Risultato della ricerca: Vanni Tola

Sugli immigrati arrivano proposte serie e percorribili nell’interesse loro e della Sardegna

sedia di Vannitola- Immigrazione: guardiamo in faccia la realtà. Non solo confusione, disinformazione e incitamento al razzismo. Dal dibattito emergono anche proposte serie e percorribili. E’ confortante, ma non basta. Occorre passare ai fatti: fare presto e bene!
lampada aladin micromicro
- Aladinews su “spopolamento e politiche di accoglienza”.
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Arbau Ollolai sindaco aladin(Da La Nuova Sardegna on line) Il sindaco di Ollolai, che aveva proposto l’idea delle case a 1 euro, attacca Maroni: «Solo demagogia»
Arbau: potrebbero rilanciare l’agricoltura
SASSARI «Tutti devono fare la loro parte per aiutare i profughi: Maroni fa solo provocazioni demagogiche». Efisio Arbau crede nel coordinamento tra Ue, Italia, Regioni, Comuni. E respinge con forza l’idea di una divisione nord-sud della questione migranti. «Potremo dare risposte adeguate solo affrontando l’emergenza in tutta la sua complessità», spiega il capogruppo di Sardegna Vera in consiglio regionale. Nei giorni scorsi ritornato sindaco di Ollollai, l’avvocato-pastore non ha dubbi sui doveri di solidarietà. Di recente balzato in primo piano per la proposta di consentire la vendita a 1 euro simbolico degli immobili abbandonati per favorire il ripopolamento delle zone interne, Arbau vede un domani gli immigrati come possibili co-protagonisti del rilancio di agricoltura e pastorizia. «Ma per il momento non mescolerei i due piani dell’assistenza immediata agli esuli e degli interventi per utilizzare al meglio case e terreni lasciati in uno stato di degrado», puntualizza. Perché è indispensabile un’azione congiunta in favore dei migranti? – segue -

Il PD cala, la destra tiene, il M5S li insidia. Proiezioni…

valutaz dirinnovadi Tonino Dessì

Veniamo da lontano…
Sulle elezioni avrei bisogno di rifletterci bene, per dire qualcosa con una certa convinzione.
Tuttavia un’impressione epidermica fa giustizia di molte nebbie accumulatesi in un anno.
Nel 1984, immediatamente dopo la morte di Berlinguer, il PCI superò la barriera del 30 per cento dei voti, alle elezioni europee e ci fu il sorpasso storico sulla DC, in un contesto di normalmente alta partecipazione complessiva alle urne. Nessuno tuttavia, sui media, si azzardò a sostenere che su quel dato potesse fondarsi una prospettiva politica stabile o un cambio automatico di governo. Esattamente un anno fa, invece, tutti, sui media, hanno cominciato a elaborare il mantra del 40 per cento di Renzi, ottenuto a elezioni europee in un contesto di montante, massiva astensione dal voto.
I media italiani distorcono non poco, nella loro ormai letale contiguità col sistema politico.
Oggi infatti ovviamente già tutti premettono, canonicamente, che questo esito elettorale, essendo locale, non potrà aver ripercussioni sulla tenuta del Governo. E certo così sarà, pur non avendo votato un italiano su due e avendo conseguito complessivamente le opposizioni un mare di voti in più dello schieramento ispirato dal Governo.
A proposito di astensionismo, la sinistra politica, quella emersa, cincischi poco sul risultato civatiano in Liguria (li, tanto, si ferma, non c’è da aspettarsi altro, se si considera il rapporto tra il risultato del candidato presidente e quello delle liste a sostegno). La stragrande parte della sinistra reale attualmente si astiene dal voto, piaccia o meno e nessuno dell’establishment storico ne riprenderà il consenso. Non siamo mica scemi.
Tra centro piddino e centrodestra berlusconiano e salviniano non darei per scontata in prospettiva la prevalenza del primo. Uniti quelli potrebbero vincere ancora. Certo, i media, soprattutto la TV pubblica, hanno cercato di lanciare Salvini come avversario di comodo per Renzi, ma sono bastati tre giorni di ritorno in TV di Berlusconi, anche lui ripescato per qualche cabala elettorale degli stranamore mediatici, per rivelare che la destra-destra è tutt’altro che spacciata.
Quello che in tanti temevano e temono, in realtà, dopo aver caldeggiato un Italicum ad usum delphini, è un futuro testa a testa tra PD e M5S. Aspettiamoci quindi un forte pompaggio dei temi più evocativi delle paure dell’italiano contemporaneo, per evitare che prossimi ballottaggi vedano il movimento di Grillo come presenza fissa e, non sia mai, vincente.
Eppure è il secondo partito: persino meritandolo poco, anche se, va detto, porcherie finora non ne ha fatto, in Parlamento e la scelta di non lasciarsi coinvolgere nel meteorico PD bersaniano e meno ancora in quello a geometrie variabili di Renzi non si è rivelata sbagliata.
Secondo partito tendenziale anche in Sardegna? Presto per dirlo. Certo segnali di crescita ce ne sono, basti pensare a Porto Torres.
Non posso dire che i grillini mi siano proprio simpatici, lo premetto: vengo da una storia troppo diversa.
Perciò è presto per pensare a cosa dirò per le elezioni importanti più vicine, come le amministrative di Cagliari, o cosa direi alle regionali, quando, come ha preannunciato lui stesso, Pigliaru non si ricandiderà e il centro-sinistra-sovranista sardo si presenterà senza veli.
Del resto nemmeno possiamo prevedere cosa sarà del locale centro-destra, quando troverà, se lo troverà un assetto leggibile, sul quale il suo giornale di riferimento si assesterà dopo aver giochicchiato un po’ a salve per irretire qualche indipendentista credulo.
Ma su schieramenti entrambi travestiti in berritta e cambales, attenti: potrebbe stavolta irrompere chi raccoglie il voto di gente che, a torto o a ragione, non si fida più degli uni, degli altri, ne’ dei rispettivi satelliti, ne’ degli alternativi comodi, magari in velluto a righine, da café literaire. E sarò se non altro curioso di vedere stavolta come va a finire.

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democraziaoggi loghettoanche su Democraziaoggi 1-6-2015
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fiore volatilesedia di Vannitoladi Vanni Tola
L’interesse del cittadino medio per il dibattito politico, pur in presenza di un’importante tornata elettorale, non va per la maggiore. Direi che non interessa proprio nessuno, forse pochi appassionati nostalgici. Difficile dare torto a quei milioni di italiani che, anche questa volta, esprimeranno con l’astensione la propria abissale distanza, il disinteresse e il disincanto per le scaramucce ideologiche in atto con al centro l’uomo solo al comando, Renzi e i suoi competitor. I più ottimisti sognano che a cambiare le cose nel paese possa essere l’influenza di accadimenti che si realizzano in altri paesi e allora eccoli li, tutti pronti a sperare, ad attendere che il miracolo Tsipras, la crescita di Podemos, la scelta laica dell’Irlanda riguardante i matrimoni gay, possano produrre un qualche benefico “effetto induzione” anche qui da noi pur in assenza di reali movimenti alternativi e di leader politici capaci di promuoverli e orientarli. La storia recente ci insegna che ciò finora non è accaduto e probabilmente non accadrà mai per sola induzione geografica. Per tutti gli altri, per coloro che ancora ritengono sia utile l’analisi politica, lo studio serio degli accadimenti politici come chiave di lettura e comprensione delle vicende in atto, suggerisco la partecipazione ideale a un importante dibattito in corso fra alcuni intellettuali storici della politica italiana. Un dibattito avviato dalla Fondazione Pintor Onlus con articoli di Roberto Musacchio, Valentino Parlato e Alfonso Gianni (che pubblichiamo). Buona lettura.

L’INTELLIGENZA DELLA TRISTEZZA
 di Alfonso Gianni – 28 maggio 2015
 
Vorrei inserirmi nella discussione che qui si è aperta per merito degli articoli pubblicati da Roberto Musacchio e da Valentino Parlato. Non servirà certo – è bene avvertire subito l’eventuale lettore – a squarciare quel velo di tristezza che avvolge entrambi gli scritti citati. Non posso dire di essere animato da particolari motivi di ottimismo. Proprio per questo i due articoli mi sono parsi da subito meritevoli di particolare attenzione. Perché sono privi di retorica e finalmente esprimono uno stato d’animo diffuso autentico, che, a sua volta, diventa un elemento politico non trascurabile nella nostra situazione.
Siamo alla vigilia di elezioni regionali certamente significative. Si voterà tra una manciata di giorni in sette regioni e tutta l’attenzione indotta dai mass-media è concentrata sul risultato finale, espresso in termini tennistici: sarà un 6 a 1, oppure un 4 a 3 e via dicendo. Nessuno sembra preoccuparsi e tenere in considerazione l’elemento che in ogni caso sarà il più rilevante di questa tornata elettorale amministrativa: la disaffezione al voto. Tutti i sondaggi fin qui consultabili indicano un ulteriore incremento dell’astensionismo. Dovessero sbagliarsi i sondaggi e le mie personali percezioni – magari! -, questa sì sarebbe allora la vera novità capace di proporre in una luce diversa il quadro politico e sociale del nostro paese.
Sì, perché non si può vivere solo di luce riflessa. I successi di Syriza, ora di Podemos ( e non solo ), come del referendum irlandese sui matrimoni gay ci riempiono di entusiasmo. Tommaso Nencioni in uno stimolante articolo pubblicato sul Manifesto, ricorda come ritorni in ballo il vecchio auspicio di Carlo Rosselli “Oggi in Spagna, domani in Italia”. Ma è niente altro che un dolce nostalgico richiamo o un wishful thinking che non trova riscontri reali nella nostra condizione. La verità è che da noi mancano non solo soggetti politici nuovi della sinistra, ma anche i movimenti hanno andamenti carsici o insediamenti troppo localistici che li configurano più come comunità in lotta che movimenti antisistemici complessivi.
Sperare che la vicenda spagnola influisca positivamente sulla imminente tornata elettorale italiana mi pare una pia illusione. Sia che a coltivarla sia il Movimento 5 stelle che, se troverà domenica una buona affermazione, non sarà certo per punti di somiglianza con Podemos – casomai con Ciudadanos, il movimento liberal democratico spagnolo –, ma per il protagonismo nell’opposizione a Renzi, qualunque sia il giudizio di qualità e di merito che si voglia dare sulle loro azioni. Sia che a nutrire una simile speranza siano le liste di cittadinanza – comprendenti anche i piccoli partiti della sinistra d’alternativa, ma non  tutti e non da tutte le parti -  che, con molta fatica, sono state messe in piedi.  La loro possibilità di  ottenere buoni risultati, che vadano al di là dei bacini elettorali preesistenti, è esclusivamente legata alla eventuale capacità di avere centrato qualche argomento che tocca e scuote la condizione concreta delle popolazioni locali. Le amministrative sono le amministrative. E’ tautologia, ma sembra che bisogna  ripetercelo ogni volta. Abbiamo già patito le delusioni della stagione dei sindaci arancioni, anche perché affidavamo loro capacità trasformative generali che mai avrebbero potuto fornire.
D’altro canto così si spiega il successo della sinistra spagnola, come ci dicono le analisi più accurate che sono seguite al voto. I migliori successi avvengono nelle città dove si è costruita una coalizione di forze politiche  e sociali. Se queste fossero andate divise o se le prime avessero preteso dalle seconde solamente il voto, anziché la partecipazione attiva alla costruzione del programma, della lista, dell’immagine complessiva da mettere in campo, i risultati sarebbero stati più scadenti.  
Non a caso ho parlato di sinistra spagnola, malgrado le nuove forze sembrano scartare lo stesso termine “sinistra” dalle proprie insegne, quasi fosse un relitto del passato aggrappandosi al quale si rischia di andare a fondo. Nessuno può avere dubbi sul carattere profondamente di sinistra della vittoria della coalizione catalana, per fare un esempio. Non solo perché le lotte sociali che l’hanno partorita, quelle contro gli sfratti, riproducono un conflitto più che classico fra proprietà privata e diritto all’abitazione – ne scrivevano già Marx e soprattutto Engels più o meno 150 anni fa -, ma perché la costruzione di senso che è stata perseguita muove tutta nella direzione dell’uguaglianza, il tratto assolutamente distintivo della sinistra, il clivage fra destra e sinistra come aveva scritto Norberto Bobbio 20 anni fa. Il conflitto fra destra e sinistra è stato tra i protagonisti nella contesa spagnola, accanto, ma non sorpassato, a quelli fra alto e basso nella società, fra esclusi e inclusi. Ma lo scontro tra destra e sinistra per esistere e incidere deve nuovamente inverarsi nel tessuto sociale, poiché a livello delle vecchie rappresentanze politiche esso è del tutto irriconoscibile.  
Ha  ragione Loris Caruso quando conclude la sua analisi affermando che “Qualsiasi forma di politicismo, anche brillante, è decisamente votata alla sconfitta. Sarà questo il futuro modello della sinistra, visibilmente in gestazione in questi anni e di cui le elezioni spagnole parlano in modo chiaro: partiti e movimenti insieme, coalizione sociale più coalizione politica. Ognuno, da solo, farà poca strada”. Appunto, ma per “sommarsi”, bisogna che già esistano entrambi: partiti e movimenti. Questo punto non può essere saltato nel ragionamento quando riflettiamo sulla condizione nel nostro paese. Né la confusione fra coesione politica e coesione sociale aiuta. Pensare che dalla coesione sociale lanciata da  Landini possa provenire di per sé la risposta per la costruzione del soggetto nuovo della sinistra è un errore, come lo è prescinderne. Su questo punto ha ragione Fausto Bertinotti, in un’intervista rilasciata all’Huffingtonpost, quando afferma che “la coalizione sociale è la produzione di un processo politico-partitico? No. E’ una produzione di politicizzazione? Sì. Quindi può essere intercettata da chi in autonomia può fare Podemos o Syriza”.
Ma non esiste un modello per farlo. Del resto Podemos e Syriza sono diversissimi tra loro. La formazione iberica si ispira deliberatamente a quel populismo di sinistra, teorizzato come risposta alla crisi delle ideologie e della forma partito, da Ernesto Laclau, cui si connette inevitabilmente, direi strutturalmente, la figura carismatica del leader. E quest’ultimo non si inventa. Non credo sia questa la risposta da dare in Italia. Tentativi ce ne sono stati, più o meno consapevoli, più o meno analoghi. Dalle forzature teoriche sul concetto di “moltitudine” al tentativo di creare connessioni, se non unità, fra movimenti che avevano obiettivi circoscritti. Sono falliti – o hanno durato lo spazio di un amen -  tanto quanto i richiami all’unità delle micro formazioni politiche.
L’Altra Europa con Tsipras con il suo risicato ma decisivo 4,03%  è andata in controtendenza rispetto alla “scimmia” della sconfitta posatasi sulle spalle della sinistra di alternativa. Ma quello che ne è seguito dimostra che non basta. Non solo per le litigiosità interne. Il richiamo a un europeismo antiliberista è stato un punto forte di programma che si è rivelato vincente. Ma da solo non può reggere il compito della costruzione di un nuovo soggetto politico della sinistra. La ragione di questo limite sta proprio nell’Europa. Essa non è solo Grecia e Spagna, ma anche Polonia. Per non parlare del suo attuale carattere germanocentrico. Più che un ideale è un terreno di conflitto aperto ad ogni soluzione. Se prevalesse la Grexit – cui magari potrebbe seguire un’uscita della Gran Bretagna , della Polonia o della Spagna per motivi fra loro opposti – dell’Europa, e di quanto ha rappresentato in termini ideali da Ventotene in poi,  non resterebbe più nulla. Del resto ogni soggetto politico ha necessità di trovare le ragioni del suo esistere in primo luogo nella realtà culturale, economica e sociale nella quale nasce.
So bene che un nuovo soggetto politico non può essere partorito dai vecchi. Verrebbe trascinato nella tomba da questi ultimi. Ma intanto se si potesse evitare che alla sinistra del Pd ci siano più organizzazioni la cui esistenza separata non ha più alcuna ragione di essere nemmeno per i propri militanti – anche grazie al rifiuto di qualunque relazione alla propria sinistra teorizzata e praticata da Renzi -  e soprattutto se ci potessimo risparmiare che le forze che abbandonano il Pd, pensino di potere mettere sé stesse al centro di processi unitari (ogni riferimento a Civati non è casuale) sarebbe già un piccolissimo passo in avanti. Un’opera di semplificazione e di igiene  politica utile  a farsi intendere e capire. Forse non basterà un convegno per ottenere questo risultato, ma cominciare a parlarsi chiaro sarebbe utile.
Ma soprattutto per conquistare nuove forze, quelle dell’astensionismo per esempio, quelle della sinistra diffusa fortemente politicizzata ma non partitica, vi è bisogno di una nuova elaborazione programmatica, di sperimentazioni organizzative all’insegna della democrazia deliberativa, di nuovi linguaggi. Una vera ricerca intellettuale  e pratica ci sta davanti. Eppure le non molte forze che lo potrebbero fare, anziché unirsi si suddividono ulteriormente. Ovunque nascono gruppi di studio, centri di elaborazione programmatica, gruppi di lavoro. Che non si parlano tra di loro e neppure competono in una sana produttività intellettuale. Semplicemente o si pestano i piedi o si attribuiscono la palma dell’heri dicebamus. Su questo terreno non ha neppure senso una separazione di ricerca fra chi  lavora prevalentemente alla coalizione sociale e chi a un nuovo soggetto politico, essendo i temi gli stessi, mentre ciò che è diverso è il ruolo  che le due differenti dimensioni giocano in rapporto a quelle tematiche. E’ troppo chiedere di unificare, almeno tendenzialmente, i “pensatoi” secondo linee di ricerca condivise? Almeno, se distinzioni restassero – e certamente ne resterebbero -,  avrebbero il pregio della chiarezza.
Probabilmente nei prossimi mesi, se non settimane, verranno al pettine diverse questioni che potrebbero essere oggetto di nuove battaglie referendarie. Dalla legge elettorale, alle controriforme costituzionali, dalle leggi neoliberiste sul lavoro a quelle che distruggono stato sociale, scuola  e beni comuni. Il governo è stato iperattivo su questi fronti. Questo “merito” a Renzi bisogna riconoscerglielo. Naturalmente bisognerà discutere, ad esempio sui contenuti e la forma dei quesiti da sottoporre ai cittadini –  con intensità ma con calma. La fretta – ce lo insegna la nostra storia – in questi campi è matrice di sconfitte, a volte anche banali.
Ma in ogni caso si apre una possibilità imperdibile. Si possono unire temi istituzionali, quindi prettamente politici, con grandi tematiche sociali per cui battersi con le armi della mobilitazione di massa e della democrazia diretta, l’unica cosa che può veramente fondere, senza confondere, il terreno politico con quello sociale. Se accompagnamo questo con l’intensificazione di un internazionalismo europeista concreto, fatto non solo di parole d’ordine ma di connessioni materiali, e della ripresa di una lotta per la pace che i nuovi venti di guerra (da qualche parte del mondo è già da tempo burrasca piena) che spirano a Sud e a Est del nostro vecchio continente, forse ce la facciamo a tracciare una nostra strada originale, sia per dare continuità ai movimenti sociali, sia per rinnovare profondamente il sindacato, sia per fondare un soggetto politico nuovo della sinistra.
In conclusione: restiamo pure tristi , se non altro perché l’età ci fa avvertiti, ma  non abbandoniamo tenacia e intelligenza.
 - See more at: http://fondazionepintor.net/politica/gianni/intelligenza/#sthash.JeUmmpWS.dpuf
.-SEGUE SU EDITORIALE ALADINEWS
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Il M5S è l’alternativa alle destre e al PD
1 Giugno 2015
Red su Democraziaoggi

