Risultato della ricerca: Vanni Tola

TTIP e TTP. La grande partita a scacchi del capitalismo internazionale

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sedia di Vannitoladi Vanni Tola

La grande partita a scacchi del capitalismo internazionale.

In questi drammatici momenti caratterizzati da processi di migrazione che stanno rivoluzionando la composizione demografica di vaste aree del mondo, da riprese di focolai di guerra che minacciano di estendersi dalla dimensione locale a quella internazionale, il capitalismo internazionale tesse le proprie trame e si riposiziona nello scenario mondiale. Per molti di noi gli acronimi TTIP e TPP non hanno alcun significato in realtà rappresentano qualcosa che ci riguarda e riguarderà in futuro del pianeta. Cominciamo a fare un po’ di chiarezza sulle sigle. Il TTIP (Transatlantic Trade Investiment Partnership) è un negoziato internazionale i cui contenuti sono in gran parte coperti da riserbo. Interessa 50 paesi e mira a realizzare un accordo commerciale mondiale che sia al di sopra dei regolamenti e delle normative dei singoli Stati. Per i detrattori una radicale rivoluzione degli accordi internazionali ad esclusivo beneficio delle società multinazionali, per i sostenitori una grande rivoluzione degli scambi commerciali tra i paesi che, superando i limiti e i vincoli di una miriade di leggi e regolamenti nazionali, darebbe nuova linfa ai commerci, agli scambi di materie prime e prodotti, generando nuove opportunità di crescita e sviluppo nel mondo. Le trattative per la definizione Trattato sono in dirittura di arrivo. Un vasto movimento di opposizione è da tempo mobilitato per chiedere trasparenza sui contenuti del Trattato, molti per chiederne l’abolizione o una sua radicale trasformazione. Il mese di Ottobre sarà ricco di grandi azioni di protesta in America e in molti paesi europei. E’ in corso in Europa una grande raccolta di firme a sostegno di una petizione internazionale che invita i parlamentari europei a non approvare il TTIP. Ne abbiamo parlato sul nostro giornale fornendo anche le indicazioni per aderire alla petizione con articoli pubblicati nel mese di Aprile. Ecco i riferimenti:
https://www.aladinpensiero.it/?p=40855 https://www.aladinpensiero.it/?p=41186 https://www.aladinpensiero.it/?p=46403 (firma petizione)
LA SCHEDA ———————————————————
Vanni per TTP 2Vanni per TTIP 1
Il Trattato TPP (Trans Pacific Partnership) è una sorta di “cugino” del TTIP. I contraenti sono gli Stati Uniti, il Giappone e altri 10 paesi che si affacciano sull’oceano Pacifico. Attualmente sono coinvolti nel TPP Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Stati Uniti e Vietnam. Ma sono già pronte all’adesione anche alcune economie dell’Asia, come Corea del Sud, Taiwan e Filippine, o dell’America latina, come la Colombia. La stessa Cina, che il Trattato mirava a condizionare, comincia a manifestare interesse e desiderio di partecipazione alla nuova area dei commerci. La Cina infatti ha affermato che sta osservando con attenzione lo sviluppo del Tpp nonostante sia a sua volta impegnata in altri negoziati commerciali concorrenti. Nel mondo degli affari statunitense molti ritengono che la grande speranza del trattato stia proprio nell’apertura ad altri paesi, in particolare alla Cina. Lunedì 5 ottobre i ministri del commercio dei dodici paesi promotori dell’accordo, hanno raggiunto un’intesa che di fatto rappresenta l’atto di nascita del TPP, il più grande trattato commerciale internazionale firmato negli ultimi due decenni. In Trattato riguarderà infatti una quantità di scambi pari al 40 per cento dell’economia mondiale e si occuperà anche della ridefinizione delle regole dell’economia del ventunesimo secolo, per tutto quanto va dai flussi internazionali di dati al modo in cui alle aziende di proprietà statale verrà permesso di competere su scala internazionale. E’ quindi evidente che il TPP ha una importante valenza geopolitica oltre che commerciale. Per una descrizione più analitica del Trattato rimandiamo alla scheda realizzata dal periodico Internazionale pubblicata recentemente nel nostro giornale.

