Risultato della ricerca: EMILIO LUSSU
Vi ricordate quel 24 maggio…
24 maggio e la guerra italico-sabauda nefasta e criminale
di Francesco Casula.
Oggi 24 maggio ricorre il 106esimo anniversario dell’ingresso in guerra dell’Italia. A firmare nel maggio 1915 l’entrata in guerra fu Vittorio Emanuele III (più noto come Sciaboletta) contro il volere della larga maggioranza del Parlamento, d’accordo soltanto con il primo ministro (Salandra) e il responsabile degli Esteri (Sonnino). Si trattò di un vero e proprio colpo di Stato: il primo di una serie, come ricordò il grande Luigi Salvatorelli” (1). [segue]
Oggi venerdì 30 aprile 2021
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Recovery Fund, ecco i 187 progetti proposti dalla Sardegna al Governo Draghi. Pochi soldi per sanità e cultura ma rispunta il metanodotto! Sul Sito di vitobiolchini.it
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Oggi Venerdí 30 aprile 2021, ore 18. Quinto appuntamento della rassegna “1921 fondazione del PCd’I e del PSd’Az Cento anni dopo, il lascito di Gramsci, Lussu, Laconi e Melis”. Si parla di Emilio Lussu, a partire dal libro del professor Italo Birocchi, dell’Università La Sapienza di Roma, “Emilio Lussu giurista”. Intervengono Gabriella Lanero, Giuseppe Caboni, Rosamaria Maggio, Andrea Pubusa, Piero Sanna, Luisa Sassu. [segue]
Oggi mercoledì 28 aprile 2021 – Sa die de sa Sardigna.
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Sa die de sa Sardinia: lo scommiato dei piemontesi
28 Aprile 2021 su Democraziaoggi.
Oggi in Sardegna si festeggia “Sa die”, in ricordo del 28 aprile del 1794, giornata in cui il popolo di Cagliari e gli organi del Regnum Sardiniae cacciarono il vicerè e i piemontesi dalla Sardegna. Sulla vicenda ecco uno stralcio dal libro di Andrea Pubusa su Giommaria Angioy.
La FASI, l’associazione dei circoli dei sardi in […]
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Mario Melis, il Presidente dei sardi: quale lascito?
28 Aprile 2021
Franco Ventroni su Democraziaoggi.
Oggi, Sa die de sa Sardinia, ecco il ricordo di Mario Melis, Presidente dei sardi.
E’ in corso di svolgimento il ciclo di dibattiti, organizzato dalla Scuola di Cultura Politica “Francesco Cocco”, dal titolo “CENTO ANNI DOPO: il lascito di Gramsci, Lussu, Laconi e Melis“. Il 30 prossimo si terrà il webinar conclusivo su Emilio […]
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Più partecipazione? Subito cambiare la legge elettorale sarda! Tre anni passano in fretta…
Come preannunciato nel precedente editoriale, riprendiamo la proposta di profonda modifica della legge elettorale sarda, verso un’impostazione marcatamente proporzionale. Obbiettivo: favorire la partecipazione popolare, arrestando l’astensionismo che si verifica in misura crescente nelle competizioni elettorali. Mancano tre anni al rinnovo del Consiglio regionale della Sardegna: occorre arrivare a tale scadenza con un rinnovamento di programmi e di persone che li possano rappresentare, con un sistema elettorale che svolga un’adeguata funzione selezionatrice. Due anni fa, precisamente il 24 giugno 2019 a Cagliari nella sala conferenze dell’associazione della stampa sarda, si svolgeva la conferenza stampa organizzata dal “Coordinamento dei Comitati sardi per la democrazia costituzionale” e dal “Comitato d’iniziativa costituzionale e statutaria” di presentazione del ricorso contro la legge elettorale sarda. Durante la conferenza stampa intervennero a spiegare le ragioni del ricorso Andrea Pubusa, Gabriella Lanero e Marco Ligas.
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Riproponiamo le ragioni del ricorso, che, come è noto fu respinto dal Tribunale Amministrativo regionale, perché appaiono tuttora validissime nel merito, tanto da supportare l’indispensabilità della modifica radicale dell’attuale legge elettorale sarda, che tutte le forze politiche hanno dichiarato di voler modificare, ma senza che alle buone intenzioni sia finora seguito uno straccio di proposta operativa! Riprendiamo allora il discorso, a sostegno della ripresa dell’iniziativa da parte dei nominati Comitati e di tutte le organizzazioni favorevoli al cambiamento.
Ecco quanto riportava il documento di presentazione del ricorso (che riproduciamo integralmente).
Un gruppo di elettori ed elettrici democratici della Sardegna hanno presentato al Tar Sardegna un ricorso col quale impugnano l’atto di proclamazione degli eletti effettuato il 23 marzo scorso dalla Corte d’appello di Cagliari. Nell’intendimento dei proponenti, il ricorso dovrebbe portare la legge elettorale all’esame della Corte Costituzionale e alla correzione dell’atto di proclamazione degli eletti con una conseguente nuova composizione del Consiglio regionale. Quali censure muovono questi cittadini e cosa chiedono al Giudice amministrativo? La insufficienza della disciplina sulla parità dei genere, l’eccessivo premio di maggioranza, le alte soglie di sbarramento, il voto disgiunto, la mancata elezione del terzo candidato alla Presidenza a differenza del secondo, l’adesione fittizia di consiglieri uscenti a liste per evitare la raccolta delle firme. Più precisamente l’insufficienza della disciplina sulla parità uomo-donna, che consente il voto solo per un genere, escludendo l’altro, col risultato della elezione di solo otto donne. [Se la Corte costituzionale avesse accolto questo rilievo, il Tar avrebbe annullato le elezioni del 24 febbraio e si sarebbe dovuto andare a nuove elezioni].
Premio di maggioranza. La seconda censura riguarda il premio di maggioranza. E’ eccessivo e privo di ragionevolezza assegnare al candidato presidente più votato, che ha il 40% dei voti il 60% dei seggi. Questo premio di maggioranza viola il carattere uguale del voto in uscita, ossia nel momento dell’assegnazione dei seggi.
Impugnazione delle soglie di sbarramento. E’ illegittimo poi lo sbarramento al 10% e al 5% o quantomeno il primo. Questa soglia è volta ad assicurare ai partiti maggiori il monopolio del governo e dell’opposizione. Una conventio ad excludendum per legge nei riguardi delle liste minori non allineate e coperte, che viola il carattere democratico dell’ordinamento.
Rappresentanza territoriale. Viene portata all’attenzione del giudice amministrativo e della Corte costituzionale anche la violazione della rappresentanza dei territori, che è anch’esso un vulnus del principio di uguaglianza del voto. Il Medio-Campidano, l’Ogliastra e il Sulcis-Iglesiente hanno avuto meno seggi di quanti la stessa legge elettorale sarda (art. 3) ne prevede in ragione del numero degli elettori delle diverse circoscrizioni.
No alle adesioni fittizie a liste per escludere la raccolta delle firme. Infine, bando alle furbate che consentono di esentare dalla raccolta delle firme le liste che non hanno mai eletto consiglieri regionali. Alcuni consiglieri regionali uscenti, pur rimanendo nelle proprie liste d’origine, hanno fittiziamente aderito ad altre liste per consentir loro la partecipazione alle elezioni senza raccogliere firme. Ciò è stato possibile grazie all’art. 21 della legge-truffa, che viola il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.).
La mancata elezione del candidato presidente del M5S. Desogus, terzo classificato, a differenza del secondo e primo perdente Massimo Zedda, non è stato eletto presidente.
Il voto disgiunto, per violazione del principio di chiarezza del voto. (…)
Per i Comitati promotori
Andrea Pubusa, Marco Ligas, Franco Meloni, Roberto Loddo.
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Un nostro commento alla sentenza del Tar che respingeva il ricorso dei Comitati contro la legge elettorale sarda, che riteniamo mantenga validità.
Franco Meloni, 8 Luglio 2019 – 19:48
Le leggi elettorali costituiscono uno dei terreni decisivi per la stessa sopravvivenza della democrazia nel nostro come negli altri Paesi. Un terreno di duro scontro che ci vede contrapposti (noi dei movimenti democratici di base) alla quasi totalità della classe politica (senza grandi distinzioni tra quella di governo e quella di opposizione). La classe politica non arretra rispetto ai privilegi che si è costruita in odio al popolo. La vicenda della pessima legge elettorale sarda è emblematica: due tornate elettorali che hanno dato prova della inadeguatezza della legge e nessun segno di volerla cambiare, nonostante le molte parole e i solenni giuramenti espressi al riguardo. Anche i cattolici democratici hanno preso consapevolezza di tutto ciò, come attesta un recente resoconto dell’iniziativa tenutasi il 3 luglio u.s. a Roma promossa dalla rivista online “Politica Insieme”, di cui riporto uno stralcio: occorre “una indicazione precisa per un sistema elettorale a forte impronta proporzionale che consenta effettivamente alla pluralità di presenze sociali di indirizzi culturali attivi nel Paese di sentirsi inclusi, attraverso una trasparente rappresentanza parlamentare [discorso analogo per le Regioni e gli Enti locali] nelle dinamiche della nostra convivenza civile e democratica”. La battaglia è dunque dura, considerato il consistente fronte nemico contro di cui dobbiamo combattere per disporre di leggi elettorali democratiche, che favoriscano la partecipazione popolare, in linea con la nostra Costituzione.
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Elezioni regionali 2019
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Dall’Archivio di Aladinpensiero online (19 novembre 2017).
Legge elettorale sarda. Pubusa: guardiamo alla Sicilia. Quasi come Lussu per lo statuto sardo
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Ricordate la vicenda della formazione dello statuto sardo quando Emilio Lussu e Mario Berlinguer, preoccupati dei ritardi della Consulta sarda nella redazione del testo statutario, proposero al governo di estendere alla Sardegna lo statuto che era stato ottenuto dalla Sicilia? Ma, nonostante la disponibilità governativa di accedere a tale richiesta, i consultori sardi rifiutarono sdegnosamente l’idea di uno statuto “concesso dall’alto”. Pertanto non se ne fece nulla. Sapete come andò a finire: il 31 gennaio 1948 – in articulo mortis, cioè allo scadere definitivo del suo mandato – l’Assemblea Costituente approvò lo Statuto proposto dalla Consulta sarda, dotato di minori competenze rispetto a quelle riconosciute alla regione Sicilia.
Tale vicenda mi è tornata in mente rispetto alla pressante richiesta del Comitato d’Iniziativa costituzionale e statutaria di dotare la Sardegna di una nuova legge elettorale, che sostituisca quella indecente attualmente vigente. Stiamo parlando evidentemente di due questioni diverse, ma con analogie nel metodo proposto e nelle conclusioni, che così sintetizziamo: Cari consiglieri regionali sardi, se non ce la fate a proporre una legge elettorale che garantisca la rappresentatività democratica dei sardi, adottate la legge siciliana, con alcune importanti correzioni che la facciano corrispondere sostanzialmente a tale scopo. Infatti la legge elettorale siciliana, con alcune importanti modifiche, può corrispondere nella sostanza alle indicazioni contenute nell’apposito documento di principi formulato dal Comitato d’Iniziativa costituzionale e statutaria, a cui rimando.
Per spiegare in dettaglio questa proposta di seguito riporto gli interventi di Andrea Pubusa e di Gianni Pisanu, rispettivamente coordinatore e componente del CoStat.
(segue)
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Legge elettorale regionale: in Sardegna (…). Quali spunti dalla Sicilia per una vera riforma?
(…) Occorre una riflessione e un impegno a tutto tondo per fare una nuova legge elettorale, in sintonia con la Costituzione e lo Statuto. E’ quanto sta facendo il Comitato d’iniziativa costituzionale e statutaria (già Comitato per il NO), che mercoledì prossimo illustrerà al Presidente del Consiglio Ganau le linee guida per una vera riforma elettorale: sistema proporzionale, scelta diretta del presidente, meccanismi per una reale parità di genere, eliminazione dello sbarramento di coalizione, riequilibrio territoriale.
In proposito alcuni spunti vengono dalle recenti elezioni sicule. L’Assemblea regionale siciliana, infatti, è stata eletta nei giorni scorsi con una nuova legge elettorale. Di essa abbiamo già detto, ma è bene riparlarne ora, per valutarla alla prova dei fatti.
Quali le novità? Grazie a questa recente legge il plenum è passato da 90 a 70 deputati, tra di loro anche il presidente della Regione eletto direttamente dai votanti. Dei 70 parlamentari regionali, 62 (finora erano 80) sono stati eletti con il sistema proporzionale, mentre nel cosiddetto “listino del presidente” sono sette gli eletti, presidente compreso. L’ultimo seggio viene assegnato di diritto al candidato presidente secondo classificato. Per quanto riguarda l’attribuzione dei seggi, essa – come detto – avviene su base provinciale. E qui vengono le dolenti note perché le circoscrizioni sono molto disomogenee: Palermo eleggerà 16 deputati (finora erano 20), Catania ne avrà 13 (al posto degli attuali 17), a Messina 8 (erano 11), ad Agrigento 6 (prima erano 7), a Siracusa e a Trapani 5 (Trapani ne aveva 7 mentre Siracusa ne aveva 6), a Ragusa spettano 4 seggi (ne aveva 5), a Caltanissetta 3 seggi (ne aveva 4) e a Enna 2 seggi (ne aveva 3). I seggi sono assegnati con il metodo proporzionale e l’attribuzione dei più alti resti (con recupero sempre a livello provinciale) alle liste che abbiano superato lo sbarramento del 5% a livello regionale.
Questa, in sintesi, la disciplina contenuta nella nuova legge elettorale siciliana. E’ un modello utile per la riflessione e il dibattito in corso da noi, in Sardegna. L’elemento che colpisce è che il sistema siciliano è proporzionale con scelta diretta del presidente da parte degli elettori. In Sardegna molti proporzionalisti ritengono le due cose incompatibili e sbagliano. Sono compatibili, il problema è la c.d. governabilità perché il presidente eletto deve poi trovare in consiglio la sua maggioranza. Ma questo vale anche per chi opti per il sistema proporzionale senza scelta diretta del presidente. In questo caso in Consiglio si deve formare la maggioranza e trovare anche il presidente.
Vediamo i punti a prima vista discutibili.
Anzitutto. lo sbarramento del 5% su base regionale per partito/coalizione con sistema proporzionale per l’elezione dei consiglieri su base provinciale. Il 5% è troppo alto? Può bastare il 3%? O soltanto l’avere un quoziente pieno almeno in un collegio? Secondariamente, è molto penalizzante l’elezione dei consiglieri su base provinciale. La lista Fava, ad esempio, ha avuto un solo seggio con circa 100 mila voti, mentre il PD ne ha avuto 11 con circa 250 mila voti. C’è sproporzione, il principio di rappresentatività è palesemente violato. In un sistema correttamente rappresentativo Fava avrebbe dovuto avere almeno 3 seggi, se non 4. Quali i rimedi? Raccogliere i resti su base regionale? O disegnare circoscrizioni provinciali più omogenee per popolazione e seggi?
Infine, non c’è premio ufficiale, ma ce n’è uno camuffato. Il listino del presidente, molto ampio (7 consiglieri). Con maggioranza a 36 (50%+1) la quota del listino rappresenta circa 1/5 della maggioranza teorica. E’ troppo alta? Va ridotta? O completamente abolita?
Insomma, la nuova legge siciliana è più equilibrata di quella truffaldina vigente in Sardegna (che rimarrà tale anche con più donne), ma presenta alcune evidenti e gravi criticità, sopratutto in relazione al principio di rappresentatività. Comunque offre interessanti spunti di riflessione per il movimento isolano che si batte per una nuova legge elettorale regionale, anche perché coniuga l’elezione diretta del presidente a ad un sistema proporzionale corretto nella distribuzione dei seggi, che – da noi – molti ritengono incompatibili. Con qualche miglioramento il testo siciliano può costituire una base utile per la Sardegna.
(Su Democraziaoggi del 10 novembre 2017)
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Legge elettorale siciliana: spunti per la Sardegna?
18 Novembre 2017
Gianni Pisanu del Comitato d’iniziativa costituzionale e statutaria, su Democraziaoggi.
(Il Comitato illustra al Presidente Ganau le proposte per una vera riforma elettorale)
Possiamo ragionare sulla legge elettorale siciliana in chiave sarda? Intanto la prima novità. E’ una legge proporzionale – presidenziale, secondo alcuni un ossimoro e invece compatibile, almeno fino a prova contraria al vaglio della pratica. Ha un premio dell’8,5 % alla coalizione del Presidente, più modesto degli iperpremi della legge sarda: 55% dei seggi alla coalizione che supera i 25% e non il 40%, 60% dei seggi a chi supera questa soglia.
L’Assemblea è composta da 70 membri, di cui 62 ( 88,5 %) eletti con sistema proporzionale; 7 seggi, di cui 1 al presidente eletto assegnati ai partititi o liste coalizzate col listino del presidente ; 1 seggio al candidato presidente primo dei non eletti. Lo sbarramento per le liste è del 5% in ambito regionale, senza distinzione fra liste singole o coalizzate. In casa nostra sbarramento al 5% per le singole liste e al 10% per le coalizioni, con l’effetto assurdo di impedire alla Murgia di essere in Consiglio con 75 mila voti.
Il territorio siculo è stato diviso in 9 circoscrizioni corrispondenti alle provincie storiche. Così la coalizione di Destra con il 42, 041 % dei voti di lista ottiene 36 seggi – ( 29 + 6 + 1 ), la lista M5S con il 26,674 % 20 seggi – (19 + 1 ), la coalizione guidata dal PD con il 25,405 % 13 seggi. la lista di sinistra con il 5,266 % 1 seggio.
Questo quadro sintetico consente di individuare i punti critici.
La notevole differenza di dimensioni fra le 9 circoscrizioni: Palermo 16 seggi- Catania 13 – Messina 8 – Agrigento 6 – Trapani 5 – Siracusa 5 – Ragusa 4 – Caltanissetta 3 – Enna 2 – tot. seggi 62, determina in molti casi, tranne Palermo e in parte Catania, l’attribuzione di seggi solo alle formazioni maggiori, e l’esclusione di tutte le altre anche di una certa consistenza. E’ certo che nelle circoscrizioni medio piccole i seggi saranno appannaggio esclusivo delle formazioni maggiori a prescindere dalla validità o meno dei candidati. Questo effetto determina un deficit di rappresentanza in termini politici (Fava ha un solo seggio con 100 mila voti; il PD 11 con 250 mila) e sul piano territoriale.
C’è un rimedio? Ridisegnando le circoscrizioni, riducendole di numero, es. 4 circoscrizioni o massimo 5 da 12 a 18 seggi ciascuna e rendendole più omogenee, il bacino elettorale darebbe maggiori possibilità di scelta all’elettorato e si avrebbe un maggior equilibrio politico e territoriale.
E lo sbarramento? Attualmente è al 5%. Col 3 si avrebbe una maggiore rappresentatività. Quindi, guardando alla nostra Isola, si potrebbe eliminare lo sbarramento, pretendendo solo un quoziente pieno in almeno una circoscrizione o lo sbarramento al 3%, che, in pratica è più o meno la stessa cosa.
Vediamo altri dati significativi.
Il PD con 250.633 voti ha ottenuto 11 seggi, la lista 100 passi con 100.583 ne ha ottenuto 1 (uno), la lista Fd’I – Lega con 108.713 ne ha ottenuto 3, la lista Sicilia futura con 115.751 voti 2, la lista ” Diventerà bellissima” con 114.708 voti 4. I seggi sopra riportati si intendono al netto del premio per la lista del Presidente eletto, che senza il seggio presidenziale compensato dal seggio al candidato presidente dell’opposizione consistono in 6 seggi pari – come si è già detto – all’ 8,57% dell’assemblea e 1/6 della maggioranza.
Come si vede, ci sono evidenti disparità nella distribuzione dei seggi. Giocando sulla dimensione delle circoscrizioni e riducendo o eliminando lo sbarramento si avrebbe un risultato più vicino alla forza reale delle singole liste. Comunque la legge siciliana offre spunti di riflessione per cambiare la legge sarda. Con qualche ritocco potrebbe essere adattata alla nostra regione. Ma nei palazzi del potere non è alle viste l’intendimento di lavorare ad una vera riforma. Tutte le sigle presenti in Consiglio, grandi e piccole, si tengono stretta la vigente legge truffa, con buona pace dei sardi.
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La differenza tra gatto e leone*
La Nuova Sardegna, 10 ottobre 2004
La storia dello Statuto sardo comincia lo stesso giorno in cui finisce la guerra in Italia. 29 aprile 1945: mentre a Piazza Loreto la macabra esposizione dei cadaveri di Mussolini e degli altri fucilati di Dongo chiude nell’orrore il ventennio fascista, si riunisce a Cagliari la Consulta regionale. Cerimonia solenne, aperta da un lungo messaggio di Ivanoe Bonomi che indica nella preparazione della carta autonomistica della Sardegna il compito principale del nuovo organismo.
Finisce la dittatura, nasce la democrazia: qualcuno dice «rinasce», perché anche l’Italia prefascista lo era. Ma la Consulta nazionale, qualche mese dopo, sarà inaugurata da una dura polemica fra Ferruccio Parri, uno dei capi della guerra di Liberazione, e Benedetto Croce, il patriarca dell’Italia liberale, proprio su questo punto: per Parri quella che c’era prima del fascismo non era una vera democrazia, ma un regime di oligarchie borghesi. Il «Vento del Nord» dovrebbe portare aria nuova.
Quell’aria nuova si dovrebbe sentire anche in Sardegna, una delle pochissime regioni d’Italia (quasi l’unica) che sia stata risparmiata dalla guerra guerreggiata, dallo scontro e dal passaggio degli eserciti contrapposti. Emilio Lussu, che è in questo momento (nonostante i mugugni di qualche vecchio notabile del suo partito) l’unico vero leader dell’isola che abbia avuto esperienze europee, nel giugno 1943, pochi giorni prima di tornare dall’esilio francese, ha scritto un librino intitolato «La Ricostruzione dello Stato». Lo Stato cui pensa è uno stato federale e socialista. Quando è tornato in Sardegna, nel luglio del ’44, subito dopo la liberazione di Roma, ha chiamato «compagni» gli amici sardisti d’un tempo, con grande loro sconcerto. La cultura che circola nel mondo politico sardo è una cultura libresca, che gli intellettuali di provincia contrari al fascismo hanno messo insieme leggendo i testi che riuscivano a penetrare nella cortina (a maglie larghe, bisogna dire) della censura del regime. Sono soprattutto avvocati, delle città piccole e grandi, che hanno testimoniato le loro idee politiche spesso coraggiosamente: Gonario Pinna, a Nuoro, è stato proposto più volte per il confino, Michele Saba, a Sassari, è stato arrestato due volte, e una tenuto a lungo a Regina Coeli. C’è stato anche un antifascismo operaio e proletario, molta gente è finita nelle isole (in «villeggiatura», come diceva il titolo d’un film di Marco Leto) o davanti al Tribunale speciale. Ma la loro voce, di cui pure si fanno eco i partiti di sinistra, è molto meno ascoltata dell’altra.
Il discorso l’ha aperto una volta Guido Melis, a proposito della debolezza sostanziale dello Statuto sardo: quello Statuto era cosi debole perché era debole, non aggiornata, la cultura degli uomini che lo scrissero? È un fatto che di questa debolezza si cominciò a vedere i segni da subito, mentre lo Statuto era ancora nel ventre della Consulta. Che, intanto, di progetti di statuto ne approntò soltanto due, uno firmato Dc e l’altro firmato Psd’A (le sinistre non volevano immischiarsi, arroccate com’erano, allora, su posizioni antiregionaliste), e presentati per di più a poco meno di un anno dall’entrata in funzione della Consulta. Intanto la Sicilia aveva avuto il suo Statuto: Mario Berlinguer e Emilio Lussu capirono i danni che poteva fare tutto quel ritardo e proposero al governo di estendere alla Sardegna lo statuto «forte» che era stato dato ai siciliani. I consultori cagliaritani rifiutarono con sdegno l’idea di uno statuto «octroyé», come si diceva, cioè graziosamente concesso dall’alto invece che duramente conquistato dai diretti interessati – che tanto duri, in realtà, non erano. Ancora a luglio del 1947 Lussu implorava il governo, alla Costituente, perché si sbrigasse a dare all’isola lo strumento autonomistico. «Faciamus experimentum», lasciateci fare questo esperimento, aveva già chiesto cinquant’anni prima l’economista Giuseppe Todde. Ma in quel luglio del ’47 troppe cose erano cambiate. A primavera De Gasperi aveva estromesso comunisti e socialisti dal governo di unità antifascista, la Dc si stava spostando sempre più velocemente a destra mentre le sinistre si erano (tardivamente) convertite al regionalismo.
Lo Statuto che arrivò alla Costituente aveva già subito tutti gli indebolimenti di cui gli schieramenti politici isolani di maggioranza si erano fatti carico. La commissione della Costituente incaricata di esaminare il progetto ci mise altro del suo. C’è un dato irrefutabile: l’Assemblea aveva concluso la sua esistenza il 31 dicembre 1947, appena varata la Costituzione. Durava in carica sino alla fine di gennaio soltanto per assolvere a due compiti, come dire?, complementari: approvare gli statuti delle cinque Regioni a statuto speciale e fissare le norme per l’elezione del Senato. Allo Statuto sardo furono dedicati due giorni, il 28 e il 29. C’era aria di liquidazione, come quando una famiglia si prepara a traslocare. E c’era anche l’opposizione dei liberali: quella di Einaudi (vicepresidente del Consiglio e ministro del Bilancio) agli articoli sull’autonomia finanziaria della Regione fu cosi forte che si dovette sospendere la seduta, il vecchio guru Francesco «Ciccio» Nitti gridò che quello statuto minava le basi stesse dello Stato.
Lo Statuto fu votato il 31 gennaio, verso le dieci di sera. Mancavano due ore alla fine della Costituente. Su 362 votanti, ebbe 280 voti a favore, 81 contrari. Lussu era scontento. «Al momento del voto dissi a Pietro Mastino – avrebbe ricordato – che votavo a favore solamente per evitare che per un solo voto lo Statuto non venisse approvato neppure cosi ridotto». Ricordando quel momento, Lussu ci ha lasciato una delle sue indimenticabili battute: «Lo Statuto che ci diedero somigliava a quello che i sardi avevano sognato per anni come un gatto somiglia a un leone: l’unica cosa che hanno in comune è che tutt’e due appartengono alla famiglia dei felini».
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* La Nuova Sardegna, 10 ottobre 2004
I 100 anni di storia del Partito sardo: 1946, quando propose uno Statuto federalista
E se il PSD’Az, per ricordare e festeggiare il suo centesimo anniversario, avesse un sussulto, culturale e politico, riprendendo il suo vecchio Progetto di Statuto di 75 anni fa?
di Francesco Casula
Il 10 gennaio 1946 il Partito sardo d’azione pubblica su “Il Solco” il proprio Progetto di Statuto, che riprende alcune parti della precedente bozza di Gonario Pinna in cui si rifletteva la formazione repubblicana e azionista e lo spessore culturale del suo estensore, inquadrando la Sardegna in una repubblica federale, esplicitamente basata su principi di democrazia, di uguaglianza e di partecipazione.
Particolarmente ampie e corpose nel Progetto risultano le competenze legislative “esclusive”: fra cui Istruzione, Lavoro, Trasporti, Agricoltura, Industria, Commercio nell’interno e con l’estero, Finanze, Igiene e sanità, Pubblica sicurezza, Previdenza sociale, Affari interni, Servizi postelegrafonici. Lavori pubblici, Determinazione delle Circoscrizioni giudiziarie.
Come si può notare, siamo al limite dell’indipendenza!
La struttura amministrativa della Regione è organizzata attraverso delle circoscrizioni o distretti, che sostituiscono le Province: l’abolizione di queste con il relativo Prefetto, storicamente la figura più centralista e statalista che conosciamo, è un ricorrente obiettivo di Emilio Lussu e dei Sardisti.
I Comuni sono dotati di ampie autonomie ed è prevista un’autonomia doganale che sottrae la Sardegna al regime doganale dello Stato.
L’accoglienza da parte di tutti i Partiti italiani sarà del tutto negativa: il PCI, da sempre antifederalista lo osteggia apertamente; la DC è più possibilista ma ritiene che il federalismo non sia praticabile in quanto oramai avversato dagli orientamenti di tutte le forze politiche.
Lo schema di Statuto che prevarrà, si ispirerà a quello elaborato dal democristiano Venturino Castaldi. [segue]
Scuola di Cultura Politica “FRANCESCO COCCO”. Presentazione ciclo di 5 webinar – 1° evento 19 febbraio Antonio Gramsci – L’uomo filosofo
Rassegna della Scuola di cultura politica “Francesco Cocco” di Cagliari dedicata al centenario della fondazione del PCd’I e del Psd’Az nel 1921.
“Cento anni dopo, il lascito di Gramsci, Lussu, Laconi, Melis”
[segue]
Gianfranco Sabattini
Per ricordare Gianfranco Sabattini ripubblichiamo un suo articolo sulle prospettive e sulle scelte per lo sviluppo della Sardegna che scrisse in garbata polemica con un intervento di Paolo Fadda su l’Unione Sarda. Tanto basta per dare conto della passione politica di Gianfranco per la sua terra. E non importa se tutto o quasi sembra volgere al disastro, con il governo regionale di turno e l’intera classe dirigente inadeguati a impostare una diversa politic delle a, quella che richiede capacità innovative e nuovo protagonismo dei sardi e dei giovani in particolare. Sabattini sostiene che un’alternativa credibile ci possa essere. Ci sono in Sardegna energie sopite che occorre solo organizzare e motivare. Sono presenti soprattutto negli enti locali, che occorre coinvolgere, potenziandone competenze e poteri e trasferendo loro le necessarie risorse. A chi gli obbiettava le difficoltà del cambiamento, Sabattini opponeva un prudente ottimismo, rifacendosi a Gramsci. Gli piaceva anche ricorrere a un bell’aforisma di Barbara Wootton: “E’ dai campioni dell’impossibile piuttosto che dagli schiavi del possibile che l’evoluzione trae la sua forza creativa”. Lui, Sabattini, ci credeva, forse perché campione dell’impossibile in questa accezione lo era davvero.
Paolo Fadda e Gianfranco Sabattini sono due “grandi vecchi” ancora capaci di mettere in campo forti energie intellettuali al servizio della Repubblica e della Nazione Sarda. Nel “quasi deserto culturale” della nostra Regione, animano con passione e competenza un necessario dibattito sulla situazione sarda. Questo li unifica ed è giusto riconoscere loro il merito, prima di segnalare le diverse posizioni rispetto al dibattito in questione, la “Questione Sarda”. Fadda richiede, anzi invoca, che la classe politica sarda abbia un sussulto di orgoglio e si adoperi per ottenere ingenti risorse pubbliche (statali ed europee) al fine di invertire la rotta della disastrosa situazione economica dell’Isola. Sabattini replica che si tratta di una vecchia ricetta, ché, se pur si riesca ad ottenerle in adeguata misura, queste nuove risorse provocano benefici relativi per la Sardegna, a fronte di quelli di gran lunga superiori per i fornitori della penisola o esteri. Occorre invece sostenere e ampliare le capacità dei produttori locali e degli Enti dell’autonomia regionale, gli unici in grado di produrre sviluppo endogeno. Che dire? Il dibattito è aperto. Non si tratta di schierarsi quanto di saperlo approfondire ed estendere. È quanto contribuiamo a fare con le tre testate online: il manifesto sardo, Democraziaoggi, Aladinpensiero. Questo è un invito al resto del mondo!
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La mancata soluzione della “Questione Sarda” secondo Paolo Fadda
di Gianfranco Sabattini
Paolo Fadda in un suo intervento sull’”Unione Sarda” del 10 Ottobre, dal titolo “La Questione Sarda”, lamenta la scarsa propensione in Sardegna a voler mettere al centro di un possibile dibattito” l’attualità della “Questione”; ciò perché, a suo dire, essa non avrebbe subito sostanziali cambiamenti da quando Giovanni Battista Tuveri e Giovanni Maria Lei Spano l’hanno posta come problema nazionale, cui le discriminazioni dei governi nazionali hanno impedito di dare risposte risolutive; risposte che sarebbero mancate anche dopo la conquista “dell’autonomia regionale come strumento di autogoverno”.
A parere di Fadda non si discuterebbe, né ci si confronterebbe più sull’uso delle risorse autonomistiche, in quanto queste sarebbero state sempre più depotenziate dalle crescenti protervie centralistiche dei governanti romani, congiuntamente alle debolezze ed alle inerzie dirigenze regionali, sino a prefigurare il pericolo che l’Isola diventi vittima di un “dipendentismo” che la renderebbe sempre più subalterna a “interessi e decisioni altrui”. Per queste ragioni, il fallimento delle finalità del progetto autonomistico, quali erano nelle aspirazioni dei sardi all’indomani dell’avvento della Repubblica, ha ridato attualità – afferma Fadda – alla riproposizione della “Questione”, in quanto l’Isola, come i dati statistici consentono di rilevare, persiste ancora in “una penalizzante condizione di arretratezza e di insufficienze strutturali”, che varrebbero ad allontanarla dalle regioni del Nord-Est del Paese, sempre più favorite dai crescenti investimenti dello Stato.
La maggior disparità rispetto a tali regioni avrebbe concorso, a causa delle “caduta di capacità e di prestigio delle nostre dirigenze, a far sì che la Sardegna ritornasse ad essere esclusa al “gran ballo degli aiuti di Stato”, tanto da “rendere urgente” la riproposizione al Paese di una nuova “Questione Sarda” per porre rimedio ai “troppi torti subiti”.
L’analisi di Fadda di quanto accaduto (o sta accadendo) in Sardegna è fuorviante; essa è fondata sul presupposto che gli “aiuti pubblici” siano di per sé sufficienti a rimuovere il “dipendentismo”, promuovendo l’uscita dallo stato di arretratezza che da sempre affliggono l’Isola, mancando di considerare che tale rimozione non dipende solo dalla disponibilità di risorse, ma anche e soprattutto dalle modalità della loro utilizzazione. Infatti, malgrado le ingenti risorse ricevute a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, l’Isola non è riuscita a decollare, in quanto ha privilegiato l’attuazione di un “modello di industrializzazione senza sviluppo” (senza cioè produzione di ricchezza endogena, né un reale e duraturo miglioramento della qualità delle vita dei sardi).
Tale modello, che Fadda nella sua complessa attività di amministratore e di studioso dell’economia sarda non ha mancato di condividere, è stato alimentato e sorretto da un’ingente canalizzazione di risorse finanziarie per la localizzazione nell’Isola di industrie pubbliche e private; un flusso di risorse utilizzato però solo per promuovere l’aumento del reddito disponibile, ma non anche si quello prodotto all’interno dell’area regionale.
Nel lungo periodo, il modello di sviluppo attuato ha mostrato tutti i suoi limiti, con il risultato di non aver innescato alcun processo di crescita endogena, né di aver eliminato o affievolito il divario economico che continua ancora oggi a separare la Sardegna dalle aree più avanzate del resto del Paese. Quello attuato è stato un modello di crescita fortemente dipendente da condizioni favorevoli esterne che, con la crisi petrolifera degli anni Settanta è crollato, avviando l’economia dell’Isola verso un progressivo declino che è continuato senza sosta fino ai giorni nostri.
La principale conseguenza negativa del modello di crescita sperimentato in Sardegna nei primi decenni successivi agli anni Cinquanta del secolo scorso può essere così sintetizzata: un aumento del reddito disponibile per abitante e, quale conseguenza, un aumento della domanda di beni consumo; ma non essendo tali beni di consumo prodotti in Sardegna, l’aumento del solo reddito disponibile ha causato un consistente incremento delle importazioni.
L’aumento delle importazioni si è quindi tradotto in un vantaggio a favore delle regioni italiane (soprattutto settentrionali) e di altri Paesi produttori. Si è così determinata quella che è poi diventata una costante del sistema produttivo della Sardegna, ovvero un crescente squilibrio della bilancia commerciale per una quota rilevante di beni di consumo e di beni intermedi a favore di attività produttive extraregionali. Lo squilibrio ha riguardato, e riguarda tuttora, soprattutto la bilancia agro-alimentare dell’Isola, con la conseguente perdita dell’autosufficienza alimentare rispetto al fabbisogno interno.
Il miglioramento degli standard di vita dei sardi è stato il parametro in base al quale le élite politiche regionali hanno preteso di valutare il successo della politica di intervento realizzata. In ciò è da rinvenirsi il sintomo più evidente dei limiti della politica di crescita regionale perseguita; infatti, il processo di industrializzazione sperimentato ha portato, non alla crescita della Sardegna, ma alla riproposizione, in altre forme, della “Questione Sarda”, espressa dal fatto che l’Isola, pur avendo accumulato importanti localizzazioni produttive, non è riuscita a liberarsi dalle “secche” sulle quali una politica di intervento casuale ed erratica l’ha inevitabilmente condotta.
Quale prospettiva di crescita si offre oggi alla Sardegna? Per rispondere occorre liberare le energie intrinseche al sistema delle autonomie locali del quale a livello regionale si è sempre mancato di cogliere le implicazioni. Il sistema locale, come la letteratura sull’argomento suggerisce, è che un insieme di insediamenti residenziali e produttivi, le cui relazioni reciproche sono determinate dai comportamenti quotidiani degli operatori in essi presenti, i quali nel tempo hanno delimitato un’area entro cui si è consolidata la maggior parte dei rapporti economici tesi a svilupparsi nel tempo.
In questa prospettiva, con un contesto sociale ed economico, inteso come un continuum di spazi territoriali nei quali sono insediate specifiche comunità locali, la nuova politica di crescita dovrebbe tenere conto della necessità che nella elaborazione delle nuove decisioni concernenti le destinazioni delle risorse pubbliche che l’Isola continua a ricevere siano coinvolte anche le singole comunità; tale coinvolgimento richiede ovviamente la realizzazione delle condizioni operative idonee a consentire alle stesse comunità di partecipare attivamente alla costruzione degli scenari e delle politiche di crescita del loro territorio. Questo nuovo approccio alla crescita ed allo sviluppo dell’Isola si giustifica sulla base del fatto che fino ad oggi tutto ciò che è stato realizzato per il superamento dell’arretratezza dei singoli territori, è stato recepito, a livello locale, come “calato dall’alto”, con conseguente esclusione delle singole comunità territoriali dai relativi processi decisionali.
L’ipotesi che nella formulazione della nuova politica di crescita e di sviluppo regionale non si possa più prescindere dalle comunità locali e dalla loro partecipazione ai processi decisionali impone che la promozione, la progettazione e l’attuazione di una politica di crescita e di sviluppo siano fondate sull’individuazione di “percorsi” strategici supportati da un’“accettazione sociale” la più estesa possibile.
L’insuccesso della politica di sviluppo sinora attuata a livello regionale è stato infatti causato dal fatto che il “modello di industrializzazione forte” privilegiato non ha avuto alcune giustificazione sul piano produttivo, perché gli interventi realizzati sono stati suggeriti dall’idea che la crescita e lo sviluppo dovessero dipendere unicamente dalla disponibilità di capitali da investire in attività produttive che hanno avuto solo effetti diffusivi esogeni rispetto all’area regionale; in altri termini, l’insuccesso si è verificato in quanto è stata condivisa l’idea che la crescita e lo sviluppo dovessero dipendere dalla presenza di attività produttive prive di ogni rapporto con l’ambiente circostante e che le attività tradizionali dovessero essere considerare assieme alla cultura locale (motivazioni psicologiche e comportamnti prevalenti) alla stregua di un limite che occorreva non solo ignorare, ma anche rimuovere.
Quanto sinora detto evidenzia che, per attuare un nuovo modello di sviluppo dell’Isola è necessaria una svolta riformatrice della politica regionale improntata ai più recenti paradigmi dello sviluppo locale. Il successo del nuovo modello di crescita ispirato a tale paradigma consentirebbe di collegare tra loro, in modo sistematico, i tre pilastri (Regione, comunità locali e mercato) sui quali dovrebbe essere fondata l’attuazione del nuovo modello di sviluppo ed il governo partecipato dell’economia regionale.
Chi vive in una regione come la Sardegna, che sinora ha fruito di abbondanti trasferimenti per la promozione di un processo di crescita, non riesce a liberarsi dal convincimento che le politiche di sviluppo regionali sinora attuate siano diventate solo veri e propri canali di selezione della classe dirigente locale. Si viene eletti, non per le capacità amministrative o per la visione politica, ma perché si è in grado di fare affluire risorse sul territorio per distribuirle fra i più disparati “clienti”; risorse svincolate da qualsivoglia visione del futuro del territorio regionale, perché impiegate sulla base di decisioni centralistiche delle istituzioni regionali.
Perdurando questa situazione diventata quindi ragionevole la presunzione che gli obiettivi dell’ottenimento di nuovi trasferimenti pubblici non siano la crescita o l’occupazione, ma, al contrario, la conservazione dell’establishment dominante e della prosperità della pletora di professionisti interessati all’impiego dei nuovi “aiuti pubblici”, nonché la “carriera” delle burocrazie locali.
Se si considera che le politiche d’intervento sinora attuate hanno avuto solo uno scarso (e a volte negativo) impatto sul sistema economico della Sardegna si può concludere osservando che, contrariamente a quanto suggerito da Fadda, la “Nuova Questione Sarda” non possa essere risolta mediante l’ottenimento di nuovi trasferimenti pubblici da utilizzare come si è fatto nel passato; essa può essere risolta solo mediante un approccio alla crescita regionale fondata sulla valorizzazione delle comunità locali, sotto il vincolo che l’impiego dei nuovi trasferimenti conduca, prima o poi, alla “comparsa” di un benché minimo tasso di accumulazione endogena.
[segue]
Oggi sabato 21 novembre 2020
————–Opinioni, Commenti e Riflessioni, Appuntamenti——-
Lussu uomo d’azione, di programma e di organizzazione
21 Novembre 2020
Giuseppe Caboni su Democraziaoggi.
Continuiamo la pubblicazione delle notazioni di Giuseppe Caboni sulla figura di Emilio Lussu. Il Capitano solitamente viene ricordato per le sue gesta sull’Altopiano, ma fu un dirigente politico capace di un’alta elaborazione programmatica e di organizzazione.
L’impegno politico di Lussu, la sua volontà di interpretare, sulla base delle conoscenze acquisite, il suo ruolo di dirigente […]
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DIBATTITO sulla “QUESTIONE SARDA”. Fadda: Più risorse dallo Stato e dall’Europa per la Sardegna. Sabattini: Sì, ma bisogna saperle utilizzare per promuovere lo sviluppo endogeno.
Paolo Fadda e Gianfranco Sabattini sono due “grandi vecchi” ancora capaci di mettere in campo forti energie intellettuali al servizio della Repubblica e della Nazione Sarda. Nel “quasi deserto culturale” della nostra Regione, animano con passione e competenza un necessario dibattito sulla situazione sarda. Questo li unifica ed è giusto riconoscere loro il merito, prima di segnalare le diverse posizioni rispetto al dibattito in questione, la “Questione Sarda”. Fadda richiede, anzi invoca, che la classe politica sarda abbia un sussulto di orgoglio e si adoperi per ottenere ingenti risorse pubbliche (statali ed europee) al fine di invertire la rotta della disastrosa situazione economica dell’Isola. Sabattini replica che si tratta di una vecchia ricetta, ché, se pur si riesca ad ottenerle in adeguata misura, queste nuove risorse provocano benefici relativi per la Sardegna, a fronte di quelli di gran lunga superiori per i fornitori della penisola o esteri. Occorre invece sostenere e ampliare le capacità dei produttori locali e degli Enti dell’autonomia regionale, gli unici in grado di produrre sviluppo endogeno. Che dire? Il dibattito è aperto. Non si tratta di schierarsi quanto di saperlo approfondire ed estendere. È quanto contribuiamo a fare con le tre testate online: il manifesto sardo, Democraziaoggi, Aladinpensiero. Questo è un invito al resto del mondo!
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La mancata soluzione della “Questione Sarda” secondo Paolo Fadda
Paolo Fadda in un suo intervento sull’”Unione Sarda” del 10 Ottobre, dal titolo “La Questione Sarda”, lamenta la scarsa propensione in Sardegna a voler mettere al centro di un possibile dibattito” l’attualità della “Questione”; ciò perché, a suo dire, essa non avrebbe subito sostanziali cambiamenti da quando Giovanni Battista Tuveri e Giovanni Maria Lei Spano l’hanno posta come problema nazionale, cui le discriminazioni dei governi nazionali hanno impedito di dare risposte risolutive; risposte che sarebbero mancate anche dopo la conquista “dell’autonomia regionale come strumento di autogoverno”.
A parere di Fadda non si discuterebbe, né ci si confronterebbe più sull’uso delle risorse autonomistiche, in quanto queste sarebbero state sempre più depotenziate dalle crescenti protervie centralistiche dei governanti romani, congiuntamente alle debolezze ed alle inerzie delle dirigenze regionali, sino a prefigurare il pericolo che l’Isola diventi vittima di un “dipendentismo” che la renderebbe sempre più subalterna a “interessi e decisioni altrui”. Per queste ragioni, il fallimento delle finalità del progetto autonomistico, quali erano nelle aspirazioni dei sardi all’indomani dell’avvento della Repubblica, ha ridato attualità – afferma Fadda – alla riproposizione della “Questione”, in quanto l’Isola, come i dati statistici consentono di rilevare, persiste ancora in “una penalizzante condizione di arretratezza e di insufficienze strutturali”, che varrebbero ad allontanarla dalle regioni del Nord-Est del Paese, sempre più favorite dai crescenti investimenti dello Stato.
La maggior disparità rispetto a tali regioni avrebbe concorso, a causa delle “caduta di capacità e di prestigio delle nostre dirigenze, a far sì che la Sardegna ritornasse ad essere esclusa al “gran ballo degli aiuti di Stato”, tanto da “rendere urgente” la riproposizione al Paese di una nuova “Questione Sarda” per porre rimedio ai “troppi torti subiti”.
L’analisi di Fadda di quanto accaduto (o sta accadendo) in Sardegna è fuorviante; essa è fondata sul presupposto che gli “aiuti pubblici” siano di per sé sufficienti a rimuovere il “dipendentismo”, promuovendo l’uscita dallo stato di arretratezza che da sempre affliggono l’Isola, mancando di considerare che tale rimozione non dipende solo dalla disponibilità di risorse, ma anche e soprattutto dalle modalità della loro utilizzazione. Infatti, malgrado le ingenti risorse ricevute a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, l’Isola non è riuscita a decollare, in quanto ha privilegiato l’attuazione di un “modello di industrializzazione senza sviluppo” (senza cioè produzione di ricchezza endogena, né un reale e duraturo miglioramento della qualità delle vita dei sardi).
Tale modello, che Fadda nella sua complessa attività di amministratore e di studioso dell’economia sarda non ha mancato di condividere, è stato alimentato e sorretto da un’ingente canalizzazione di risorse finanziarie per la localizzazione nell’Isola di industrie pubbliche e private; un flusso di risorse utilizzato però solo per promuovere l’aumento del reddito disponibile, ma non anche si quello prodotto all’interno dell’area regionale.
Nel lungo periodo, il modello di sviluppo attuato ha mostrato tutti i suoi limiti, con il risultato di non aver innescato alcun processo di crescita endogena, né di aver eliminato o affievolito il divario economico che continua ancora oggi a separare la Sardegna dalle aree più avanzate del resto del Paese. Quello attuato è stato un modello di crescita fortemente dipendente da condizioni favorevoli esterne che, con la crisi petrolifera degli anni Settanta è crollato, avviando l’economia dell’Isola verso un progressivo declino che è continuato senza sosta fino ai giorni nostri.
La principale conseguenza negativa del modello di crescita sperimentato in Sardegna nei primi decenni successivi agli anni Cinquanta del secolo scorso può essere così sintetizzata: un aumento del reddito disponibile per abitante e, quale conseguenza, un aumento della domanda di beni consumo; ma non essendo tali beni di consumo prodotti in Sardegna, l’aumento del solo reddito disponibile ha causato un consistente incremento delle importazioni.
L’aumento delle importazioni si è quindi tradotto in un vantaggio a favore delle regioni italiane (soprattutto settentrionali) e di altri Paesi produttori. Si è così determinata quella che è poi diventata una costante del sistema produttivo della Sardegna, ovvero un crescente squilibrio della bilancia commerciale per una quota rilevante di beni di consumo e di beni intermedi a favore di attività produttive extraregionali. Lo squilibrio ha riguardato, e riguarda tuttora, soprattutto la bilancia agro-alimentare dell’Isola, con la conseguente perdita dell’autosufficienza alimentare rispetto al fabbisogno interno.
Il miglioramento degli standard di vita dei sardi è stato il parametro in base al quale le élite politiche regionali hanno preteso di valutare il successo della politica di intervento realizzata. In ciò è da rinvenirsi il sintomo più evidente dei limiti della politica di crescita regionale perseguita; infatti, il processo di industrializzazione sperimentato ha portato, non alla crescita della Sardegna, ma alla riproposizione, in altre forme, della “Questione Sarda”, espressa dal fatto che l’Isola, pur avendo accumulato importanti localizzazioni produttive, non è riuscita a liberarsi dalle “secche” sulle quali una politica di intervento casuale ed erratica l’ha inevitabilmente condotta.
Quale prospettiva di crescita si offre oggi alla Sardegna? Per rispondere occorre liberare le energie intrinseche al sistema delle autonomie locali del quale a livello regionale si è sempre mancato di cogliere le implicazioni. Il sistema locale, come la letteratura sull’argomento suggerisce, è che un insieme di insediamenti residenziali e produttivi, le cui relazioni reciproche sono determinate dai comportamenti quotidiani degli operatori in essi presenti, i quali nel tempo hanno delimitato un’area entro cui si è consolidata la maggior parte dei rapporti economici tesi a svilupparsi nel tempo.
In questa prospettiva, con un contesto sociale ed economico, inteso come un continuum di spazi territoriali nei quali sono insediate specifiche comunità locali, la nuova politica di crescita dovrebbe tenere conto della necessità che nella elaborazione delle nuove decisioni concernenti le destinazioni delle risorse pubbliche che l’Isola continua a ricevere siano coinvolte anche le singole comunità; tale coinvolgimento richiede ovviamente la realizzazione delle condizioni operative idonee a consentire alle stesse comunità di partecipare attivamente alla costruzione degli scenari e delle politiche di crescita del loro territorio. Questo nuovo approccio alla crescita ed allo sviluppo dell’Isola si giustifica sulla base del fatto che fino ad oggi tutto ciò che è stato realizzato per il superamento dell’arretratezza dei singoli territori, è stato recepito, a livello locale, come “calato dall’alto”, con conseguente esclusione delle singole comunità territoriali dai relativi processi decisionali.
L’ipotesi che nella formulazione della nuova politica di crescita e di sviluppo regionale non si possa più prescindere dalle comunità locali e dalla loro partecipazione ai processi decisionali impone che la promozione, la progettazione e l’attuazione di una politica di crescita e di sviluppo siano fondate sull’individuazione di “percorsi” strategici supportati da un’“accettazione sociale” la più estesa possibile.
L’insuccesso della politica di sviluppo sinora attuata a livello regionale è stato infatti causato dal fatto che il “modello di industrializzazione forte” privilegiato non ha avuto alcune giustificazione sul piano produttivo, perché gli interventi realizzati sono stati suggeriti dall’idea che la crescita e lo sviluppo dovessero dipendere unicamente dalla disponibilità di capitali da investire in attività produttive che hanno avuto solo effetti diffusivi esogeni rispetto all’area regionale; in altri termini, l’insuccesso si è verificato in quanto è stata condivisa l’idea che la crescita e lo sviluppo dovessero dipendere dalla presenza di attività produttive prive di ogni rapporto con l’ambiente circostante e che le attività tradizionali dovessero essere considerare assieme alla cultura locale (motivazioni psicologiche e comportamnti prevalenti) alla stregua di un limite che occorreva non solo ignorare, ma anche rimuovere.
Quanto sinora detto evidenzia che, per attuare un nuovo modello di sviluppo dell’Isola è necessaria una svolta riformatrice della politica regionale improntata ai più recenti paradigmi dello sviluppo locale. Il successo del nuovo modello di crescita ispirato a tale paradigma consentirebbe di collegare tra loro, in modo sistematico, i tre pilastri (Regione, comunità locali e mercato) sui quali dovrebbe essere fondata l’attuazione del nuovo modello di sviluppo ed il governo partecipato dell’economia regionale.
Chi vive in una regione come la Sardegna, che sinora ha fruito di abbondanti trasferimenti per la promozione di un processo di crescita, non riesce a liberarsi dal convincimento che le politiche di sviluppo regionali sinora attuate siano diventate solo veri e propri canali di selezione della classe dirigente locale. Si viene eletti, non per le capacità amministrative o per la visione politica, ma perché si è in grado di fare affluire risorse sul territorio per distribuirle fra i più disparati “clienti”; risorse svincolate da qualsivoglia visione del futuro del territorio regionale, perché impiegate sulla base di decisioni centralistiche delle istituzioni regionali.
Perdurando questa situazione diventata quindi ragionevole la presunzione che gli obiettivi dell’ottenimento di nuovi trasferimenti pubblici non siano la crescita o l’occupazione, ma, al contrario, la conservazione dell’establishment dominante e della prosperità della pletora di professionisti interessati all’impiego dei nuovi “aiuti pubblici”, nonché la “carriera” delle burocrazie locali.
Se si considera che le politiche d’intervento sinora attuate hanno avuto solo uno scarso (e a volte negativo) impatto sul sistema economico della Sardegna si può concludere osservando che, contrariamente a quanto suggerito da Fadda, la “Nuova Questione Sarda” non possa essere risolta mediante l’ottenimento di nuovi trasferimenti pubblici da utilizzare come si è fatto nel passato; essa può essere risolta solo mediante un approccio alla crescita regionale fondata sulla valorizzazione delle comunità locali, sotto il vincolo che l’impiego dei nuovi trasferimenti conduca, prima o poi, alla “comparsa” di un benché minimo tasso di accumulazione endogena.
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DIBATTITO
Paolo Fadda 10 Ottobre 2020, su L’Unione Sarda online.
La questione sarda
In una Sardegna dove si discute e ci si confronta sempre meno e con evidente malavoglia, il voler mettere al centro di un possibile dibattito l’attualità di una “questione sarda” potrà apparire un po’ velleitario o passatista. Eppure, misurando quanto divida attualmente la nostra regione dal resto del Paese per benessere sociale e per sviluppo economico, il tema appare di chiara attualità. Perché non vi è molta differenza da quando, qualche secolo fa, il Tuveri ed il Lei Spano l’avrebbero posta come problema nazionale, denunciando l’avvilente arretratezza dell’Isola rispetto alle altre regioni di terraferma, per via delle colpevoli ingiustizie e delle discriminazioni subite dai governi nazionali.
Una “questione” che non avrebbe trovato soluzione definitiva neppure con la conquista dell’autonomia regionale, come strumento d’autogoverno, concessa dai Costituenti repubblicani nel 1948 grazie ad una combattiva pattuglia di deputati sardi guidata da Emilio Lussu.
Purtroppo non si discute più, né ci si confronta, sull’utilizzo delle risorse autonomistiche che vengono sempre più depotenziate dalle crescenti protervie centraliste dei governanti romani e, congiuntamente, dalle debolezze e dalle inerzie delle dirigenze regionali. Né pare venga posta molta attenzione al fatto che si vada sempre più aggravando la dipendenza isolana dalle economie continentali e dai loro centri di comando, andando così incontro al pericolo di divenire sempre più sudditi di interessi e di decisioni altrui.
Fatti già accaduti in passato – ricordiamolo – con la perdita della guida e del controllo dell’elettricità, del credito bancario, del trasporto aereo e così via. Tanto da dover ritenere che sia proprio quel “dipendentismo” strisciante il maleficio che è andato depotenziando di fatto il progetto autonomistico, ridando così attualità, e necessità, ad una questione sarda come denuncia di una penalizzante condizione di arretratezza e di insufficienze strutturali.
Sono i dati statistici a confermare la continua crescita della dipendenza. A partire dai beni più elementari come quelli legati all’alimentazione. Basti pensare che a parità di volumi di consumi, se trent’anni fa la percentuale delle importazioni alimentari era sotto al 30 per cento, attualmente sfiorerebbe il 50 per cento! Un aggravamento che trova poi la sua conferma nella bilancia commerciale isolana che vede prevalere sempre più i valori delle merci in entrata su quelle in uscita (con un gap che ora si avvicinerebbe ai due miliardi di euro). [...]
Questione sarda. Fadda: Più risorse dallo Stato e dall’Europa per la Sardegna. Sabattini: Sì, ma bisogna saperle utilizzare per promuovere lo sviluppo endogeno
Oggi martedì 29 settembre 2020
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————–Opinioni, Commenti e Riflessioni, Appuntamenti——-
Emilio Lussu giurista? Di più, quale difensore dei diritti dei singoli e dei popoli
29 Settembre 2020
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
Parlare di Lussu giurista sembra una forzatura. Certo si laureò in leggi, certo fu iscritto all’albo ed esercitò per breve tempo l’avvocatura, ma sul capitano dei Rossomori l’ultima pensata è quella di considerarlo giurista, almeno nell’accezione usuale. E Italo Birocchi lo conferma nel suo bel libro da poco in libreria: studi stentati, studente mediocre, […]
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5 marzo 1975: 45 anni fa moriva a Roma Emilio Lussu
Vogliamo ricordarlo ripubblicando uno scritto commemorativo che Vittorio Foa, fece per il manifesto, il giorno dopo la morte di Lussu.
Il mio ricordo di Lussu
Ciao Lussu, poeta in armi
Scritto da Vittorio Foa nel marzo 1975 per il Manifesto
[segue]
4 novembre
4 novembre: anniversario della Vittoria.
Ma vittoria di chi e di che?
di Francesco Casula
Temo e sospetto che in occasione del 4 novembre anche quest’anno, si scateneranno le fanfare della retorica, patriottarda e militarista, con eventi, manifestazioni, raduni d’arma, conferenze e cerimonie solenni in molte città italiane.
Senza alcun pudore. Infatti non c’è proprio niente da celebrare e tanto meno festeggiare alcuna vittoria. Infatti:vittoria di che e di chi?
Quella guerra fu semplicemente una inutile strage, come la definì il Papa Benedetto XV. E in una enciclica del 1914 (Ad Beatissimi Apostolorum Principis), una gigantesca carneficina.
Essa rappresenterà – è il grande storico Enzo Gentile, a scriverlo – “oltre che il tramonto della Bella Epoque, il naufragio della civiltà moderna.
Una guerra nuova, completamente diversa da quelle fino ad allora combattute: per l’enormità delle masse mobilitate, per la potenza bellica e industriale impiegata, per l’esasperazione parossistica dell’odio ideologico” (1).
Una guerra – scrive Freud – “che ha rivelato, in modo del tutto inaspettato, che i popoli civili si conoscono e si capiscono tanto poco da riguardarsi l’un l’altro con odio e con orrore” (2).
Una vera e propria catastrofe annientatrice d’ogni forma di vita e civiltà, trasformate in cumuli di rovine: riducendo l’Europa a “un’oasi estinta e sterile” scrive il tedesco Ernst Jünger, “dove non c’è segno di vita per quanto lontano possa spingersi lo sguardo e sembra che la morte stessa sia andata a dormire” (3).
Con centinaia di città sistematicamente distrutte, completamente cancellate dalla faccia della terra.
Ma soprattutto con un ingentissimo numero di soldati sacrificati inutilmente: la sola la Italia ebbe 650 mila morti e 2 milioni tra feriti e mutilati.
E insieme alla carneficina di vite umane, la devastazione e distruzione della natura. A descriverla in modo suggestivo è il romanziere francese Henri Barbusse, combattente sul fronte occidentale, che parla del Nuovo mondo costruito dalla guerra nel Continente europeo: “un mondo di cadaveri e di rovine, terrificante, pieno di marciumi, terremotato” (4).
Ma c’è di più: nuove e ancor più drammatiche conseguenze si profilavano all’orizzonte con la fine dei combattimenti e il Trattato di Versailles. Con il ridisegno dell’intera geografia europea secondo la volontà dei vincitori, si ponevano le premesse per altre tragedie: la corsa al riarmo e la militarizzazione di massa della società saranno alla base dei regimi totalitari come il fascismo e il nazismo.
I 650 mila morti e i più di 2 milioni di feriti e di mutilati erano costituiti soprattutto da contadini, operai e giovani mandati al macello nelle trincee del Carso, sul Piave, a Caporetto e nelle decimazioni in massa ordinate dagli stessi generali italiani. Carne da macello fornita soprattutto dai meridionali siciliani, calabresi, campani, lucani e sardi, mentre i settentrionali per lo più erano produttivamente impegnati nelle fabbriche di armi e di cannoni.
Sardi soprattutto, almeno in proporzione agli abitanti: alla fine del conflitto la Sardegna avrebbe infatti contato ben 13.602 morti (più i dispersi nelle giornate di Caporetto, mai tornati nelle loro case). Una media di 138,6 caduti ogni mille chiamati alle armi, contro una media “nazionale” di 104,9.
E a “crepare” saranno migliaia di pastori, contadini, braccianti chiamati alle armi: i figli dei borghesi, proprio quelli che la guerra la propagandavano come “gesto esemplare” alla D’Annunzio o, cinicamente, come “igiene del mondo” alla futurista, alla guerra non ci sono andati.
La retorica patriottarda e nazionalista sulla guerra come avventura e atto eroico, va a pezzi. Abbasso la guerra, “Basta con le menzogne” gridavano, ammutinandosi con Lussu, migliaia di soldati della Brigata Sassari il 17 Gennaio 1916 nelle retrovie carsiche, tanto da far scrivere in Un anno sull’altopiano allo stesso Lussu: Il piacere che io sentii in quel momento, lo ricordo come uno dei grandi piaceri della mia vita.
In cambio delle migliaia di morti, – per non parlare delle migliaia di mutilati e feriti – ci sarà il retoricume delle medaglie, dei ciondoli, delle patacche. Ma la gloria delle trincee – sosterrà lo storico sardo Carta-Raspi – non sfamava la Sardegna.
Sempre Carta Raspi scrive: ”Neppure in seguito fu capito il dramma che in quegli anni aveva vissuto la Sardegna, che aveva dato all’Italia le sue balde generazioni, mentre le popolazioni languivano fra gli stenti e le privazioni. La gloria delle trincee non sfamava la Sardegna, anzi la impoveriva sempre di più, senza valide braccia, senza aiuti, con risorse sempre più ridotte. L’entusiasmo dei suoi fanti non trovava perciò che scarsa eco nell’isola, fiera dei suoi figli ma troppo afflitta per esaltarsi, sempre più conscia per antica esperienza dello sfruttamento e dell’ingratitudine dei governi, quasi presaga dell’inutile sacrificio. Al ritorno della guerra i Sardi non avevano da seminare che le decorazioni: le medaglie d’oro. d’argento e di bronzo e le migliaia di croci di guerra; ma esse non germogliavano, non davano frutto” (5).
C’è da festeggiare per questo dramma immane? Magari spendendo soldi in parate militaresche?
Non c’è niente da festeggiare.
Ha ragione il combattivo e giovane sindaco di Bauladu, Davide Corriga Sanna, Presidente della Corona de Logu – l’Assemblea che raccoglie gli amministratori locali indipendentisti – a fare del 4 novembre “una giornata di riflessione sul prezzo pagato dalla Sardegna alla Prima Guerra mondiale, un tributo di sangue e di arretramento economico”.
Note bibliografiche
(1) Enzo Gentile, L’Apocalisse della modernità, Mondadori, Milano, 2009, pagina 17.
(2) S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, trad. it. Carlo Musatti e altri, Torino, 1989, pagine 30.
(3) E. Jünger, Boschetto 125, trad. it. Di A. Iaditiccio, Parma 1999, pagina 28.
(4) Henri Barbusse, Il Fuoco, trad. italiana di G. Bisi, Milano, 1918, pagina 218.
(5) Raimondo Carta-Raspi,Storia della Sardegna, Ed. Mursia, Milano, 1971, pagina 904).
Sardegna Sardegna
Ottobre tutti a Capo Frasca.
A foras sas bases: una battaglia che viene da lontano
di Francesco Casula
Già negli anni sessanta la Sardegna era massicciamente zeppa di basi militari, con centri di addestramento, poligoni di tiro, aeroporti, rampe missilistiche con eserciti di mezzo mondo.
Come se non bastasse il Governo italiano vuole aumentare ulteriormente la militarizzazione: l’esempio più clamoroso riguarda la vicenda di Pratobello: nel giugno del 1969 il ministro della difesa decide di espropriare i pascoli di quella zona di Orgosolo per insediarvi un poligono di tiro per artiglieria e una base di acquartieramento di contingenti dell’esercito. Gli orgolesi insorgono in massa: occupano il territorio che i militari invadono, impediscono le esercitazioni e, grazie alla mobilitazione di massa vincono una durissima battaglia.
A sostenere la loro lotta alcuni intellettuali sardi: Peppino Barranu (un sardo indipendentista della prima ora), Antonello Satta e Eliseo Spiga (che poi avrebbero dato vita al Movimento (e periodico) di Nazione sarda. Ed Emilio Lussu che il 24 giugno del 1969 da Roma, alla popolazione di Orgosolo invierà un significativo telegramma (non potendo partecipare direttamente alla lotta, per motivi di salute), ecco alcuni passi: “Quanto avviene Pratobello contro pastorizia et agricoltura est provocazione colonialista stop. Rimborso danni et premio in denaro est offensivo palliativo che non annulla ma aggrava ingiustizia stop. Chi ha coscienza dei propri diritti non li baratta stop. Responsabilità non est militare ma politica. Perciò mi sento solidale incondizionatamente con pastori et contadini Orgosolo che non hanno capitolato et se fossi in condizioni di salute differenti sarei in mezzo a loro stop. Allontanamento immediato poligono et militari si impone come misura civile e democratica lavoro et produzione stop”.
Il Governo italiano insiste: fa seguito – ricorda il Comitato Gettiamo le basi – quel che la stampa isolana definisce “il patto segreto firmato da Belzebù”. Nel 1972 il governo Andreotti, raggirando gli art.11-80-87 della Costituzione e prevaricando il Parlamento con il sotterfugio di qualificazione del patto “in forma semplificata”, stipula un accordo bilaterale segreto con gli Stati Uniti.
Tra il luglio e l’agosto del 1972, approdano a La Maddalena la nave appoggio Fulton e i sommergibili della 69 Task Force della VI flotta, scortati dalla portaerei Kennedy e da un appariscente dispiegamento di navi da guerra.
Il 15 settembre il portavoce del Comando della Marina Militare degli Stati Uniti comunica notizia della nuova funzione strategica dell’isola: base Usa per sommergibili a propulsione nucleare.
Si moltiplicano le iniziative di mobilitazione, soprattutto proprio contro la base atomica. L’intellettuale e scrittore antimilitarista, il compianto Ugo Dessy scrive un libro: “La Maddalena: morte atomica nel mediterraneo-La militarizzazione della Sardegna” (Bertani Editore, 1978, Verona).
Indetto dal periodico indipendentista Sa Republica Sarda ricordo un pubblico dibattito a La Maddalena (Sala del Consiglio comunale) al quale partecipò – insieme al sottoscritto, allora dirigente della Confederazione sindacale sarda, (CSS) – Francesco Rutelli (allora radicale) insieme a tanti altri: Tonino Dessì che svolgerà una relazione sui Referendum regionali consultivi, Isabella Puggioni, Elisa Spanu Nivola.
Il referendum consultivo sarebbe stato in seguito negato, defraudando il popolo sardo del diritto ad esprimersi su una vicenda che lo riguardava direttamente.
Nel 1983 alcuni intellettuali danno vita a un Comitato contro le basi militari: ne fanno parte, fra gli altri, oltre al sottoscritto, il poeta Francesco Masala, la scrittrice (nonché moglie di Emilio Lussu) Joyce, Franco Carlini (scrittore e poeta bilingue), Mario Puddu (l’autore del monumentale vocabolario sardo), Giuseppe Caboni (del Collettivo Emilio Lussu), lo scultore Pinuccio Sciola e tanti altri.
Il Comitato elaborerà una “Proposta di legge nazionale di iniziativa popolare (A norma degli articoli 28-29-51 dello Statuto speciale della Sardegna) avente per oggetto :”Liberazione della Sardegna dalle basi militari e da ogni struttura nucleare; nuova organizzazione delle Forze Armate e del servizio di protezione civile nell’Isola; controllo democratico dei servizi di sicurezza; iniziative per la pacificazione del Mediterraneo e per una nuova collocazione internazionale dell’Italia”.
Dopo una serie di iniziative e di dibattiti per far conoscere la proposta si iniziò la raccolta di firme, regolarmente autenticate. Non si riuscì a raccogliere il numero necessario. Tutti, dai Partiti ai Sindacati, agli stessi Comuni la boicottarono.
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12 OTTOBRE – ORGANIZZIAMO INSIEME IL RITORNO A CAPO FRASCA PER LA SMILITARIZZAZIONE DELLA SARDEGNA.
(Dalla pagina fb di Claudia Zuncheddu) [segue]
Oggi martedì 26 febbraio 2019
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Elezioni regionali: divisi si perde! Che fare ora?
25 Febbraio 2019
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
Giovedì alle 17,30 presso lo Studium Franciscanum in via Principe Amedeo n. 22 – Cagliari, il CoStat promuove una valutazione a caldo del voto con la partecipazione di esponenti delle varie liste, intellettuali e cittadini. Dopo una breve introduzione, seguirà un libero confronto al fine di individuare linee […]
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Solinas vince, tutti gli altri perdono. E il centrodestra va subito all’assalto delle coste: chi farà opposizione?
Vito Biolchini su vitobiolchini.it
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LA VITA CONTINUA, PURE LA LOTTA. Una giornata tristissima per la Sardegna, un voto incredibile, per certi versi illogico ma è andata cosi. Dobbiamo farcene una ragione. Affliggersi, piangersi addosso, recriminare serve a poco. Analisi del voto, certamente va fatta ma con molto realismo e senza cercare giustificazioni per auto assolversi. Ma soprattutto occorre pensare al che fare da domani in poi. Intanto speriamo che i politici e i gruppi che non hanno raggiunto il quorum riconoscano il fallimento e rinuncino a ripresentarsi nella forma attuale in attesa che l’elettore si ravveda e cambi il suo voto nelle prossime elezioni. Pili, Maninchedda, Murgia, Lecis, ci mettano una pietra sopra e si dedichino ad altro o a ripensare nuove proposte politiche. Zedda, che ha dato prova di avere un discreto credito tra gli elettori esamini con cura la possibilità di costruire una seria forza di opposizione a Solinas e Salvini, ce ne sarà bisogno e potrebbe crescere ancora nel consenso dei Sardi. A Solinas e Salvini auguriamo buon lavoro ma sappiano che saremo la loro opposizione in tutti i modi e le forme possibili perché siamo portatori di una idea differente di sviluppo e crescita della Sardegna. Infine un consiglio a Solinas. Ha detto che il suo primo atto politico sarà portare dei fiori sulla tomba di Emilio Lussu. Gli suggerirei di astenersi dal farlo, Lussu era un personaggio particolarmente rancoroso, si sarà rivoltato più volte nella tomba quando ha visto Solinas cedere il patrimonio storico e la dignità del Psdaz ai fascio-leghisti. Potrebbe trovarlo ancora incazzato e con la pistola a portata di mano. Meglio rinunciare.
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