Del risultato elettorale stanotte in TV si è detto tutto. In estrema sintesi. Renzi perde a sinistra e non guadagna a destra. La destra nel suo complesso (perde FI e cresce la Lega) rimane pericolosa in vista delle politiche, se riesce a compattarsi. E, si sa, che, in fatto di mettere insieme tutti, l’ex cavaliere è un maestro. Da questo punto di vista è interessante l’exploit del M5S, che, in un terreno che non gli è proprio, le regionali, tende a divenire seconda forza. Se questo consenso riceverà il “naturale” incremento alle politiche, non è escluso che il M5S possa andare al ballottaggio secondo l’Italicum. E’ anche ragionevole credere che nell’immenso universo dell’astensione, ulterioremente cresciuta domenica, il M5S peschi più di altri. Questa potenzialità pone alla sinistra sparsa una riflessione e una responsabilità nel voto: lasciando da parte tutte le perplessità che nascono da un modo di far politica che ci è estraneo, chi vuole difendere la Costituzione, rilanciare la questione morale e introdurre elementi di equità sociale, non può non porsi seriamente il problema di rafforzare a livello elettorale i pentastellati. Non c’è altra opzione se si vuol tentare di far fuori la destra, escludendola dal ballottaggio. Infatti, solo il M5S può credibilmente battersi per questo obiettivo, che sarebbe di per sè storico: marginalizzare la destra e dare il colpo di grazia a Berlusconi. Sarebbe già questa un’enorme vittoria. Ma, a quel punto, ci sarebbe anche qualche possibilità di successo sul PD. Renzi arriverà a fine legislatura, sfiancato dalle purghe e lacerazioni interne, e, a livello generale, screditato dalle sue promesse non mantenute. Le sue storielle si misureranno con la dura realtà dei fatti e questi saranno per lui inclementi. Insomma, c’è la possibilità di battere le destre al primo turno, sbarrandole la strada del ballottaggio. E’ questo sarebbe già un fatto enorme. Poi si vedrà…
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Elias Megel

Dibattito politico? No, grazie!

fiore volatilesedia di Vannitoladi Vanni Tola
L’interesse del cittadino medio per il dibattito politico, pur in presenza di un’importante tornata elettorale, non va per la maggiore. Direi che non interessa proprio nessuno, forse pochi appassionati nostalgici. Difficile dare torto a quei milioni di italiani che, anche questa volta, esprimeranno con l’astensione la propria abissale distanza, il disinteresse e il disincanto per le scaramucce ideologiche in atto con al centro l’uomo solo al comando, Renzi e i suoi competitor. I più ottimisti sognano che a cambiare le cose nel paese possa essere l’influenza di accadimenti che si realizzano in altri paesi e allora eccoli li, tutti pronti a sperare, ad attendere che il miracolo Tsipras, la crescita di Podemos, la scelta laica dell’Irlanda riguardante i matrimoni gay, possano produrre un qualche benefico “effetto induzione” anche qui da noi pur in assenza di reali movimenti alternativi e di leader politici capaci di promuoverli e orientarli. La storia recente ci insegna che ciò finora non è accaduto e probabilmente non accadrà mai per sola induzione geografica. Per tutti gli altri, per coloro che ancora ritengono sia utile l’analisi politica, lo studio serio degli accadimenti politici come chiave di lettura e comprensione delle vicende in atto, suggerisco la partecipazione ideale a un importante dibattito in corso fra alcuni intellettuali storici della politica italiana. Un dibattito avviato dalla Fondazione Pintor Onlus con articoli di Roberto Musacchio, Valentino Parlato e Alfonso Gianni (che pubblichiamo). Buona lettura.

L’INTELLIGENZA DELLA TRISTEZZA
 di Alfonso Gianni – 28 maggio 2015
 
Vorrei inserirmi nella discussione che qui si è aperta per merito degli articoli pubblicati da Roberto Musacchio e da Valentino Parlato. Non servirà certo – è bene avvertire subito l’eventuale lettore – a squarciare quel velo di tristezza che avvolge entrambi gli scritti citati. Non posso dire di essere animato da particolari motivi di ottimismo. Proprio per questo i due articoli mi sono parsi da subito meritevoli di particolare attenzione. Perché sono privi di retorica e finalmente esprimono uno stato d’animo diffuso autentico, che, a sua volta, diventa un elemento politico non trascurabile nella nostra situazione.
Siamo alla vigilia di elezioni regionali certamente significative. Si voterà tra una manciata di giorni in sette regioni e tutta l’attenzione indotta dai mass-media è concentrata sul risultato finale, espresso in termini tennistici: sarà un 6 a 1, oppure un 4 a 3 e via dicendo. Nessuno sembra preoccuparsi e tenere in considerazione l’elemento che in ogni caso sarà il più rilevante di questa tornata elettorale amministrativa: la disaffezione al voto. Tutti i sondaggi fin qui consultabili indicano un ulteriore incremento dell’astensionismo. Dovessero sbagliarsi i sondaggi e le mie personali percezioni – magari! -, questa sì sarebbe allora la vera novità capace di proporre in una luce diversa il quadro politico e sociale del nostro paese.
Sì, perché non si può vivere solo di luce riflessa. I successi di Syriza, ora di Podemos ( e non solo ), come del referendum irlandese sui matrimoni gay ci riempiono di entusiasmo. Tommaso Nencioni in uno stimolante articolo pubblicato sul Manifesto, ricorda come ritorni in ballo il vecchio auspicio di Carlo Rosselli “Oggi in Spagna, domani in Italia”. Ma è niente altro che un dolce nostalgico richiamo o un wishful thinking che non trova riscontri reali nella nostra condizione. La verità è che da noi mancano non solo soggetti politici nuovi della sinistra, ma anche i movimenti hanno andamenti carsici o insediamenti troppo localistici che li configurano più come comunità in lotta che movimenti antisistemici complessivi.
Sperare che la vicenda spagnola influisca positivamente sulla imminente tornata elettorale italiana mi pare una pia illusione. Sia che a coltivarla sia il Movimento 5 stelle che, se troverà domenica una buona affermazione, non sarà certo per punti di somiglianza con Podemos – casomai con Ciudadanos, il movimento liberal democratico spagnolo –, ma per il protagonismo nell’opposizione a Renzi, qualunque sia il giudizio di qualità e di merito che si voglia dare sulle loro azioni. Sia che a nutrire una simile speranza siano le liste di cittadinanza – comprendenti anche i piccoli partiti della sinistra d’alternativa, ma non  tutti e non da tutte le parti -  che, con molta fatica, sono state messe in piedi.  La loro possibilità di  ottenere buoni risultati, che vadano al di là dei bacini elettorali preesistenti, è esclusivamente legata alla eventuale capacità di avere centrato qualche argomento che tocca e scuote la condizione concreta delle popolazioni locali. Le amministrative sono le amministrative. E’ tautologia, ma sembra che bisogna  ripetercelo ogni volta. Abbiamo già patito le delusioni della stagione dei sindaci arancioni, anche perché affidavamo loro capacità trasformative generali che mai avrebbero potuto fornire.
D’altro canto così si spiega il successo della sinistra spagnola, come ci dicono le analisi più accurate che sono seguite al voto. I migliori successi avvengono nelle città dove si è costruita una coalizione di forze politiche  e sociali. Se queste fossero andate divise o se le prime avessero preteso dalle seconde solamente il voto, anziché la partecipazione attiva alla costruzione del programma, della lista, dell’immagine complessiva da mettere in campo, i risultati sarebbero stati più scadenti.  
Non a caso ho parlato di sinistra spagnola, malgrado le nuove forze sembrano scartare lo stesso termine “sinistra” dalle proprie insegne, quasi fosse un relitto del passato aggrappandosi al quale si rischia di andare a fondo. Nessuno può avere dubbi sul carattere profondamente di sinistra della vittoria della coalizione catalana, per fare un esempio. Non solo perché le lotte sociali che l’hanno partorita, quelle contro gli sfratti, riproducono un conflitto più che classico fra proprietà privata e diritto all’abitazione – ne scrivevano già Marx e soprattutto Engels più o meno 150 anni fa -, ma perché la costruzione di senso che è stata perseguita muove tutta nella direzione dell’uguaglianza, il tratto assolutamente distintivo della sinistra, il clivage fra destra e sinistra come aveva scritto Norberto Bobbio 20 anni fa. Il conflitto fra destra e sinistra è stato tra i protagonisti nella contesa spagnola, accanto, ma non sorpassato, a quelli fra alto e basso nella società, fra esclusi e inclusi. Ma lo scontro tra destra e sinistra per esistere e incidere deve nuovamente inverarsi nel tessuto sociale, poiché a livello delle vecchie rappresentanze politiche esso è del tutto irriconoscibile.  
Ha  ragione Loris Caruso quando conclude la sua analisi affermando che “Qualsiasi forma di politicismo, anche brillante, è decisamente votata alla sconfitta. Sarà questo il futuro modello della sinistra, visibilmente in gestazione in questi anni e di cui le elezioni spagnole parlano in modo chiaro: partiti e movimenti insieme, coalizione sociale più coalizione politica. Ognuno, da solo, farà poca strada”. Appunto, ma per “sommarsi”, bisogna che già esistano entrambi: partiti e movimenti. Questo punto non può essere saltato nel ragionamento quando riflettiamo sulla condizione nel nostro paese. Né la confusione fra coesione politica e coesione sociale aiuta. Pensare che dalla coesione sociale lanciata da  Landini possa provenire di per sé la risposta per la costruzione del soggetto nuovo della sinistra è un errore, come lo è prescinderne. Su questo punto ha ragione Fausto Bertinotti, in un’intervista rilasciata all’Huffingtonpost, quando afferma che “la coalizione sociale è la produzione di un processo politico-partitico? No. E’ una produzione di politicizzazione? Sì. Quindi può essere intercettata da chi in autonomia può fare Podemos o Syriza”.
Ma non esiste un modello per farlo. Del resto Podemos e Syriza sono diversissimi tra loro. La formazione iberica si ispira deliberatamente a quel populismo di sinistra, teorizzato come risposta alla crisi delle ideologie e della forma partito, da Ernesto Laclau, cui si connette inevitabilmente, direi strutturalmente, la figura carismatica del leader. E quest’ultimo non si inventa. Non credo sia questa la risposta da dare in Italia. Tentativi ce ne sono stati, più o meno consapevoli, più o meno analoghi. Dalle forzature teoriche sul concetto di “moltitudine” al tentativo di creare connessioni, se non unità, fra movimenti che avevano obiettivi circoscritti. Sono falliti – o hanno durato lo spazio di un amen -  tanto quanto i richiami all’unità delle micro formazioni politiche.
L’Altra Europa con Tsipras con il suo risicato ma decisivo 4,03%  è andata in controtendenza rispetto alla “scimmia” della sconfitta posatasi sulle spalle della sinistra di alternativa. Ma quello che ne è seguito dimostra che non basta. Non solo per le litigiosità interne. Il richiamo a un europeismo antiliberista è stato un punto forte di programma che si è rivelato vincente. Ma da solo non può reggere il compito della costruzione di un nuovo soggetto politico della sinistra. La ragione di questo limite sta proprio nell’Europa. Essa non è solo Grecia e Spagna, ma anche Polonia. Per non parlare del suo attuale carattere germanocentrico. Più che un ideale è un terreno di conflitto aperto ad ogni soluzione. Se prevalesse la Grexit – cui magari potrebbe seguire un’uscita della Gran Bretagna , della Polonia o della Spagna per motivi fra loro opposti – dell’Europa, e di quanto ha rappresentato in termini ideali da Ventotene in poi,  non resterebbe più nulla. Del resto ogni soggetto politico ha necessità di trovare le ragioni del suo esistere in primo luogo nella realtà culturale, economica e sociale nella quale nasce.
So bene che un nuovo soggetto politico non può essere partorito dai vecchi. Verrebbe trascinato nella tomba da questi ultimi. Ma intanto se si potesse evitare che alla sinistra del Pd ci siano più organizzazioni la cui esistenza separata non ha più alcuna ragione di essere nemmeno per i propri militanti – anche grazie al rifiuto di qualunque relazione alla propria sinistra teorizzata e praticata da Renzi -  e soprattutto se ci potessimo risparmiare che le forze che abbandonano il Pd, pensino di potere mettere sé stesse al centro di processi unitari (ogni riferimento a Civati non è casuale) sarebbe già un piccolissimo passo in avanti. Un’opera di semplificazione e di igiene  politica utile  a farsi intendere e capire. Forse non basterà un convegno per ottenere questo risultato, ma cominciare a parlarsi chiaro sarebbe utile.
Ma soprattutto per conquistare nuove forze, quelle dell’astensionismo per esempio, quelle della sinistra diffusa fortemente politicizzata ma non partitica, vi è bisogno di una nuova elaborazione programmatica, di sperimentazioni organizzative all’insegna della democrazia deliberativa, di nuovi linguaggi. Una vera ricerca intellettuale  e pratica ci sta davanti. Eppure le non molte forze che lo potrebbero fare, anziché unirsi si suddividono ulteriormente. Ovunque nascono gruppi di studio, centri di elaborazione programmatica, gruppi di lavoro. Che non si parlano tra di loro e neppure competono in una sana produttività intellettuale. Semplicemente o si pestano i piedi o si attribuiscono la palma dell’heri dicebamus. Su questo terreno non ha neppure senso una separazione di ricerca fra chi  lavora prevalentemente alla coalizione sociale e chi a un nuovo soggetto politico, essendo i temi gli stessi, mentre ciò che è diverso è il ruolo  che le due differenti dimensioni giocano in rapporto a quelle tematiche. E’ troppo chiedere di unificare, almeno tendenzialmente, i “pensatoi” secondo linee di ricerca condivise? Almeno, se distinzioni restassero – e certamente ne resterebbero -,  avrebbero il pregio della chiarezza.
Probabilmente nei prossimi mesi, se non settimane, verranno al pettine diverse questioni che potrebbero essere oggetto di nuove battaglie referendarie. Dalla legge elettorale, alle controriforme costituzionali, dalle leggi neoliberiste sul lavoro a quelle che distruggono stato sociale, scuola  e beni comuni. Il governo è stato iperattivo su questi fronti. Questo “merito” a Renzi bisogna riconoscerglielo. Naturalmente bisognerà discutere, ad esempio sui contenuti e la forma dei quesiti da sottoporre ai cittadini –  con intensità ma con calma. La fretta – ce lo insegna la nostra storia – in questi campi è matrice di sconfitte, a volte anche banali.
Ma in ogni caso si apre una possibilità imperdibile. Si possono unire temi istituzionali, quindi prettamente politici, con grandi tematiche sociali per cui battersi con le armi della mobilitazione di massa e della democrazia diretta, l’unica cosa che può veramente fondere, senza confondere, il terreno politico con quello sociale. Se accompagnamo questo con l’intensificazione di un internazionalismo europeista concreto, fatto non solo di parole d’ordine ma di connessioni materiali, e della ripresa di una lotta per la pace che i nuovi venti di guerra (da qualche parte del mondo è già da tempo burrasca piena) che spirano a Sud e a Est del nostro vecchio continente, forse ce la facciamo a tracciare una nostra strada originale, sia per dare continuità ai movimenti sociali, sia per rinnovare profondamente il sindacato, sia per fondare un soggetto politico nuovo della sinistra.
In conclusione: restiamo pure tristi , se non altro perché l’età ci fa avvertiti, ma  non abbandoniamo tenacia e intelligenza.
 - See more at: http://fondazionepintor.net/politica/gianni/intelligenza/#sthash.JeUmmpWS.dpuf
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Sibilla Europa due
– segue -

I Centri di aggregazione sociale peseranno nelle contese elettorali municipali, soprattutto nelle elezioni per il comune di Cagliari

scuolpolarape-innovativa2Come anticipato in un precedente intervento (Aladinews del maggio 2015) pubblichiamo le note di accompagnamento alla proposta di legge regionale sui Centri sociali (che oggi chiamiamo più opportunamente “Centri di aggregazione sociale”, formulata negli anni 80 da Democrazia Proletaria Sarda. Il testo della proposta di legge oggi va attualizzato e riproposto, in quanto l’esigenza di disporre di dette strutture resta ed anzi è cresciuta in questi anni. Dunque proponiamo che questo si faccia subito e bene. In questa direzione impegniamo la nostra news per quanto possiamo fare. A cominciare dalla “vertenza della Scuola Popolare dei Lavoratori di Is Mirrionis”. In quel quartiere, il più popoloso di Cagliari, sono assolutamente carenti le strutture di aggregazione sociale, necessarie per affrontare concretamente i problemi della disgregazione sociale (e quello strettamente correlato della dispersione scolastica) che lo affliggono in misura maggiore rispetto ad altre aree cittadine, certo congiuntamente con altre misure [a tal proposito non possiamo esimerci di citare le opportunità del programma ITI finanziato dall'Unione Europea con i fondi strutturali, che riguarda Olbia, Sassari (San Donato) e Cagliari (Is Mirrionis)]. A parole quasi tutti sono d’accordo, nei fatti le scelte delle amministrazioni locali, a cui compete la titolarità degli interventi in argomento, vanno in direzione contraria. Il direttore dell’Azienda Area, in un recente incontro, di cui abbiamo dato ampio resoconto, ha sostenuto che il Comune di Cagliari, così come tanti altri Comuni italiani, sta adottando una politica di dismissione dei centri sociali come di altre strutture consimili, nella logica dello spending review. Ha sostenuto, infatti, che l’Azienda Area può costruire bellissimi centri, ma poi i Comuni (non solo quello di Cagliari) non li prendono in carica, seppure ceduti ad essi gratuitamente, perché non hanno soldi per poterli gestire in proprio e non trovano chi lo possa fare a titolo oneroso, tanto da non creare ulteriori costi per le finanze comunali. Le eccezioni di cui ogni Comune può fare vanto non spostano la realtà della inadeguatezza degli interventi rispetto alle esigenze richiamate. Al riguardo è lecito pensare che le descritte politiche municipali non rispondano solo a logiche di risparmio quanto a un’impostazione antidemocratica che vede con fastidio la partecipazione popolare, considerata una minaccia alla stabilità del potere nelle mani degli attuali suoi gestori. Vale per la destra e purtroppo in misura eguale per la sinistra al governo, a tutti i livelli. Non disturbate il manovratore: questa è la regola prevalentemente adottata, a cui dobbiamo opporci senza alcuna esitazione. Contrastiamo pertanto le decisioni comunali di dismettere scuole e centri sociali magari per costruirvi al loro posto case popolari, nonostante esista un vasto patrimonio abitativo inutilizzato e aree già nella disponibilità pubblica per costruire abitazioni ex novo. La scelta politica impostata dalla destra e continuata dalla sinistra di contrapposizione tra le due esigenze primarie del diritto alla casa e del diritto ai centri di socialità porta solo ad accentuare i problemi di disgregazione sociale e accentua la carenza di qualità della vita soprattutto delle periferie urbane. Noi vogliamo invertire questa impostazione sbagliata.
Torneremo presto su questa questione, cercando di affrontarla nei diversi aspetti, segnatamente di carattere politico, compresi quelli che hanno e avranno peso nelle scadenze elettorali, Cagliari in primis.

cq sui centri socialiIL MUNICIPIO NON VUOL SAPERE QUANTO E’ BELLO IL CENTRO DI QUARTIERE

di Giorgio Giovannini e Ignazio Trudu

Tempo fa un gruppo di compagni di D.P. Sarda, constatata la mancanza assoluta di spazi aggregativi a Cagliari (e non solo a Cagliari), lanciava una proposta di legge regionale di iniziativa popolare per l’istituzione di Centri sociali e per agevolare l’informazione di base.
L’idea dei compagni di D.P. Sarda era di raccogliere le firme (ne occorrono 10 mila) per la presentazione della proposta di legge al Consiglio Regionale, così come prevede lo Statuto sardo, coinvolgendo attivamente in tal modo molte persone.
Ma le difficoltà incontrate solamente per iniziare l’iter di presentazione apparvero subito insormontabili, per questa ragione il progetto fu accantonato.
D’accordo con i compagni di D.P. Sarda, questo nostro giornale rilancia la proposta, in modo del tutto aperto, sia riguardo a un miglioramento del contenuto, sia ai mezzi più opportuni per coinvolgere nell’iniziativa quanti (gruppi o singoli) siano interessati, e per investire della proposta il Consiglio regionale (raccolta di firme in modo formale, petizione, presentazione alle forze politiche, etc.). Sarà comunque opportuno creare un Comitato che gestisca questa proposta, di cui facciano parte soprattutto rappresentanti dei gruppi di base.
Un primo momento di confronto sarà l’Assemblea-dibattito del 17 maggio alla libreria “Sardegna-libri”, di cui daremo resoconto sul prossimo numero di Cittàquartiere. (1)
Questa proposta di legge nasce dall’esigenza di portare un contributo, sia pure parziale, alla soluzione di uno dei problemi più gravi della nostra società: il disagio sociale.
L’isolamento dell’individuo nella nostra società è accentuato dalla mancanza di spazi aggregativi che favoriscano la vita collettiva nei suoi diversi aspetti, dallo scambio culturale, all’attività sportiva o politica, al semplice divertimento.
Alcune fasce sociali, le più deboli, come bambini, giovani e anziani, maggiormente penalizzate dalle carenze strutturali proprie di questa società devono avere l’opportunità di superare l’isolamento nel quale sono attualmente confinate.
La scuola, unico momento aggregativo per le fasce giovanili, non offre nessuna opportunità di sviluppo della personalità individuale. Se si escludono le strutture confessionali o private (alle quali non andrebbe delegata la gestione di queste iniziative) non resta che constatare l’assoluta mancanza di strutture pubbliche.
Non è lecito meravigliarsi se realtà disagiate, esasperate anche dalla mancanza di spazi, alternativi alla strada, si manifestino talvolta in forme di “devianza”, quali droga, delinquenza, ecc.
Ma anche quando il malessere non degenera nella “devianza” è ugualmente presente e on si può continuare ad ignorarlo.
Pensiamo all’attività sportiva: laddove esistono le strutture sono per lo più private, il che comporta l’esclusione dalle stesse di tutte le persone appartenenti alle classi meno abbienti.
Stesso discorso per i gruppi che vorrebbero impegnarsi in attività artigianali, artistiche o politiche: sono costretti ad abbandonare ogni progetto per mancanza di mezzi e spazi.
In questo contesto sociale, di disagi ed emarginazione, non può essere tralasciata la grave realtà degli anziani.
Forse più di ogni altra fascia sociale essi risentono della mancanza di strutture e dell’isolamento che ne deriva.
Anche se il problema degli anziani è molto più complesso e richiede misure più ampie di intervento pensiamo che il problema della difficoltà della vita aggregativa non debba essere trascurato.
I Centri sociali, strutture pubbliche, autogestite e programmate, capaci di stimolare e permettere l’espressione delle diverse realtà, rappresentano a nostro parere un importante strumento di intervento realistico e concreto del malessere sociale.
Il progetto sui Centri sociali non è utopistico ma dovrebbe diventare realtà operante in Sardegna come lo è già in tante altre città italiane ed europee per sostenere la stampa di base.
Un ruolo importante è attribuito all’informazione; attualmente la maggior parte dei canali informativi è gestito e monopolizzato dalle grosse testate e dai gruppi di potere. E’ importante per il pluralismo dell’informazione tutelare e finanziare l’informazione di base, che per ora, quando c’è, si affida all’autofinanziamento (vedi Cittàquartiere), il che comporta precarietà e conduce in molti casi alla breve durata delle pubblicazioni.
Accogliendo l’appello dei promotori pubblichiamo il testo della proposta di legge e invitiamo tutti gli interessati a mettersi in contatto con queste pagine.
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(1) Cittàquartiere non ha mai pubblicato il resoconto dell’iniziativa, regolarmente tenutasi sabato 17 maggio 1986. Tuttavia gli organizzatori della rivista del Coordinamento dei comitati e circoli di quartiere, fecero un comunicato stampa di sintetico resoconto dell’incontro, presieduto dalla compianta Elisa Spanu Nivola, che sotto riportiamo integralmente.

“Sabato 17 maggio si è svolto presso la Libreria “Sardegnalibri” un dibattito pubblico sul tema “C’è un futuro per i gruppi di base e per la loro stampa?, organizzato dal periodico Cittàquartiere.
Dal dibattito, introdotto da una comunicazione della prof. Elisa Spanu Nivola, è emersa la necessità di un rilancio dell’iniziativa dei gruppi di base, non in contrapposizione alle istituzioni ma in funzione di stimolo, critica alle stesse, sviluppando una capacità di autonoma produzione culturale.
Le istituzioni, soprattutto la Regione, il Comune e le Circoscrizioni devono impegnarsi a sostenere le iniziative di base, evitando i condizionamenti e fornendo loro aiuti soprattutto di strutture e finanziamenti per l’attività. In questa direzione va la legge regionale proposta durante l’incontro.
Tale proposta sarà oggetto di una campagna di informazione dell’opinione pubblica e, corredata da un buon numero di firme dei cittadini, verrà presentata alle orze politiche presenti in Consiglio regionale.
A questo scopo durante l’assemblea si è deciso di dar vita a un Comitato di rappresentanti dei gruppi di base e dei giornali di base che gestisca la proposta, apportanto tutti i possibili miglioramenti.
Cagliari, 22/5/1986″
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coord cdq cagliari manifestazione

Óscar Romero, un santo del popolo

Oscar_Romero_by_puigreixachMonsignor Romero, un santo (del popolo) che si fa beato (per gli altari)
di Gianfranco Murtas su FondazioneSardinia
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Ieri 23 maggio, a distanza di 35 anni dal suo assassinio, l’arcivescovo Óscar Arnulfo Romero è stato beatificato con una solenne cerimonia in San Salvador. La prassi introdotta da Benedetto XVI prevede che le cerimonie di beatificazione si celebrino nei luoghi in cui il “candidato” operò in vita e che essa sia presieduta dal prefetto della competente Congregazione vaticana, riservando il pontefice a sé, in Roma, il successivo step della canonizzazione.

Oggi giovedì 21 maggio, giobia 21 de maju 2015

aladinewsGli eventi di oggi segnalati da Aladinpensiero sul blog Aladinews agorà. PUNT ‘E BILLETTU: La CAVALCATA SARDA – Aspettando la cavalcata sarda – Da giovedì 21 maggio a venerdì 22 maggio, alle ore 21, in Piazza d’Italia si svolgerà la rassegna di musica etnica “Trimpanu 2015” in sedia di Vannitolacollaborazione con l’associazione Kuntzertu”. Per la sua decima edizione, Trimpanu celebra i più importanti musicisti della world music sarda: ensemble storici come “Cordas et Cannas” e Elena Ledda con il suo prestigioso sestetto , le contaminazioni mediterranee dei Ta.Ma trio e la freschezza del DuoTrio. La novità assoluta per Sassari il TAMA TRIO, sonorità mediterranee con Nando Citarella, Mauro Palmas e Pietro Cernuto, da non perdere
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- Cavalcata sarda, Sassari, 20-24 maggio 2015 Sito dedicato del Comune di Sassari -

Dolore e lutto

luttofoto OruneOrune: dolore per la morte di uno studente di 19 anni che aspettava l’autobus per andare a scuola. Rispetto per il dolore dei suoi parenti e amici e per la comunità di Orune. Questo, e soltanto questo, dobbiamo esprimere oggi, nel momento del lutto per Gianluca Monni. Lasciamo perdere i soliti commenti sulla società barbaricina, non andiamo a scomodare lo studioso Pigliaru e i suoi importanti studi antropologici, le chiacchiere sulle vecchie faide. Oggi è dovuto soltanto rispetto del dolore e solidarietà con la popolazione orunese. La violenza non è un modo valido per risolvere diverbi, controversie e contrasti tra gli individui. Non ha mai, dico mai, nessuna giustificazione. Non è balentia. Balentia è il dialogo, balentia è cercare di comprendere le ragioni degli altri, balentia è il rispetto delle persone e della vita, balentia è la convivenza pacifica e la ricerca di condizioni di vita migliori per le nostre comunità a la nostra isola. (Vanni Tola)
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Una riflessione di Tonino Dessì, sulla sua pagina fb
Non la dovrei commentare, questa tremenda vicenda. Ho pochi elementi, ancora. Ma a suo tempo, già negli anni 80, mi è capitato di riflettere e di scrivere su come certe forme mentali e comportamentali delle grandi periferie metropolitane (o della deflagrazione metropolitana in generale) si vadano adattando alla perifericita’ di tante realtà isolane e anzi alla più generale perifericita’ sociale sarda. Non tiriamo fuori codici barbaricini, per carità. Viviamoci, nei posti, o immedesimiamoci in chi ci vive quanto basta per capire che non sono antropologicamente “diversi”.
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- Una riflessione di Vito Biolchini

Per la Sardegna nostra patria

pablo e amiche
di Nicolò Migheli

Le feste nazionali vorrebbero essere un momento di unità del popolo ma quasi mai lo sono. Il 14 Luglio è rifiutato ancora oggi da una minoranza consistente di francesi che si rifanno alla Vandea e alla controrivoluzione. La commissione incaricata di scegliere una data simbolo da far diventare sa Die de sa Sardigna discusse molto. C’era chi proponeva il 30 giugno in ricordo della battaglia di Sanluri del 1409, data in cui la Sardegna perse la propria indipendenza.

Altri il 14 aprile quando ad Uras nel 1470 i sardi sconfissero per l’ultima volta gli aragonesi. Alla fine venne scelto il 28 aprile pur consapevoli che quel giorno portava con sé molte ambiguità. La Sarda Rivoluzione non ha mai avuto una buona pubblicistica. La cacciata del viceré Balbiano e della sua corte, venne letta da sempre come un fatto episodico; una ribellione dei nobili e dei borghesi per poter accedere alle cariche alte dell’amministrazione regia. Fin dagli inizi lo storico savoiardo Manno pose l’accento su chi aveva chiesto il perdono al re.