Fuori Carlo Felice con tutti i Savoia dalla toponomastica sarda

Carlo-Feroce-con-preservativo-30-ott-12di Francesco Casula

Un filo monarchico sardo, pateticamente nostalgico dei Savoia, in una lettera all’Unione Sarda propone che Cagliari dedichi una via all’ex re Umberto II. Replicano numerosi lettori del Quotidiano contestando vivamente tale proposta e ricordando le gravi responsabilità storiche dei sovrani nizzardi, ad iniziare proprio da quelle dell’ultimo re d’Italia e suggerendo di contro, di intitolare invece una via della capitale sarda a Luigi Cogodi.
Antonio Ghiani – già valente giornalista dell’Unione – scrive che “i sardi dovrebbero averne abbastanza dei Savoia e della loro infausta collaborazione con il fascio, conclusasi infine con una ignominiosa fuga, quando l’Italia, persa la guerra, era nel caos”.
Altri ricordano opportunamente la funesta politica dei Savoia tutta giocata sulla discriminazione dei sardi, la repressione e le condanne a morte ma sopratutto il brutale fiscalismo. Aumentato a dismisura dal 1799 al 1816, con la presenza della Corte savoiarda a Cagliari, in seguito all’occupazione dell’Italia settentrionale da parte di Napoleone. Nei 17 anni della presenza a Cagliari dei Savoia infatti “furono complessivamente pagate – scrive lo storico sardo Aldo Accardo – come contribuzioni straordinarie per la corte 9.714.514 lire sarde: dal 1799 373.000 ogni anno per l’appannaggio della famiglia reale; dal 1805 oltre 76.750 per lo spillatico della regina”. E ciò mentre l’Isola vive sulla propria pelle una gravissima crisi economica e finanziaria: certo conseguenza delle calamità naturali e delle pestilenze di quegli anni ma anche di una politica e di un’amministrazione forsennata da parte dei Savoia, specie, ripeto, con l’aumento delle tasse.
Il peso delle nuove imposizioni fiscali, colpivano non soltanto le masse contadine ma anche gli strati intermedi delle città. A tal punto – scrive Girolamo Sotgiu – che “i villaggi dovevano pagare più del clero e dei feudatari: ben 87.500 lire sarde (75 mila il clero e appena 62 mila i feudatari) mentre sui proprietari delle città, sui creditori di censi, sui titolari d’impieghi civili gravava un onere di ben 125.000 lire sarde e sui commercianti di 37 mila”.
Così succedeva che “Spesso gli impiegati rimanevano senza stipendio, i soldati senza il soldo, mentre ai padroni di casa veniva imposto il blocco degli affitti e ai commercianti veniva fatto pagare il diritto di tratta più di una volta” .
Il protagonista fondamentale della politica savoiarda di questo periodo è Carlo Felice, più noto come Carlo feroce: l’epiteto gli fu affibbiato da un suo conterraneo piemontese, Angelo Brofferio, letterato e critico teatrale. Ebbene Carlo Felice, fu viceré e poi re, ottuso e inetto, sanguinario e famelico (pensava ad accumulare il suo “privato tesoro” mentre le carestie decimavano le popolazioni affamate). Su di lui la storia ha già emesso la sua condanna inappellabile. Lo storico Pietro Martini, pur di orientamento monarchico, lo descrive come gaudente parassita, gretto, che avea poca cultura di lettere e ancor meno di pubblici negozi… servo dei ministri ma più dei cortigiani. Ai feudatari, da viceré, – scrive, un altro storico sardo Raimondo Carta Raspi – diede carta bianca per dissanguare i vassalli. Mentre a personaggi come Giuseppe Valentino affidò il governo: questi svolse il suo compito ricorrendo al terrore, innalzando forche soprattutto contro i seguaci di Giovanni Maria Angioy, tanto da meritarsi, da parte di Giovanni Siotto-Pintor, l’epiteto di carnefice e giudice dei suoi concittadini.
Divenuto re con l’abdicazione del fratello Vittorio Emanuele I, mira a conservare e restaurare in Sardegna lo stato di brutale sfruttamento e di spaventosa arretratezza: “con le decime, coi feudi, coi privilegi, col foro clericale, col dispotismo viceregio, con l’iniquo sistema tributario, col terribile potere economico e coll’enorme codazzo degli abusi, delle ingiustizie, delle ineguaglianze e delle oppressioni intrinseche ad ordini di governo nati nel medioevo”: è ancora Pietro Martini a scriverlo.
Carlo Felice odia i sardi: il suo maestro, in tal senso è il reazionario Giuseppe de Maistre che arrivato in Sardegna nel 1800 per reggere la reale cancelleria, non pensa nei tre anni di reggenza, che ai propri interessi denotando uno sviscerato disprezzo per i sardi je ne connais rien dans l’univers au-dessous (sotto) des molentes, soleva affermare nei loro confronti e in una lettera da Pietroburgo al Ministro Rossi nel 1805 scrive : Le sarde est plus savage che le savage , car le savage ne connait la lumiere e le Sarde la connait.
Altro che dedicare allora un’altra via alla odiosa zenia dei Savoia: all’ordine del giorno in Sardegna vi è l’urgenza e la necessità di modificare radicalmente la toponomastica, facendo sloggiare da tutte le strade e le piazze dell’Isola tutti i Savoia, ad iniziare da Carlo feroce. A meno che non si voglia continuare con un imperdonabile masochismo, ricordando e osannando, quelli che sono stati per la Sardegna i persecutori e i sovrani più nefasti.
E’ stato scritto che con i Savoia la Sardegna è stata liberata dal feudalesimo e dunque “modernizzata”. E sia. Purché non si dimentichi che l’eversione dei feudi giovò ai feudatari spagnoli e piemontesi ai quali le terre furono generosamente pagate dalle comunità, dissanguate due volte! Non di restituzione delle terre alle comunità si trattò dunque, ma di un ulteriore esproprio. Anche perché le terre distribuite a così caro prezzo ai contadini e pastori delle ville, privi di capitali e degli stessi arnesi di lavoro (aratri, zappe, falci e cavalli e buoi), caddero ben presto nelle mani di usurai senza scrupoli diventati in breve più esosi, se possibile, dei vecchi padroni.
E’ stato anche scritto che ai Savoia si deve comunque in gran parte la costruzione dello Stato italiano unitario. E sia anche questo. Purché si ricordi che l’Unità d’Italia sarà (e ancora è) tutta giocata, per quanto ci riguarda, contro gli interessi della Sardegna ridotta a “colonia” interna: oggi area di servizio della guerra e domani ricettacolo delle scorie nucleari?
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ROMPERE gli SCHEMI e AZZARDARE PER la SARDEGNA

