustibili fossili e, in misura minore, ai processi di deforestazione e di cambiamento del paesaggio naturale.
Le simulazioni al computer – fondate su solide basi scientifiche – ci dicono che la temperatura media del pianeta crescerà ancora da qui alla fine del secolo, con effetti giudicati da tutti indesiderabili. Dove quel tutti include i paesi membri delle Nazioni Unite che hanno ufficialmente dichiarato di voler contrastare i cambiamenti climatici indotti dall’uomo proprio per evitarli quegli effetti indesiderabili. Nel 2015 a Parigi i quasi 200 paesi del mondo che hanno firmato la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti del Clima (UNFCCC) si sono posti come obiettivo quello di riuscire a contenere l’aumento della temperatura media del pianeta ben al di sotto dei 2°C. E, per dare un minimo di concretezza a questo impegno morale, hanno individuato delle politiche di prevenzione da attuare. Politiche che, a differenza di quelle che si è data autonomamente l’Unione Europea, non sono vincolanti.
Ebbene, se anche tutti gli impegni presi a Parigi fossero rispettati, dicono le simulazioni al computer degli scienziati, la temperatura media del pianeta a fine secolo non starà sotto i 2°C ma sopra, forse molto sopra, i 3°C.

gli accordi di Parigi non bastano
Dunque, ha ragione Greta, gli accordi di Parigi – che devono essere rivisti il prossimo anno, nel 2020 – non sono per nulla sufficienti. Tanto più che lo scorso mese di ottobre l’Ipcc ha reso pubblico un rapporto speciale in cui sostiene che 2°C di aumento della temperatura media del pianeta rispetto ai livelli pre-industriali deve essere considerata una soglia di pericolo grave, perché oltre questo valore gli effetti indesiderabili potrebbero aumentare con un’intensità non lineare e produrre effetti devastanti per gli ecosistemi e la società umana. Un obiettivo di sicurezza, sostengono gli scienziati dell’Ipcc, sarebbe quello di limitare l’aumento della temperatura entro gli 1,5°C.
L’Ipcc ha indicato anche cosa bisogna fare per raggiungere questo obiettivo: occorrerebbe abbattere, a scala mondiale, del 49% le emissioni di carbonio (le principali emissioni serra) entro il 2030 rispetto ai livelli raggiunti nel 2017, per poi raggiungere la cosiddetta «neutralità carbonica» (in pratica un bilancio di emissione e assorbimento di biossido di carbonio pari a zero) entro il 2050.

perché Greta ha ragione
Se non si procederà con rapidità e determinazione verso questi obiettivi, supereremo la soglia dell’aumento di temperatura di 1,5°C tra il 2030 e il 2052 e quella dei 3°C alla fine del secolo.
Ora torniamo a Greta. La giovane e gagliarda attivista svedese ha ragione quando dice che gli obiettivi dell’Unione Europea saranno anche i più ambiziosi al mondo ma restano insufficienti.
A uno sguardo distratto la differenza tra gli obiettivi che si è posti Bruxelles per l’Europa e quelli indicati dall’Ipcc per il mondo non sono drammaticamente distanti. Con un piccolo ulteriore sforzo l’Europa potrebbe convergere verso il target indicato dall’Ipcc.
Ma questo non tiene conto di due fattori. Il primo è che la concentrazione attuale di gas serra in atmosfera è il frutto di un processo storico. Negli ultimi due secoli l’Europa e il Nord America hanno immesso in atmosfera più gas serra del resto del mondo. Hanno, dunque, la responsabilità storica che deve essere tenuta nel debito conto. Devono, insomma, fare di più e più in fretta degli altri.
Il secondo fattore riguarda la possibilità tecnica di raggiungere gli obiettivi indicati dall’Ipcc. L’Europa e il Nord America hanno a tutt’oggi le tecnologie più avanzate e le risorse economiche più adeguate per fare di più e più in fretta degli altri.
Tradotto in numeri, significa che quando Greta indica nell’80% la soglia dell’abbattimento delle emissioni di gas serra da abbattere entro il 2030 non va molto lontano dal livello giusto e desiderabile. Certo è molto più vicina lei a quel valore che l’Unione Europea con il suo 40%.
Dunque, l’indicazione di Greta è scientificamente fondata. Non sono, i suoi, numeri buttai lì a caso. E la sua urgenza è l’urgenza dei fatti.

mai dire mai
Ma quanto è politicamente realistica l’indicazione di Greta che è poi, in buona sostanza, quella dell’Ipcc? Detta in altri termini, i governi europei vorranno e potranno dar corso a questo formidabile cambiamento del paradigma energetico ed economico richiesto dalla prevenzione efficace dei cambiamenti climatici?
A guardare lo scenario politico europeo (e mondiale) attuale sembrerebbe che la risposta alle nostre domande è un rotondo no. Non ce la faremo mai. Ruberemo una fetta importante di futuro a Greta e a tutte le prossime generazioni.
Ma, mai dire mai. In fondo le società umane hanno dimostrato spesso di sapersi dare formidabili colpi di reni in caso di emergenza. E dunque, anche su questo Greta con le sue battaglie ha ragione. Dobbiamo alzare la voce per non perdere la speranza.
Pietro Greco
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Comunicazione di servizio.
lampada aladin micromicro Da ieri, lunedì 13 maggio, fino a domenica 19 maggio 2019 per ragioni di carattere organizzativo connesse agli impegni del direttore, gli aggiornamenti della News non saranno effettuati con la consuetà tempestività. Ce ne scusiamo con i lettori.

MIGRAZIONI INTERNAZIONALI

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CONTRO IL CAOS
di Pietro Greco, su Rocca*

Cinque milioni di italiani sono emigrati all’estero. Cinque milioni di stranieri sono emigrati in Italia. In fatto di migrazioni, l’Italia è un paese di mezzo. Sarebbe, dunque, particolarmente interessato a quel Global Compact sulle migrazioni firmato da 164 paesi, in sede di Nazioni Unite, a Marrakech, in Marocco tra il 10 e l’11 dicembre scorso. Eppure, tra quei 164 paesi firmatari, l’Italia non c’è.
Il governo ha voluto prendere tempo. Ma intanto il Parlamento ha deciso. Lo scorso 27 febbraio è passata a maggioranza una mozione proposta dai Fratelli d’Italia che lo impegna, il governo, sia a «non sottoscrivere il Global Compact» sia «a non contribuire in alcun modo al finanziamento del relativo trust fund». La mozione ha avuto una storia non usuale: è stata approvata con soli 112 voti favorevoli dei gruppi appartenenti a due partiti di opposizione (Forza Italia, oltre che i Fratelli d’Italia), ha ottenuto 102 voti contrari (dei deputati degli altri partiti di opposizione, Pd e Leu), mentre ha visto astenersi ben 262 parlamentari (i membri dei gruppi appartenenti ai partiti di maggioranza, M5S e Lega). Il governo, che pure dovrebbe firmare il Global Compact, non si è pronunciato.

un testo quadro
Ora non entriamo nella vicenda politica. Non è compito nostro. Diciamo solo che il Global Compact di cui stiamo parlando è un testo quadro non vincolante che tende a mettere ordine nel caos delle migrazioni internazionali. A regolarle. A vantaggio sia dei paesi di partenza sia dei paesi di arrivo, oltre che – s’intende – dei migranti stessi.
Non firmare il testo di Marrakech è quanto meno strano. Soprattutto se si è partecipato alla sua elaborazione. Ma tant’è. E sulle scelte politiche non vogliamo entrare.
Dobbiamo, tuttavia, misurarci con il fenomeno delle migrazioni. Che è un fenomeno strutturale, anche ai nostri giorni. Ma non solo ai nostri giorni. D’altra parte Homo sapiens è nato in Africa, oltre 200.000 anni fa è si è diffuso per il pianeta con una serie di migrazioni. Ma non parliamo dei tempi antichi. E non parliamo solo degli africani (alcuni dei quali sono lontani bisavoli delle popolazioni, ora bianche, d’Europa). Prendiamo il caso del nostro paese, dell’Italia. Nel suo primo secolo di unità – tra il 1861 e il 1961 – ha visto migrare all’estero 25 milioni di persone: 700 al giorno, in media, per 36.500 giorni consecutivi. Oggi la situazione non è molto cambiata. Ogni anno – negli ultimi anni – hanno lasciato l’Italia 200.000, soprattutto giovani spesso laureati: 550 al giorno, in media. Non c’è dubbio da oltre 150 anni siamo un popolo di migranti. E stabilire regole internazionali che proteggano questi giovani italiani sarebbe cosa buona e giusta. Naturalmente non si fa una legge interna- zionale per tutelare solo i migranti italia- ni. Se ne fa una per tutelare tutti i migranti, attraverso procedure ordinate che tengano conto tanto dei paesi di partenza quanto di quelli di arrivo.

tre fattori incrociati
Stiamo parlando di migranti in generale, senza distinguere tra migranti per cause di guerre e persecuzioni (chiamati refugees nella giurisprudenza internazionale), per cause ambientali (il deserto e la siccità spinge a migrare più dei conflitti armati) o per cause economiche. I tre fattori, d’altra parte, sono quasi sempre intrecciati. Non a caso la gran parte degli africani che oggi lasciano il continente e tentano di raggiungere l’Europa vengono dalla fascia del Sahel, dove le condizioni ambientali sono in rapido deterioramento a causa dei cambiamenti del clima (il lago Ciad si è quasi essiccato) e nel mare di povertà imperversano gruppi terroristici.
Già, l’Africa. Nel 1950 il continente nero era abitato da 180 milioni di persone. Oggi siamo a 1,2 miliardi e fra trent’anni saranno 2,5 miliardi. È inevitabile che con i cambiamenti del clima e in mancanza di una robusta crescita economica, una parte sterminata di africani sarà costretta a lasciare la casa dove è nato. La quasi totalità cercherà dimora e lavoro all’interno dell’Africa stessa. Ma una parte di quei migranti per necessità cercherà di raggiungere l’Europa.
È inutile cercare di elevare mura. Non solo perché, come dice papa Francesco, a restare intrappolati in quelle mura saremo noi europei. Ma perché la storia ha dimostrato che le mura e le muraglie servono a poco quando la pressione è davvero alta. Né i Romani né i Cinesi, con le loro mura e muraglia, sono riusciti a contenere l’arrivo di quei migranti dall’esterno che entrambi chiamavano «barbari».

il problema demografico
È inutile cercare di elevare mura. Ma neppure conviene. Come rilevano Stefano Allievi e Gianpiero Dalla Zuanna nel loro libro dal titolo Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione dal 1975 in poi in Italia si registra un calo delle nascite. E il fenomeno demografico ora è diventato anche un problema economico: gli italiani nati nell’ultima tratto del secolo scorso sono giunti in età da lavoro. E poiché sono sempre meno, c’è un buco nella popolazione in età da lavoro (20-64 anni: nei prossimi venti anni i potenziali lavoratori passeranno da 36 a 29 milioni. Un calo netto, difficile da sostenere per l’economia (e anche per la società). Ora, dicono Allievi e Dalla Zuanna, per tentare di mantenere costante questa popolazione nella fascia di età da lavoro nel prossimo ventennio dovrebbero entrare in Italia 325.000 stranieri in età da lavoro.
Riassumendo. L’Africa sta andando incontro a un formidabile aumento demografico che in cento anni (dal 1950 al 2050) la porterà da 180 milioni a 2.500 milioni di abitanti. Già oggi gli africani sono più di 1.200 milioni. I cambiamenti climatici stanno rendendo e renderanno vieppiù molte aree nel continente nero inabitabili. La spinta a migrare sarà irresistibile.
Di converso, l’Italia (ma potremmo parlare di buona parte dell’Europa) è in una fase di decrescita demografica accompagnata da un aumento della popolazione anziana. Per mantenere costante la popolazione attiva avremmo bisogno di 7 milioni di lavoratori stranieri nei prossimi venti anni.

un African Compact
A questo punto logica vorrebbe che se l’Africa offre lavoratori e l’Italia domanda lavoratori, l’offerta e la domanda si incontrassero. In maniera ordinata, nel pieno rispetto delle leggi e della dignità. Occorrerebbe, appunto, un African Compact per la migrazione.
Si dice: «non possiamo accoglierli tutti». E, infatti, nessuno pensa di trasferire in Europa 2,5 miliardi di africani. Ma sarebbe auspicabile (anche perché sarà pressoché impossibile da evitarlo) che una piccola quota parte di migranti africani trovi un’ordinata accoglienza. Dice: «meglio aiutarli a casa loro». Giusto. Ma quel è il modo migliore di aiutarli a casa loro, oltre a intensificare gli sforzi di prevenzione dei cambiamenti climatici?
Le modalità sono due. E non sono alternative. Il primo è che l’Unione Europea dia seguito a molte intenzioni dichiarate e mai realizzate per proporre un grande «Piano Marshall per l’Africa»: un massiccio piano di investimenti in grado di creare lavoro nel continente nero. Lo sta facendo, per certi versi, la Cina. Anche se il piano europeo dovrebbe essere non solo più generoso, ma anche più rispettoso delle tradizioni e delle libertà dei popoli che abitano il continente nero.
Ma un altro modo, ripetiamo complementare e non alternativo, per «aiutarli a casa loro» è ammettere in Italia (e in Europa) una quantità non elevata, ma nep- pure infinitesima, di lavoratori africani. Sono le rimesse dei migranti che aiuterebbero – che stanno già aiutando – gli africani a casa loro. Sono circa 70 miliardi l’anno le rimesse dei migranti che raggiungono l’Africa. Molto più degli aiuti internazionali, Cina inclusa. E sono soldi, come nota ancora il sociologo Stefano Allievi, nel suo nuovo libro (Immigrazione. Cambiare tutto) che non sono intercettati da politici e burocrati corrotti, ma arrivano direttamente nelle tasche delle famiglie africane. Sono soldi che stanno contribuendo a quella crescita economica che, tra mille contraddizioni e differenze tra gli oltre 50 paesi del continente, sta interessando finalmente l’Africa.
Certo, il Global Compact sulle migrazioni firmato lo scorso mese di dicembre a Marrakech da 164 paesi non è sufficiente a «cambiare tutto». Tuttavia quell’accordo è necessario. È la premessa indispensabile per trasformare le migrazioni da minaccia e occasioni di conflitto in opportunità per tutti.

Pietro Greco
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ROCCA 15 APRILE 2019
Rocca – Cittadella 06081 Assisi
e-mail rocca.abb@cittadella.org
rocca-08-15-apr-2019
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Fatti e misfatti: la pessima legge elettorale sarda. Errare humanum est (2013), perseverare autem diabolicum (2019)

Oggi martedì 26 marzo 2019 sulla prima pagina de L’Unione Sarda.
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Errare humanum est (2013), perseverare autem diabolicum (2019)
[CAGLIARI 25 giugno 2013]. A meno di otto mesi dalla fine della legislatura, il Consiglio regionale della Sardegna ha approvato una riforma della legge elettorale statutaria a larga maggioranza con 61 voti a favore, 7 contrari 6 astenuti.
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Rispondono sì i consiglieri: Salvatore Amadu – Arbau – Artizzu – Bardanzellu – Ben Amara – Andrea Biancareddu – Mario Bruno – Antonio Cappai – Cocco Pietro – Contu Felice – Contu Mariano – Corda – Cozzolino – Cuccu – Cuccureddu – Simona De Francisci – Diana Giampaolo – Diana Mario – Marco Espa – Floris Mario – Floris Rosanna – Floris Vincenzo – Domenico Gallus – Greco – Lai – Locci – Lotto – Lunesu – Manca – Mariani – Meloni Valerio – Sergio Milia – Moriconi – Mula – Mulas – Murgioni – Sergio Obinu – Giorgio Oppi – Peru – Petrini – Piras – Antonio Pitea – Pittalis – Efisio Planetta – Porcu – Randazzo – Rassu – Teodoro Rodin – Francesco Sabatini – Salis – Sanjust – Sanna Giacomo – Sanna Gian Valerio – Sanna Matteo – Solinas Antonio – Renato Soru – Giulio Steri – Angelo Stochino – Tocco – Tupponi – Massimo Zedda.

Rispondono no i consiglieri: Cocco Daniele – Cugusi – Paolo Luigi Dessì – Paolo Maninchedda – Carlo Sechi – Angelo Stocchino – Claudia Zuncheddu.

Si sono astenuti: la Presidente Claudia Lombardo – Michele Cossa – Attilio Dedoni – Meloni Francesco – Pisano – Solinas Christian.

Risultato della votazione
PRESIDENTE. Proclamo il risultato della votazione:

presenti 74
votanti 68
astenuti 6
maggioranza 41
favorevoli 61
contrari 7

(Il Consiglio approva).

Assenti
- Tarciso Agus
- Francesca Barracciu
- Ugo Capellacci
- Roberto Capelli
- Luciano Uras
- Marco Meloni
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Fonte: http://consiglio.regione.sardegna.it/resoconti/resoconto.asp?print=1&idverbale=140415

Tutto è scritto agli atti. Chi vuole saperne di più vada avanti.

Sostiene Greta

greta-finlandia
456c7c35-f540-4d10-b175-a20406661bc7Un movimento planetario
di Pietro Greco, su Rocca.

Hanno iniziato a insultarla sui social. E purtroppo, almeno in Italia, anche su certa carta stampata. Segno che ha colpito nel segno. In Svezia l’hanno eletta invece «donna dell’anno». L’elezione, dicono le note di agenzia, è avvenuta tramite un sondaggio realizzato dall’isti- tuto Inizio per conto del quotidiano Aftonbladet. La vincitrice ha battuto a mani basse la leader dei cristiano-democratici, Ebba Busch Thor.
Lei è, naturalmente, Greta Thunberg: 16 anni appena compiuti lo scorso 3 gennaio. La ragazza forse più nota al mondo, almeno in ambito ecologico e politico. Perché è alla testa di un movimento sempre più esteso di ragazzi che ogni venerdì scende in piazza per chiedere al mondo degli adulti di restituire loro il futuro. Di contrastare, finalmente in maniera convinta e determinata, i cambiamenti del clima accelerati dall’uomo. Considerati da molti osservatori autorevoli la più grave minaccia che incombe sull’umanità in questo XXI secolo.
Il 15 marzo scorso Greta è stata, di fatto, consacrata leader di un movimento che ha (e si è) manifestato in 1700 città di 100 paesi diversi. Un movimento planetario. Ma lei è già leader di lungo corso. A dicembre, per esempio, aveva ammaliato tutti con il suo discorso a Cop24, la Conferenza sul clima organizzata dalle Nazioni Unite a Katowice, in Polonia. Tutto opera di questa «donna dell’anno» che è poco più di una ragazzina. Senza soldi e senza potere alcuno, ma con idee chiare e una volontà di ferro.
Ma, per quanto grandissima sia Greta, è chiaro che il suo grido, che non è di dolore bensì di mobilitazione, sta avendo successo perché ha toccato un nervo scoperto del mondo. Ha dato alla sua generazione un motivo valido e unificante per scendere in piazza: riappropriarsi del proprio futuro. Un futuro messo a rischio dal paradosso da cui non riesce a uscire il mondo degli adulti: avere una coscienza enorme del rischio che corre l’umanità a causa dei cambiamenti del clima e non riuscire a fare nulla (o, almeno, troppo poco) per evitarlo.

sostiene Greta
C’è un romanzo di Antonio Tabucchi ambientato nel 1938 in cui una persona normale e un po’ timorosa, il dottor Pereira, acquista consapevolezza della gravità della condizione in cui vive il Portogallo (il fascismo con la perdita della libertà) e all’improvviso decide di scendere in campo per opporsi con tutte le sue forze. Il romanzo si intitola Sostiene Pereira.
Greta è una ragazzina di quindici anni che all’improvviso, nel 2018, ottant’anni dopo il dottor Pereira, ha acquistato consapevolezza della gravità della condizione in cui vive il mondo intero (il cambiamento del clima accelerato dall’uomo) e all’improvviso decide di protestare davanti alla sua scuola per gridare con tutte le sue forze che è ora di fare qualcosa.
Il suo grido è stato forte abbastanza. In pochi mesi è diventata la leader di un movimento planetario. Conviene ascoltarla. Sostiene Greta che la temperatura media del pianeta è aumentata di circa 1 °C rispetto all’epoca preindustriale. E che le previsioni annunciano che aumenterà ancora, entro la fine di questo secolo, con conseguenze fisiche e sociali indesiderabili. Sostiene Greta che gli esperti dell’Ipcc, il panel di scienziati organizzato dalle Nazioni Unite, in un rapporto pubblicato nei mesi scorsi, hanno scritto nero su bianco che, allo stato delle conoscenze attuali, sarebbe bene che l’aumento della temperatura non superasse gli 1,5 °C a fine secolo. E comunque non andasse oltre i 2 °C, altrimenti il rischio è che il sistema climatico subisca un riassestamento con conseguenze drammatiche e irreversibili (nei tempi umani, si intende). Le conseguenze sono fisiche (aumento della temperatura, del livello dei mari, dello scioglimento dei ghiacci), ma anche sociali (centinaia di milioni di migranti climatici) ed economici (crollo di molte economie).
Sostiene Greta che sostiene l’Ipcc che possiamo ancora farcela, a rientrare nei limiti di 1,5 °C, ma dobbiamo agire rapidamente e drasticamente. Dimezzando le emissioni di gas serra entro il 2030 e azzerandole entro il 2050. A questo scenario i paesi che hanno sottoscritto la Convenzione delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici oppongono gli accordi raggiunti nel 2015 a Parigi, in occasione di Cop 21. Accordi che prevedono impegni su base volontaria che, se anche fossero realizzati integralmente, porterebbero a un aumento della tempera- tura media di 3 °C rispetto all’epoca preindustriale. Ben oltre la soglia di rischio acuto indicata dall’Ipcc.
Sostiene Greta che noi adulti abbiamo ormai un’enorme coscienza del rischio, ma che non stiamo facendo abbastanza per evitarlo. Che stiamo «rubando il futuro» alle nuove generazioni.
Sostiene Greta che i giovani di tutto il mondo hanno una gran voglia e una grande capacità di tentare di costruire un futuro climaticamente sostenibile. Ma che questa gran voglia e questa grande capacità sono inutili, perché potranno manifestarsi trop- po tardi.
Sostiene Greta che sostiene l’Ipcc che c’è pochissimo tempo. Non più di una decina di anni, appunto. Il 2030 arriverà troppo presto perché i giovani possano sostituire gli attuali adulti e prendere nelle loro mani il futuro del clima.
Sostiene Greta che siamo noi adulti a doverci svegliare. A cambiare il paradigma energetico. A consegnare nelle loro mani il pianeta e il suo clima così come noi (attuali adulti) lo abbiamo ricevuto dalle passate generazioni. Non abbiamo alibi. Sappiamo, ma non agiamo di conseguenza.

una coscienza enorme e viva
Sosteniamo noi, se ci è concesso, che in questo scenario di coscienza enorme (di tutti) e di incapacità ad agire di conseguenza (degli adulti che hanno la responsabilità del governo del pianeta), la ragazza svedese e i tanti giovani che si stanno mobilitando in tutto il mondo rappresentano un’inaspettata e straordinaria speranza. Forse l’ultima che abbiamo, come sostiene Greta e come sostengono i suoi coetanei. Questa speranza è la nascita (o la rinascita) di una superpotenza planetaria: un’opinione pubblica mondiale che si è manifestata in 1700 città di 100 diversi paesi in grado di imporre (il verbo è forte, ma non ne abbiamo tro- vato un altro adeguato) ai recalcitranti governi di seguire il percorso indicato dagli scienziati dell’Ipcc.
La declinazione del verbo imporre è chiara, anche alla luce di quanto è accaduto il 15 marzo scorso. Significa mobilitazione in maniera assolutamente pacifica. Ma, anche, in maniera assolutamente determinata. La stessa determinazione che Greta ha manifestato a Katowice: «Non siamo venuti qui – ha sostenuto Greta davanti ai rappresentanti dei circa duecento governi che l’ascoltavano – per pregare i leader a occu- parsene. Tanto ci avete ignorato in passato e continuerete a ignorarci. Voi non avete più scuse e noi abbiamo poco tempo. Noi siamo qui per farvi sapere che il cambiamento sta arrivando, che vi piaccia o no». Questo sostiene Greta. E questa è la speranza che lei e tantissimi come lei hanno acceso: un movimento planetario di giovani (e meno giovani) lucidi e determinati come la ragazzina svedese. Questa speranza è l’ultima che abbiamo. Il 15 marzo ha rappresento, dunque, il momento in cui la nostra «coscienza enorme» è uscita dal paradosso della «enorme inanità» e ha iniziato ad agire di conseguenza.
Sostiene Greta che loro non si arrenderanno. Che loro andranno fino in fondo. Le crediamo. Crediamo nel movimento dei giovani. D’altra parte, quale altra alternativa abbiamo?

Pietro Greco
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rocca-7-2019

E’ online Rocca numero 6 del 15 marzo 2019

rocca-06-2019Rocca
quindicinale
della Pro Civitate Christiana
Numero 6 – 15 marzo 2019

Segue il sommario

lampadadialadmicromicroIl 3 febbraio u.s. organizzato dalla Comunità di San Rocco a Cagliari, si è tenuto un interessante incontro sulla figura del pontefice Paolo VI, recentemente proclamato santo da papa Francesco. La relazione introduttiva è stata tenuta da Armando Mura. Ne pubblichiamo una trascrizione, rivista dallo stesso Autore e inviataci dalla Comunità di San Rocco, che ringraziamo per avercela fornita.
paolo-vi-armandomuraCOMUNITA’ DI SAN ROCCO – Cagliari
COMMEMORAZIONE DI SAN PAOLO VI
ASPETTI UMANI E SPIRITUALI
di Armando Mura
Per illustrare la vita e l’insegnamento del grande pontefice Giovanni Battista Montini non basterebbe un convegno di studi. Io quindi modestamente cercherò di cogliere alcuni aspetti umani e spirituali della sua personalità incominciando dalla prima formazione. [segue]

Documentazione Elezioni

Documentazione per le Elezioni sarde.

Pane nostro

Nel dolore del mondo
migranti-742x321-660x321“NON C’È PIÙ NÉ GIUDEO NÉ GRECO”

La cultura della diseguaglianza ha radici antiche, viene dalla filosofia classica e dalla conquista dell’America, solo nel Novecento è stata ripudiata, ed ora ritorna. La costruzione dell’unità umana è la principale tra le attuali urgenze messianiche

Raniero La Valle*

Cari Amici,

vi potrà stupire che ci sia una citazione biblica (Gal. 3, 28) come titolo di questo mio intervento, quando né le citazioni bibliche né il cristianesimo sembrano oggi molto di moda, e anzi si sta cercando di dare una spallata per abbatterli.

Però a ben vedere anche il titolo di questa vostra Festa multiculturale è una citazione biblica, “Pane nostro”, anzi è addirittura una citazione del “Padre nostro”. E in sostanza le due citazioni vogliono dire la stessa cosa: e cioè che non c’è nulla di nostro, nemmeno il pane, che non sia anche degli altri, che non sia un nostro di tutti. E se non c’è né Giudeo né Greco è perché non c’è un mondo di soli cittadini e non anche di stranieri, non c’è da una parte un’Europa comunitaria e dall’altra un mondo barbarico di extracomunitari, non c’è un’Italia di residenti che non sia anche un’Italia di immigrati, di fuggiaschi e di nomadi.

Questa è la tesi del nostro discorso. Ma perché cominciare proprio dal mettere insieme Giudei e Greci? Per la buona ragione che nella nostra società non c’è più posto per l’antisemitismo. È vero che per arrivarci ci sono voluti milioni di morti, ma ormai su questo, a parte i negazionisti e gli accecati, sono tutti d’accordo. Allora è bene partire da una posizione da tutti condivisa, per affermarne un’altra altrettanto sacrosanta, e cioè che come non c’è Giudeo e Greco, così non c’è Italiano e Straniero; e questa affermazione è invece oggi fieramente contestata, quando si dice “prima gli Italiani” o addirittura “solo gli Italiani”, come si dice “prima l’America” o “la Francia per prima”. L’altra sera in TV la signora Santanchè diceva che i migranti devono essere respinti in quanto delinquenti, e anche sotto questo profilo doveva valere il motto “prima gli Italiani”, anzi in questo caso il messaggio era “solo gli Italiani, vogliamo solo i delinquenti italiani”; e questi ce li dobbiamo tenere almeno fino a quando non si riuscirà a togliere la cittadinanza anche a loro, come prevede il decreto sicurezza del ministro Salvini.

Allora qui bisogna sapere che è in gioco una grande questione, che ha attraversato tutta la storia, e su cui si decide tutto il nostro futuro: è la questione della diseguaglianza.

La storia della diseguaglianza

Dire non c’è più Giudeo né Greco, come dissero Paolo e il cristianesimo nascente, era una rivoluzione epocale anzitutto perché gli stessi Ebrei sostenevano una differenza invalicabile tra sé e gli stranieri, che non potevano neanche entrare nel recinto del Tempio, gli uni essendo eletti gli altri dannati; ma era una novità straordinaria anche perché il pensiero della diseguaglianza dominava non solo l’immaginario religioso, ma tutta la cultura dell’umanità, e non solo nel sentire comune e nell’opinione del volgo, ma ai livelli più alti della filosofia e del pensiero. Quella che dominava era infatti l’antropologia di Aristotele che divideva la società in signori e servi, e i servi erano tali per natura, “naturaliter servi”, come traducevano i latini. Questa diseguaglianza non dipendeva da contingenti condizioni economiche e sociali, ma era una diseguaglianza originaria; in termini colti si potrebbe dire una diseguaglianza ontologica, per essenza, e quindi umanamente irrimediabile. È la stessa cosa che valeva e vale ancora oggi per le caste in India, per cui mai lì si potrà passare dalla casta dei mercanti o dei servi alla casta dei guerrieri o dei brahamani: l’unica possibilità di cambiare casta è di morire e ricominciare un’altra vita. E non parliamo poi dei dalit, o intoccabili e “fuori casta”, con cui le caste superiori non devono nemmeno venire in contatto; anzi per la strada essi devono camminare al centro per non offuscare con la loro ombra le mura delle case delle caste alte.

In Occidente Aristotele spiegava che come per natura si uniscono maschio e femmina per la riproduzione, così deve esserci “chi per natura comanda e chi è comandato al fine della conservazione” (“Politica”, libro I), e questo rapporto di dominio si fondava su una diseguaglianza originaria, per cui si nasce liberi o schiavi, maschio e femmina, “l’uno per natura superiore, l’altra inferiore, l’uno comanda, l’altra è comandata”, e da qui scendevano a cascata le altre diseguaglianze, sociali, di classe ed etniche, per cui erano contrapposti padroni e servi, liberi dal lavoro e costretti ai lavori necessari, cittadini e non cittadini, greci e barbari, nativi e meteci (che erano poi i meticci, gli immigrati).

Fu perciò una grande rivoluzione religiosa e antropologica che Gesù, in nome di Dio Padre nostro, padre di tutti, rompesse il muro di separazione tra Giudei e Greci, tra Ebrei e Gentili e affermasse la radicale eguaglianza di tutti gli esseri umani, fino a dire con Paolo non solo che non c’è più né Giudeo né Greco, ma non c’è più maschio e femmina, non c’è Barbaro o Scita, schiavo e libero, e non c’è più circoncisione e in circoncisione (Col. 3, 11): e questo voleva dire abrogare quella divisione tra eletti e scartati che, secondo le Scritture ebraiche era addirittura di diritto divino, tanto da essere poi per sempre impressa nella carne dei membri del popolo eletto mediante la circoncisione.

Ora questa radicale unità ed eguaglianza di tutti gli uomini e le donne che Gesù ha affermato e realizzato attraverso la croce veniva ad adempiere quelle promesse messianiche, che già nell’Antico Testamento avevano prefigurato l’unità di tutte le famiglie della terra; basta pensare alla profezia di Isaia (Is. 2, 4) che annunciava che dalle loro spade fabbricheranno vomeri, dalle loro lance falci, nessuna nazione alzerà più la spada contro l’altra e non impareranno più l’arte della guerra (perché la guerra non è in natura, non si nasce “imparati” alla guerra, è un artificio, un prodotto della cultura, bisogna impararla) o la profezia di Michea che annunciava che potranno sedersi ciascuno tranquillo sotto la sua vite e sotto il suo fico senza nessuno che li spaventi, e addirittura che tutti i popoli avrebbero camminato insieme ognuno nel nome del suo Dio (Mich. 4, 4-5): cioè tutte le discriminazioni sarebbero cadute, mentre tutte le identità sarebbero state salvate. La novità del Cristo, che poi significa Messia, portava cioè quel cambiamento radicale che doveva segnare il passaggio dall’età della profezia, dell’annuncio, a quella della realizzazione delle promesse messianiche.

Purtroppo però questa antropologia nuova non è entrata di fatto nella storia successiva, e nemmeno, se non con molta fatica, nello stesso cristianesimo. È vero che, come dice la seconda lettera di Pietro un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno al cospetto di Dio (2Pt 3,8), ma fatto sta che il pensiero della diseguaglianza ha continuato a dominare la storia. Ed è stata questa cultura della diseguaglianza che ha fondato e legittimato le società signorili e feudali, e innumerevoli forme storiche concrete di società inegualitarie, castali, razziste, sessiste e classiste.

La conquista dell’America

Per venire a tempi più recenti, possiamo dire che questa cultura della diseguaglianza è all’opera e produce il massimo della sua capacità discriminatoria agli albori della modernità, quando, con la conquista dell’America, gli europei si imbattono negli Indios, e parte la grande vicenda della colonizzazione. Nel 1500 si ricorre infatti all’antropologia di Aristotele, per dire che vi sono uomini e collettività che non essendo per limiti innati dotati di ragione sufficiente, sono incapaci di essere liberi e padroni di se stessi e quindi giustamente assoggettati dagli Spagnoli. È la tesi che Francisco De Vitoria confuterà nella sua famosa Relectio de Indis: ma intanto gli Indios vengono assoggettati e questo pensiero della diseguaglianza arriverà fino ad Hegel, a Croce, a De Gobineau e ai razzismi del Novecento europeo.

È proprio a partire dalla conquista dell’America che si sviluppa infatti nella filosofia dell’Occidente la concezione che teorizza una diseguaglianza per natura tra gli esseri umani, come dirà apoditticamente il grande dizionario Larousse alla fine del XIX secolo: “Nul ne contestera que la race blanche ne soit superieure à toutes les autres”. L’idea antica che tra gli esseri umani ci fossero i superiori e gli inferiori, i perfetti e i malriusciti, trova nella percezione europea degli Indios “scoperti” o incontrati in America la conferma irrefutabile. Se ci sono uomini e meno uomini, gli Indios ne forniscono la prova. Comincia Colombo, che non riconosce “l’altro” (come ha mostrato Cvetan Todorov in «La conquista dell’America: il problema dell’”altro”») non riconosce colui che a suo parere non “sa parlare” (in verità non sa parlare lo spagnolo), e poi c’è il conquistatore Francisco Pizarro che ha ben ragione di sentirsi superiore dal momento che con soli 168 soldati riesce a prevalere su un esercito di 80.000 uomini, e prende prigioniero Atahualpa, il re degli Inca, nella città andina di Cajamarca, uccidendo settemila Indios (ma la verità è che aveva i cavalli, non ancora domesticati nel continente americano, e perciò aveva la cavalleria, e i fucili e l’acciaio delle corazze e delle spade e delle lance, ancora ignoti agli indiani che combattevano potendo ferire, ma non uccidere); e poi c’è Hernan Cortés, che impone con la violenza il meticciato facendo sposare agli spagnoli le più belle indiane e sposando lui stesso una principessa indiana, la Malinche, che poi naturalmente ripudia, per popolare le terre conquistate con una razza nuova, non più di indigeni, ma di mestizos, cioè di indiani spagnolizzati. Ci penserà poi la teologia di Juàn de Sepùlveda a suggellare l’inferiorità degli Indios, ma purtroppo questa teorizzazione della diseguaglianza non resta isolata, si pianta nella cultura europea fino ad essere espressa nel punto più alto della filosofia occidentale, cioè nell’opera di Hegel. Il grande filosofo tedesco ha delle pagine terribili sulla presunta inferiorità degli Indios. “Dal tempo in cui gli Europei sono approdati in America, gli indigeni sono scomparsi a poco a poco, al soffio dell’attività europea”, dice nelle “Lezioni sulla filosofia della storia”, e lo spiega così: “Della civiltà americana quale si era venuta evolvendo specialmente nel Messico e nel Perù… sappiamo solo che essa era del tutto naturale, e che doveva quindi scomparire al primo contatto con lo spirito”. Ma lo scarto tra lo spirito e la natura è anche uno scarto nella stessa natura; la scomparsa degli indigeni dipende dunque per Hegel “dall’inferiorità di questi individui sotto ogni aspetto, perfino quanto a statura”.

Nel rievocare queste pagine, il filosofo del diritto Luigi Ferrajoli sottolinea come esse abbiano fatto scuola, fino a Croce. Anche il patriarca della cultura italiana adotta infatti il criterio storiografico di un’opposizione tra popoli della natura e popoli dello spirito, e scrive: “Gli uomini si distinguono tra uomini che appartengono alla storia e uomini della natura, uomini capaci di svolgimento e uomini di ciò incapaci; e verso la seconda classe di esseri, che zoologicamente e non storicamente sono uomini, si esercita, come verso gli animali, il dominio, e si cerca di addomesticarli e di addestrarli, e in certi casi, quando altro non si può, si lascia che vivano ai margini… lasciando che di essa si estingua la stirpe, come accadde di quelle razze americane che si ritiravano e morivano (secondo l’immagine che piacque) dinanzi alla civiltà da loro insopportabile”[1].

E che la soluzione migliore per gli Indiani fosse lo sterminio, è stato teorizzato da eminenti studiosi. Nel 1782 a Pittsburgh il giurista e letterato H. Henry Brackenridge così si esprime a proposito degli Indiani: “Essi hanno l’aspetto umano e forse fanno parte della specie umana”; ma “la natura dell’indiano è feroce e crudele… Il loro sterminio sarebbe utile al mondo e onorevole per coloro che vi provvederanno”.

Ma purtroppo l’Indio è solo un prototipo; infatti la diseguaglianza teorizzata per loro riguarderà poi i neri, gli ebrei ed ogni altra categoria di diversi. Locke, all’inizio della rivoluzione industriale, assimilerà agli Indios i proletari: “un manovale non è in grado di ragionare meglio di un indigeno”. E Spencer, il promotore ottocentesco della società dell’utile, applicando alla sociologia e alla società la teoria darwiniana dell’evoluzione, scriverà nel suo “Sistema di filosofia sintetica”: Tutti gli uomini sono come sottoposti a un giudizio di Dio, “se sono realmente in grado di vivere, essi vivono, ed è giusto che vivano. Se non sono realmente in grado di vivere, essi muoiono, ed è giusto che muoiano”.

Il punto d’arrivo di questa linea di pensiero è Nietzsche, il vero teorico della società della selezione. Per Nietzsche non si può parlare di uomini “eguali”: questa è l’illusione dei deboli. In diversi punti delle sue opere Nietzsche mette sotto accusa l’eguaglianza, intesa come una grande follia. “Così parla a me la giustizia: gli uomini non sono tutti eguali. E neppure devono diventarlo!” (Zarathustra); l’eguaglianza “è volontà di negazione della vita, principio di dissoluzione e di decadenza” (Al di là del bene e del male). Di qui gli effetti, le conseguenze e gli scopi dell’eguaglianza: trasformare l’umanità in sabbia: tutti molto eguali, molto piccoli, molto tollerabili, molto noiosi”); essa porta a un “guazzabuglio sociale”, a una degenerazione della razza a … sopprimere “la selezione” e rovinare la specie (Frammenti postumi). Il razzismo ha pertanto la sua copertura filosofica. Da tutto questo veniamo, altro che Salvini!

La svolta

Ma a un certo punto c’è una svolta epocale. La svolta arriva dopo i genocidi del Novecento, quello degli Armeni prima, e quello degli Ebrei poi, e arriva dopo quella tragedia della volontà di potenza che era stata la seconda guerra mondiale. L’umanità capisce il suo lungo errore, decide di cambiare pagina: sull’eguaglianza di tutti gli uomini e le donne e di tutte le Nazioni grandi e piccole è fondata l’ONU, viene messa fuori legge la guerra, il principio di eguaglianza è assunto come irrevocabile nella Costituzione italiana e nel costituzionalismo postbellico. Sembrava davvero l’inizio della realizzazione delle promesse messianiche. Invece è arrivata la guerra fredda, il terrore atomico, il riarmo nucleare; e quando i blocchi sono caduti e il comunismo è finito, il capitalismo, che era stato messo sotto scacco dalle politiche comuniste, socialdemocratiche, keynesiane e dalle stesse Costituzioni, ha preso la sua rivincita e ha potuto prendere il dominio del mondo nelle forme della globalizzazione. A questo punto la diseguaglianza è tornata a dominare la politica, l’economia e la finanza, e si è aperto il baratro di quella che papa Francesco chiama oggi la società dello scarto.

La società dello scarto

La nuova società dello scarto, che mette fuori gioco i non scelti, i non salvati, gli esuberi, i senza casa e i senza lavoro, è peggiore della vecchia società dello sfruttamento; lo ha spiegato il papa nella “Evangelii Gaudium” e lo ha ribadito nella recentissima intervista al Sole 24 ore (7 settembre 2018): “non si tratta semplicemente del fenomeno conosciuto come azione di sfruttamento e oppressione, ma di un vero e proprio fenomeno nuovo. Con l’azione dell’esclusione colpiamo nella sua stessa radice i legami di appartenenza alla società a cui apparteniamo dal momento che in essa non si viene semplicemente relegati negli scantinati dell’esistenza, nelle periferie, non veniamo privati di ogni potere, bensì veniamo sbattuti fuori. Chi viene escluso non è sfruttato, ma completamente rifiutato, cioè considerato spazzatura, avanzo, quindi spinto fuori della società. Non possiamo ignorare che un’economia così strutturata uccide perché mette al centro e obbedisce solo al denaro: quando la persona non è più al centro, quando fare soldi diventa l’obiettivo primario e unico, siamo al di fuori dell’etica e si costruiscono strutture di povertà schiavitù e di scarti”.

E noi possiamo aggiungere che mentre gli sfruttati almeno potevano lottare per riscattarsi, gli scartati non possono nemmeno lottare perché di fatto “non ci sono”. Non ci sono.

Il popolo dei migranti

Allo stesso modo non ci sono, non ci devono essere i migranti.

Lo scarto dei migranti rivela tutto il suo orrore in agghiaccianti statistiche. Nel 2016 cinquemila sono stati i morti nel Mediterraneo, in media 14 al giorno: è la cifra più alta perché nel 2015 i morti erano stati 3771, mentre nel 2017 le vittime sono state 3081.

Nel 2017 ci sono stati 68 milioni e cinquecentomila persone vaganti e costrette alle fuga. I richiedenti asilo che all’inizio dell’anno scorso erano in attesa di una decisione sulla loro richiesta di protezione erano 3 milioni centomila. La maggior parte delle persone in fuga sono giovani, nel 53 per cento dei casi sono minori, molti dei quali non accompagnati o separati dalle loro famiglie. Entro il 2050 si prevede che ci saranno nel mondo 250 milioni di migranti ambientali ed esuli che fuggono da guerre e repressioni.

Però un discorso sui migranti non si può fare sui numeri. Le persone non sono numeri. I 150 naufraghi che il governo italiano si è rifiutato per giorni e giorni di far sbarcare a Catania dalla motonave Diciotti rappresentano una tragedia morale e politica più grave rispetto ai 3000 naufraghi scomparsi in mare senza che nessuno potesse dar loro soccorso.

Tuttavia i numeri che riguardano i migranti sono importanti perché sono i numeri di un fenomeno che segnala e e nello stesso tempo produce un passaggio d’epoca. Le grandi migrazioni in corso ci dicono che stiamo passando da una a un’altra età del mondo, che siamo nel pieno di una discontinuità storica. È come se stessimo scoprendo un’altra volta che la terra è tonda, e tutto dipende da come vi reagiremo, così come tutto dipese da come si reagì alla scoperta dell’America.

Il rischio è che noi vi rispondiamo con un naufragio: ma non solo il naufragio dei profughi, ma il nostro naufragio. E il vero naufragio consiste nel ricadere in quella notte oscura da cui l’Europa e il mondo erano usciti alla fine della seconda guerra mondiale, quando decisero che mai più avrebbe dovuto esserci un genocidio. Per questo il primo atto delle Nazioni che si erano unite nella guerra antifascista e che come Nazioni Unite si incontrarono a San Francisco per dare inizio a un mondo nuovo, fu la Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio. Ma siccome non c’era stato solo il genocidio degli Ebrei, nella Convenzione si ebbe cura di affermare che si intendeva per genocidio non solo lo sterminio di un popolo intero, ma ogni atto volto “a distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso come tale”; dunque il popolo che la Convenzione intende tutelare è ogni gruppo umano accomunato da fattori e circostanze che fortemente lo identificano; e tra gli atti sanzionati per tale crimine vengono esplicitati le lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo, la sottoposizione del gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale, le misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo.

Se ora applichiamo tali criteri alla specifica condizione umana dei migranti, vediamo come anch’essi siano un popolo, un popolo in cammino, di uomini e donne che in gruppi ed aggregazioni le più diverse, insieme affrontano il mare o le rotte terrestri per andare da un Paese all’altro, tutti muovendosi con le stesse motivazioni e condividendo lo stesso destino; ed è questo popolo come tale, nelle sue diverse espressioni, che l’Occidente e molti Paesi d’arrivo respingono e perseguono per la sola e comune ragione che si tratta di un popolo di migranti; si tratta cioè di aggregati umani che le politiche e gli ordinamenti di questi Stati negano nel loro stesso diritto di esistere, di avere una cittadinanza, di essere ricompresi nelle regole del diritto; e proprio come è vietato nella Convenzione dell’ONU, i membri di questi gruppi sono esposti a lesioni gravi della loro integrità fisica e mentale, e i gruppi stessi sono sottoposti a condizioni che di fatto li distruggono in modo totale o parziale, le donne sono messe in condizioni per cui sono impedite le nascite, e spesso i fanciulli sono separati dal gruppo e forzatamente inclusi in un altro.

Ora possiamo dire che riguardo al popolo dei migranti l’illusione di difendersi, come fanno l’Europa e l’Italia di Minniti e di Salvini, scartando pezzi di mondo è particolarmente infelice, perché il rifiuto di accogliere migranti e profughi li rende clandestini, li trasforma in rei non di un fare, ma di un esistere. La conseguenza è che gli stessi Stati di diritto e di democrazia costituzionale tradiscono se stessi perché accanto ai cittadini soggetti di diritto concentrano masse di persone illegali, giuridicamente invisibili e perciò esposte a qualunque vessazione e sfruttamento, pur avendo tutti non solo lo stesso suolo che li accoglie ma lo stesso sangue umano che li nutre.

Gli altri problemi critici

E non ci sono solo gli scarti e i migranti, ci sono altri problemi critici, da cui veramente dipende il futuro del mondo: il ripristino della sovranità della guerra, la manipolazione genetica dell’uomo, la precarietà eretta a sistema, la crisi ecologica, tutte cose di cui non possiamo parlare ora.

Per tutte queste ragioni noi siamo in uno stato di sofferenza. E io penso che questa sofferenza abbia una qualità nuova. Per definirla potremmo chiamarla sofferenza messianica, perché tale è la sofferenza che si fa carico della sofferenza del mondo e perché sa che c’è in gioco l’avverarsi o il fallire di quella promessa di salvezza che dai tempi antichi fino ad oggi ha accompagnato e lenito l’arduo cammino dell’umanità: quella promessa messianica che è poi diventata l’annunzio cristiano, dato che Cristo e messia non sono che lo stesso nome pronunziato in due lingue diverse.

Perciò è lecito chiedersi se il cristianesimo c’entri quando noi ci domandiamo quale esito potrà avere l’attuale crisi epocale e che cosa noi possiamo sperare: sapendo che si può sperare solo ciò che si contribuisce a far accadere agendo.

E dobbiamo cominciare col chiederci, come fece il Concilio, quali sono “i problemi più urgenti”, tanto urgenti che potremmo prenderli come delle vere e proprie “urgenze messianiche”. Si tratta di problemi che mai nella storia si sono presentati con eguale gravità. Essi possono essere affrontati non da ciascuno da solo, ma dall’umanità tutta intera, uomini e donne, purché essa si riconosca nell’eguaglianza come una sola famiglia umana. Le risposte che si devono dare a queste situazioni di emergenza non sono infatti delle piccole risposte riformiste o populiste, oggi del tutto insufficienti, ma sono risposte che realizzino il passaggio da una fase infantile a una fase nuova, non “postmoderna” ma semplicemente adulta, della storia dell’umanità.

Io individuerei per ora sei di queste urgenze, sei grandi novità che ci sfidano a cui dobbiamo dare risposta.
Le novità sono le seguenti:
1) Non era mai successo che i banchieri di tutto il mondo fossero uniti e i poveri invece divisi.
2) Non era mai successo che si progettassero guerre in cui si muore da una parte sola. La tecnologia lo fa credere possibile, arma i droni, rende asimmetriche tutte le guerre, ne sopprime l’ultima razionalità.
3) Non era mai successo che il naufrago potesse erompere nel grido: “Terra! Terra!”, ma le terre gli fossero negate e gli si chiudessero i porti in faccia.
4) Non era mai successo che dire “uomini” non fosse la stessa cosa che dire: “nati da donna”. Non è più veramente necessario che siano due in una carne sola, non solo gli sposi, ma i due generi umani. Il sistema non si cura che siano maschio e femmina, gli interessa che siano eguali nel comprare e nel vendere. “Non c’è più né uomo né donna” doveva essere un’addizione, un elevare 1 al quadrato, non una sottrazione dell’altra, non che si perdesse la “loro differenza benedetta” (papa Francesco). Le donne l’hanno rivendicata, ma l’uomo globale è più maschilista di quello tribale, la donna neanche la distingue. Si può generare senza la donna, forse anche senza il suo utero. Allora non si potrà più dire: “Nel ventre tuo si riaccese l’amore” (Dante). Cessa la simbologia di Dio che “ha viscere di misericordia” (Salmo 103, 13). L’intelligenza artificiale è asessuata. Nemmeno il padre di Pinocchio voleva fare il suo burattino né maschio né femmina.
5) Non era mai successo che ai giovani fosse perfino impossibile immaginare un futuro.
6) Non era mai successo, se non nei Paesi bassi, che col caldo saltasse il chiavistello delle acque e il mare venisse su più alto delle città e della terra.

Si può fare solo un sommario delle risposte che si dovrebbero cercare
1) Che sovrano non sia il denaro ma tornino o giungano ad esserlo le persone ed i popoli.
2) Che la guerra esca da tutte le ragioni, anche dalla ragion di Stato, e perciò dalla storia.
3) Che la libertà rinasca dal mare e non ci siano più porti chiusi muri e frontiere sulla terra.
4) Che l’uomo gioisca di essere maschio e femmina con un’intelligenza di carne in una sola umanità di ogni lingua e colore, un solo Padre e molte fedi.
5) Che le Repubbliche governino il provvisorio togliendo gli ostacoli che impediscono la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, e costruiscano ponti, lavori e condizioni di vita che reggano agli insulti del tempo.
6) Che si sostituiscano le energie e le pompe di calore che inquinano l’aria e surriscaldano la terra.
7) Ma soprattutto che nessuno cerchi la felicità se non soffre del dolore degli altri.

* Raniero La Valle
Si tratta del discorso tenuto a Portici il 6 ottobre 2018 alla Festa Multiculturale “Pane nostro” del Coordinamento Campano contro le camorre e le mafie.
Nel dolore del mondo
“NON C’È PIÙ NÉ GIUDEO NÉ GRECO”
26 OTTOBRE 2018 / EDITORE / DICONO I DISCEPOLI /
—–Nota—–
[1] Benedetto Croce, “Filosofia e storiografia”, Laterza, Bari, 1949, pp. 247-248).
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Popolo costituente e migrante
27 Ottobre 2018

Luigi Ferrajoli il manifesto 24.10.2018

STORIE. Il diritto a emigrare ha radici antiche, teoriche e politiche, che si scontrano con la miseria xenofoba del presente. Uno stralcio tratto dall’ultimo numero di «Critica marxista»**

La terra inquieta in Triennale

Il principale segno di cambiamento manifestato finora dall’attuale sedicente «governo del cambiamento» è la politica ostentatamente disumana e apertamente illegale da esso adottata nei confronti dei migranti. Di nuovo il veleno razzista dell’intolleranza e del disprezzo per i «diversi» sta diffondendosi non solo in Italia ma in tutto l’Occidente, nell’Unione Europea e negli Stati Uniti, quale veicolo di facile consenso nei confronti degli odierni populismi e delle loro politiche di esclusione.
È SU QUESTO TERRENO che rischia oggi di crollare l’identità civile e democratica dell’Italia e dell’Europa. Le destre protestano contro quelle che chiamano una lesione delle nostre identità culturali da parte delle «invasioni» contaminanti dei migranti. In realtà esse identificano tale identità con la loro identità reazionaria: con la loro falsa cristianità, con la loro intolleranza per i diversi, in breve con il loro più o meno consapevole razzismo. Laddove, al contrario, sono proprio le politiche di chiusura che stanno deformando e deturpando l’immagine dell’Italia e dell’Europa, che sta infatti vivendo una profonda contraddizione: la contraddizione delle pratiche di esclusione dei migranti quali non-persone non soltanto con i valori di uguaglianza e libertà iscritti in tutte le sue carte costituzionali e nella stessa Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, ma anche con la sua più antica tradizione culturale.Il diritto di emigrare fu teorizzato dalla filosofia politica occidentale alle origini dell’età moderna. Ben prima del diritto alla vita formulato nel Seicento da Thomas Hobbes, il diritto di emigrare fu configurato dal teologo spagnolo Francisco de Vitoria, nelle sue Relectiones de Indis svolte nel 1539 all’Università di Salamanca, come un diritto naturale universale. Sul piano teorico questa tesi si inseriva in una edificante concezione cosmopolitica dei rapporti tra i popoli informata a una sorta di fratellanza universale. Sul piano pratico essa era chiaramente finalizzata alla legittimazione della conquista spagnola del Nuovo mondo: anche con la guerra, in forza del principio vim vi repellere licet, ove all’esercizio del diritto di emigrare fosse stata opposta illegittima resistenza. Tutta la tradizione liberale classica, del resto, ha sempre considerato lo jus migrandi un diritto fondamentale. John Locke fondò su di esso la garanzia del diritto alla sopravvivenza e la stessa legittimità del capitalismo: giacché il diritto alla vita, egli scrisse, è garantito dal lavoro, e tutti possono lavorare purché lo vogliano, facendo ritorno nelle campagne, o comunque emigrando nelle «terre incolte dell’America», perché «c’è terra sufficiente nel mondo da bastare al doppio dei suoi abitanti».
KANT, a sua volta, enunciò ancor più esplicitamente non solo il «diritto di emigrare», ma anche il diritto di immigrare, che formulò come «terzo articolo definitivo per la pace perpetua» identificandolo con il principio di «una universale ospitalità». E l’articolo 4 dell’Acte constitutionnel allegato alla Costituzione francese del 1793 stabilì che «Ogni straniero di età superiore a ventuno anni che, domiciliato in Francia da un anno, viva del suo lavoro, o acquisti una proprietà, o sposi una cittadina francese, o adotti un bambino, o mantenga un vecchio, è ammesso all’esercizio dei diritti del cittadino».

Lo ius migrandi è da allora rimasto un principio elementare del diritto internazionale consuetudinario, fino alla sua già ricordata consacrazione nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948. Fino a che l’asimmetria non si è ribaltata. Oggi sono le popolazioni fino a ieri colonizzate che fuggono dalla miseria provocata dalle nostre politiche. E allora l’esercizio del diritto di emigrare è stato trasformato in delitto.

Siamo perciò di fronte a una contraddizione gravissima, che solo la garanzia del diritto di emigrare varrebbe a rimuovere. Il riconoscimento di questa contraddizione dovrebbe non farci dimenticare quella formulazione classica, cinicamente strumentale, del diritto di emigrare: perché la sua memoria possa quanto meno generare – nel dibattito pubblico, nel confronto politico, nell’insegnamento nelle scuole – una cattiva coscienza sull’illegittimità morale e politica, prima ancora che giuridica, delle nostre politiche e agire da freno sulle odierne pulsioni xenofobe e razziste.

QUESTE POLITICHE crudeli stanno avvelenando e incattivendo la società, in Italia e in Europa. Stanno seminando la paura e l’odio per i diversi. Stanno screditando, con la diffamazione di quanti salvano vite umane, la pratica elementare del soccorso di chi è in pericolo di vita. Stanno fascistizzando il senso comune. Stanno, in breve, ricostruendo le basi ideologiche del razzismo; il quale, come affermò lucidamente Michel Foucault, non è la causa, bensì l’effetto delle oppressioni e delle violazioni istituzionali dei diritti umani: la «condizione», egli scrisse, che consente l’«accettabilità della messa a morte» di una parte dell’umanità. Che è il medesimo riflesso circolare che ha in passato generato l’immagine sessista della donna e quella classista del proletario come inferiori, perché solo in questo modo se ne poteva giustificare l’oppressione, lo sfruttamento e la mancanza di diritti. Ricchezza, dominio e privilegio non si accontentano di prevaricare. Pretendono anche una qualche legittimazione sostanziale.

Un secondo effetto è non meno grave e distruttivo. Consiste in un mutamento delle soggettività politiche e sociali: non più le vecchie soggettività di classe, basate sull’uguaglianza e sulle lotte comuni per comuni diritti, ma nuove soggettività politiche di tipo identitario basate sull’identificazione delle identità diverse come nemiche e sul capovolgimento delle lotte sociali: non più di chi sta in basso contro chi sta in alto, ma di chi sta in basso contro chi sta ancora più in basso. È un mutamento che sta minando le basi sociali della democrazia. Una politica razionale, oltre che informata alla garanzia dei diritti, dovrebbe muovere, realisticamente, dalla consapevolezza che i flussi migratori sono fenomeni strutturali e irreversibili, frutto della globalizzazione selvaggia promossa dall’attuale capitalismo.

DOVREBBE anzi avere il coraggio di assumere il fenomeno migratorio come l’autentico fatto costituente dell’ordine futuro, destinato, quale istanza e veicolo dell’uguaglianza, a rivoluzionarie i rapporti tra gli uomini e a rifondare, nei tempi lunghi, l’ordinamento internazionale. Il diritto di emigrare equivarrebbe, in questa prospettiva, al potere costituente di questo nuovo ordine globale: giacché l’Occidente non affronterà mai seriamente i problemi che sono all’origine delle migrazioni se non li sentirà come propri. I diritti fondamentali, come l’esperienza insegna, non cadono mai dall’alto, ma si affermano solo allorquando la pressione di chi ne è escluso alle porte di chi ne è incluso diventa irresistibile. Per questo dobbiamo pensare al popolo dei migranti come al popolo costituente di un nuovo ordine mondiale.

** SCHEDA: Una rivista che legge le trasformazioni

Il testo integrale di Luigi Ferrajoli – con il titolo: «La questione migranti: Italia incivile, Europa incivile» – apre dopo l’editoriale di Aldo Tortorella sulla fase politica («San Giorgio, il drago e i mostriciattoli di turno») il n. 5 della rivista «Critica Marxista», dove alcuni temi di attualità sono affrontati da Tiziano Rinaldini («Il “decreto dignità” e i gravi ritardi
della sinistra sul lavoro») Alberto Leiss («Il baratro di Genova»), Francesco Garibaldo («Fca e Fca Italia dopo Marchionne: un’eredità difficile»), Romeo Orlandi (La sinistra, la Cina, la globalizzazione), infine E. Igor Mineo («Le sinistre e la crisi dell’Unione europea»). Il «Laboratorio culturale» è aperto da un saggio di Ida Dominijanni sul dibattito femminista in Occidente («Femminismo in/addomesticabile»), mentre Daniele Caputo scrive su «Il regresso oligarchico». Riccardo Bellofiore ricorda la figura e il pensiero di Lucio Magri («Provarci ancora, fallire di nuovo, ma fallire meglio»

Il futuro è oggi. Scenari del postumano

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non più semplici macchine

di Giuseppe O. Longo su Rocca

Forse, in realtà, stiamo assistendo a una graduale fusione delle attività e delle funzioni umane con le attività e le funzioni di ciò che noi umani abbiamo costruito e di cui ci siamo circondati.
(segue)

ALTA TECNOLOGIA. La vera sfida tra Usa e Cina

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di Pietro Greco, su Rocca.

Non c’è solo la protezione delle industrie e dei posti di lavoro dietro la guerra dei dazi che Donald Trump sta scatenando contro la Cina. C’è molto di più. C’è la leadership americana nei settori strategici dell’alta tecnologia e (quindi) della scienza.

Africa, un continente giovane e vivo

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di Pietro Greco, su Rocca.

Alcuni la descrivono come il gigante eternamente addormentato. Altri come un’enorme prigione in cui i carcerati, tutti straccioni, stanno organizzando un’evasione di massa. Nulla di tutto questo. L’Africa è un’altra cosa.
Non che non abbia problemi, grandissimi. Sociali, economici e anche sanitari. Tra i punti critici indicati di recente da Iina Soiri, la ricercatrice finlandese che dirige il Nordiska Afrikainstitutet, l’istituto di ricerca sull’Africa di Uppsala in Svezia, ci sono: un’agricoltura troppo debole; un’economia poco avanzata, ancora troppo basata sulle commodities e sulle materie prime; una classe media ancora modesta; il fallimento del modello neoliberista, spesso imposto dalle grandi istituzioni finanziarie internazionali.
Non bisogna certo sottovalutare il rischio della monocoltura, sia essa il petrolio o un prodotto agricolo. Cinque anni fa, nel 2013, il 60% dell’export del Gabon era costituito da petrolio; una percentuale che saliva all’85% per la Nigeria, mentre i combustibili fossili rappresentavano addirittura il 97 per cento dell’export dell’Angola. È bastato il crollo del prezzo di queste materie prime per scatenare la crisi.
Ma, al netto di tutto questo, l’Africa è un continente giovane e vivo; articolato in 54 diversi stati, tutti con le loro specificità: in rapida crescita: economica e demografica. Da cui pochi vanno via: l’emigrazione netta è inferiore allo 0,04%. Dieci volte inferiore, per intenderci, a quella italiana. E in ogni caso, ad andar via in prevalenza non sono i poveracci, ma la classe media. Proprio come da noi.
[segue]