Ancora oggi, per alcuni, il tema è il tradimento di cui fu oggetto Giovanni Maria Angioy. Quell’episodio diventa il racconto della subalternità accettata. Un destino voluto che dovrebbe precludere qualsiasi autodeterminazione. Non viene ricordato che fu quella rivoluzione a determinare l’ingresso della Sardegna nella modernità; che fu l’unica rivoluzione europea, benché ispirata dall’illuminismo, a non essere stata promossa dai francesi al contrario del ‘99 napoletano. L’ostilità a quella data è ancor più forte in certa sinistra sarda che dovrebbe rivendicarla come sua. La rifiuta perché quel giorno è della Sardegna, ed ogni riferimento alla nazione dei sardi viene visto come pericoloso. Nazione come sciovinismo, come leghismo.

Si cita Antonio Gramsci ma si è segnati dal leninismo centralista riletto da Togliatti. Salvo poi impegnarsi per le cause di patrie altrui purché siano terzomondiste e antimperialiste. Un’ostilità che rasenta il pretestuoso. Un retroterra culturale che in maniera non esplicita anima la riforma della Costituzione voluta da Renzi. Il 25 aprile su Rai 1 Fabio Fazio ha ricordato la Liberazione. In quella trasmissione nessun cenno alle 4 Giornate di Napoli liberata dai suoi abitanti e non dagli alleati. Nessun riferimento alle repubbliche partigiane del nord d’Italia.

Un’attenzione a nascondere ogni possibilità di autogoverno realizzato che contrasti con le spinte all’abolizione delle autonomie. Un racconto che diventa fondante per il Partito della Nazione, quella italiana però. Quest’anno sa Die de sa Sardigna correva il rischio di vedere la Regione latitante. Solo l’insistenza dell’assessorato competente con un finanziamento esiguo e all’ultimo momento, ha evitato alla massima istituzione dei sardi la vergogna dell’assenza. Sa Die la giunta l’ha voluta dedicare al cibo, il Consiglio Regionale nella seduta solenne ha trattato di scorie nucleari.

Temi importanti per carità, ma che avrebbero trovato giusta collocazione in tante altre occasioni. Uno spostamento che nasconde il timore di affrontare le vere domande che pone il 28 aprile: siamo nazione? Chi è la nostra patria, l’Italia o la Sardegna? Visto che fino al 1847 abbiamo avuto storie differenti, quando gli interessi tra Italia e Sardegna divergono, quali debbono prevalere? La sera del 29 ottobre 1922 chiuso il congresso di Nuoro del Psd’A, si tenne una riunione drammatica. Quella sera un gruppo ristretto di dirigenti del partito si trovò a decidere se si dovesse resistere con le armi alla Marcia su Roma dei fascisti.

Era in ballo se si dovesse “fare come in Irlanda” e battersi per la Sardegna, o cominciare una lotta antifascista per liberare l’Italia. Vinse la seconda posizione, quella sostenuta dai dirigenti in gran parte ex ufficiali dell’esercito educati nella scuola italiana, rispetto al sentimento prevalente nel partito più vicino all’indipendentismo. La notizia dell’incarico di formare il governo dato dal re a Mussolini, fece cadere l’opzione militare. Questo dopo un congresso che aveva visto la più grande manifestazione antifascista dell’epoca in Sardegna.

Allora come oggi, quale è la patria dei sardi? I festeggiamenti di quest’anno hanno visto una messa solenne celebrata nella cattedrale di Cagliari davanti a una moltitudine di cittadini presenti. L’arcivescovo Arrigo Miglio nella compieta ha letto una preghiera dove si diceva “Preghiamo […] per la Sardegna nostra patria”. Era dal 1847 che in quella chiesa non veniva pronunciata quella parola rivolta alla Sardegna. Un segno forte che rimarrà negli anni a venire. La Chiesa, come spesso accade, fa affermazioni che la politica pavida teme. Quelle brevi parole tentano di inserire l’episcopato sardo sulle orme di quello irlandese, basco e catalano. Non è poco. Questo 28 aprile è stato riempito di segni di speranza.

La notizia del disimpegno della Regione ha mosso i cittadini e le associazioni. Molte iniziative, convegni, incontri nelle scuole ed infine le Barchette e sa Die in Tundu. Migliaia di sardi si sono trovati nell’isola e nel mondo a fare cerchi e a ballare. Migliaia di sardi hanno fatto barchette di carta da donarsi reciprocamente. In quelle barchette metaforicamente ci si metteva tutto quello che non va: furto di terre, scandali, inquinamenti, disoccupazione, abbandoni ed imposizioni varie. Sono stati atti in cui l’appartenenza ha superato l’identità. Sardi di nascita e sardi per scelta che condividono una presa di coscienza sul destino di un popolo e della sua terra.

Una dimostrazione che sa Die è entrata nel cuore. La politica dei partiti italiani come sempre non ha capito o non ha voluto capire, una parte della società sì. Non è un problema. Parafrasando Mitterand, la politique suivra.

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* L’articolo di Nicolò Migheli viene pubblicato anche sui siti di FondazioneSardinia, Vitobiolchini, Tramasdeamistade, Madrigopolis, Sportello Formaparis, Tottusinpari e sui blog EnricoLobina e RobertoSerra, SardegnaSoprattutto.
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L’IO UTENTE dei MASS-MEDIA. RAPPORTO sulla COMUNICAZIONE

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sedia di Vannitoladi Vanni Tola
La nostra società, il nostro mondo, è fortemente caratterizzato dall’impiego dei mezzi di comunicazione di massa che – fin dai tempi dell’invenzione della stampa e dello sviluppo di strumenti di comunicazione sempre più evoluti – hanno condizionato lo sviluppo sociale dei popoli. Molto opportunamente quindi il Censis (Centro Studi Investimenti Sociali) e Ucsi (Unione Cattolica Stampa Italiana) proseguono la loro opera di monitoraggio dei consumi dei media, iniziata nell’anno 2000, pubblicando la dodicesima edizione del Rapporto Censis-Usci sulla comunicazione (Franco Angeli editore, Aprile 2015).
Analizzare il rapporto aiuta a comprendere alcune caratteristiche fondamentali della nostra società che è stata oggetto di una grande trasformazione sociale che pone al centro del sistema l’io utente, il consumatore di media, attraverso processi di costruzione multimediale dell’informazione personalizzata, lo sviluppo di valori simbolici associati ai nuovi device tecnologici, l’avvio del nuovo ciclo dell’economia della disintermediazione digitale. Niente panico, al di la delle definizioni apparentemente poco comprensibili, tutto appare più chiaro cominciando a scorrere i dati contenuti nel rapporto. Abbiamo assistito, soprattutto nell’ultimo decennio, a una grande trasformazione dei media. Il 71% degli italiani utilizza Internet, l’85,7 % dei giovani sotto i 30 anni utilizzano gli smartphone, il 36,6 % il tablet. È iscritto a Facebook il 50,3% dell’intera popolazione (il 77,4% dei giovani under 30), YouTube raggiunge il 42% di utenti (il 72,5% tra i giovani) e il 10,1% degli italiani usa Twitter. La Televisione resta ancora il media più diffuso ma la diffusione del web ne contrasta il primato. La web tv ha raggiunto un’utenza del 23,7%, la mobile tv l’11,6 %, le tv satellitari consolidano la loro fascia di utenza intorno al 42,4% e un buon 10% di italiani utilizza regolarmente la smat tv connessa in rete.
L’altro storico mezzo di comunicazione di massa, la radio, mantiene sostanzialmente il proprio serbatoio di utenti ( 83,9%) ma l’ascolto avviene oramai anche per mezzo dei telefoni cellulari (+ 2%) e via Internet (+2%). Molto maggiore appare l’incremento dell’uso degli smarphone (+12,9%) che sono impiegati regolarmente da oltre la metà degli italiani e l’aumento del numero di tablet utilizzati da oltre un quarto della popolazione. Sulla rete si diffonde sempre più la ricerca di informazioni, la pratica di acquisti, il disbrigo di pratiche di vario genere. Naturalmente tutto ciò accade a discapito di altri mezzi di comunicazione tradizionali, pure importanti, che fanno registrare dei cicli negativi. E’ il caso della carta stampata. Prosegue la flessione del numero di lettori dei quotidiani (meno 1,6% rispetto al 2013), mantengono il numero di utenti i giornali settimanali e mensili mentre aumentano i lettori di quotidiani on line (+ 2,6%) e di altri portali web di informazione (+4,9%). Soltanto un italiano su due ha letto almeno un libro nell’ultimo anno mentre cresce il numero dei lettori degli e-book che è ancora limitato all’8,9 % dei potenziali utenti. Un’altra importante caratteristica nell’evoluzione dei consumi di media è rappresentata dal crescente primato dell’informazione personalizzata. Per informarsi gli italiani utilizzano i telegiornali (76,5%), i giornali radio (52%), i motori di ricerca su Internet (51,4%), le tv all news (50,9%) e Facebook (43,7%). Gli aumenti di utenza di queste che rappresentano le principali fonti di informazione, sono notevolissimi: 34,6 % delle tv all news, 16,9 % Facebook, 16,7 % le app per smartphone, 10,9% YouTube, 10% i motori di ricerca nel web. Nella fascia giovani della popolazione l’ordine di importanza di tali media si differenzia. Facebook è per i più giovani il principale strumento di informazione (7,1%) seguito dal motore di ricerca Google (68,7%), e dai telegiornali (68,5%). La quota di utenti della rete si attesta, per i giovani al 91,9 % mentre tra gli anziani non supera il 27,8 %. Discorso analogo vale per l’impiego dei telefonini smatphone, di Facebook, di Youtube e delle web tv. Unico dato in controtendenza riguarda l’uso dei quotidiani che è decisamente superiore tra gli ultrasessanticinquenni (54,3%) e ampiamente inferiore tra i più giovani (27,5%). Le conclusioni del Rapporto sulla Comunicazione ci restituiscono un’immagine della società profondamente modificata rispetto ai decenni precedenti con cambiamenti che hanno influenzato notevolmente l’organizzazione socio-culturale e le stesse condizioni di vita della popolazione. Sempre più persone utilizzano Internet per la ricerca di strade e località, per la ricerca di informazioni su aziende, prodotti e servizi, per effettuare operazioni bancarie, per attività ludica e ascolto di musica. Oltre 15 milioni di italiani effettuano acquisti sulla rete, guardano film, cercano lavoro, telefonano utilizzando Skipe o altri servizi voip, interloquiscono con la pubblica amministrazione senza intermediazioni di terzi. Le prospettive future saranno caratterizzate sempre più dalla “disintermediazione digitale” che, con il crescente impiego dei nuovi media, sposterà valore dalle filiere produttive e occupazionali tradizionali in nuovi ambiti che si vanno sempre più delineando.
—————————————————————–filippo_figari fuoco conoscenza Fatti non foste a viver come bruti

“… Non vogliate negar l’esperienza
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza
fatti non foste a viver come bruti
ma per seguir virtute e canoscenza”

(Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno canto XXVI, 116-120)
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Immigrazione: guardare in faccia la realtà. Facciamo i conti anche in casa nostra… e pensiamo al “che fare”
barcone_immigrati3Caro Presidente, e se fosse la Sardegna la terra di accoglienza che cercano?

di Marco Meloni

Caro Presidente,
Le scrivo pubblicamente dopo giorni di riflessioni, rabbia ed un profondo quanto lacerante senso di impotenza e dopo le tante, sicuramente troppe, prese di posizione di chi, cavalcando la paura, parla di minaccia e invasione, di chi non si ferma neanche davanti ad un mare tinto di rosso, il nostro mare. Bombardiamo, blocchiamo, affondiamo: ma chi e che cosa? Giovani, bambini, donne, uomini disperati? Profughi che scappano da una guerra? E se scappassero “solo” dalla fame e dalla quotidiana violenza? Sarebbe davvero così diverso?

Li definiamo clandestini, profughi, rifugiati, immigrati, perché spesso non abbiamo il coraggio di chiamarli persone, di riconoscere che l’unica vera differenza tra noi e loro è quella di essere capitati in due lati diversi dello stesso mare. Interpretiamo il Mediterraneo come confine e barriera, il nostro problema è unicamente che stiano arrivando qui e non la barbarie dalla quale stanno scappando.

Scrivo a Lei, chiamato a governare la nostra Isola in difficoltà, dove una crisi strutturale sembra impedirci di declinare i verbi al futuro, le scrivo perché la nostra sofferenza e paura non diventino cecità. Poche settimane fa al centro del dibattito politico sardo discutevamo animatamente del ridimensionamento scolastico. Nel dibattito le ragioni di chi cerca di difendere ogni scuola anche nei piccoli centri, per la fondamentale funzione educativa e motivazioni sociali, si confrontavano e si scontravano con le ragioni di chi vorrebbe rendere maggiormente efficiente un sistema ridimensionato nei finanziamenti e ancor di più nei numeri dei fruitori. Chiedendoci se fosse giusto mantenere multiclassi con pochi alunni, ci si è reciprocamente accusati di uccidere i comuni da una parte e di barattare lo sviluppo dei nostri giovani per interessi locali dall’altra. Sullo sfondo però, la vera questione è e continuerà ad essere lo spopolamento dell’intera nostra regione, soprattutto nelle sue zone interne. Nel 2014 in Sardegna il numero di morti supera quelle delle nascite di 3.344 persone. La nostra crescita naturale (per mille abitanti) è stimata a -2,3 , in un anno ogni mille sardi sono nati appena 7,1 bambini. (dati Istat) A ciò si aggiunge l’ingente emigrazione dei nostri concittadini in età da lavoro che silenziosamente anno dopo anno lasciano la nostra Isola in cerca di un futuro migliore, a volte, semplicemente di un futuro possibile. Un preoccupante processo di sofferenza demografica interessa il 55% del territorio regionale. Paesi come Armungia, Sini, Bortigiadas, Ussassai, Borutta e tanti altri rischiano di scomparire, molti invece, pur salvandosi, nei prossimi anni andranno incontro ad una desertificazione demografica graduale e apparentemente inesorabile.

Metto a confronto i due fenomeni, in un triste ossimoro, coerente con la nostra epoca di disequilibrio ma incoerente con la ragione umana. E le faccio una proposta coraggiosa: accogliamoli noi, se non tutti una parte importante, proponiamogli di far vivere la nostra terra, le nostre campagne, le montagne e le più numerose colline, sino alle coste. Non avremo risorse faraoniche, ma sappiamo spezzare il nostro pane. Gli ultimi decenni ci dimostrano come la diminuzione delle persone nelle tavole non abbia portato ad un maggiore benessere. Al contrario dove mancano braccia e teste non c’è ripresa né rilancio.

Non le sto proponendo di aprire i nostri centri di accoglienza ad un numero maggiore di persone, seppur plaudo alla risposta che si sta cercando di dare in emergenza, né di capitalizzare la sofferenza dei migranti come molti hanno tristemente fatto, le sto proponendo un modello di sviluppo basato sulla dignità della vita, sull’apertura all’altro e sulla cooperazione comunitaria.

Ospitiamoli nei nostri paesi, insegniamogli i nostri mestieri e le nostre arti, rilanciamo le nostre produzioni di qualità, impariamo dalle loro storie, mettiamoci in gioco. Così faremo della Sardegna un grande laboratorio multiculturale, una terra di incontro e pace, un luogo nel quale anche i nostri tanti emigrati potranno tornare portando con sé le proprie esperienze. Del resto abbiamo fatto tanti sacrifici per salvare banche e grandi economie, questa volta facciamoli per salvare vite, le loro, e vitalità, la nostra.

Non vi è traccia di purezza razziale nel nostro popolo Presidente, le gocce di sangue nuragiche nei secoli si sono mischiate con il sangue dei conquistatori, dei mercanti, dei tanti popoli che sono approdati nella nostra isola. Siamo di fatto figli dei Fenici, dei Punici, dei Romani, dei tanti Spagnoli, dei Pisani, Piemontesi, Genovesi. È il mediterraneo che ci scorre nelle vene. Abbiamo imparato a convivere con lingue ed usi diversi dal nostro, abbiamo aperto le case anche a chi poi ha approfittato della nostra accoglienza, abbiamo spesso salutato i nostri figli in partenza, abbiamo pianto i nostri morti in mare ed in guerra, ci siamo sentiti gli ultimi. Noi possiamo capire cosa significa la loro sofferenza, abbiamo la responsabilità storica e morale di farlo.

Certamente l’Europa deva essere chiamata a fare la sua parte e la comunità internazionale, ONU in primis, non può voltare le spalle a questa emergenza umanitaria. Ma, nel frattempo, abbandoniamo il nostro solito attendismo e dipendenza per dare risposte di impegno e solidarietà a livello locale.

Dimostriamo che la nostra identità non è racchiusa solo in celebrazioni storiche, sagre e nei maialetti in viaggio per l’EXPO. Identità è differenza che arricchisce, oggi vorrei che sapessimo esprimerla con una scelta coraggiosa e umana. Oggi in questo vorrei sentirmi diverso, vorrei orgogliosamente sentirmi sardo.

Marco Meloni
“buonista”
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Sa die de sa Sardigna

Sardegnaindustre filippo figarimoti antifeudali Sassu AligiSa-Die-2015-banner-RAS
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Immigrazione: guardare in faccia la realtà. Facciamo i conti anche in casa nostra… e pensiamo al “che fare”
barcone_immigrati3Caro Presidente, e se fosse la Sardegna la terra di accoglienza che cercano?

di Marco Meloni

Caro Presidente,
Le scrivo pubblicamente dopo giorni di riflessioni, rabbia ed un profondo quanto lacerante senso di impotenza e dopo le tante, sicuramente troppe, prese di posizione di chi, cavalcando la paura, parla di minaccia e invasione, di chi non si ferma neanche davanti ad un mare tinto di rosso, il nostro mare. Bombardiamo, blocchiamo, affondiamo: ma chi e che cosa? Giovani, bambini, donne, uomini disperati? Profughi che scappano da una guerra? E se scappassero “solo” dalla fame e dalla quotidiana violenza? Sarebbe davvero così diverso?

Li definiamo clandestini, profughi, rifugiati, immigrati, perché spesso non abbiamo il coraggio di chiamarli persone, di riconoscere che l’unica vera differenza tra noi e loro è quella di essere capitati in due lati diversi dello stesso mare. Interpretiamo il Mediterraneo come confine e barriera, il nostro problema è unicamente che stiano arrivando qui e non la barbarie dalla quale stanno scappando.

Scrivo a Lei, chiamato a governare la nostra Isola in difficoltà, dove una crisi strutturale sembra impedirci di declinare i verbi al futuro, le scrivo perché la nostra sofferenza e paura non diventino cecità. Poche settimane fa al centro del dibattito politico sardo discutevamo animatamente del ridimensionamento scolastico. Nel dibattito le ragioni di chi cerca di difendere ogni scuola anche nei piccoli centri, per la fondamentale funzione educativa e motivazioni sociali, si confrontavano e si scontravano con le ragioni di chi vorrebbe rendere maggiormente efficiente un sistema ridimensionato nei finanziamenti e ancor di più nei numeri dei fruitori. Chiedendoci se fosse giusto mantenere multiclassi con pochi alunni, ci si è reciprocamente accusati di uccidere i comuni da una parte e di barattare lo sviluppo dei nostri giovani per interessi locali dall’altra. Sullo sfondo però, la vera questione è e continuerà ad essere lo spopolamento dell’intera nostra regione, soprattutto nelle sue zone interne. Nel 2014 in Sardegna il numero di morti supera quelle delle nascite di 3.344 persone. La nostra crescita naturale (per mille abitanti) è stimata a -2,3 , in un anno ogni mille sardi sono nati appena 7,1 bambini. (dati Istat) A ciò si aggiunge l’ingente emigrazione dei nostri concittadini in età da lavoro che silenziosamente anno dopo anno lasciano la nostra Isola in cerca di un futuro migliore, a volte, semplicemente di un futuro possibile. Un preoccupante processo di sofferenza demografica interessa il 55% del territorio regionale. Paesi come Armungia, Sini, Bortigiadas, Ussassai, Borutta e tanti altri rischiano di scomparire, molti invece, pur salvandosi, nei prossimi anni andranno incontro ad una desertificazione demografica graduale e apparentemente inesorabile.

Metto a confronto i due fenomeni, in un triste ossimoro, coerente con la nostra epoca di disequilibrio ma incoerente con la ragione umana. E le faccio una proposta coraggiosa: accogliamoli noi, se non tutti una parte importante, proponiamogli di far vivere la nostra terra, le nostre campagne, le montagne e le più numerose colline, sino alle coste. Non avremo risorse faraoniche, ma sappiamo spezzare il nostro pane. Gli ultimi decenni ci dimostrano come la diminuzione delle persone nelle tavole non abbia portato ad un maggiore benessere. Al contrario dove mancano braccia e teste non c’è ripresa né rilancio.

Non le sto proponendo di aprire i nostri centri di accoglienza ad un numero maggiore di persone, seppur plaudo alla risposta che si sta cercando di dare in emergenza, né di capitalizzare la sofferenza dei migranti come molti hanno tristemente fatto, le sto proponendo un modello di sviluppo basato sulla dignità della vita, sull’apertura all’altro e sulla cooperazione comunitaria.

Ospitiamoli nei nostri paesi, insegniamogli i nostri mestieri e le nostre arti, rilanciamo le nostre produzioni di qualità, impariamo dalle loro storie, mettiamoci in gioco. Così faremo della Sardegna un grande laboratorio multiculturale, una terra di incontro e pace, un luogo nel quale anche i nostri tanti emigrati potranno tornare portando con sé le proprie esperienze. Del resto abbiamo fatto tanti sacrifici per salvare banche e grandi economie, questa volta facciamoli per salvare vite, le loro, e vitalità, la nostra.

Non vi è traccia di purezza razziale nel nostro popolo Presidente, le gocce di sangue nuragiche nei secoli si sono mischiate con il sangue dei conquistatori, dei mercanti, dei tanti popoli che sono approdati nella nostra isola. Siamo di fatto figli dei Fenici, dei Punici, dei Romani, dei tanti Spagnoli, dei Pisani, Piemontesi, Genovesi. È il mediterraneo che ci scorre nelle vene. Abbiamo imparato a convivere con lingue ed usi diversi dal nostro, abbiamo aperto le case anche a chi poi ha approfittato della nostra accoglienza, abbiamo spesso salutato i nostri figli in partenza, abbiamo pianto i nostri morti in mare ed in guerra, ci siamo sentiti gli ultimi. Noi possiamo capire cosa significa la loro sofferenza, abbiamo la responsabilità storica e morale di farlo.

Certamente l’Europa deva essere chiamata a fare la sua parte e la comunità internazionale, ONU in primis, non può voltare le spalle a questa emergenza umanitaria. Ma, nel frattempo, abbandoniamo il nostro solito attendismo e dipendenza per dare risposte di impegno e solidarietà a livello locale.

Dimostriamo che la nostra identità non è racchiusa solo in celebrazioni storiche, sagre e nei maialetti in viaggio per l’EXPO. Identità è differenza che arricchisce, oggi vorrei che sapessimo esprimerla con una scelta coraggiosa e umana. Oggi in questo vorrei sentirmi diverso, vorrei orgogliosamente sentirmi sardo.

Marco Meloni

“buonista”
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sardu dueL’ossimoro del sardo razzista
di Nicolò Migheli

Dopo la strage in mare dei novecento migranti La Nuova Sardegna e l’Unione Sarda hanno dovuto ritirare gli articoli dalle loro edizioni on-line, perché strapieni di commenti offensivi e razzisti. I lupi da tastiera non aspettano altro. A volte si nascondono dietro eteronimi. Altri più coraggiosi, non esitano a firmare con i propri nomi. In questi ultimi anni, più volte è capitato di leggere o assistere a manifestazioni di intolleranza nei confronti di migranti o dei rom. Tutte le volte ci si è consolati con un “i sardi non sono razzisti.”

Bisogna dire, ad onor del vero, che il razzismo biologico è ormai scomparso, seppellito con la Seconda Guerra Mondiale. Solo il professore irlandese Richard Lynn e qualche gruppo minoritario di “Supremazia Bianca” insistono su dottrine finite nell’immondezzaio della storia. Oggi prevalgono le teorie sulle diversità culturali e sulla inconciliabilità delle stesse. In un mondo così globalizzato trionfa la paura dell’altro e su questo si costruiscono fortune politiche. Il razzismo e la xenofobia non sono una caratteristica occidentale; ad esempio i turchi disprezzano gli arabi e si sentono superiori, gli arabi a loro volta considerano inferiori gli africani neri.

Solo in Occidente però le teorie razziali spacciate come scientifiche, sono state fondanti di regimi, non solo quelli fascisti e nazisti, ma anche di quelli coloniali. Lo stereotipo del “ fardello dell’uomo bianco” che “civilizza” il mondo, ha nella superiorità razziale e culturale il suo fondamento. Le decine di migliaia di persone che fuggono dalle guerre dei loro paesi o dalla povertà estrema, si riversano sulle rive del Mediterraneo provocando reazioni di paura e rifiuto. Anche in questi giorni di lutto le reti sociali e il web sono pieni di falsità e di gente che specula sul dolore degli altri. Gruppi di estrema destra e leghisti che in questa disgrazia colgono segni di fortune elettorali.

Nessuna parte d’Italia è indenne. La stessa Sardegna non si differenzia. Vi sono gruppuscoli di destra che sotto il velo dell’autodeterminazione dei sardi mostrano gli stessi comportamenti xenofobi e razzisti di chi predica “prima gli italiani”. Applicano quanto Borghezio affermò in Francia, che in Italia la vera difesa delle identità era possibile solo con partiti localistici come la Lega e che questi sono il grimaldello per il diffondere politiche nazionalsocialiste. Naturalmente i sardo-leghisti e chi li segue sul web, non sanno che i sardi erano i barbari interni dell’Italia post unitaria.

“La Sardegna così presenterebbe una zona doppiamente maledetta: maledetta nella terra, […] immodificabile, maledetta negli uomini, che non hanno facoltà di adattamento alla civiltà! La conclusione sarebbe addirittura dolorosa; e meno male se non si trattasse di applicarla che alla piccola zona delinquente della Sardegna. Ma la logica è fatale e suggerisce altrimenti: la razza maledetta, che popola tutta la Sardegna, la Sicilia e il mezzogiorno d’Italia, ch’è tanto affine per la sua criminalità per le origini e pel suoi caratteri antropologici alla prima, dovrebbe essere ugualmente trattata col ferro e col fuoco,condannata alla morte come le razze inferiori dell’Africa dell’Australia ecc. che i feroci e scellerati civilizzatori dell’Europa sistematicamente distruggono per rubarne le terre.” Scrive il deputato repubblicano Napolone Colajanni in un pamphlet del 1898 confutando gli scritti di Alfredo Niceforo, definiti “romanzo antropologico” di nessuna attendibilità scientifica.

È interessante però che anche un progressista come lui non sfugga a quei cascami di positivismo considerando i non europei inferiori. Niceforo divideva l’Italia unita in due “razze” a nord gli ariani e a sud e nelle isole i mediterranei; lo faceva su basi fisiche, quali la forma del cranio, indici cefalici, circonferenza cranica, fronte, naso, faccia, zigomi, statura, perimetro toracico, peso, colorito, capelli, occhi e barba. Tratti da cui faceva discendere atteggiamenti culturali e psicologici considerati inferiori. Lino Businco, firmatario nel 1938 del Manifesto per la Razza, inserì i sardi tra gli ariani; c’era stata la Prima Guerra Mondiale e la Brigata Sassari, la razza criminale era diventata etnia combattente e il fascismo non poteva accettare di avere la Sardegna abitata da individui di razza inferiore.

Nonostante ciò nei pregiudizi e negli stigmi degli italiani del nord, in maniera inconsapevole, sono rimaste le classificazioni niceforiane. Tutta la predicazione leghista anti meridionale ha qui le sue fondamenta. Oggi il sardo razzista accetta, alla fin fine, quelle suddivisioni di fine Ottocento. Si inserisce in una gerarchia, sarà sempre dipendente di una visione in cui lui non sarà alla pari dei Salvini e compagni. Loro la razza eletta, e lui l’ascaro buono per i lavori sporchi.

Il 25 di aprile si festeggerà la Liberazione dal fascismo e dal nazionalsocialismo, ma razzismo e xenofobia sono più forti che mai. Una Italia che non si è mai defascistizzata, che negli ultimi trent’anni ha subito una esaltazione dell’odio per il diverso propagandata da Mediaset e anche dalla tv pubblica, ha fatto in modo che i fondamenti culturali del disprezzo si diffondessero fino a diventare sentire comune.

Questa è la triste verità. L’onda migratoria non aiuta e il nostro è un paese di vecchi impauriti, con politiche che mirano alla distruzione della scuola pubblica favorendo l’ignoranza. Chi non è d’accordo con questa visione del mondo ha davanti a sé anni di duro impegno. “Vaste programme“, ebbe a dire il generale De Gaulle a chi gli urlava “mort aux cons” (morte agli idioti).
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By sardegnasoprattutto / 23 aprile 2015/ Culture
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Immigrazione: guardare in faccia la realtà
fiori naufragio-migrantidi Vanni Tola
Ciascuno di noi ha una parte di responsabilità in tutto ciò che accade. E’ inutile e ipocrita chiamarsene fuori con argomentazioni pretestuose. Il colonialismo e la politica di rapina delle risorse dei paesi sottosviluppati e del continente africano, i nostri egoismi individuali e collettivi, le scelte di strategia economica dei paesi occidentali, hanno determinato e alimentano crisi, miseria, guerre. Oggi questi problemi presentano “il conto”. Viviamo e siamo partecipi di un esodo biblico di disperati che cercano condizioni di vita umane nei nostri paesi dopo che, nei loro, si è scatenato l’inferno. Un mare, il Mediterraneo, un tempo “culla di civiltà”, luogo di scambi culturali e commerciali tra culture e popoli diversi, trasformato in sterminato cimitero di esseri umani. L’occidente, i paesi che amano definirsi civili, evoluti, progrediti, devono compiere scelte adeguate alla gravità della situazione, adottare scelte politiche e strategie operative per porre fine agli squilibri che dovranno essere nuove e realmente efficaci. Occorre rimettere in discussione, con serietà e onestà, la ripartizione delle ricchezze mondiali per garantire a tutti condizioni di vita migliori pur sapendo che ciò potrebbe limitare il nostro attuale sistema di vita caratterizzato da ipersfruttamento delle risorse e da sprechi. Occorre infine togliere l’ossigeno alle guerre, a tutte le guerre, a partire degli scontri tribali per arrivare agli scontri tra gli Stati africani, ai diversi focolai di tensione del pianeta, agli scontri interreligiosi. Un passo fondamentale da compiere con la massima urgenza dovrà essere rappresentato dalla drastica limitazione della produzione e del commercio di armi e munizioni mettendo al bando i commercianti di morte e i fomentatori delle guerre. Non si può piangere i morti, applaudire gli appelli del Papa al mattino e nel pomeriggio continuare a vivere favorendo, sia pure indirettamente, la condizione di miseria e sottosviluppo di gran parte del mondo con politiche di rapina e vendita di armi. E soprattutto non si può girare il volto e la mente dall’altra parte e fare finta di non vedere o di non sapere. “Per quanto voi vi crediate assolti, siete lo stesso coinvolti” (F. De André.)
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Come evitare la prossima strage di migranti nel Mediterraneo
[Nel riquadro: Carta di Laura Canali da Chi ha paura del califfo]

Accogliere tutti è impossibile e illogico, persegui(ta)re chi fugge da paesi in guerra anche. Ma qualche soluzione c’è, per l’Europa e per l’Africa.
di Riccardo Pennisi, Limes 21/04/2015

Sulla scala delle innumerevoli crisi con cui l’Europa si trova ad avere a che fare, quella dell’immigrazione attraverso il Mediterraneo è ormai tra le più gravi per le sue proporzioni in termini di persone e di valori morali coinvolti.

Se vogliamo comprenderne le dimensioni reali, non possiamo trascurare alcuni dati. Il primo è certamente quello della consistenza inedita dei flussi migratori: tanto grandi che non solo l’Italia, ma l’intera Europa non ne ha mai visti di simili nella sua storia recente. Per quanto i singoli Stati possano credere bene di intervenire promulgando leggi aspre e repressive, o pensare di impiegare armi e soldati per blindare il confine marittimo, il numero di persone disposte a rischiare di morire per arrivare nel nostro continente non diminuirà. Lo si comprende osservando una mappa del mondo: attorno all’Europa si sono moltiplicati gli scenari di crisi, le guerre, le guerre civili, le carestie – un cambiamento spesso dovuto proprio alla goffa diplomazia o agli errori di calcolo strategico dei singoli Stati europei. Mali e Algeria, Sahel, Libia, Darfur e Corno d’Africa; Siria, Iraq e Afghanistan: lasciarsi alle spalle questi inferni vale qualsiasi pena e qualsiasi spesa.

Il crollo di molti Stati e apparati amministrativi conseguente a queste crisi agevola i trafficanti di esseri umani: il tragitto attraverso il Sahara o per le rotte del Medio Oriente e l’imbarco dalle coste mediterranee avvengono in assenza quasi totale di controlli; inoltre, i vari gruppi che si disputano la signoria sui territori di passaggio utilizzano i migranti come succosa e facile fonte di reddito.

Ad esempio, a occuparsi della sorveglianza sui 600 km di coste della Tripolitania libica – una zona caduta sotto il controllo delle forze ribelli al governo appoggiato dagli occidentali, che ha sede nell’altra parte del paese – ci sono solo due navi-vedette di stanza nel porto di Misurata, per metà devastato dalla guerra. Altre quattro navi sono in mano all’Italia che doveva riequipaggiarle, grazie a un accordo con il governo libico, ma non le ha ancora restituite perchè non c’è alcuna certezza del vero uso che ne verrà fatto.

Proprio il crollo della Libia subito dopo il rovesciamento del dittatore Mu’ammar Gheddafi fa sì che il paese sia diventato lo sbocco ideale per traffici illeciti di ogni tipo, e che i flussi migratori vi si concentrino, privilegiando la rotta su Lampedusa piuttosto che quelle dal Marocco o dall’Algeria al sud della Spagna, o dalla Turchia alle isole greche.

Il record di sbarchi registrati in Italia lo scorso anno (150 mila rifugiati e migranti tratti in salvo secondo l’Unhcr) si prepara a essere battuto nel 2015: l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati certifica già più di 30 mila arrivi in Italia e Grecia a metà aprile – cifra destinata a crescere con lo stabilizzarsi delle condizioni metereologiche: fonti libiche raccolte da Le Monde parlano di 300-700 uomini in partenza quotidianamente nelle giornate di bel tempo.

Gli Stati dell’Unione Europea hanno finora affrontato la questione come un fenomeno stagionale. L’operazione Mare Nostrum costava a Roma 9 milioni al mese, e secondo Human Rights Watch ha soccorso un totale di 100 mila persone. Tuttavia, data l’indisponibilità italiana a contrastare in solitudine un fenomeno che riguarda tutto il continente e la convinzione che una missione meno “generosa” scoraggiasse i migranti, i membri dell’Ue si sono accordati su un suo surrogato.

Sotto il nome di Triton, al costo di 3-5 milioni al mese spalmati sui 28 Stati contribuenti, l’operazione europea in vigore da novembre si limita al pattugliamento, e non alla ricerca e al salvataggio come in precedenza. La sua inefficacia, riconosciuta in febbraio anche dal commissario del Consiglio d’Europa per i Diritti umani Nils Miuznieks, è tristemente provata dal numero di morti registrati negli ultimi mesi, di cui la strage di domenica è solo l’episodio più evidente.

Cosa fare dunque? Considerando che la nostra frontiera è il mare e che non possiamo costruirci sopra un muro come hanno fatto gli Stati Uniti con il loro confine messicano, il modo in cui gli europei si misurano con questo epocale fenomeno dovrebbe cambiare attraverso una nuova assunzione di responsabilità, una revisione degli strumenti di intervento e un piano strategico di medio e lungo periodo. Il regolamento europeo di Dublino, finora in vigore, obbliga a che i migranti chiedano asilo nel paese di approdo: in questo modo l’onere di provvedere alle necessità delle persone soccorse ricade sempre sugli stessi paesi rivieraschi del Mediterraneo, nella proporzione del 70% sul totale dei rifugiati dell’Ue. La destinazione dei migranti è invece nella maggior parte dei casi Germania, Gran Bretagna, Svezia o Norvegia: Stati da cui è giusto pretendere un maggiore coinvolgimento.

Inoltre, l’Ue deve rivedere il suo atteggiamento nei confronti del Nord Africa. La stabilizzazione di tutta l’area deve diventare una priorità sulla quale avere il coraggio di investire risorse, così come una cooperazione allo sviluppo politico-civile che vada oltre il mero riconoscimento delle elezioni (che di per sé non certificano l’esistenza di uno Stato democratico) allargandosi al sostegno dei soggetti che con la loro attività rendono il pluralismo e la partecipazione una prassi diffusa. Risulterebbe difficile, altrimenti, ottenere una collaborazione allo stesso tempo efficace e umanitaria da Stati come l’Egitto, attraversati da moltissimi flussi di passaggio, o la Libia, molo di partenza per eccellenza.

Una collaborazione reciproca che è necessario mettere in pratica con pragmatismo e preparazione: l’impossibilità politica dell’accoglienza in ogni caso e per tutti e l’illogicità dell’opzione repressiva di chiusura dimostrano il fallimento degli approcci ideologici o estemporanei finora adottati.

Senza la collaborazione della Libia, attualmente uno Stato-fantasma, si va poco lontani. La cooperazione con i paesi a lei vicini è necessaria per sorvegliare le rotte percorse dai migranti fino al mare e per smantellare le reti di traffico di esseri umani che le utilizzano; la distruzione dei mezzi di trasporto usati dai criminali, proprio come avviene con l’operazione antipirateria Atalanta al largo della Somalia, potrebbe essere un buon inizio.

La chiusura delle frontiere in Europa provoca un aumento della clandestinità: sarebbe dunque meglio estendere la possibilità di chiedere asilo anche nei paesi nordafricani, e direttamente dai paesi nordafricani per tutti i paesi europei – magari armonizzando le politiche attualmente sbilanciate dei singoli Stati Ue in materia di status di rifugiato e asilo politico. Il peso delle richieste di asilo su Grecia, Malta e Italia dovrebbe essere sostenuto economicamente e amministrativamente da tutte le capitali europee.

Infine, le regole di ingaggio di Triton dovrebbero almeno essere riportate a quelle di Mare Nostrum, in attesa di costruire una maggiore integrazione con le forze di salvataggio e sorveglianza nordafricane – perchè non siano semplice assistenza in mare ma permettano anche un migliore contrasto al traffico di esseri umani. A tal fine l’Europa dovrebbe dotarsi di quella politica comune sull’immigrazione che finora gli Stati, gelosi delle loro prerogative nazionali, hanno rifiutato di concedere a Bruxelles. In mancanza di questa, l’Ue potrà solo continuare a stilare liste di buoni propositi.

Sulla sponda nord del Mediterraneo l’immigrazione continua ad essere usata con successo dai partiti populisti ed eurofobici proprio come prova dell’inefficacia e dell’inutilità dell’Unione Europea. Sulla sponda sud, non solo il crimine organizzato la utilizza come fonte di profitto e serbatoio di reclutamento, ma anche il terrorismo comincia a vedere il potenziale destabilizzante del fenomeno.

africa 1914

28 aprile, 28 de abrili, sa die de sa Sardinia

logo-sa-die-F-Figari-300x173Sa die RAS.
Il significato. La storia. Il programma: Sa die in Casteddu, sa die in totu sa Sardigna.
- Sul sito della Fondazione Sardinia
http://www.fondazionesardinia.eu/ita/?p=10319#more-10319
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Sa-dì-de-sacciappa-Piero-Marcialis-SDL DOCUMENTAZIONE Sa dì de s’acciappa – ***Testo integrale su Sardegna Digital Library.
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PIU’ CHE MAI ATTUALE: DUE ANNI FA, IL 27 APRILE 2013, A PALAZZO VICE REGIO LA MANIFESTAZIONE “SAS CHIMBE PREGUNTAS”
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Sardegna-bomeluzo22

Po “sa die de sa Sardigna” 2015

logo-sa-die-F-Figari-300x173Sa die RAS.
Il significato. La storia. Il programma: Sa die in Casteddu, sa die in totu sa Sardigna.
- Sul sito della Fondazione Sardinia
http://www.fondazionesardinia.eu/ita/?p=10319#more-10319
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Immigrazione: guardare in faccia la realtà. Facciamo i conti anche in casa nostra… e pensiamo al “che fare”

barcone_immigrati3Caro Presidente, e se fosse la Sardegna la terra di accoglienza che cercano?
di Marco Meloni

Caro Presidente,

Le scrivo pubblicamente dopo giorni di riflessioni, rabbia ed un profondo quanto lacerante senso di impotenza e dopo le tante, sicuramente troppe, prese di posizione di chi, cavalcando la paura, parla di minaccia e invasione, di chi non si ferma neanche davanti ad un mare tinto di rosso, il nostro mare. Bombardiamo, blocchiamo, affondiamo: ma chi e che cosa? Giovani, bambini, donne, uomini disperati? Profughi che scappano da una guerra? E se scappassero “solo” dalla fame e dalla quotidiana violenza? Sarebbe davvero così diverso?

Li definiamo clandestini, profughi, rifugiati, immigrati, perché spesso non abbiamo il coraggio di chiamarli persone, di riconoscere che l’unica vera differenza tra noi e loro è quella di essere capitati in due lati diversi dello stesso mare. Interpretiamo il Mediterraneo come confine e barriera, il nostro problema è unicamente che stiano arrivando qui e non la barbarie dalla quale stanno scappando.

Scrivo a Lei, chiamato a governare la nostra Isola in difficoltà, dove una crisi strutturale sembra impedirci di declinare i verbi al futuro, le scrivo perché la nostra sofferenza e paura non diventino cecità. Poche settimane fa al centro del dibattito politico sardo discutevamo animatamente del ridimensionamento scolastico. Nel dibattito le ragioni di chi cerca di difendere ogni scuola anche nei piccoli centri, per la fondamentale funzione educativa e motivazioni sociali, si confrontavano e si scontravano con le ragioni di chi vorrebbe rendere maggiormente efficiente un sistema ridimensionato nei finanziamenti e ancor di più nei numeri dei fruitori. Chiedendoci se fosse giusto mantenere multiclassi con pochi alunni, ci si è reciprocamente accusati di uccidere i comuni da una parte e di barattare lo sviluppo dei nostri giovani per interessi locali dall’altra. Sullo sfondo però, la vera questione è e continuerà ad essere lo spopolamento dell’intera nostra regione, soprattutto nelle sue zone interne. Nel 2014 in Sardegna il numero di morti supera quelle delle nascite di 3.344 persone. La nostra crescita naturale (per mille abitanti) è stimata a -2,3 , in un anno ogni mille sardi sono nati appena 7,1 bambini. (dati Istat) A ciò si aggiunge l’ingente emigrazione dei nostri concittadini in età da lavoro che silenziosamente anno dopo anno lasciano la nostra Isola in cerca di un futuro migliore, a volte, semplicemente di un futuro possibile. Un preoccupante processo di sofferenza demografica interessa il 55% del territorio regionale. Paesi come Armungia, Sini, Bortigiadas, Ussassai, Borutta e tanti altri rischiano di scomparire, molti invece, pur salvandosi, nei prossimi anni andranno incontro ad una desertificazione demografica graduale e apparentemente inesorabile.

Metto a confronto i due fenomeni, in un triste ossimoro, coerente con la nostra epoca di disequilibrio ma incoerente con la ragione umana. E le faccio una proposta coraggiosa: accogliamoli noi, se non tutti una parte importante, proponiamogli di far vivere la nostra terra, le nostre campagne, le montagne e le più numerose colline, sino alle coste. Non avremo risorse faraoniche, ma sappiamo spezzare il nostro pane. Gli ultimi decenni ci dimostrano come la diminuzione delle persone nelle tavole non abbia portato ad un maggiore benessere. Al contrario dove mancano braccia e teste non c’è ripresa né rilancio.

Non le sto proponendo di aprire i nostri centri di accoglienza ad un numero maggiore di persone, seppur plaudo alla risposta che si sta cercando di dare in emergenza, né di capitalizzare la sofferenza dei migranti come molti hanno tristemente fatto, le sto proponendo un modello di sviluppo basato sulla dignità della vita, sull’apertura all’altro e sulla cooperazione comunitaria.

Ospitiamoli nei nostri paesi, insegniamogli i nostri mestieri e le nostre arti, rilanciamo le nostre produzioni di qualità, impariamo dalle loro storie, mettiamoci in gioco. Così faremo della Sardegna un grande laboratorio multiculturale, una terra di incontro e pace, un luogo nel quale anche i nostri tanti emigrati potranno tornare portando con sé le proprie esperienze. Del resto abbiamo fatto tanti sacrifici per salvare banche e grandi economie, questa volta facciamoli per salvare vite, le loro, e vitalità, la nostra.

Non vi è traccia di purezza razziale nel nostro popolo Presidente, le gocce di sangue nuragiche nei secoli si sono mischiate con il sangue dei conquistatori, dei mercanti, dei tanti popoli che sono approdati nella nostra isola. Siamo di fatto figli dei Fenici, dei Punici, dei Romani, dei tanti Spagnoli, dei Pisani, Piemontesi, Genovesi. È il mediterraneo che ci scorre nelle vene. Abbiamo imparato a convivere con lingue ed usi diversi dal nostro, abbiamo aperto le case anche a chi poi ha approfittato della nostra accoglienza, abbiamo spesso salutato i nostri figli in partenza, abbiamo pianto i nostri morti in mare ed in guerra, ci siamo sentiti gli ultimi. Noi possiamo capire cosa significa la loro sofferenza, abbiamo la responsabilità storica e morale di farlo.

Certamente l’Europa deva essere chiamata a fare la sua parte e la comunità internazionale, ONU in primis, non può voltare le spalle a questa emergenza umanitaria. Ma, nel frattempo, abbandoniamo il nostro solito attendismo e dipendenza per dare risposte di impegno e solidarietà a livello locale.

Dimostriamo che la nostra identità non è racchiusa solo in celebrazioni storiche, sagre e nei maialetti in viaggio per l’EXPO. Identità è differenza che arricchisce, oggi vorrei che sapessimo esprimerla con una scelta coraggiosa e umana. Oggi in questo vorrei sentirmi diverso, vorrei orgogliosamente sentirmi sardo.

Marco Meloni

“buonista”
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sardu dueL’ossimoro del sardo razzista
di Nicolò Migheli

Dopo la strage in mare dei novecento migranti La Nuova Sardegna e l’Unione Sarda hanno dovuto ritirare gli articoli dalle loro edizioni on-line, perché strapieni di commenti offensivi e razzisti. I lupi da tastiera non aspettano altro. A volte si nascondono dietro eteronimi. Altri più coraggiosi, non esitano a firmare con i propri nomi. In questi ultimi anni, più volte è capitato di leggere o assistere a manifestazioni di intolleranza nei confronti di migranti o dei rom. Tutte le volte ci si è consolati con un “i sardi non sono razzisti.”

Bisogna dire, ad onor del vero, che il razzismo biologico è ormai scomparso, seppellito con la Seconda Guerra Mondiale. Solo il professore irlandese Richard Lynn e qualche gruppo minoritario di “Supremazia Bianca” insistono su dottrine finite nell’immondezzaio della storia. Oggi prevalgono le teorie sulle diversità culturali e sulla inconciliabilità delle stesse. In un mondo così globalizzato trionfa la paura dell’altro e su questo si costruiscono fortune politiche. Il razzismo e la xenofobia non sono una caratteristica occidentale; ad esempio i turchi disprezzano gli arabi e si sentono superiori, gli arabi a loro volta considerano inferiori gli africani neri.

Solo in Occidente però le teorie razziali spacciate come scientifiche, sono state fondanti di regimi, non solo quelli fascisti e nazisti, ma anche di quelli coloniali. Lo stereotipo del “ fardello dell’uomo bianco” che “civilizza” il mondo, ha nella superiorità razziale e culturale il suo fondamento. Le decine di migliaia di persone che fuggono dalle guerre dei loro paesi o dalla povertà estrema, si riversano sulle rive del Mediterraneo provocando reazioni di paura e rifiuto. Anche in questi giorni di lutto le reti sociali e il web sono pieni di falsità e di gente che specula sul dolore degli altri. Gruppi di estrema destra e leghisti che in questa disgrazia colgono segni di fortune elettorali.

Nessuna parte d’Italia è indenne. La stessa Sardegna non si differenzia. Vi sono gruppuscoli di destra che sotto il velo dell’autodeterminazione dei sardi mostrano gli stessi comportamenti xenofobi e razzisti di chi predica “prima gli italiani”. Applicano quanto Borghezio affermò in Francia, che in Italia la vera difesa delle identità era possibile solo con partiti localistici come la Lega e che questi sono il grimaldello per il diffondere politiche nazionalsocialiste. Naturalmente i sardo-leghisti e chi li segue sul web, non sanno che i sardi erano i barbari interni dell’Italia post unitaria.

“La Sardegna così presenterebbe una zona doppiamente maledetta: maledetta nella terra, […] immodificabile, maledetta negli uomini, che non hanno facoltà di adattamento alla civiltà! La conclusione sarebbe addirittura dolorosa; e meno male se non si trattasse di applicarla che alla piccola zona delinquente della Sardegna. Ma la logica è fatale e suggerisce altrimenti: la razza maledetta, che popola tutta la Sardegna, la Sicilia e il mezzogiorno d’Italia, ch’è tanto affine per la sua criminalità per le origini e pel suoi caratteri antropologici alla prima, dovrebbe essere ugualmente trattata col ferro e col fuoco,condannata alla morte come le razze inferiori dell’Africa dell’Australia ecc. che i feroci e scellerati civilizzatori dell’Europa sistematicamente distruggono per rubarne le terre.” Scrive il deputato repubblicano Napolone Colajanni in un pamphlet del 1898 confutando gli scritti di Alfredo Niceforo, definiti “romanzo antropologico” di nessuna attendibilità scientifica.

È interessante però che anche un progressista come lui non sfugga a quei cascami di positivismo considerando i non europei inferiori. Niceforo divideva l’Italia unita in due “razze” a nord gli ariani e a sud e nelle isole i mediterranei; lo faceva su basi fisiche, quali la forma del cranio, indici cefalici, circonferenza cranica, fronte, naso, faccia, zigomi, statura, perimetro toracico, peso, colorito, capelli, occhi e barba. Tratti da cui faceva discendere atteggiamenti culturali e psicologici considerati inferiori. Lino Businco, firmatario nel 1938 del Manifesto per la Razza, inserì i sardi tra gli ariani; c’era stata la Prima Guerra Mondiale e la Brigata Sassari, la razza criminale era diventata etnia combattente e il fascismo non poteva accettare di avere la Sardegna abitata da individui di razza inferiore.

Nonostante ciò nei pregiudizi e negli stigmi degli italiani del nord, in maniera inconsapevole, sono rimaste le classificazioni niceforiane. Tutta la predicazione leghista anti meridionale ha qui le sue fondamenta. Oggi il sardo razzista accetta, alla fin fine, quelle suddivisioni di fine Ottocento. Si inserisce in una gerarchia, sarà sempre dipendente di una visione in cui lui non sarà alla pari dei Salvini e compagni. Loro la razza eletta, e lui l’ascaro buono per i lavori sporchi.

Il 25 di aprile si festeggerà la Liberazione dal fascismo e dal nazionalsocialismo, ma razzismo e xenofobia sono più forti che mai. Una Italia che non si è mai defascistizzata, che negli ultimi trent’anni ha subito una esaltazione dell’odio per il diverso propagandata da Mediaset e anche dalla tv pubblica, ha fatto in modo che i fondamenti culturali del disprezzo si diffondessero fino a diventare sentire comune.

Questa è la triste verità. L’onda migratoria non aiuta e il nostro è un paese di vecchi impauriti, con politiche che mirano alla distruzione della scuola pubblica favorendo l’ignoranza. Chi non è d’accordo con questa visione del mondo ha davanti a sé anni di duro impegno. “Vaste programme“, ebbe a dire il generale De Gaulle a chi gli urlava “mort aux cons” (morte agli idioti).
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By sardegnasoprattutto / 23 aprile 2015/ Culture
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Immigrazione: guardare in faccia la realtà
fiori naufragio-migrantidi Vanni Tola
Ciascuno di noi ha una parte di responsabilità in tutto ciò che accade. E’ inutile e ipocrita chiamarsene fuori con argomentazioni pretestuose. Il colonialismo e la politica di rapina delle risorse dei paesi sottosviluppati e del continente africano, i nostri egoismi individuali e collettivi, le scelte di strategia economica dei paesi occidentali, hanno determinato e alimentano crisi, miseria, guerre. Oggi questi problemi presentano “il conto”. Viviamo e siamo partecipi di un esodo biblico di disperati che cercano condizioni di vita umane nei nostri paesi dopo che, nei loro, si è scatenato l’inferno. Un mare, il Mediterraneo, un tempo “culla di civiltà”, luogo di scambi culturali e commerciali tra culture e popoli diversi, trasformato in sterminato cimitero di esseri umani. L’occidente, i paesi che amano definirsi civili, evoluti, progrediti, devono compiere scelte adeguate alla gravità della situazione, adottare scelte politiche e strategie operative per porre fine agli squilibri che dovranno essere nuove e realmente efficaci. Occorre rimettere in discussione, con serietà e onestà, la ripartizione delle ricchezze mondiali per garantire a tutti condizioni di vita migliori pur sapendo che ciò potrebbe limitare il nostro attuale sistema di vita caratterizzato da ipersfruttamento delle risorse e da sprechi. Occorre infine togliere l’ossigeno alle guerre, a tutte le guerre, a partire degli scontri tribali per arrivare agli scontri tra gli Stati africani, ai diversi focolai di tensione del pianeta, agli scontri interreligiosi. Un passo fondamentale da compiere con la massima urgenza dovrà essere rappresentato dalla drastica limitazione della produzione e del commercio di armi e munizioni mettendo al bando i commercianti di morte e i fomentatori delle guerre. Non si può piangere i morti, applaudire gli appelli del Papa al mattino e nel pomeriggio continuare a vivere favorendo, sia pure indirettamente, la condizione di miseria e sottosviluppo di gran parte del mondo con politiche di rapina e vendita di armi. E soprattutto non si può girare il volto e la mente dall’altra parte e fare finta di non vedere o di non sapere. “Per quanto voi vi crediate assolti, siete lo stesso coinvolti” (F. De André.)
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700 migranti morti bimbamorta375_300
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Come evitare la prossima strage di migranti nel Mediterraneo
[Nel riquadro: Carta di Laura Canali da Chi ha paura del califfo]

Accogliere tutti è impossibile e illogico, persegui(ta)re chi fugge da paesi in guerra anche. Ma qualche soluzione c’è, per l’Europa e per l’Africa.
di Riccardo Pennisi, Limes 21/04/2015

Sulla scala delle innumerevoli crisi con cui l’Europa si trova ad avere a che fare, quella dell’immigrazione attraverso il Mediterraneo è ormai tra le più gravi per le sue proporzioni in termini di persone e di valori morali coinvolti.

Se vogliamo comprenderne le dimensioni reali, non possiamo trascurare alcuni dati. Il primo è certamente quello della consistenza inedita dei flussi migratori: tanto grandi che non solo l’Italia, ma l’intera Europa non ne ha mai visti di simili nella sua storia recente. Per quanto i singoli Stati possano credere bene di intervenire promulgando leggi aspre e repressive, o pensare di impiegare armi e soldati per blindare il confine marittimo, il numero di persone disposte a rischiare di morire per arrivare nel nostro continente non diminuirà. Lo si comprende osservando una mappa del mondo: attorno all’Europa si sono moltiplicati gli scenari di crisi, le guerre, le guerre civili, le carestie – un cambiamento spesso dovuto proprio alla goffa diplomazia o agli errori di calcolo strategico dei singoli Stati europei. Mali e Algeria, Sahel, Libia, Darfur e Corno d’Africa; Siria, Iraq e Afghanistan: lasciarsi alle spalle questi inferni vale qualsiasi pena e qualsiasi spesa.

Il crollo di molti Stati e apparati amministrativi conseguente a queste crisi agevola i trafficanti di esseri umani: il tragitto attraverso il Sahara o per le rotte del Medio Oriente e l’imbarco dalle coste mediterranee avvengono in assenza quasi totale di controlli; inoltre, i vari gruppi che si disputano la signoria sui territori di passaggio utilizzano i migranti come succosa e facile fonte di reddito.

Ad esempio, a occuparsi della sorveglianza sui 600 km di coste della Tripolitania libica – una zona caduta sotto il controllo delle forze ribelli al governo appoggiato dagli occidentali, che ha sede nell’altra parte del paese – ci sono solo due navi-vedette di stanza nel porto di Misurata, per metà devastato dalla guerra. Altre quattro navi sono in mano all’Italia che doveva riequipaggiarle, grazie a un accordo con il governo libico, ma non le ha ancora restituite perchè non c’è alcuna certezza del vero uso che ne verrà fatto.

Proprio il crollo della Libia subito dopo il rovesciamento del dittatore Mu’ammar Gheddafi fa sì che il paese sia diventato lo sbocco ideale per traffici illeciti di ogni tipo, e che i flussi migratori vi si concentrino, privilegiando la rotta su Lampedusa piuttosto che quelle dal Marocco o dall’Algeria al sud della Spagna, o dalla Turchia alle isole greche.

Il record di sbarchi registrati in Italia lo scorso anno (150 mila rifugiati e migranti tratti in salvo secondo l’Unhcr) si prepara a essere battuto nel 2015: l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati certifica già più di 30 mila arrivi in Italia e Grecia a metà aprile – cifra destinata a crescere con lo stabilizzarsi delle condizioni metereologiche: fonti libiche raccolte da Le Monde parlano di 300-700 uomini in partenza quotidianamente nelle giornate di bel tempo.

Gli Stati dell’Unione Europea hanno finora affrontato la questione come un fenomeno stagionale. L’operazione Mare Nostrum costava a Roma 9 milioni al mese, e secondo Human Rights Watch ha soccorso un totale di 100 mila persone. Tuttavia, data l’indisponibilità italiana a contrastare in solitudine un fenomeno che riguarda tutto il continente e la convinzione che una missione meno “generosa” scoraggiasse i migranti, i membri dell’Ue si sono accordati su un suo surrogato.

Sotto il nome di Triton, al costo di 3-5 milioni al mese spalmati sui 28 Stati contribuenti, l’operazione europea in vigore da novembre si limita al pattugliamento, e non alla ricerca e al salvataggio come in precedenza. La sua inefficacia, riconosciuta in febbraio anche dal commissario del Consiglio d’Europa per i Diritti umani Nils Miuznieks, è tristemente provata dal numero di morti registrati negli ultimi mesi, di cui la strage di domenica è solo l’episodio più evidente.

Cosa fare dunque? Considerando che la nostra frontiera è il mare e che non possiamo costruirci sopra un muro come hanno fatto gli Stati Uniti con il loro confine messicano, il modo in cui gli europei si misurano con questo epocale fenomeno dovrebbe cambiare attraverso una nuova assunzione di responsabilità, una revisione degli strumenti di intervento e un piano strategico di medio e lungo periodo. Il regolamento europeo di Dublino, finora in vigore, obbliga a che i migranti chiedano asilo nel paese di approdo: in questo modo l’onere di provvedere alle necessità delle persone soccorse ricade sempre sugli stessi paesi rivieraschi del Mediterraneo, nella proporzione del 70% sul totale dei rifugiati dell’Ue. La destinazione dei migranti è invece nella maggior parte dei casi Germania, Gran Bretagna, Svezia o Norvegia: Stati da cui è giusto pretendere un maggiore coinvolgimento.

Inoltre, l’Ue deve rivedere il suo atteggiamento nei confronti del Nord Africa. La stabilizzazione di tutta l’area deve diventare una priorità sulla quale avere il coraggio di investire risorse, così come una cooperazione allo sviluppo politico-civile che vada oltre il mero riconoscimento delle elezioni (che di per sé non certificano l’esistenza di uno Stato democratico) allargandosi al sostegno dei soggetti che con la loro attività rendono il pluralismo e la partecipazione una prassi diffusa. Risulterebbe difficile, altrimenti, ottenere una collaborazione allo stesso tempo efficace e umanitaria da Stati come l’Egitto, attraversati da moltissimi flussi di passaggio, o la Libia, molo di partenza per eccellenza.

Una collaborazione reciproca che è necessario mettere in pratica con pragmatismo e preparazione: l’impossibilità politica dell’accoglienza in ogni caso e per tutti e l’illogicità dell’opzione repressiva di chiusura dimostrano il fallimento degli approcci ideologici o estemporanei finora adottati.

Senza la collaborazione della Libia, attualmente uno Stato-fantasma, si va poco lontani. La cooperazione con i paesi a lei vicini è necessaria per sorvegliare le rotte percorse dai migranti fino al mare e per smantellare le reti di traffico di esseri umani che le utilizzano; la distruzione dei mezzi di trasporto usati dai criminali, proprio come avviene con l’operazione antipirateria Atalanta al largo della Somalia, potrebbe essere un buon inizio.

La chiusura delle frontiere in Europa provoca un aumento della clandestinità: sarebbe dunque meglio estendere la possibilità di chiedere asilo anche nei paesi nordafricani, e direttamente dai paesi nordafricani per tutti i paesi europei – magari armonizzando le politiche attualmente sbilanciate dei singoli Stati Ue in materia di status di rifugiato e asilo politico. Il peso delle richieste di asilo su Grecia, Malta e Italia dovrebbe essere sostenuto economicamente e amministrativamente da tutte le capitali europee.

Infine, le regole di ingaggio di Triton dovrebbero almeno essere riportate a quelle di Mare Nostrum, in attesa di costruire una maggiore integrazione con le forze di salvataggio e sorveglianza nordafricane – perchè non siano semplice assistenza in mare ma permettano anche un migliore contrasto al traffico di esseri umani. A tal fine l’Europa dovrebbe dotarsi di quella politica comune sull’immigrazione che finora gli Stati, gelosi delle loro prerogative nazionali, hanno rifiutato di concedere a Bruxelles. In mancanza di questa, l’Ue potrà solo continuare a stilare liste di buoni propositi.

Sulla sponda nord del Mediterraneo l’immigrazione continua ad essere usata con successo dai partiti populisti ed eurofobici proprio come prova dell’inefficacia e dell’inutilità dell’Unione Europea. Sulla sponda sud, non solo il crimine organizzato la utilizza come fonte di profitto e serbatoio di reclutamento, ma anche il terrorismo comincia a vedere il potenziale destabilizzante del fenomeno.

africa 1914

“Transatlantic Trade and Investment Partnership”. Cos’è il “TTIP” e perché dobbiamo occuparcene

TTIP aladinCos’è il “Transatlantic Trade and Investment Partnership” e perché dobbiamo occuparcene (seconda parte).
sedia di Vannitoladi Vanni Tola
Completiamo la presentazione della trattativa in corso per la realizzazione dell’accordo commerciale internazionale tra gli Stati Uniti e i Paesi Europei meglio noto come TTIP. Nei giorni scorsi in alcune delle principali città europee e negli Stati Uniti si sono svolte diverse manifestazioni per chiedere il blocco o la soppressione “tout court” del trattato TTIP. Al momento ci interessa principalmente completare il quadro d’insieme relativo alla trattativa in corso introdotto col precedente articolo pubblicato su Aladinpensiero (https://www.aladinpensiero.it/?p=40855). Robuste argomentazioni sostengono l’importanza e le potenzialità del Trattato. Una di quelle maggiormente diffuse preannuncia un prevedibile incremento del volume degli scambi e in particolare delle esportazioni europee verso gli Stati Uniti, stimato intorno al 28%, circa 187 miliardi di euro. Altro argomento a favore del Trattato è rappresentato dalla riduzione e, in prospettiva, dalla eliminazione dei dazi nei commerci tra Stati Uniti ed Europa che, benché notevolmente più bassi di quelli applicati nei commerci con altre aree del mondo, rappresentano comunque un notevole “freno” all’ulteriore sviluppo degli scambi commerciali. L’applicazione del Trattato TTIP dovrebbe far registrare un aumento del PIL mondiale tra lo 0,5 e l’1%, qualcosa come 120 miliardi di euro e, naturalmente, aumenterebbe anche quello degli stati contraenti il patto, stimato in 550 euro/anno per ciascuna famiglia europea. Altri vantaggi descritti dai sostenitori del TTIP deriverebbero poi dal fatto che si attiverebbe nell’area oggetto del Trattato una maggiore concorrenza e generali benefici sull’innovazione e il miglioramento tecnologico delle diverse produzioni. Un ultimo e importante elemento positivo dell’applicazione del Trattato sarebbe poi rappresentato dalla semplificazione burocratica e dalle nuove regolamentazioni riguardanti gli scambi commerciali. All’accordo prospettato con la trattativa per la realizzazione del TTIP, si oppongono numerose organizzazioni internazionali e una nutrita rete di associazioni (compresa Slow Food) con le loro delegazioni presenti in diversi paesi e una consistente schiera di esperti ed economisti. Una delle maggiori critiche alle trattative il corso è rivolta al fatto che le stesse si svolgano in forma segreta e i contenuti oggetto degli incontri restino confinati nei ristretti gruppi di negoziatori rappresentanti le parti contraenti. La poca trasparenza relativa al confronto è, di per sé, fonte di preoccupazione e sospetto. Altra fonte di preoccupazione è rappresentata dal fatto che uno dei più importanti studi a favore del TTIP sia stato realizzato da un Centro Studi di Londra finanziato da grandi banche internazionali (Center for Economic Policy Research). Gli aspetti positivi del Trattato descritti in tale studio non rappresenterebbero, a parere degli oppositori, una stima dei risultati affidabile perché riferiti a tempi abbastanza lunghi e anche per il fatto che una infinità di variabili potrebbero, in tempi cosi dilatati, vanificare, o quantomeno modificare, le stime di previsione. Altre possibili conseguenze negative riguarderebbero la circolazione di farmaci meno affidabile, l’aumento della dipendenza dal petrolio, la perdita di posti di lavoro per la scomparsa delle norme sulla preferenza nazionale in materia di forniture pubbliche, l’assoggettamento degli stati a un diritto fatto su misura per le multinazionali. - segue -

Immigrazione: guardare in faccia la realtà. Facciamo i conti anche in casa nostra

sardu dueL’ossimoro del sardo razzista
di Nicolò Migheli

Dopo la strage in mare dei novecento migranti La Nuova Sardegna e l’Unione Sarda hanno dovuto ritirare gli articoli dalle loro edizioni on-line, perché strapieni di commenti offensivi e razzisti. I lupi da tastiera non aspettano altro. A volte si nascondono dietro eteronimi. Altri più coraggiosi, non esitano a firmare con i propri nomi. In questi ultimi anni, più volte è capitato di leggere o assistere a manifestazioni di intolleranza nei confronti di migranti o dei rom. Tutte le volte ci si è consolati con un “i sardi non sono razzisti.”

Bisogna dire, ad onor del vero, che il razzismo biologico è ormai scomparso, seppellito con la Seconda Guerra Mondiale. Solo il professore irlandese Richard Lynn e qualche gruppo minoritario di “Supremazia Bianca” insistono su dottrine finite nell’immondezzaio della storia. Oggi prevalgono le teorie sulle diversità culturali e sulla inconciliabilità delle stesse. In un mondo così globalizzato trionfa la paura dell’altro e su questo si costruiscono fortune politiche. Il razzismo e la xenofobia non sono una caratteristica occidentale; ad esempio i turchi disprezzano gli arabi e si sentono superiori, gli arabi a loro volta considerano inferiori gli africani neri.

Solo in Occidente però le teorie razziali spacciate come scientifiche, sono state fondanti di regimi, non solo quelli fascisti e nazisti, ma anche di quelli coloniali. Lo stereotipo del “ fardello dell’uomo bianco” che “civilizza” il mondo, ha nella superiorità razziale e culturale il suo fondamento. Le decine di migliaia di persone che fuggono dalle guerre dei loro paesi o dalla povertà estrema, si riversano sulle rive del Mediterraneo provocando reazioni di paura e rifiuto. Anche in questi giorni di lutto le reti sociali e il web sono pieni di falsità e di gente che specula sul dolore degli altri. Gruppi di estrema destra e leghisti che in questa disgrazia colgono segni di fortune elettorali.

Nessuna parte d’Italia è indenne. La stessa Sardegna non si differenzia. Vi sono gruppuscoli di destra che sotto il velo dell’autodeterminazione dei sardi mostrano gli stessi comportamenti xenofobi e razzisti di chi predica “prima gli italiani”. Applicano quanto Borghezio affermò in Francia, che in Italia la vera difesa delle identità era possibile solo con partiti localistici come la Lega e che questi sono il grimaldello per il diffondere politiche nazionalsocialiste. Naturalmente i sardo-leghisti e chi li segue sul web, non sanno che i sardi erano i barbari interni dell’Italia post unitaria.

“La Sardegna così presenterebbe una zona doppiamente maledetta: maledetta nella terra, […] immodificabile, maledetta negli uomini, che non hanno facoltà di adattamento alla civiltà! La conclusione sarebbe addirittura dolorosa; e meno male se non si trattasse di applicarla che alla piccola zona delinquente della Sardegna. Ma la logica è fatale e suggerisce altrimenti: la razza maledetta, che popola tutta la Sardegna, la Sicilia e il mezzogiorno d’Italia, ch’è tanto affine per la sua criminalità per le origini e pel suoi caratteri antropologici alla prima, dovrebbe essere ugualmente trattata col ferro e col fuoco,condannata alla morte come le razze inferiori dell’Africa dell’Australia ecc. che i feroci e scellerati civilizzatori dell’Europa sistematicamente distruggono per rubarne le terre.” Scrive il deputato repubblicano Napolone Colajanni in un pamphlet del 1898 confutando gli scritti di Alfredo Niceforo, definiti “romanzo antropologico” di nessuna attendibilità scientifica.

È interessante però che anche un progressista come lui non sfugga a quei cascami di positivismo considerando i non europei inferiori. Niceforo divideva l’Italia unita in due “razze” a nord gli ariani e a sud e nelle isole i mediterranei; lo faceva su basi fisiche, quali la forma del cranio, indici cefalici, circonferenza cranica, fronte, naso, faccia, zigomi, statura, perimetro toracico, peso, colorito, capelli, occhi e barba. Tratti da cui faceva discendere atteggiamenti culturali e psicologici considerati inferiori. Lino Businco, firmatario nel 1938 del Manifesto per la Razza, inserì i sardi tra gli ariani; c’era stata la Prima Guerra Mondiale e la Brigata Sassari, la razza criminale era diventata etnia combattente e il fascismo non poteva accettare di avere la Sardegna abitata da individui di razza inferiore.

Nonostante ciò nei pregiudizi e negli stigmi degli italiani del nord, in maniera inconsapevole, sono rimaste le classificazioni niceforiane. Tutta la predicazione leghista anti meridionale ha qui le sue fondamenta. Oggi il sardo razzista accetta, alla fin fine, quelle suddivisioni di fine Ottocento. Si inserisce in una gerarchia, sarà sempre dipendente di una visione in cui lui non sarà alla pari dei Salvini e compagni. Loro la razza eletta, e lui l’ascaro buono per i lavori sporchi.

Il 25 di aprile si festeggerà la Liberazione dal fascismo e dal nazionalsocialismo, ma razzismo e xenofobia sono più forti che mai. Una Italia che non si è mai defascistizzata, che negli ultimi trent’anni ha subito una esaltazione dell’odio per il diverso propagandata da Mediaset e anche dalla tv pubblica, ha fatto in modo che i fondamenti culturali del disprezzo si diffondessero fino a diventare sentire comune.

Questa è la triste verità. L’onda migratoria non aiuta e il nostro è un paese di vecchi impauriti, con politiche che mirano alla distruzione della scuola pubblica favorendo l’ignoranza. Chi non è d’accordo con questa visione del mondo ha davanti a sé anni di duro impegno. “Vaste programme“, ebbe a dire il generale De Gaulle a chi gli urlava “mort aux cons” (morte agli idioti).
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By sardegnasoprattutto / 23 aprile 2015/ Culture
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Immigrazione: guardare in faccia la realtà
fiori naufragio-migrantidi Vanni Tola
Ciascuno di noi ha una parte di responsabilità in tutto ciò che accade. E’ inutile e ipocrita chiamarsene fuori con argomentazioni pretestuose. Il colonialismo e la politica di rapina delle risorse dei paesi sottosviluppati e del continente africano, i nostri egoismi individuali e collettivi, le scelte di strategia economica dei paesi occidentali, hanno determinato e alimentano crisi, miseria, guerre. Oggi questi problemi presentano “il conto”. Viviamo e siamo partecipi di un esodo biblico di disperati che cercano condizioni di vita umane nei nostri paesi dopo che, nei loro, si è scatenato l’inferno. Un mare, il Mediterraneo, un tempo “culla di civiltà”, luogo di scambi culturali e commerciali tra culture e popoli diversi, trasformato in sterminato cimitero di esseri umani. L’occidente, i paesi che amano definirsi civili, evoluti, progrediti, devono compiere scelte adeguate alla gravità della situazione, adottare scelte politiche e strategie operative per porre fine agli squilibri che dovranno essere nuove e realmente efficaci. Occorre rimettere in discussione, con serietà e onestà, la ripartizione delle ricchezze mondiali per garantire a tutti condizioni di vita migliori pur sapendo che ciò potrebbe limitare il nostro attuale sistema di vita caratterizzato da ipersfruttamento delle risorse e da sprechi. Occorre infine togliere l’ossigeno alle guerre, a tutte le guerre, a partire degli scontri tribali per arrivare agli scontri tra gli Stati africani, ai diversi focolai di tensione del pianeta, agli scontri interreligiosi. Un passo fondamentale da compiere con la massima urgenza dovrà essere rappresentato dalla drastica limitazione della produzione e del commercio di armi e munizioni mettendo al bando i commercianti di morte e i fomentatori delle guerre. Non si può piangere i morti, applaudire gli appelli del Papa al mattino e nel pomeriggio continuare a vivere favorendo, sia pure indirettamente, la condizione di miseria e sottosviluppo di gran parte del mondo con politiche di rapina e vendita di armi. E soprattutto non si può girare il volto e la mente dall’altra parte e fare finta di non vedere o di non sapere. “Per quanto voi vi crediate assolti, siete lo stesso coinvolti” (F. De André.)
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Come evitare la prossima strage di migranti nel Mediterraneo
[Nel riquadro: Carta di Laura Canali da Chi ha paura del califfo]

Accogliere tutti è impossibile e illogico, persegui(ta)re chi fugge da paesi in guerra anche. Ma qualche soluzione c’è, per l’Europa e per l’Africa.
di Riccardo Pennisi, Limes 21/04/2015

Sulla scala delle innumerevoli crisi con cui l’Europa si trova ad avere a che fare, quella dell’immigrazione attraverso il Mediterraneo è ormai tra le più gravi per le sue proporzioni in termini di persone e di valori morali coinvolti.

Se vogliamo comprenderne le dimensioni reali, non possiamo trascurare alcuni dati. Il primo è certamente quello della consistenza inedita dei flussi migratori: tanto grandi che non solo l’Italia, ma l’intera Europa non ne ha mai visti di simili nella sua storia recente. Per quanto i singoli Stati possano credere bene di intervenire promulgando leggi aspre e repressive, o pensare di impiegare armi e soldati per blindare il confine marittimo, il numero di persone disposte a rischiare di morire per arrivare nel nostro continente non diminuirà. Lo si comprende osservando una mappa del mondo: attorno all’Europa si sono moltiplicati gli scenari di crisi, le guerre, le guerre civili, le carestie – un cambiamento spesso dovuto proprio alla goffa diplomazia o agli errori di calcolo strategico dei singoli Stati europei. Mali e Algeria, Sahel, Libia, Darfur e Corno d’Africa; Siria, Iraq e Afghanistan: lasciarsi alle spalle questi inferni vale qualsiasi pena e qualsiasi spesa.

Il crollo di molti Stati e apparati amministrativi conseguente a queste crisi agevola i trafficanti di esseri umani: il tragitto attraverso il Sahara o per le rotte del Medio Oriente e l’imbarco dalle coste mediterranee avvengono in assenza quasi totale di controlli; inoltre, i vari gruppi che si disputano la signoria sui territori di passaggio utilizzano i migranti come succosa e facile fonte di reddito.

Ad esempio, a occuparsi della sorveglianza sui 600 km di coste della Tripolitania libica – una zona caduta sotto il controllo delle forze ribelli al governo appoggiato dagli occidentali, che ha sede nell’altra parte del paese – ci sono solo due navi-vedette di stanza nel porto di Misurata, per metà devastato dalla guerra. Altre quattro navi sono in mano all’Italia che doveva riequipaggiarle, grazie a un accordo con il governo libico, ma non le ha ancora restituite perchè non c’è alcuna certezza del vero uso che ne verrà fatto.

Proprio il crollo della Libia subito dopo il rovesciamento del dittatore Mu’ammar Gheddafi fa sì che il paese sia diventato lo sbocco ideale per traffici illeciti di ogni tipo, e che i flussi migratori vi si concentrino, privilegiando la rotta su Lampedusa piuttosto che quelle dal Marocco o dall’Algeria al sud della Spagna, o dalla Turchia alle isole greche.

Il record di sbarchi registrati in Italia lo scorso anno (150 mila rifugiati e migranti tratti in salvo secondo l’Unhcr) si prepara a essere battuto nel 2015: l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati certifica già più di 30 mila arrivi in Italia e Grecia a metà aprile – cifra destinata a crescere con lo stabilizzarsi delle condizioni metereologiche: fonti libiche raccolte da Le Monde parlano di 300-700 uomini in partenza quotidianamente nelle giornate di bel tempo.

Gli Stati dell’Unione Europea hanno finora affrontato la questione come un fenomeno stagionale. L’operazione Mare Nostrum costava a Roma 9 milioni al mese, e secondo Human Rights Watch ha soccorso un totale di 100 mila persone. Tuttavia, data l’indisponibilità italiana a contrastare in solitudine un fenomeno che riguarda tutto il continente e la convinzione che una missione meno “generosa” scoraggiasse i migranti, i membri dell’Ue si sono accordati su un suo surrogato.

Sotto il nome di Triton, al costo di 3-5 milioni al mese spalmati sui 28 Stati contribuenti, l’operazione europea in vigore da novembre si limita al pattugliamento, e non alla ricerca e al salvataggio come in precedenza. La sua inefficacia, riconosciuta in febbraio anche dal commissario del Consiglio d’Europa per i Diritti umani Nils Miuznieks, è tristemente provata dal numero di morti registrati negli ultimi mesi, di cui la strage di domenica è solo l’episodio più evidente.

Cosa fare dunque? Considerando che la nostra frontiera è il mare e che non possiamo costruirci sopra un muro come hanno fatto gli Stati Uniti con il loro confine messicano, il modo in cui gli europei si misurano con questo epocale fenomeno dovrebbe cambiare attraverso una nuova assunzione di responsabilità, una revisione degli strumenti di intervento e un piano strategico di medio e lungo periodo. Il regolamento europeo di Dublino, finora in vigore, obbliga a che i migranti chiedano asilo nel paese di approdo: in questo modo l’onere di provvedere alle necessità delle persone soccorse ricade sempre sugli stessi paesi rivieraschi del Mediterraneo, nella proporzione del 70% sul totale dei rifugiati dell’Ue. La destinazione dei migranti è invece nella maggior parte dei casi Germania, Gran Bretagna, Svezia o Norvegia: Stati da cui è giusto pretendere un maggiore coinvolgimento.

Inoltre, l’Ue deve rivedere il suo atteggiamento nei confronti del Nord Africa. La stabilizzazione di tutta l’area deve diventare una priorità sulla quale avere il coraggio di investire risorse, così come una cooperazione allo sviluppo politico-civile che vada oltre il mero riconoscimento delle elezioni (che di per sé non certificano l’esistenza di uno Stato democratico) allargandosi al sostegno dei soggetti che con la loro attività rendono il pluralismo e la partecipazione una prassi diffusa. Risulterebbe difficile, altrimenti, ottenere una collaborazione allo stesso tempo efficace e umanitaria da Stati come l’Egitto, attraversati da moltissimi flussi di passaggio, o la Libia, molo di partenza per eccellenza.

Una collaborazione reciproca che è necessario mettere in pratica con pragmatismo e preparazione: l’impossibilità politica dell’accoglienza in ogni caso e per tutti e l’illogicità dell’opzione repressiva di chiusura dimostrano il fallimento degli approcci ideologici o estemporanei finora adottati.

Senza la collaborazione della Libia, attualmente uno Stato-fantasma, si va poco lontani. La cooperazione con i paesi a lei vicini è necessaria per sorvegliare le rotte percorse dai migranti fino al mare e per smantellare le reti di traffico di esseri umani che le utilizzano; la distruzione dei mezzi di trasporto usati dai criminali, proprio come avviene con l’operazione antipirateria Atalanta al largo della Somalia, potrebbe essere un buon inizio.

La chiusura delle frontiere in Europa provoca un aumento della clandestinità: sarebbe dunque meglio estendere la possibilità di chiedere asilo anche nei paesi nordafricani, e direttamente dai paesi nordafricani per tutti i paesi europei – magari armonizzando le politiche attualmente sbilanciate dei singoli Stati Ue in materia di status di rifugiato e asilo politico. Il peso delle richieste di asilo su Grecia, Malta e Italia dovrebbe essere sostenuto economicamente e amministrativamente da tutte le capitali europee.

Infine, le regole di ingaggio di Triton dovrebbero almeno essere riportate a quelle di Mare Nostrum, in attesa di costruire una maggiore integrazione con le forze di salvataggio e sorveglianza nordafricane – perchè non siano semplice assistenza in mare ma permettano anche un migliore contrasto al traffico di esseri umani. A tal fine l’Europa dovrebbe dotarsi di quella politica comune sull’immigrazione che finora gli Stati, gelosi delle loro prerogative nazionali, hanno rifiutato di concedere a Bruxelles. In mancanza di questa, l’Ue potrà solo continuare a stilare liste di buoni propositi.

Sulla sponda nord del Mediterraneo l’immigrazione continua ad essere usata con successo dai partiti populisti ed eurofobici proprio come prova dell’inefficacia e dell’inutilità dell’Unione Europea. Sulla sponda sud, non solo il crimine organizzato la utilizza come fonte di profitto e serbatoio di reclutamento, ma anche il terrorismo comincia a vedere il potenziale destabilizzante del fenomeno.

africa 1914