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di Vanni Tola

Necessaria una differente lettura dei fenomeni migratori. Quando un problema può diventare una soluzione.

Notizie “strane e curiose” talvolta si mescolano alle notizie che tutti si aspettano di trovare nei giornali e che solitamente scorrono sotto i nostri occhi pressoché inosservate. Una di queste racconta che il 21% dei lavoratori con cittadinanza non italiana, nati prima del 1949, abbiano versato contributi all’Inps per 3 miliardi di euro senza ricevere alcun trattamento pensionistico avendo abbandonato il paese prima di aver maturato i requisiti minimi per percepire la pensione. Lo ha affermato recentemente il presidente dell’INPS Tito Boeri in occasione della presentazione del rapporto Worldwide INPS. Proiettando il dato del 21% di individui stranieri che non percepiscono la pensione sulle generazioni di nati tra il 1949 e il 1981 si calcola una disponibilità finanziaria presso l’INPS, un vero tesoretto che raggiunge i 12 miliardi di euro. Un montante contributivo che non darà luogo a pensioni. Pensiamoci tutte le volte che qualcuno parla dei 35 euro al giorno che i migranti riceverebbero dallo stato italiano sottraendoli ai “nostri “ soldi. L’apporto dei migranti, principalmente di quella parte che entra in rapporto con il nostro sistema produttivo (lavoratori regolari, lavoratori in nero, operatori nel sociale e nell’assistenza agli anziani), non rappresenta soltanto un costo per la società, non è soltanto una fonte di problemi. Talvolta fenomeni sociali di tale portata, quali i movimenti migratori in atto, possono concorrere direttamente o indirettamente allo sviluppo sociale della collettività. Possono diventare la soluzione o una parte della soluzione di alcuni problemi del nostro ordinamento sociale in relazione a fenomeni epocali in atto quali il crollo delle nascite, l’invecchiamento della popolazione, lo spopolamento dei paesi e delle città in vaste aree del nostro territorio, la necessità di sostituire figure professionali che rischiano la scomparsa o il drastico ridimensionamento quantitativo. E’ ormai noto a tutti che il profilo demografico del nostro paese subisce un declino da alcuni decenni. Il nostro tasso di fecondità è molto al di sotto della soglia di stabilità della popolazione. Ci si attende, sulla base di autorevoli studi, una contrazione della popolazione europea di oltre 30 milioni di abitanti intorno alla metà del secolo. In Sardegna delle semplici escursioni in macchina nel territorio, appena fuori dei pochi grandi centri abitati, una visita a tanti nostri paesini che ormai ospitano quasi esclusivamente pochi anziani, fornisce un quadro esaustivo della crisi demografica dell’isola e dei fenomeni di desertificazione in atto. Molti osservatori cominciano a riflettere seriamente sul fatto che i movimenti migratori in atto generati da guerre e miseria piuttosto che rappresentare un problema non possano configurarsi come strumento per la risoluzione di alcuni problemi del vecchio continente. Sarebbe per esempio interessante realizzare una proiezione demografica per stabilire che impatto avrebbe nella nostra isola l’integrazione permanente di tre o quattro nuclei familiari in ciascuno dei nostri comuni che si vanno sempre più spopolando. Nascerebbero bambini in aree con natalità prossima allo zero, si potrebbero riaprire piccole scuole chiuse per mancanza di alunni, recuperare e riconvertire il patrimonio edilizio, si potrebbero eseguire grandi opere agricole per contrastare l’abbandono delle campagne, la desertificazione dei suoli e i disastri idrogeologica, si potrebbe integrare con nuova forza lavoro il comparto agro-pastorale nel quale l’età media degli operatori e sempre più elevata. Ci vogliamo pensare o no a qualcosa di diverso e di migliore rispetto ai campi di accoglienza e all’impiego di lavoratori-schiavi nelle campagne?
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- Le foto sono di Macrì Sanna.

Terra, casa, lavoro e libertà per tutti

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di Vanni Tola

Una settimana da ricordare, qualcosa si muove nel vecchio mondo. Il Papa alla scoperta delle Americhe.

La settimana che si è appena conclusa sorvola appena la cronaca per entrare di diritto nei libri di storia. Soltanto gli storici infatti sapranno ricostruire, col tempo necessario, l’importanza politica delle vicende che si sono succedute in queste giornate così dense di avvenimenti tutti ugualmente memorabili. Si comincia con le vicende drammatiche dei migranti con un susseguirsi di azioni positive di accoglienza e tragici episodi di esclusione. Stati che cingono i loro confini con barriere e filo spinato con l’illusione di fermare un processo storico in atto – tanto straordinario quanto destinato a durare nel tempo – che vede svolgersi di fronte alle telecamere uno spostamento di esseri umani tra i paesi della guerra e della miseria e il continente europeo alla disperata ricerca di sicurezza, pace e un minimo di benessere. L’incontro di Bruxelles tra i capi di stato e di governo, dal quale ci si attendavano grandi risoluzioni si è rivelato un mezzo fallimento con i paesi europei impelagati nella discussione per stabilire come ripartire tra i paesi dell’Unione una quota esigua di migranti e sul come sconfiggere le resistenza dei paesi dell’est che vorrebbero ostacolare quella che considerano un’invasione e una minaccia per il loro territorio. Ancora si discute di come definire meglio la distinzione tra quei migranti che scappano da guerre in corso e coloro che invece sfuggono “soltanto” da fame, miseria e malattie che a parere di molti, forze progressiste e democratiche comprese, andrebbero comunque rimpatriati, cioè rimandati nell’inferno dal quale sono miracolosamente riusciti a scappare. In tale contesto “esplode” l’azione diplomatica, lo scossone internazionale rappresentato del viaggio di Papa Francesco in America. Inizio col botto con il viaggio a Cuba per ratificare l’operazione di nuovo confronto tra Cuba e Stati per la quale il Papa ha svolto un ruolo determinante. Significativo l’incontro con il vecchio leader Fidel Castro. Da Cuba, terminate le manifestazioni con straordinaria partecipazione di fedeli e non, il Papa, per la prima volta, arriva in America con un volo diretto dall’isola inaugurando di fatto una ripresa dei contati tra due mondi che si sono fatti la guerra per decenni. In America Francesco si presenta come pellegrino, come figlio di emigrati in un paese di figli di emigrati ad incontrare il presidente americano, anch’esso figlio di migranti. E qui l’uomo politico Francesco, il Papa che viene dal Sud America e viaggia con borsa e scarpe nere, mette a segno una serie di altri “colpi”. Il discorso al Congresso americano, la visita all’area delle Torri Gemelle con la preghiera insieme ai rappresentanti di tutte le religioni del mondo contro il terrorismo e la violenza, il discorso alle Nazioni Unite (che il nostro giornale pubblica integralmente nello spazio riservato agli editoriali) e l’incontro di Filadelfia con le famiglie. In tutte queste circostanze il Papa svolge una serie di interventi di grande spessore politico oltre che religioso sviluppando considerazioni, richieste e proposte che, nel loro insieme, costituiscono un manifesto politico per gli uomini di buona volontà di tutto il mondo. Un programma al quale non si può non aderire qualunque sia il proprio rapporto personale con la religione cattolica. Avremo modo di approfondire meglio i contenuti dei diversi interventi del Papa che ha parlato di accoglienza, di dialogo, di inclusione e confronto, di superamento dei conflitti di abolizione della pena di morte, di diritti civili e di libertà religiosa, di difesa dell’ambiente, senza troppa attenzione alle convenienze diplomatiche e parlando il linguaggio semplice e diretto che contraddistingue la Sua comunicazione. Ci piace al momento concludere con una sintesi efficace del suo pensiero: “Casa, lavoro, terra e libertà per tutti”.
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Le foto: le prime due in testa e l’ultima sono tratte dalla pagina fb di Giacomo Meloni (riprese da servizi televisivi), la terza in basso è dell’Osservatore Romano, tratta da La Repubblica online; infine, la quarta foto in basso è tratta da un servizio della Sala stampa del Vaticano.
Papa Radio Vaticana
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Papa Francesco all’Assemblea generale dell’Onu
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Signor Presidente, Signore e Signori,

ancora una volta, seguendo una tradizione della quale mi sento onorato, il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha invitato il Papa a rivolgersi a questa onorevole assemblea delle nazioni. A mio nome e a nome di tutta la comunità cattolica, Signor Ban Ki-moon, desidero esprimerLe la più sincera e cordiale riconoscenza; La ringrazio anche per le Sue gentili parole. Saluto inoltre i Capi di Stato e di Governo qui presenti, gli Ambasciatori, i diplomatici e i funzionari politici e tecnici che li accompagnano, il personale delle Nazioni Unite impegnato in questa 70. ma Sessione dell’Assemblea Generale, il personale di tutti i programmi e agenzie della famiglia dell’ONU e tutti coloro che in un modo o nell’altro partecipano a questa riunione. Tramite voi saluto anche i cittadini di tutte le nazioni rappresentate a questo incontro. Grazie per gli sforzi di tutti e di ciascuno per il bene dell’umanità.

Questa è la quinta volta che un Papa visita le Nazioni Unite. Lo hanno fatto i miei predecessori Paolo VI nel 1965, Giovanni Paolo II nel 1979 e nel 1995 e il mio immediato predecessore, oggi Papa emerito Benedetto XVI, nel 2008. Tutti costoro non hanno risparmiato espressioni di riconoscimento per l’Organizzazione, considerandola la risposta giuridica e politica adeguata al momento storico, caratterizzato dal superamento delle distanze e delle frontiere ad opera della tecnologia e, apparentemente, di qualsiasi limite naturale all’affermazione del potere. Una risposta imprescindibile dal momento che il potere tecnologico, nelle mani di ideologie nazionalistiche o falsamente universalistiche, è capace di produrre tremende atrocità. Non posso che associarmi all’apprezzamento dei miei predecessori, riaffermando l’importanza che la Chiesa Cattolica riconosce a questa istituzione e le speranze che ripone nelle sue attività.

La storia della comunità organizzata degli Stati, rappresentata dalle Nazioni Unite, che festeggia in questi giorni il suo 70° anniversario, è una storia di importanti successi comuni, in un periodo di inusitata accelerazione degli avvenimenti. Senza pretendere di essere esaustivo, si può menzionare la codificazione e lo sviluppo del diritto internazionale, la costruzione della normativa internazionale dei diritti umani, il perfezionamento del diritto umanitario, la soluzione di molti conflitti e operazioni di pace e di riconciliazione, e tante altre acquisizioni in tutti i settori della proiezione internazionale delle attività umane. Tutte queste realizzazioni sono luci che contrastano l’oscurità del disordine causato dalle ambizioni incontrollate e dagli egoismi collettivi. È sicuro che, benché siano molti i gravi problemi non risolti, è però evidente che se fosse mancata tutta quell’attività internazionale, l’umanità avrebbe potuto non sopravvivere all’uso incontrollato delle sue stesse potenzialità. Ciascuno di questi progressi politici, giuridici e tecnici rappresenta un percorso di concretizzazione dell’ideale della fraternità umana e un mezzo per la sua maggiore realizzazione.

Rendo perciò omaggio a tutti gli uomini e le donne che hanno servito con lealtà e sacrificio l’intera umanità in questi 70 anni. In particolare, desidero ricordare oggi coloro che hanno dato la loro vita per la pace e la riconciliazione dei popoli, a partire da Dag Hammarskjöld fino ai moltissimi funzionari di ogni grado, caduti nelle missioni umanitarie di pace e di riconciliazione.

L’esperienza di questi 70 anni, al di là di tutto quanto è stato conseguito, dimostra che la riforma e l’adattamento ai tempi sono sempre necessari, progredendo verso l’obiettivo finale di concedere a tutti i Paesi, senza eccezione, una partecipazione e un’incidenza reale ed equa nelle decisioni. Tale necessità di una maggiore equità, vale in special modo per gli organi con effettiva capacità esecutiva, quali il Consiglio di Sicurezza, gli Organismi finanziari e i gruppi o meccanismi specificamente creati per affrontare le crisi economiche. Questo aiuterà a limitare qualsiasi sorta di abuso o usura specialmente nei confronti dei Paesi in via di sviluppo. Gli organismi finanziari internazionali devono vigilare in ordine allo sviluppo sostenibile dei Paesi e per evitare l’asfissiante sottomissione di tali Paesi a sistemi creditizi che, ben lungi dal promuovere il progresso, sottomettono le popolazioni a meccanismi di maggiore povertà, esclusione e dipendenza.

Il compito delle Nazioni Unite, a partire dai postulati del Preambolo e dei primi articoli della sua Carta costituzionale, può essere visto come lo sviluppo e la promozione della sovranità del diritto, sapendo che la giustizia è requisito indispensabile per realizzare l’ideale della fraternità universale. In questo contesto, è opportuno ricordare che la limitazione del potere è un’idea implicita nel concetto di diritto. Dare a ciascuno il suo, secondo la definizione classica di giustizia, significa che nessun individuo o gruppo umano si può considerare onnipotente, autorizzato a calpestare la dignità e i diritti delle altre persone singole o dei gruppi sociali. La distribuzione di fatto del potere (politico, economico, militare, tecnologico, ecc.) tra una pluralità di soggetti e la creazione di un sistema giuridico di regolamentazione delle rivendicazioni e degli interessi, realizza la limitazione del potere. Oggi il panorama mondiale ci presenta, tuttavia, molti falsi diritti, e – nello stesso tempo – ampi settori senza protezione, vittime piuttosto di un cattivo esercizio del potere: l’ambiente naturale e il vasto mondo di donne e uomini esclusi. Due settori intimamente uniti tra loro, che le relazioni politiche ed economiche preponderanti hanno trasformato in parti fragili della realtà. Per questo è necessario affermare con forza i loro diritti, consolidando la protezione dell’ambiente e ponendo termine all’esclusione.

Anzitutto occorre affermare che esiste un vero “diritto dell’ambiente” per una duplice ragione. In primo luogo perché come esseri umani facciamo parte dell’ambiente. Viviamo in comunione con esso, perché l’ambiente stesso comporta limiti etici che l’azione umana deve riconoscere e rispettare. L’uomo, anche quando è dotato di “capacità senza precedenti” che “mostrano una singolarità che trascende l’ambito fisico e biologico” (Enc. Laudato sì, 81), è al tempo stesso una porzione di tale ambiente. Possiede un corpo formato da elementi fisici, chimici e biologici, e può sopravvivere e svilupparsi solamente se l’ambiente ecologico gli è favorevole. Qualsiasi danno all’ambiente, pertanto, è un danno all’umanità. In secondo luogo, perché ciascuna creatura, specialmente gli esseri viventi, ha un valore in sé stessa, di esistenza, di vita, di bellezza e di interdipendenza con le altre creature. Noi cristiani, insieme alle altre religioni monoteiste, crediamo che l’universo proviene da una decisione d’amore del Creatore, che permette all’uomo di servirsi rispettosamente della creazione per il bene dei suoi simili e per la gloria del Creatore, senza però abusarne e tanto meno essendo autorizzato a distruggerla. Per tutte le credenze religiose l’ambiente è un bene fondamentale (cfr ibid., 81).

L’abuso e la distruzione dell’ambiente, allo stesso tempo, sono associati ad un inarrestabile processo di esclusione. In effetti, una brama egoistica e illimitata di potere e di benessere materiale, conduce tanto ad abusare dei mezzi materiali disponibili quanto ad escludere i deboli e i meno abili, sia per il fatto di avere abilità diverse (portatori di handicap), sia perché sono privi delle conoscenze e degli strumenti tecnici adeguati o possiedono un’insufficiente capacità di decisione politica. L’esclusione economica e sociale è una negazione totale della fraternità umana e un gravissimo attentato ai diritti umani e all’ambiente. I più poveri sono quelli che soffrono maggiormente questi attentati per un triplice, grave motivo: sono scartati dalla società, sono nel medesimo tempo obbligati a vivere di scarti e devono soffrire ingiustamente le conseguenze dell’abuso dell’ambiente. Questi fenomeni costituiscono oggi la tanto diffusa e incoscientemente consolidata “cultura dello scarto”.
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La drammaticità di tutta questa situazione di esclusione e di inequità, con le sue chiare conseguenze, mi porta, insieme a tutto il popolo cristiano e a tanti altri, a prendere coscienza anche della mia grave responsabilità al riguardo, per cui alzo la mia voce, insieme a quella di tutti coloro che aspirano a soluzioni urgenti ed efficaci. L’adozione dell’“Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile” durante il Vertice mondiale che inizierà oggi stesso, è un importante segno di speranza. Confido anche che la Conferenza di Parigi sul cambiamento climatico raggiunga accordi fondamentali ed effettivi.

Non sono sufficienti, tuttavia, gli impegni assunti solennemente, anche quando costituiscono un passo necessario verso la soluzione dei problemi. La definizione classica di giustizia alla quale ho fatto riferimento anteriormente contiene come elemento essenziale una volontà costante e perpetua: Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi. Il mondo chiede con forza a tutti i governanti una volontà effettiva, pratica, costante, fatta di passi concreti e di misure immediate, per preservare e migliorare l’ambiente naturale e vincere quanto prima il fenomeno dell’esclusione sociale ed economica, con le sue tristi conseguenze di tratta degli esseri umani, commercio di organi e tessuti umani, sfruttamento sessuale di bambini e bambine, lavoro schiavizzato, compresa la prostituzione, traffico di droghe e di armi, terrorismo e crimine internazionale organizzato. È tale l’ordine di grandezza di queste situazioni e il numero di vite innocenti coinvolte, che dobbiamo evitare qualsiasi tentazione di cadere in un nominalismo declamatorio con effetto tranquillizzante sulle coscienze. Dobbiamo aver cura che le nostre istituzioni siano realmente efficaci nella lotta contro tutti questi flagelli.

La molteplicità e complessità dei problemi richiede di avvalersi di strumenti tecnici di misurazione. Questo, però, comporta un duplice pericolo: limitarsi all’esercizio burocratico di redigere lunghe enumerazioni di buoni propositi – mete, obiettivi e indicatori statistici – , o credere che un’unica soluzione teorica e aprioristica darà risposta a tutte le sfide. Non bisogna perdere di vista, in nessun momento, che l’azione politica ed economica, è efficace solo quando è concepita come un’attività prudenziale, guidata da un concetto perenne di giustizia e che tiene sempre presente che, prima e aldilà di piani e programmi, ci sono donne e uomini concreti, uguali ai governanti, che vivono, lottano e soffrono, e che molte volte si vedono obbligati a vivere miseramente, privati di qualsiasi diritto.

Affinché questi uomini e donne concreti possano sottrarsi alla povertà estrema, bisogna consentire loro di essere degni attori del loro stesso destino. Lo sviluppo umano integrale e il pieno esercizio della dignità umana non possono essere imposti. