Risultato della ricerca: Vanni Tola

Immigrazione: guardare in faccia la realtà

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Ciascuno di noi ha una parte di responsabilità in tutto ciò che accade. E’ inutile e ipocrita chiamarsene fuori con argomentazioni pretestuose. Il colonialismo e la politica di rapina delle risorse dei paesi sottosviluppati e del continente africano, i nostri egoismi individuali e collettivi, le scelte di strategia economica dei paesi occidentali, hanno determinato e alimentano crisi, miseria, guerre. Oggi questi problemi presentano “il conto”. Viviamo e siamo partecipi di un esodo biblico di disperati che cercano condizioni di vita umane nei nostri paesi dopo che, nei loro, si è scatenato l’inferno. Un mare, il Mediterraneo, un tempo “culla di civiltà”, luogo di scambi culturali e commerciali tra culture e popoli diversi, trasformato in sterminato cimitero di esseri umani. L’occidente, i paesi che amano definirsi civili, evoluti, progrediti, devono compiere scelte adeguate alla gravità della situazione, adottare scelte politiche e strategie operative per porre fine agli squilibri che dovranno essere nuove e realmente efficaci. Occorre rimettere in discussione, con serietà e onestà, la ripartizione delle ricchezze mondiali per garantire a tutti condizioni di vita migliori pur sapendo che ciò potrebbe limitare il nostro attuale sistema di vita caratterizzato da ipersfruttamento delle risorse e da sprechi. Occorre infine togliere l’ossigeno alle guerre, a tutte le guerre, a partire degli scontri tribali per arrivare agli scontri tra gli Stati africani, ai diversi focolai di tensione del pianeta, agli scontri interreligiosi. Un passo fondamentale da compiere con la massima urgenza dovrà essere rappresentato dalla drastica limitazione della produzione e del commercio di armi e munizioni mettendo al bando i commercianti di morte e i fomentatori delle guerre. Non si può piangere i morti, applaudire gli appelli del Papa al mattino e nel pomeriggio continuare a vivere favorendo, sia pure indirettamente, la condizione di miseria e sottosviluppo di gran parte del mondo con politiche di rapina e vendita di armi. E soprattutto non si può girare il volto e la mente dall’altra parte e fare finta di non vedere o di non sapere. “Per quanto voi vi crediate assolti, siete lo stesso coinvolti” (F. De André.)
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Come evitare la prossima strage di migranti nel Mediterraneo
[Nel riquadro: Carta di Laura Canali da Chi ha paura del califfo]

Accogliere tutti è impossibile e illogico, persegui(ta)re chi fugge da paesi in guerra anche. Ma qualche soluzione c’è, per l’Europa e per l’Africa.
di Riccardo Pennisi, Limes 21/04/2015

Sulla scala delle innumerevoli crisi con cui l’Europa si trova ad avere a che fare, quella dell’immigrazione attraverso il Mediterraneo è ormai tra le più gravi per le sue proporzioni in termini di persone e di valori morali coinvolti.

Se vogliamo comprenderne le dimensioni reali, non possiamo trascurare alcuni dati. Il primo è certamente quello della consistenza inedita dei flussi migratori: tanto grandi che non solo l’Italia, ma l’intera Europa non ne ha mai visti di simili nella sua storia recente. Per quanto i singoli Stati possano credere bene di intervenire promulgando leggi aspre e repressive, o pensare di impiegare armi e soldati per blindare il confine marittimo, il numero di persone disposte a rischiare di morire per arrivare nel nostro continente non diminuirà. Lo si comprende osservando una mappa del mondo: attorno all’Europa si sono moltiplicati gli scenari di crisi, le guerre, le guerre civili, le carestie – un cambiamento spesso dovuto proprio alla goffa diplomazia o agli errori di calcolo strategico dei singoli Stati europei. Mali e Algeria, Sahel, Libia, Darfur e Corno d’Africa; Siria, Iraq e Afghanistan: lasciarsi alle spalle questi inferni vale qualsiasi pena e qualsiasi spesa.

Il crollo di molti Stati e apparati amministrativi conseguente a queste crisi agevola i trafficanti di esseri umani: il tragitto attraverso il Sahara o per le rotte del Medio Oriente e l’imbarco dalle coste mediterranee avvengono in assenza quasi totale di controlli; inoltre, i vari gruppi che si disputano la signoria sui territori di passaggio utilizzano i migranti come succosa e facile fonte di reddito.

Ad esempio, a occuparsi della sorveglianza sui 600 km di coste della Tripolitania libica – una zona caduta sotto il controllo delle forze ribelli al governo appoggiato dagli occidentali, che ha sede nell’altra parte del paese – ci sono solo due navi-vedette di stanza nel porto di Misurata, per metà devastato dalla guerra. Altre quattro navi sono in mano all’Italia che doveva riequipaggiarle, grazie a un accordo con il governo libico, ma non le ha ancora restituite perchè non c’è alcuna certezza del vero uso che ne verrà fatto.

Proprio il crollo della Libia subito dopo il rovesciamento del dittatore Mu’ammar Gheddafi fa sì che il paese sia diventato lo sbocco ideale per traffici illeciti di ogni tipo, e che i flussi migratori vi si concentrino, privilegiando la rotta su Lampedusa piuttosto che quelle dal Marocco o dall’Algeria al sud della Spagna, o dalla Turchia alle isole greche.

Il record di sbarchi registrati in Italia lo scorso anno (150 mila rifugiati e migranti tratti in salvo secondo l’Unhcr) si prepara a essere battuto nel 2015: l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati certifica già più di 30 mila arrivi in Italia e Grecia a metà aprile – cifra destinata a crescere con lo stabilizzarsi delle condizioni metereologiche: fonti libiche raccolte da Le Monde parlano di 300-700 uomini in partenza quotidianamente nelle giornate di bel tempo.

Gli Stati dell’Unione Europea hanno finora affrontato la questione come un fenomeno stagionale. L’operazione Mare Nostrum costava a Roma 9 milioni al mese, e secondo Human Rights Watch ha soccorso un totale di 100 mila persone. Tuttavia, data l’indisponibilità italiana a contrastare in solitudine un fenomeno che riguarda tutto il continente e la convinzione che una missione meno “generosa” scoraggiasse i migranti, i membri dell’Ue si sono accordati su un suo surrogato.

Sotto il nome di Triton, al costo di 3-5 milioni al mese spalmati sui 28 Stati contribuenti, l’operazione europea in vigore da novembre si limita al pattugliamento, e non alla ricerca e al salvataggio come in precedenza. La sua inefficacia, riconosciuta in febbraio anche dal commissario del Consiglio d’Europa per i Diritti umani Nils Miuznieks, è tristemente provata dal numero di morti registrati negli ultimi mesi, di cui la strage di domenica è solo l’episodio più evidente.

Cosa fare dunque? Considerando che la nostra frontiera è il mare e che non possiamo costruirci sopra un muro come hanno fatto gli Stati Uniti con il loro confine messicano, il modo in cui gli europei si misurano con questo epocale fenomeno dovrebbe cambiare attraverso una nuova assunzione di responsabilità, una revisione degli strumenti di intervento e un piano strategico di medio e lungo periodo. Il regolamento europeo di Dublino, finora in vigore, obbliga a che i migranti chiedano asilo nel paese di approdo: in questo modo l’onere di provvedere alle necessità delle persone soccorse ricade sempre sugli stessi paesi rivieraschi del Mediterraneo, nella proporzione del 70% sul totale dei rifugiati dell’Ue. La destinazione dei migranti è invece nella maggior parte dei casi Germania, Gran Bretagna, Svezia o Norvegia: Stati da cui è giusto pretendere un maggiore coinvolgimento.

Inoltre, l’Ue deve rivedere il suo atteggiamento nei confronti del Nord Africa. La stabilizzazione di tutta l’area deve diventare una priorità sulla quale avere il coraggio di investire risorse, così come una cooperazione allo sviluppo politico-civile che vada oltre il mero riconoscimento delle elezioni (che di per sé non certificano l’esistenza di uno Stato democratico) allargandosi al sostegno dei soggetti che con la loro attività rendono il pluralismo e la partecipazione una prassi diffusa. Risulterebbe difficile, altrimenti, ottenere una collaborazione allo stesso tempo efficace e umanitaria da Stati come l’Egitto, attraversati da moltissimi flussi di passaggio, o la Libia, molo di partenza per eccellenza.

Una collaborazione reciproca che è necessario mettere in pratica con pragmatismo e preparazione: l’impossibilità politica dell’accoglienza in ogni caso e per tutti e l’illogicità dell’opzione repressiva di chiusura dimostrano il fallimento degli approcci ideologici o estemporanei finora adottati.

Senza la collaborazione della Libia, attualmente uno Stato-fantasma, si va poco lontani. La cooperazione con i paesi a lei vicini è necessaria per sorvegliare le rotte percorse dai migranti fino al mare e per smantellare le reti di traffico di esseri umani che le utilizzano; la distruzione dei mezzi di trasporto usati dai criminali, proprio come avviene con l’operazione antipirateria Atalanta al largo della Somalia, potrebbe essere un buon inizio.

La chiusura delle frontiere in Europa provoca un aumento della clandestinità: sarebbe dunque meglio estendere la possibilità di chiedere asilo anche nei paesi nordafricani, e direttamente dai paesi nordafricani per tutti i paesi europei – magari armonizzando le politiche attualmente sbilanciate dei singoli Stati Ue in materia di status di rifugiato e asilo politico. Il peso delle richieste di asilo su Grecia, Malta e Italia dovrebbe essere sostenuto economicamente e amministrativamente da tutte le capitali europee.

Infine, le regole di ingaggio di Triton dovrebbero almeno essere riportate a quelle di Mare Nostrum, in attesa di costruire una maggiore integrazione con le forze di salvataggio e sorveglianza nordafricane – perchè non siano semplice assistenza in mare ma permettano anche un migliore contrasto al traffico di esseri umani. A tal fine l’Europa dovrebbe dotarsi di quella politica comune sull’immigrazione che finora gli Stati, gelosi delle loro prerogative nazionali, hanno rifiutato di concedere a Bruxelles. In mancanza di questa, l’Ue potrà solo continuare a stilare liste di buoni propositi.

Sulla sponda nord del Mediterraneo l’immigrazione continua ad essere usata con successo dai partiti populisti ed eurofobici proprio come prova dell’inefficacia e dell’inutilità dell’Unione Europea. Sulla sponda sud, non solo il crimine organizzato la utilizza come fonte di profitto e serbatoio di reclutamento, ma anche il terrorismo comincia a vedere il potenziale destabilizzante del fenomeno.

Non è la prima volta che l’esitazione e il cinismo degli europei aggravano problemi comuni a tutti i paesi del continente
, sui quali si preferiva distogliere lo sguardo; in questo caso, non è difficile prevedere un’evoluzione ancora peggiore della già tragica situazione attuale, in assenza di adeguate soluzioni.

Immigrazione: guardare in faccia la realtà

fiori naufragio-migrantidi Vanni Tola
Ciascuno di noi ha una parte di responsabilità in tutto ciò che accade. E’ inutile e ipocrita chiamarsene fuori con argomentazioni pretestuose. Il colonialismo e la politica di rapina delle risorse dei paesi sottosviluppati e del continente africano, i nostri egoismi individuali e collettivi, le scelte di strategia economica dei paesi occidentali, hanno determinato e alimentano crisi, miseria, guerre. Oggi questi problemi presentano “il conto”. Viviamo e siamo partecipi di un esodo biblico di disperati che cercano condizioni di vita umane nei nostri paesi dopo che, nei loro, si è scatenato l’inferno. Un mare, il Mediterraneo, un tempo “culla di civiltà”, luogo di scambi culturali e commerciali tra culture e popoli diversi, trasformato in sterminato cimitero di esseri umani. L’occidente, i paesi che amano definirsi civili, evoluti, progrediti, devono compiere scelte adeguate alla gravità della situazione, adottare scelte politiche e strategie operative per porre fine agli squilibri che dovranno essere nuove e realmente efficaci. Occorre rimettere in discussione, con serietà e onestà, la ripartizione delle ricchezze mondiali per garantire a tutti condizioni di vita migliori pur sapendo che ciò potrebbe limitare il nostro attuale sistema di vita caratterizzato da ipersfruttamento delle risorse e da sprechi. Occorre infine togliere l’ossigeno alle guerre, a tutte le guerre, a partire degli scontri tribali per arrivare agli scontri tra gli Stati africani, ai diversi focolai di tensione del pianeta, agli scontri interreligiosi. Un passo fondamentale da compiere con la massima urgenza dovrà essere rappresentato dalla drastica limitazione della produzione e del commercio di armi e munizioni mettendo al bando i commercianti di morte e i fomentatori delle guerre. Non si può piangere i morti, applaudire gli appelli del Papa al mattino e nel pomeriggio continuare a vivere favorendo, sia pure indirettamente, la condizione di miseria e sottosviluppo di gran parte del mondo con politiche di rapina e vendita di armi. E soprattutto non si può girare il volto e la mente dall’altra parte e fare finta di non vedere o di non sapere. “Per quanto voi vi crediate assolti, siete lo stesso coinvolti” (F. De André.)
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Emergency logo piccFIACCOLATA DI OGGI. COMUNICATO DEGLI ORGANIZZATORI
Grazie in anticipo per le adesioni: sono andate oltre le nostre più rosee previsioni. Proprio per questa ragione ci preme ricordare che la fiaccolata nasce come momento di solidarietà e si pone, simbolicamente, come risposta chiara all’indifferenza verso i migranti che muoiono periodicamente nel Mar Mediterraneo. CHIEDIAMO SOBRIETA’. NO SLOGAN PARTITICI E RELIGIOSI, NO COMUNICATI DI TIPO PROPAGANDISTICO.
Vi ringraziamo per la collaborazione.
Gruppo Emergency Cagliari
- La pagina fb dell’evento.

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SA DIE DE SA SARDIGNA, una festa da rilanciare
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di Francesco Casula

A pochi giorni dalla ricorrenza del 28 aprile, in extremis si cerca di “recuperare” Sa Die de sa Sardigna, prevedendo diverse iniziative nei quattro capoluoghi storici con un nutrito programma di eventi culturali. In realtà Pigliaru e la sua Giunta certificano l’interramento della Giornata del popolo sardo. Non solo e non tanto per l’esiguità dei finanziamenti previsti, o per l’improvvisazione e i ritardi, quanto perché si è smarrito il senso originario e autentico di Sa Die.
Istituita dal Consiglio regionale il 14 settembre 1993, come vera e propria Festa nazionale del popolo sardo, per ricordare la cacciata dei Piemontesi da Cagliari, nei primi anni di vita è stata caratterizzata da centinaia di iniziative, partecipate diffuse e ubiquitarie, in tutta l’Isola. Soprattutto nelle scuole. Con decine e decine di docenti, storici, giornalisti, esperti organizzati nel “Comitato pro sa Die” presieduto dal professor Giovanni Lilliu e nato dall’incontro di numerose Associazioni culturali, con la Fondazione Sardinia in prima fila.
Per anni, questa legione di studiosi è stata impegnata a “visitare” le scuole sarde, di ogni ordine e grado, per parlare e discutere con gli studenti di cultura, storia e lingua sarda: rigorosamente escluse dalla Scuola ufficiale. Probabilmente quest’opera iniziale di studio, ricerca, confronto, sensibilizzazione “ha spaventato soprattutto la politica”, come opportunamente ha scritto Vito Biolchini. Così la “Festa” da occasione di studio e di risveglio identitario si riduce nel tempo a rito formale e liturgia vuota. Con l’Amministrazione Soru viene annacquata e svuotata dei significati storici e simbolici più “eversivi”. La Giunta di Cappellacci la stravolge del tutto: viene addirittura dedicata alla Brigata Sassari! E oggi Pigliaru, la seppellisce definitivamente, sic et simpliciter.
E’ stato anche sostenuto che l’esaurimento della forza propulsiva di Sa Die sia da ricondurre alla “debolezza” dell’Evento del 28 aprile. Non sono d’accordo. Non si è trattato di “robetta”: magari di una semplice congiura ordita da un manipolo di borghesi giacobini, illuminati e illuministi, per cacciare qualche centinaio di piemontesi: come pure è stato scritto. A questa tesi, del resto ha risposto, con dovizia di dati, documenti e argomentazioni Girolamo Sotgiu. Non sospettabile di simpatie “nazionalitarie” il prestigioso storico sardo, gran conoscitore e studioso della Sardegna sabauda, polemizza garbatamente ma decisamente proprio con l’interpretazione data da storici filo sabaudi, come il Manno o l’Angius al 28 aprile, considerato alla stregua, appunto, di una congiura. “Simile interpretazione offusca – scrive Sotgiu – le componenti politiche e sociali e, bisogna aggiungere senza temere di usare questa parola «nazionali».
“Insistere sulla congiura – cito sempre lo storico sardo – potrebbe alimentare l’opinione sbagliata che l’insurrezione sia stato il risultato di un intrigo ordito da un gruppo di ambiziosi, i quali stimolati dagli errori del governo e dalle sollecitazioni che venivano dalla Francia, cercò di trascinare il popolo su un terreno che non era suo naturale”,
A parere di Sotgiu questo modo di concepire una vicenda complessa e ricca di suggestioni, non consente di cogliere il reale sviluppo dello scontro sociale e politico né di comprendere la carica rivoluzionaria che animava larghi strati della popolazione di Cagliari e dell’Isola nel momento in cui insorge contro coloro che avevano dominato da oltre 70 anni. Non fu quindi congiura o improvviso ribellismo: ad annotarlo è anche Tommaso Napoli, padre scolopio, vivace e popolaresco scrittore ma anche attento e attendibile testimone, che visse quelli avvenimenti in prima persona. Secondo il Napoli “l’avversione della «Nazione Sarda» – la chiama proprio così – contro i Piemontesi, cominciò da più di mezzo secolo, allorché cominciarono a riservare a sé tutti gli impieghi lucrosi, a violare i privilegi antichissimi concessi ai Sardi dai re d’Aragona, a promuovere alle migliori mitre soggetti di loro nazione lasciando ai nazionali solo i vescovadi di Ales, Bosa e Castelsardo, ossia Ampurias. L’arroganza e lo sprezzo – continua – con cui i Piemontesi trattavano i Sardi chiamandoli pezzenti, lordi, vigliacchi e altri simili irritanti epiteti e soprattutto l’usuale intercalare di Sardi molenti, vale a dire asinacci, inaspriva giornalmente gli animi e a poco a poco li alienava da questa nazione”.
Questo a livello storico: c’è poi il significato simbolico dell’evento: i Sardi dopo secoli di rassegnazione, di abitudine a curvare la schiena, di acquiescenza, di obbedienza, di asservimento e di inerzia, per troppo tempo usi a piegare il capo, subendo ogni genere di soprusi, umiliazioni, sfruttamento e sberleffi, con un moto di orgoglio nazionale e un colpo di reni, di dignità e di fierezza, si ribellano e alzano il capo, raddrizzano la schiena e dicono: basta! In nome dell’autonomia e dunque, per “essi meris in domu nostra”. E cacciano Piemontesi (con Nizzardi e Savoiardi), non per motivi etnici, ma perché rappresentano l’arroganza, la prepotenza e il potere. Sono infatti militari, funzionari, impiegati. Cagliari all’alba dell’800 contava 20.000 abitanti, la burocrazia e il potere piemontese 514 esponenti: più di uno per ogni 40 cagliaritani!
Al di là comunque di tutto questo e dello specifico avvenimento, quello che è importante oggi nella Festa di Sa Die de sa Sardigna è proprio il suo il valore simbolico di autocoscienza storica e di forza unificante. Sia ben chiaro: nessun ripiegamento nostalgico o risentito verso il passato: ma il passato sepolto, nascosto, rimosso, si tratta prima di tutto di dissotterrarlo e conoscerlo, perché diventi fatto nuovo che interroga l’esperienza del tempo attuale, per affrontare il presente nella sua drammatica attualità, per definire un orizzonte di senso, per situarci e per abitare, aperti al suo respiro il mondo, lottando contro il tempo della dimenticanza; quel mondo grande e terribile di cui parlava Gramsci.
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Giovanni Lilliu, intervista rilasciata a Francesco Casula per Cittàquartiere, nel maggio del 1987.

Dall’intervista a Giovanni Lilliu di Francesco Casula su Cittàquartiere del maggio 1987 (Nuova serie anno II n. 3-4 marzo-maggio 1987).

Professore, contro un luogo comune diffuso qui da noi ma anche fuori, di una Sardegna storicamente “chiusa” nel suo guscio, lei ha sostenuto anche recentemente proprio in occasione dell’inaugurazione dell’Anno accademico [si trattava dell'Anno accademico 86-87 dell'Università di Cagliari], la tesi del popolo sardo “navigatore”.
Esattamente. Ho parlato della Sardegna aperta alle comunicazioni esterne, a relazioni e al commercio, anche contro la tesi dello storico Lucien Febvre che contrappone la nostra Isola “conservatoire” alla Sicilia, crocicchio di incontri e commerci. Fonti storiche, letterarie, reperti archeologici alla fine del secondo millennio a.C. ci documentano che la Sardegna riceve ceramiche dal mondo Miceneo e nello stesso tempo esporta manufatti, ceramiche e prodotti minerari nell’Italia centrale e nella Sicilia.
(…) Ancora oggi inoltre possediamo centinaia di navicelle di bronzo delle botteghe sarde, conservate nei musei della Sardegna – a Cagliari in particolare – e all’estero. Moltissime ne sono state trovate nelle necropoli etrusche. Lo storico e geografo Strabone parla dei Sardi che pirateggiavano le coste di Pisa.

Professore, ma quand’è allora che i Sardi si “chiudono” e iniziano a porre in atto quella che lei chiama “costante resistenziale”? Fin dai Fenici?.
No, dopo. I Fenici praticarono un colonialismo di mercato non di piantagione. Non tolsero la libertà all’isola: la loro egemonia fu mercantile non politico-militare. Questa iniziò con i Cartaginesi e i Romani. I Sardi la “resistenza” iniziarono a dimostrarla nelle guerre combattute contro Cartagine e poi via via – ecco la “costante” contro i Romani, nelle grandi guerre sardo-catalane, durante quasi un secolo, nella cacciata dei Piemontesi, nei Moti Angioini, nelle sommosse di “Su Connotu”. E poi vi è la resistenza “passiva”, contro la gente che viene da fuori, dal mare. In sintesi direi che la resistenza inizia quando l’isola perde la libertà e sovranità ed è assoggetata alle potenze straniere, quando intorno al 510 i Cartaginesi sconfiggono gli indigeni e respingono i Sardi verso le riserve (le zone interne) privati del mare. Di qui la battaglia strategica, oggi quanto mai attuale, di “riconquistare” il mare per riconquistare la libertà.


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Sa die in tundu
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Sa die RAS
Notizie dall’Istituzione
L’assessore Firino apre una pagina fb dedicata a Sa die. Nonostante i ritardi e tutto il resto di cui a ragione ci lamentiamo: va bene!
Ecco lo slogan della Ras per festeggiare Sa die: Sardigna terra saliosa, contivigiala cun sentidu. Sardegna, terra fertile, curala con amore.
- La pagina fb.

Immigrazione: guardare in faccia la realtà

700 morti migrantisedia di Vannitoladi Vanni Tola
Ciascuno di noi ha una parte di responsabilità in tutto ciò che accade. E’ inutile e ipocrita chiamarsene fuori con argomentazioni pretestuose. Il colonialismo e la politica di rapina delle risorse dei paesi sottosviluppati e del continente africano, i nostri egoismi individuali e collettivi, le scelte di strategia economica dei paesi occidentali, hanno determinato e alimentano crisi, miseria, guerre. Oggi questi problemi presentano “il conto”. Viviamo e siamo partecipi di un esodo biblico di disperati che cercano condizioni di vita umane nei nostri paesi dopo che, nei loro, si è scatenato l’inferno. Un mare, il Mediterraneo, un tempo “culla di civiltà”, luogo di scambi culturali e commerciali tra culture e popoli diversi, trasformato in sterminato cimitero di esseri umani. L’occidente, i paesi che amano definirsi civili, evoluti, progrediti, devono compiere scelte adeguate alla gravità della situazione, adottare scelte politiche e strategie operative per porre fine agli squilibri che dovranno essere nuove e realmente efficaci. Occorre rimettere in discussione, con serietà e onestà, la ripartizione delle ricchezze mondiali per garantire a tutti condizioni di vita migliori pur sapendo che ciò potrebbe limitare il nostro attuale sistema di vita caratterizzato da ipersfruttamento delle risorse e da sprechi. Occorre infine togliere l’ossigeno alle guerre, a tutte le guerre, a partire degli scontri tribali per arrivare agli scontri tra gli Stati africani, ai diversi focolai di tensione del pianeta, agli scontri interreligiosi. Un passo fondamentale da compiere con la massima urgenza dovrà essere rappresentato dalla drastica limitazione della produzione e del commercio di armi e munizioni mettendo al bando i commercianti di morte e i fomentatori delle guerre. Non si può piangere i morti, applaudire gli appelli del Papa al mattino e nel pomeriggio continuare a vivere favorendo, sia pure indirettamente, la condizione di miseria e sottosviluppo di gran parte del mondo con politiche di rapina e vendita di armi. E soprattutto non si può girare il volto e la mente dall’altra parte e fare finta di non vedere o di non sapere. “Per quanto voi vi crediate assolti, siete lo stesso coinvolti” (F. De André.)

“Transatlantic Trade and Investment Partnership”

TTIP aladinCos’è il “Transatlantic Trade and Investment Partnership” e perché dobbiamo occuparcene.
sedia di Vannitoladi Vanni Tola

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A parere di Greenpeace, il TTIP rappresenta una grave minaccia per la nostra democrazia e l’ambiente ed è necessario mobilitarsi per fermarne l’approvazione sulla base della convinzione che i diritti, la natura e i beni comuni non sono delle merci e non sono in vendita. Il Parlamento Eu si sta occupando in questi mesi della stipula di un accordo internazionale di primaria importanza e dovrà assumere delle decisioni nel merito. Greenpace lancia una campagna a sostegno di una petizione da inviare ai Parlamentari europei per invitarli a chiedere di bloccare il negoziato relativo al TTIP (questo il link per sottoscrivere la petizione http://www.greenpeace.org/italy/it/Cosa-puoi-fare-tu/partecipa/stop-ttip/?utm_source=GPita&utm_medium=TTIP&utm_campaign=share_FB). Per comprendere meglio l’importanza e la portata del negoziato in corso realizzeremo alcuni articoli di approfondimento ricostruendo, nel miglior modo possibile l’intera vicenda. Stati Uniti e Unione Europea stanno negoziando un gigantesco accordo commerciale indicato con l’acronimo TTIP, trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti. In pratica un nuovo accordo commerciale di libero scambio in corso di negoziazione tra Stati Uniti ed Europa che andrà a sostituire accordi simili stabiliti in passato (es. TAFTA, NAFTA ecc). Il confronto in atto sull’argomento vede sostanzialmente contrapposte due differenti valutazioni sul progetto di accordo internazionale. Per alcuni il trattato prevederebbe che le legislazioni di Stati Uniti ed Europa si pieghino alle regole del libero scambio stabilite da e per le grandi aziende europee e statunitensi. Per altri invece, l’intera operazione sarebbe destinata a facilitare i rapporti commerciali tra Europa e Stati Uniti portando opportunità economiche, sviluppo, un aumento delle esportazioni e anche dell’occupazione. Tra gli elementi che richiamano l’attenzione sul negoziato in corso, il principale è rappresentato dalla vastità dell’area che la realizzazione del trattato coinvolgerebbe. Si parla di 50 stati degli Stati Uniti e 28 nazioni dell’Unione Europea, un’area sulla quale gravitano 820 milioni di abitanti che concorrono a produrre il 45 % del PIL mondiale. Come si sta procedendo? Nel 2013 Obama e l’allora presidente della Commissione europea Barroso hanno avviato ufficialmente i negoziati che dovrebbero concludersi entro il 2015. Una particolarità di non poco conto è rappresentata dal fatto che le diverse fasi della negoziazione sono segrete, soltanto i tecnici delle parti a confronto hanno conoscenza diretta dei contenuti oggetto della negoziazione. Questo della segretezza delle trattative è uno di punti che maggiormente preoccupa i gruppi di opinione e le organizzazioni che, in America e in Europa, si oppongono alla realizzazione dell’accordo. Naturalmente si tratta di segretezza relativa, alcuni dei temi in discussione sono noti e sono stati pubblicati, per grandi linee, dalla stampa internazionale. Si riferiscono a settori commerciali di grande importanza quali il settore dei servizi e dell’e-commerce, l’energia e il settore chimico. Proviamo dunque a ricostruire, sulla base delle pubblicazioni disponibili, i temi fondamentali della trattativa intercontinentale per comprendere meglio la portata del TTIP. Il proponimento principale del TTIP sarebbe quello di realizzare un accordo commerciale e per gli investimenti per aumentare gli scambi e gli investimenti tra l’UE e gli Stati Uniti esaltando le potenzialità di un mercato molto vasto e generando nuove opportunità economiche per creare posti di lavoro e migliori opportunità di crescita come conseguenza di un migliore accesso al mercato e di una omogeneizzazione delle normative dei diversi paesi. In pratica si tratterebbe di aprire una zona di libero scambio tra Europa e Stati Uniti, di uniformare e semplificare le normative tra i due continenti abbattendo le differenze relative ai dazi, migliorare le normative vigenti. Per quanto concerne l’accesso al mercato, le trattative in corso si concentrano sostanzialmente su quattro settori: merci, servizi, investimenti e appalti pubblici. Si pensa all’eliminazione dei dazi sugli scambi bilaterali di merci per raggiungere una sostanziale eliminazione degli stessi al momento dell’entrata in vigore del trattato. Si prevede una azione antidumping per evitare la vendita di un prodotto sul mercato estero a un prezzo inferiore rispetto a quello di vendita dello stesso prodotto sul mercato d’origine e alcune misure di salvaguardia che consentirebbero a un paese di rimuovere, totalmente o in parte, quelle importazioni di prodotti il cui arrivo comporti una minaccia o un danno alla propria economia nazionale. Liberalizzazione che riguarda anche i servizi assicurando un trattamento e agevolazioni paritarie tra le imprese locali e quelle provenienti dagli altri paesi dell’area oggetto dell’accordo. Per quanto concerne gli appalti pubblici invece l’obiettivo sarebbe quello di rafforzare l’accesso reciproco ai mercati degli appalti pubblici a ogni livello amministrativo (nazionale, regionale e locale) e quello dei servizi pubblici, in modo da applicarsi alle attività pertinenti delle imprese operanti in tale campo e garantire un trattamento non meno favorevole di quello riconosciuto ai fornitori stabiliti in loco. In pratica significa che aziende europee potranno partecipare a gare d’appalto statunitensi e viceversa. Un’ultima, ma non meno importante, questione riguarda il capitolo degli investimenti e la loro tutela. Il negoziato analizza la possibilità che sia assicurato lo strumento dell’arbitrato internazionale Stato-imprese (il cosiddetto ISDS, Investor-to-State Dispute Settlement) che prevederebbe, in caso di controversie, la possibilità per gli investitori di citare in giudizio i governi presso corti arbitrali internazionali. Si insiste molto nelle trattative in corso sulla necessità di «rimuovere gli inutili ostacoli agli scambi e agli investimenti compresi gli ostacoli non tariffari esistenti, mediante meccanismi efficaci ed efficienti, raggiungendo un livello ambizioso di compatibilità normativa in materia di beni e servizi, anche mediante il riconoscimento reciproco, l’armonizzazione e il miglioramento della cooperazione tra autorità di regolamentazione». Non sembrano essere in discussione, al momento i dazi che ciascun paese applica nei confronti delle merci provenienti da latri paesi quanto di eliminare limiti di altro tipo: limiti quantitativi, per esempio, come i contingentamenti (che consistono nel fissare quantitativi massimi di determinati beni che possono essere importati) o barriere tecniche e di standard (cioè di regolamento). Un esempio tra quelli più citati dai critici: negli Stati Uniti è permesso somministrare ai bovini sostanze ormonali, nell’UE è vietato e, infatti, la carne agli ormoni non ha accesso a causa di una barriera non tariffaria al mercato europeo. Terminerei questa prima parte, volutamente limitata alla presentazione degli argomenti principali oggetto della trattativa riguardante il TTIP, con il riferimento alle questioni normative. A tale proposito l’obiettivo dichiarato fra le parti a confronto è quello di migliorare la compatibilità normativa tra i singoli stati per creare le basi per nuove regole globali. Non si sa molto di più su questo capitolo della trattativa se non il fatto che il confronto comprenderebbe anche i diritti di proprietà intellettuale, l’esigenza di favorire gli scambi «di merci rispettose dell’ambiente e a basse emissioni di carbonio» con «controlli efficaci, misure antifrode», «disposizioni su antitrust, fusioni e aiuti di Stato». L’accordo dovrebbe occuparsi anche della questione «dei monopoli di stato, delle imprese di proprietà dello stato e delle imprese cui sono stati concessi diritti speciali o esclusivi», e le questioni «dell’energia e delle materie prime connesse al commercio». Si prevede pure l’inclusione di «disposizioni sugli aspetti connessi al commercio che interessano le piccole e medie imprese» e la presentazione di disposizioni sulla liberalizzazione totale dei pagamenti correnti e dei movimenti di capitali.
Fin qui gli aspetti caratterizzanti la trattativa in corso per la realizzazione del TTIP. Esamineremo in un successivo articolo le posizioni favorevoli e quelle contrarie alla realizzazione del trattato. (segue)

a Mohamed

DESERTOIL CALDO VENTO
(a Mohamed)

Il caldo vento del Marocco
porta profumi d’Africa,
ricordi di paesaggi sconfinati
e di grandi dune di sabbia.
Sabbia rossa e sottile che attraversa il mare
e ci lega indissolubilmente agli uomini che vivono sull’altra sponda.
Il caldo vento del Marocco
porta sogni e speranze,
semi di piante e giovani vite che cercano territori
nei quali piantare radici.
Il caldo vento del Marocco
piange quando i sogni e le speranze
ritornano a casa, per sempre.
Quando i semi delle piante e le giovani vite
non volano più nel vento,
con i fenicotteri e gli aironi,
per rincorrere la vita.
(V.T.)
25.02.2009

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sedia di VannitolaMohamed, alunno del Marocco arrivato a Florinas, frequentava la scuola media. E’ deceduto all’improvviso per una grave malattia. Mi sono tornate in mente queste poche frasi vedendo le drammatiche immagini degli sbarchi di migranti nella nostra penisola e sentendo le dichiarazioni infami di alcuni politici che non meritano neppure di essere menzionati.

La guerra dei nostri nonni. La Brigata Sassari in musica

BRIGATA SS VANNI 2Sassari – L’orchestra della Scuola Media n° 5 celebra il centenario della Prima Guerra Mondiale.
“La guerra dei nostri nonni – la Brigata Sassari in musica”
sedia di Vannitoladi Vanni Tola
- segue -

La guerra dei nostri nonni – la Brigata Sassari in musica

BRIGATA SS VANNI 2Sassari – L’orchestra della Scuola Media n° 5 celebra il centenario della Prima Guerra Mondiale.
“La guerra dei nostri nonni – la Brigata Sassari in musica”
sedia di Vannitoladi Vanni Tola
La Scuola Media 5+12 di Sassari, per ricordare l’anniversario della Prima Guerra Mondiale, ha predisposto un progetto didattico dal titolo: ”La guerra dei nostri nonni – la Brigata Sassari in musica”. Il progetto si realizza attraverso una rappresentazione musicale che vede protagonisti gli alunni della 3° B della Media n° 5 (indirizzo musicale) in formazione orchestrale, il noto compositore e musicista sardo Mauro Palmas, autore delle musiche che saranno eseguite e un attore, Maurizio Mezzorani che interpreterà dei brani che si riferiscono al periodo storico ricordato. L’attività progettuale e organizzativa, realizzato con un notevole impegno dei protagonisti, è stato coordinato dalle docenti di strumento musicale della Scuola media di Via Gorizia, Sabina Sanna (chitarra), Monica Uzzanu (pianoforte), Teresa Loriga (flauto) e Patrizia Manca (percussioni). La prima rappresentazione dello spettacolo è stata realizzata alcuni giorni fa nella bellissima Villa Siotto a Sarroch. Il debutto a Sassari, invece, è previsto per martedì 24 Marzo al “Palazzo di Città” (Teatro Civico) alle ore 18,00. Successivamente l‘orchestra si esibirà nell’incantevole e suggestiva Grotta di S. Giovanni d’Antro a Pulfero (provincia di Udine) il 14 Aprile e, sempre nel mese di Aprile, alla Caserma Gonzaga di Sassari in data da stabilire. Riferimento importante della rappresentazione saranno le letture dell’attore Maurizio Mezzorani per gli spettacoli a Sarroch e Sassari, e dall’attore friulano Gabriele Benedetti a Pulfero. Ugualmente importante, significativa e originale è stata la scelta del Maestro Mauro Palmas, autore delle suggestive musiche, di esibirsi insieme ai giovani musicisti dell’orchestra suonando con loro e tra di loro come uno dei tanti musicisti dell’orchestra.
Uno spettacolo nel quale si racconta un periodo importante della nostra isola caratterizzato dall’impegno e dal contributo di sangue che una intera generazione di Sardi ha dato per la causa dell’unità della Nazione, distinguendosi per manifestazioni di coraggio che hanno determinato e caratterizzato la storia e le leggendarie imprese della famosa Brigata Sassari. Un’iniziativa caratterizzata da un considerevole lavoro di ricerca di quei valori che fanno parte della cultura della nostra terra attraverso la riscoperta dei testi, delle testimonianze giunte fino a noi nei decenni passati che si mescolano armoniosamente con i brani musicali dalle sonorità tipicamente dell’isola.
Brigata SS VANNI 1

Aspettando la primavera, aspettandola…

Affittasi monolocale panoramico monolocale LLsedia di Van0nitola

L’ulivo fa paura. Che rappresenti la pace?

Palestina. Una vicenda apparentemente marginale che mostra al mondo la repressione israeliana nei confronti del popolo palestinese.Tola 1 1o mar15tola 2 10 mar 15
sedia di Vannitoladi Vanni Tola
Viviamo tempi difficili. La pace è continuamente minacciata da conflitti in atto, strategie folli dei potenti della terra che perseguono forsennati propositi di conservazione o estensione delle loro politiche di dominio sui popoli, i territori e le differenti aree di appartenenza. Importanti questioni storiche da sempre aperte, grandi conflitti apparentemente insanabili che segnano le nostre esistenze. Abitanti del pianeta Terra costretti quotidianamente a prendere atto dalla sostanziale impotenza dei singoli nel concorrere alla costruzione di un mondo migliore. In tale contesto colpiscono e fanno male alcune notizie, solo apparentemente marginali, sulle quali non si riflette mai abbastanza. A chi può nuocere una pianta di ulivo? Una delle più belle piante al mondo, capace di vivere migliaia di anni, che ci dona con generosità le olive e l’olio, alimenti preziosi. Può davvero rappresentare una minaccia per qualcuno una pianta d’ulivo? Una notizia Ansa da Ramallah datata nove Marzo. “Le forze di sicurezza israeliane hanno sradicato circa 300 alberi di ulivo nel villaggio palestinese di Salem, Nablus, nel nord della Cisgiordania. Lo ha detto alla stampa locale il direttore dell’ufficio coordinamento civile del distretto di Nablus Luay al-Saadi. Gli ulivi sradicati – ha spiegato – erano situati nelle vicinanze dell’avamposto illegale israeliano di Havat Skali”. Tutto qui, semplicemente tutto qui, come è tipico dei lanci delle agenzie di stampa. Si tratta soltanto di trecento piante di ulivo in fondo. Ma provate a pensare alla povertà di un popolo martoriato e oppresso, espropriato di tutto e principalmente della dignità, della libertà, del proprio territorio, che non ha neppure il diritto di scavare trecento buche nel terreno per mettere a dimora altrettanti alberi di ulivo che potrebbero concorrere al loro sostentamento. Pensate alla fatica dell’uomo nel preparare il terreno e scavare le profonde buche, alle difficoltà per innaffiare le piante in modo adeguato, alla cura nel coltivarle e vederle crescere, alle speranze di ottenere un buon raccolto. Pensate poi alla violenza degli occupanti protagonisti di una spietata occupazione che, armi alla mano, ordinano a un manipolo di lavoratori di sradicare le innocue piante e distruggerle in nome di imprecisate motivazioni riguardanti la sicurezza. La loro sicurezza di occupanti. L’albero d’olivo, una delle più belle piante al mondo, che diventa, nelle menti perverse degli occupanti, un pericolo, quasi fosse un missile puntato contro gli avversari. Pensate poi alla rabbia, talvolta manifestata, talvolta repressa o contenuta dei contadini che avevano riposto tante speranze di vita e di riscatto nella realizzazione del piccolo oliveto. Strano mondo questo, un mondo che ha paura delle immagini, delle opere d’arte, dell’istruzione delle donne, dei libri, delle matite dei disegnatori e degli alberi di ulivo. Proviamoci a restare umani, ma è molto difficile.
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Gianni Rodari
Le cose di ogni giorno raccontano segreti
A chi le sa guardare ed ascoltare.
Per fare un tavolo ci vuole il legno
Per fare il legno ci vuole l’albero
Per fare l’albero ci vuole il seme
Per fare il seme ci vuole il frutto
Per fare il frutto ci vuole un fiore,
ci vuole un fiore, ci vuole un fiore,
per fare un tavolo ci vuole un fiore

8 marzo

GLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413con gli occhiali di Piero…
8 MARZO
Lo so che giorno è oggi.
Il giorno che tanti maschi si nascondono dietro un mazzolino di mimose.
Bisognerebbe ridargliele indietro.
—————————————————— La tavolozza di Licia
Teodora LLDONNE IMPORTANTI: L’Imperatrice Bizantina Teodora come appare nei mosaici della basilica di San Vitale di Ravenna (VI sec.). A quel tempo Ravenna, insieme con l’Esarcato e la Pentapoli, era parte dei possedimenti bizantini in Italia. (Anche la Sardegna, allora, ne era parte).
Teodora quadro LL- L’Imperatrice Teodora, moglie di Giustiano, imperatore d’ Oriente (Bisanzio). Teodora venne incoronata nel 547: aveva 20 anni meno di Giustiniano ed era di umili origini. Figlia del guardiano degli animali dell’Ippodromo, alla morte del padre si guadagnò da vivere esercitando il mestiere di danzatrice, acrobata e, forse, cortigiana. Procopio di Cesarea ne dice peste e corna. Giustiniano si innamorò pazzamente di lei e nonostante il parere fortemente contrario dell’Imperatore in carica Giustino II e soprattutto di sua moglie Eufemia, la prese prima come amante e, divenuto imperatore, con una modifica alle leggi vigenti, che escludeva questo genere di persone dalla possibilità di sposare un patrizio, la sposò e la fece incoronare imperatrice. In realtà Teodora fu un’ottima consorte e intelligente compagna: collaborò alla revisione della legislazione romana e trattò abilmente la questione delle controversie religiose tra monofisiti e ortodossi. Ebbe due figli, Giovanni e Teodora. Morì ancora giovane. Con Giustiniano costituì una perfetta diarchia.
Il ritratto di Teodora è del pittore Benjamin Constant (Parigi, 10 giugno 1845 – Parigi, 26 maggio 1902).
————————————————————————– Bomeluzo 8 marzo
8 marzo 2015 bomeluzoWe_Can_Do_It! USA
———————segue in intervista a Teodora

Tra storia e mito, il romanzo come opportunità

stendardo di LepantoLa Relazione è stata elaborata per l’iniziativa “Alla ricerca della storia perduta”. La storia vera di Diego Henares de Astorga di Nicolò Migheli Hombres Y Dinero di Pietro Maurandi Le Carte del re di Pietro Picciau sono i tre romanzi che hanno animato il II° secondo appuntamento organizzato dalla Delegazione e dal FAI Giovani di Cagliari con la Presidenza regionale FAI lunedì 2 marzo 2015 alla Fondazione Banco di Sardegna via S. Salvatore da Horta, Cagliari.

di Nicolò Migheli

Nell’incontro precedente “Alla ricerca della storia perduta”, Vindice Lecis sosteneva che spesso il romanzo storico si nutre di dettagli, di particolari che a volte vengono trascurati dagli storici di professione. Nel caso del mio romanzo cinquecentesco è stato così, però solo in parte. Proprio in questi giorni si celebra il centenario della costituzione della brigata Sassari, un reparto militare composto interamente da sardi che si sacrificò sui fronti della Prima Guerra Mondiale.

L’epica della Brigata ha avuto due ragioni, la prima trasformare lo stigma lombrosiano sui sardi da “etnia delinquente” in “etnia combattente”; la seconda come catalizzatore del nostro riconoscimento in nazione, diventando una delle ragioni principali delle rivendicazioni autonomistiche. Grande storia e storia locale che si intrecciano creando mito in cui riconoscersi. Prima della Brigata, un altro reparto ha segnato l’immaginario dei sardi, il tercio de Cerdeña. Secondo la tradizione unità militare composta interamente da sardi, con quattrocento archibugieri imbarcati nell’ammiraglia Real di don Juan de Austria, avrebbe guadagnato la vittoria contro Alì- Paschà a Lepanto nel 1571 determinando l’esito dello scontro. Battaglia a cui partecipò anche Cervantes riportandone un braccio dilaniato da una proiettile turco.

L’aver contribuito ad un evento epico per le sorti della cristianità nel Mediterraneo, l’aver bloccato il pericolo ottomano, fu motivo di orgoglio per le èlite sarde; quel fatto d’arme sconfessava ai loro occhi la loro marginalità percepita, e quella della Sardegna. I fatti sono riportati da Salvador Vidal nel 1636 in Annales Sardinae, riprendendo la cronica dello spagnolo Jeronimo de Costial, il quale riferì che nell’ottobre del 1571 la flotta spagnola di rientro da Lepanto fece tappa a Cagliari , e che un corteo di soldati sardi e di popolo, portò in trionfo nella chiesa di San Domenico la bandiera del tercio, deponendola nella cappella di Nostra Signora del Rosario. Stendardo oggi conservato nella sagrestia di quella chiesa.

Peccato che non sia una bandiera con le insegne di Filippo II, croce borgognona rossa in campo giallo, bensì uno stendardo con le barre catalane. – Visto che siamo ospiti di una fondazione bancaria, faccio appello affinché il Banco di Sardegna stanzi un finanziamento per il restauro di quelle insegne, oggi sono in condizioni pietose, esposte alla luce stanno per scomparire i colori ed il tessuto si sta stramando -

Il mito del primo tercio, percorse la storia sarda, ne parlarono lo stesso Lussu ed altri. Qualche anno fa Gian Paolo Tore dopo lunghe ricerche negli archivi di Madrid e Barcellona, pubblicò con il Cnr uno studio accurato sulle vicende di quel reparto che ebbe vita brevissima: dal 1565 al 1568. La ricerca rivelò che il tercio de Cerdeña, composto esclusivamente da soldati nativi di Spagna, aveva combattuto in Corsica, Malta e Fiandre e che poi era stato sciolto per ignominia dopo il saccheggio ed incendio di Jemmingen nei Paesi Bassi, villaggio forse protestante, ma facente parte dei domini di Filippo II.

Il duca d’Alba, comandante dell’esercito imperiale, si vide costretto a punire il reparto e chi si era macchiato del delitto. Se sardi hanno combattuto a Lepanto, non potevano essere certo inquadrati in quel tercio. Vi fu un secondo tercio de Cerdeña, reclutato negli anni Trenta del Seicento dal marchese di Sedilo che operò in Fiandre, quello sì totalmente composto da sardi. L’unico contatto, oltre alla denominazione, tra il primo tercio e la nostra isola, è il suo acquartieramento nel’inverno del 1565 in Stampace. La permanenza non fu facile. I soldati spagnoli si rifiutarono di onorare i contratti di affitto delle case, pretesero sconti nell’acquisto dei viveri, spesso non pagandoli. Si ebbero scontri continui con gli stampacini che non faticarono molto a tenere alta la loro fama di essere “cucurus cotus”, teste calde incline alla rissa.

Il Cinquecento sardo non ha prodotto solo il mito del tercio, è anche fonte di uno stigma negativo diventato presto autostigma. È il noto “pocos locos y mal unidos”. Attribuito a Carlo V, in realtà forse scritto in una lettera ad un amico spagnolo dal vescovo di Cagliari Parraguez de Castellejo. Il prelato per ragioni politiche venne denunciato all’Inquisizione come protestante. Accusa da cui venne scagionato. Parraguez de Castellejo se mai scrisse quelle parole, si riferiva ai nobili di Cagliari, tutti di origine spagnola, non certo ai sardi naturals che ai suoi occhi, come a quelli di qualsiasi aristocratico del tempo, non contavano nulla. Potenza però delle parole, se ancora oggi in molti le vogliono come tratto caratteristico dell’essere sardi. In realtà noi non siamo né locos, né mal unidos, più di altri. Tutti i fenomeni di solidarietà reciproca e le iniziative comunitarie del nostro tempo lo dimostrano.

Scrivere romanzi storici è imbattersi nel mito, è far dialogare personaggi reali con quelli di finzione, con il risultato che anche chi è vissuto allora diventa personaggio da romanzo, e quello creato dallo scrittore personaggio “storico”. Entrambi protagonisti di vicende coeve. Nel caso del Cinquecento poi, la ricchezza di documentazione, gli studi fatti da storici di professione, permettono di calarsi anche nel loro pensiero; capirne la quotidianità, le relazioni, il loro porsi davanti al mondo. In fin dei conti erano moderni, non molto lontani da come siamo noi. Il romanzo permette di sfatare il luogo comune della marginalità della Sardegna allora facente parte dell’impero più grande del mondo, dove non tramontava mai il sole. Il racconto permette di capire che si era centrali, terra di confine nella faglia tra cristianesimo ed islam. Tema tragicamente d’attualità se, proprio oggi, Domenico Quirico sulla Stampa scrive dell’Isis intitolando l’articolo sul ritorno della Storia nel Mediterraneo.

La Sardegna di quegli anni era dentro il pensiero europeo, anche nella nostra terra vi era un piccolo movimento protestante, filiazione degli Alumbrados valenziani, bruciato dall’Inquisizione di Diego Calvo. Allo stesso tempo la tragica vicenda di Sigismondo Arquer rivela il suo legame con i circoli luterani di Basilea. Il filo rosso delle vicende di Diego Henares de Astorga è racconto di allora che serve all’oggi. Serve a capire ad esempio la multiculturalità, lo scontro tra classi, le forme del potere e del clientelismo. Temi del Cinquecento e temi di oggi. Se le vicende sono inserite in un romanzo d’avventura, un feuilleton scritto oggi, vi è anche la presunzione dell’autore che ricerche di carattere specialistico diventino accessibili anche al grande pubblico. In fin dei conti un tentativo di costruire un’epica per una terra che se n’è privata, una piccola pietra nell’edificio di un immaginario collettivo.

Per fare ciò occorre anche demitizzare, dando ai fatti lettura positiva senza indulgere nella vanagloria, evitando comunque di accarezzare quei sentimenti di impotenza e di risentimento che sono da sempre così popolari tra di noi. Se il romanzo può essere utile, ben venga. È chiaro che sono di parte, ma è quel che penso indipendentemente dall’essere anche l’autore di La storia vera di Diego Henares de Astorga.

D’altronde il tempo degli intellettuali organici non è ancora tramontato sul Mar di Sardegna. Per fortuna.
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Sardegna-bomeluzo22
* L’articolo di Nicolò Migheli viene pubblicato anche sui siti di FondazioneSardinia, Vitobiolchini, Tramasdeamistade, Madrigopolis, Sportello Formaparis, Tottusinpari e sui blog EnricoLobina e RobertoSerra, SardegnaSoprattutto.
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Emilio Lussu

(Armungia, 4 dicembre 1890 – Roma, 5 marzo 1975)
Federalismo e pacifismo: il messaggio di Lussu a 40 anni dalla sua morte
Emilio Lussu dip Foiso Fois
di Francesco Casula
Oggi 5 marzo ricorre il quarantesimo anniversario della morte di Emilio Lussu. Ebbene in Sardegna, la sua terra, nessuna pubblica istituzione né partito pare che intenda ricordarlo. Gli è che i politici – ma anche le istituzioni culturali, le Università per esempio – sono impegnati in ben altri riti. Lussu rimane ancora un personaggio “scomodo” e disadatto ad ogni incorporazione storica dei vincitori, anche post mortem. Così, anche quando lo si celebra e lo si ricorda, si cerca di sterilizzare il suo pensiero, la sua eredità morale, politica e persino letteraria. E’ successo così negli ultimi decenni, in cui dopo anni di colpevole silenzio, molti, troppi in Sardegna si sono scoperti e riconosciuti “sua figliolanza” (l’espressione è della moglie Joyce). Magari quelli stessi che in vita hanno combattuto Lussu e le sue idee. Ed hanno cercato, tutti, di tirare Lussu per la giacchetta, cercando di “convertirlo”, di purgare le parti più scomode del suo pensiero, per mitizzarlo e imbalsamarlo. Una volta sterilizzato e ridotto a “santino”, innocuo e rassicurante, si può anche “mettere nella nicchia” (anche quest’espressione è di Joyce) per diventare dio protettore dei sardi e della Sardegna.
Si dimenticano costoro chi era Lussu, uomo di parte. Sempre dalla parte del popolo lavoratore sardo, pacifista e federalista, nemico giurato dello Stato burocratico e accentratore, degli ascari e mediatori locali e delle clientele, della politica ridotta a mera gestione del potere. Nel 1945, quando era Ministro del Governo Parri, Vittorio Foa suo compagno di partito, una volta andò a chiedergli di mettere una firma sotto un’autorizzazione per aiutare finanziariamente il suo Partito. Lussu rispose: “puoi chiedermi di montare a cavallo ed andare in via Nazionale a rapinare l’oro della Banca d’Italia e io, per il Partito, lo faccio subito. Ma mettere una firma sotto una cartaccia mai!” Questo era Lussu, sempre e non solo nel 1945. Rientrato nel 1919 dal fronte, viene trattenuto in servizio di punizione alla frontiera iugoslava per aver dimostrato che un generale si era arricchito vendendo cavalli e altri beni dell’esercito. Una bella lezione a molti politici di oggi, immersi nell’affarismo e nella melma della corruzione.
Scomodo è anche il suo lascito ideale, culturale e di pensiero: ad iniziare dalla sua teoria federalista che si coniuga in modo inscindibile con i valori forti della libertà e dei diritti, della democrazia diretta e dell’autogoverno, della partecipazione e del controllo popolare. Scrive in un saggio del 1933, pubblicato nel n. 6 di «Giustizia e Libertà»: ”Frequentemente accade di parlare con uno che riteniamo federalista perché si professa autonomista e scopriamo invece, che è unitario con tendenze al decentramento”.
E precisa: ”Ora la differenza essenziale fra decentramento e federalismo consiste nel fatto che per il primo la sovranità è unica ed è posta negli organi centrali dello Stato ed è delegata quando è esercitata dalla periferia; per l’altro è invece divisa fra Stato federale e Stati particolari e ognuno la esercita di pieno diritto”. Quando Lussu parla di sovranità “divisa” fra Stato federale e Stati particolari – o meglio federati, aggiungo io – di “frazionamento della sovranità”, pensa quindi alla rottura e alla disarticolazione dello stato unitario “nazionale” che deve dar luogo a una forma nuova di Stato di Stati, in cui “per Stati non si intendono più gli Stati nazionali degradati da Enti sovrani a parti di uno stato più grande, ma parte o territori dello stato grande elevati al rango di stati membri”: l’intera frase virgolettata è tratta da «Federalismo» di Norberto Bobbio, «Introduzione a Silvio Trentin».
In questo modo il potere sovrano originario e non derivato spetta a più Enti, a più Stati e perciò scompare la sovranità di un unico centro, dello stato come veniva concepito nell’Ottocento – che Lussu critica in quanto “unica e assorbente” – di un unico potere e soggetto singolare per fare capo a più soggetti e poteri plurali. Con questa impostazione Lussu supera il concetto di unipolarità con cui si indica la dottrina ottocentesca in cui libertà e diritto fondano la loro legittimità solo in quanto riconducibili alla fonte statale. Quella su Federalismo è un’altra lezione a chi oggi, lungi da imboccare la strada della riforma dello Stato in senso federalista, attacca le Autonomie locali e, delirando, pensa all’abolizione delle Regioni, per ritornare a uno Stato centralista e centralizzatore.
Infine il suo Pacifismo. Interventista convinto e “chiassoso”, parteciperà alla Prima Guerra con entusiasmo, giustificandola “moralmente e politicamente”. Al fronte però sperimenta sulla propria pelle, l’assurdità e l’insensatezza della guerra: con la protervia e stupidità dei generali che mandano al macello sicuro i soldati; con i pidocchi, i miliardi di pidocchi, la polvere e il fumo, i tascapani sventrati, i fucili spezzati, i reticolati rotti, i sacrifici inutili. Ma soprattutto con l’olocausto degli uomini sfracellati e le foreste di crani nei cimiteri militari; con i 13.602 sardi morti su 100 mila pastori, contadini, braccianti chiamati alle armi: i figli dei borghesi, proprio quelli che la guerra la propagandavano come “gesto esemplare” alla D’Annunzio per intenderci o, cinicamente, come “igiene del mondo” alla futurista, alla guerra non ci sono andati..
Scriverà a questo proposito Camillo Bellieni, compagno d’armi prima e di Partito poi, di Lussu:”Chi accennasse a selvagge passioni brulicanti nel nostro sangue nel tragico istante della mischia non avrebbe altra scusa per il suo errore che l’immensa ignoranza delle nostre cose. Giudizi simili possono essere dati solamente da coloro che non hanno visto l’infinita tristezza dei nostri soldati nell’ora precedente all’azione”.
La retorica patriottarda e nazionalista, vieta e bolsa, sulla guerra come avventura e atto eroico, va a pezzi. “Abbasso la guerra”, “Basta con le menzogne” gridavano, ammutinandosi con Lussu, migliaia di soldati della Brigata Sassari il 17 Gennaio 1916 nelle retrovie carsiche, tanto da far scrivere allo stesso Lussu – in «Un anno sull’altopiano»“Il piacere che io sentii in quel momento, lo ricordo come uno dei grandi piaceri della mia vita”. Anche perché, in cambio dei 13.602 sardi morti in guerra, (1386 morti ogni diecimila chiamati alle armi, la percentuale più alta d’Italia, la media nazionale infatti è di 1049 morti) – per non parlare delle migliaia di mutilati e feriti – ci sarà il retoricume delle medaglie, dei ciondoli, delle patacche. Ma la gloria delle trincee – sosterrà lo storico sardo Carta- Raspi – “non sfamava la Sardegna”.
Nascerà dalla sua esperienza sul fronte l’opposizione netta, radicale, decisa di Lussu alla guerra:” Di guerre non ne vogliamo più – scriverà – e vogliamo collaborare e allontanare la guerra vita natural durante nostra e dei nostri figli e a renderla impossibile per sempre, disarmandola”. Chi vuole la guerra, secondo Lussu, è chi non la conosce, parafrasando in qualche modo il seguente apoftegma:”Chi ama la guerra non l’ha mai vista in faccia” (Erasmo da Rotterdam, «Adagia, Sei Saggi politici in forma di proverbi», Einaudi, Torino 1980).
Una lezione pacifista, quanto mai attuale e opportuna, specie in un momento in cui nuove inquietanti fosche e minacciose avvisaglie di guerra sembrano apparire nell’orizzonte.
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Emilio Lussu Ed 5 3 15
Emilio Lussu
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Vittorio Foa
Il mio ricordo di Lussu
Ciao Lussu, poeta in armi

Scritto da Vittorio Foa nel marzo 1975 per il Manifesto

Emilio Lussu ha avuto il singolare destino di convivere con la sua leggenda. E questo non solo per essere morto in età tarda, dopo essersi chiuso per anni in un silenzioso ritiro carico di dignità pari alla dignità che segnò tutta la sua vita. La leggenda di Emilio Lussu è nata nella sua giovinezza, nei suoi anni trenta e lo ha accompagnato fino alla morte: l’organizzatore di pastori, pescatori, minatori e contadini, il politico eminente, lo studioso, lo scrittore di successo, il parlamentare ascoltato, l’uomo pratico e concreto legato alle normali vicende della vita di ogni giorno, appariva contemporaneamente, nella luce della sua leggenda, come un solitario guerriero, come un paladino capace di affrontare e di mettere in fuga torme di infedeli.

E’ forse possibile, sia pure in modo sommario, cercare le origini della leggenda di Lussu e scoprire che essa non contraddice minimamente la figura di Lussu uomo del suo tempo. La prima radice della leggenda sta indubbiamente nello scontro fisico coi fascisti che egli, consapevolmente volle affrontare da solo nella sua casa di Cagliari. Lussu sapeva, per informazioni sicure, che gli squadristi avrebbero assalito la sua casa di notte, con intenzioni omicide. Nella calma più perfetta si preparò. Rifiutò, con una saggezza da vecchio patriarca, lui che aveva solo trentacinque anni, di chiedere aiuto alla polizia che sapeva complice dei fascisti, congedò la vecchia governante, si armò e attese da solo gli aggressori. Quando essi arrivarono e trovando sprangato il portone entrarono dalle finestre con delle scale, Lussu uccise freddamente il primo che si affacciò mettendo in fuga la torma. Si tratta di un singolo episodio, in mezzo a molti altri di indomito coraggio nella lotta contro il fascismo avanzante.

Perché allora esso ha segnato così profondamente la coscienza dei giovani antifascisti militanti? In realtà non si tratta di un dato caratteriologico, di un semplice esempio di coraggio. Si tratta di un dato più profondo che attinge alla sfera ideologica. Lussu ha deciso di affrontare lo scontro fisico, e probabilmente mortale, da solo. Egli negava in un sol colpo tutta la realtà che lo circondava fatta di compromessi e capitolazioni e rinunce, una realtà di ripieghi e pretesti per non battersi, per giustificare prima l’inerzia e poi la subordinazione al nemico. Egli illustrava quella sera, meglio che con un trattato di etica politica, che quando il destino ti mette di fronte al nemico per agguerrito che esso sia non puoi voltare le spalle. Vivere questo imperativo da solo, in una condizione limite, è solo un modo, peraltro molto efficace, di proporla al livello di massa.

La leggenda di Lussu ha anche un’altra radice. Il giovane capitano della brigata Sassari, che torna alla sua isola dopo una sanguinosa esperienza di trincea, raccontata in un libro di sconvolgente bellezza «Un anno sull’altipiano», si fa organizzatore di pastori e pescatori, di contadini poveri e di minatori, si fa assertore di giustizia e di autonomia in una società oppressa dall’ingiustizia e dal centralismo statale. Che importa se la sua dottrina non è il marxismo, ma un radicalismo piccolo borghese? Il marxismo del suo tempo era intriso di determinismo delle forze produttive, per cui solo una classe operaia industriale sviluppata può agire in modo rivoluzionario, e anche di massimalismo pure esso operaistico. Solo Gramsci, pure lui sardo apriva allora un discorso nuovo, Salvemini aveva da tempo rinunciato al socialismo.

Lussu era dunque un socialista «diverso»; per lui la rivoluzione non nasceva solo dalla concentrazione capitalistica e dalle grandi fabbriche, ma anche dalla condizione contadina del mezzogiorno e delle isole. In questo senso Lussu si ricollegava all’epopea dei fasci siciliani, che il partito socialista aveva ripudiato, abbandonandoli alla reazione borghese e scegliendo l’alleanza con la borghesia industriale avanzata. Il fondatore del Partito sardo di azione poté poi, nel lungo corso della sua vita, rivendicare il suo socialismo, pur diverso perché sostanziato di autonomia e di iniziativa contadina. La continuità militare-contadina e la «diversità» della sua organizzazione politica di massa contribuirono certo alla leggenda di Lussu, così come la potente immaginazione di cui caricò sempre il suo linguaggio e la sua azione politica. Proprio perché diverso, perché autonomista e contadino, Lussu era impermeabile a qualsiasi infiltrazione riformistica, assai più dei suoi giovani compagni di sinistra operaisti e industrialisti. Proprio per quello Lussu ruppe col Partito socialista al tempo del centrosinistra, ma nella sinistra socialista come poi nel Psiup mantenne una notevole indipendenza di giudizio. Ancora una volta leggenda e vita normale sono due facce di una unica esperienza.

L’immaginazione di Emilio Lussu! Anche questa non era un semplice dato di carattere. Anche quando il suo discorso sembrava echeggiare toni e ritmi guerrieri e feudali, o persino tribali, comunque sempre legati alla storia e ai costumi precapitalistici della sua terra, l’immaginazione di Emilio Lussu era una forza moderna, era il rifiuto dei canoni banali e sterili delle istituzioni burocratiche della democrazia borghese, era l’invito a non separare la politica come tecnica dalla poesia come ricerca e creazione di nuovi modi di lavoro e di vivere. Dopo il 18 aprile 1948 il poeta Lussu poteva, in un famoso discorso al Senato, raccontare la storia di quella vittoria democristiana come la vittoria della cristianità a Lepanto nel 1571 con De Gasperi nei panni dell’ammiraglio Don Giovanni d’Austria e Togliatti in quelli di Alì Pascià. Non era un semplice scherzo, era il tentativo, pur in veste poetica, di smascherare un imbroglio ideologico.

Vorremmo ricordarne altre, fra le numerose «immagini» politiche create da Lussu per caratterizzare un giudizio oppure una iniziativa. Anche quando erano dure, la carica di ironia contribuiva ad addolcirle, a trasformare la polemica in un insegnamento. Basta qui un solo episodio. Nel settembre 1945, quando Lussu era ministro nel governo Parri, chi scrive andò a chiedergli, per aiutare finanziariamente il partito di cui entrambi facevano parte, di mettere una firma sotto una autorizzazione, cosa consueta nel sottobosco politico del tempo. Lussu rispose: «Compagno, puoi chiedermi di montare a cavallo e andare in via Nazionale a rapinare l’oro della Banca d’Italia e io – per il partito – lo faccio subito. Ma mettere una firma sotto una cartaccia, giammai». Nell’irrealismo dell’immagine il poeta riusciva a cogliere e giudicare la squallida realtà del mondo in cui ci avvolgevamo e ad avanzare, almeno come ipotesi, un mondo diverso.
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Vittorio Foa ed 5 3 15
Vittorio Foa
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[Foto 1. Archivio Corriere della Sera, 2. Archivio Rai, riprese dal blog del Circolo Giustizia e Libertà di Sassari]
Emilio-Lussu-ad-Armungia
- Emilio Lussu su Aladinews
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Una riflessione sull’Islam che non si fermi all’emotività determinata dagli episodi di fanatismo integralista

La sedia
sedia-van-gogh4di Vanni Tola
Otto e mezzo, la nota e brillante trasmissione condotta da Lilli Gruber, ha trattato recentemente il tema della paura dell’Islam, di grande attualità sui media italiani. La Islam spiegato ai figli coverscelta dell’ospite principale è stata quanto mai azzeccata. Tahar Ben Jelloun, di origine marocchina, poeta, romanziere e giornalista molto noto in Italia per i suoi numerosi libri, tra i quali cui Creatura di sabbia, 1987; L’amicizia, 1994; Corrotto, 1994; L’ultimo amore è sempre il primo? 1995; Nadia, 1996; Il razzismo spiegato a mia figlia, 1998 (giunto alla quarantottesima edizione e ripubblicato nel 2010 in una nuova edizione accresciuta); L’estrema solitudine, 1999; L’albergo dei poveri, 1999; La scuola o la scarpa, 2000; L’Islam spiegato ai nostri figli, 2001; Il libro del buio, 2001 (International IMPAC Dublin Literary Award 2004); Jenin, 2002; Amori stregati, 2003; L’ultimo amico, 2004; La fatalità della bellezza, in Amin Maalouf, Tahar Ben Jelloun, Hanif Kureishi, Notte senza fine, 2004; Non capisco il mondo arabo, 2006; Partire, 2007; L’uomo che amava troppo le donne, 2010; La rivoluzione dei gelsomini, 2011; Fuoco, 2012; L’ablazione, 2014. Applicando una pessima consuetudine ormai consolidata, anche lo staff della trasmissione Otto e mezzo, non ha saputo rinunciare a contrapporre all’illustre ospite qualcuno che rappresentasse opinioni differenti da quelle che avrebbe espresso Tahar Ben Jelloun. Fin qui poco male se l’interlocutore contrapposto all’ospite principale si fosse rivelato all’altezza del compito e avesse concorso a mettere in evidenza opinioni e valutazioni differenti sull’Islam. Purtroppo quando si tratta di Islam e immigrazione, i media televisivi non hanno una grande scelta, la loro lista comprende il solito Salvini e pochi altri di pari spessore culturale. Accade cosi che, a dialogare con uno dei maggiori intellettuali islamisti si invita l’immarcescibile Daniela Santachè che, come da copione, esibisce il massimo del suo bagaglio culturale citando i soliti slogan anti islam, alcune affermazione della resuscitata Oriana Fallaci e amenità simili. Mettendo peraltro a dura prova perfino la pazienza dello scrittore che tenta con garbo e determinazione di illustrare le proprie argomentazioni. Ne nasce un delizioso siparietto degno dei migliori blog tra la Santanché e il giornalista del fatto quotidiano Scanzi che, senza mezzi termini la accusa pubblicamente di palese ignoranza sull’argomento trattato. Molto interessante invece e, nonostante tutto, si rivela l’intervento dello scrittore Jellloun che, presentando il suo ultimo lavoro, L’Islam che fa paura ed. Bompiani, offre a noi occidentali numerosi spunti di riflessione sulla nostra scarsa conoscenza dell’Islam, sugli errori commessi dalla comunità dell’occidente nel rapportarsi alla questione araba, sui danni provocati dagli interventi militari che hanno devastato gran parte dei paesi medio orientali senza riuscire a favorire in alcun modo l’evoluzione di un mondo, quello islamico, che vive gravi e specifiche contraddizioni. Numerosi gli interrogativi di fondo ai quali l’opera dello scrittore tenta di dare risposte. Attualmente, dopo le minacce, le parole d’ordine e le stragi dell’estremismo islamico si può non temere l’Islam? È questo timore è un timore giustificato? Ma, soprattutto, l’Islam è davvero, per sua natura, violento e antidemocratico come molti lo dipingono cavalcando l’onda emotiva suscitata dagli avvenimenti recenti? Tahar Ben Jelloun propone delle considerazioni che dovrebbero aiutarci a comprendere meglio ciò che ci accade intorno, ai confini del nostro mondo. Intanto ci invita a rilevare che la maggior parte dei terroristi che si sono resi protagonisti di gravi episodi di violenza non sono personaggi paracadutati sull’occidente o sbarcati dai barconi della disperazione bensì cittadini con passaporti e residenza nei paesi europei, raggiunti e motivati dalla propaganda e dal proselitismo del cosiddetto Califfato. Personaggi che, a tutt’oggi, non hanno esitato a uccidere e terrorizzare, oltre gli “infedeli” dell’occidente, anche moltissimi mussulmani. L’autore del libro si sofferma, infatti, anche sullo sdegno della gran parte dei mussulmani (solitamente definiti moderati con una definizione che egli definisce poco appropriata) che si trovano a dover fare i conti con un fondamentalismo che deturpa la vera fede in Allah. L’Isis riesce a reclutare seguaci fra i più giovani e fragili, fra gli emarginati sempre più disorientati dalla mancanza di lavoro e di prospettive di vita accettabili, dalla miseria materiale e morale che chiama in causa anche le responsabilità di noi occidentali, spesso indifferenti ai gravi disagi degli immigrati di prima e seconda generazione che popolano le nostre città. L’Islam che fa paura suggerisce delle risposte, sviluppa delle analisi, si presenta come un libro di riflessione ma anche di lotta e di resistenza. Una riflessione sull’Islam che riesca a superare e prescindere valutazioni fortemente limitate dall’emotività determinata da recenti episodi di fanatismo integralista.

La pubblicità… pericolosa tentatrice e (non sempre) un’arte, autonoma dai prodotti che offre. E molto di più

Curiosando...sedia-van-gogh4di Vanni Tola
Le pubblicità è da sempre compagna fedele della nostra vita. Per molti è soprattutto un fastidio. In realtà è una forma d’arte con un passato glorioso. – leggi tutto -
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Parliamone su Aladinpensiero, sui siti amici e sulle nostre pagine fb.
Attiviamo un piccolo “forum” tra i nostri pochi o molti lettori per raccontare come ciascuno di noi vive o percepisce il messaggio pubblicitario, su quale influenza tale forma di comunicazione abbia avuto e abbia tuttora sulla nostra esistenza e su quella dei nostri familiari. Forse ci aiuterebbe a comprendere meglio, per esempio, perché i bambini spesso si incaponiscano per ottenere un determinato prodotto anziché un altro, senza conoscerne minimamente le caratteristiche merceologiche. Quale è la molla che genera la granitica convinzione che quel determinato prodotto, e soltanto quello, potrà soddisfare al meglio un loro bisogno? Per non parlare poi degli effetti meno gradevoli della comunicazione pubblicitaria che pure ci riguardano. Certa pubblicità eccessivamente insistente relativa alla vendita di divani super scontati, l’offerta di materassi particolari o di strabilianti box doccia che dovrebbero sostituire le vecchie vasche da bagno. Sarebbe pure interessante raccontare le proprie reazioni quando dal televisore di casa, invitato permanente delle nostre riunioni conviviali, qualcuno ci intrattiene descrivendo prodotti fenomenali per sciogliere il mucco e il catarro o per curare le gengive che sanguinano. Ne vogliamo parlare?
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La pubblicità… pericolosa tentatrice e (non sempre) un’arte, autonoma dai prodotti che offre. E molto di più

ragazzospolvera Ed ora: Pubblicità!
Carosello 2sedia-van-gogh4di Vanni Tola
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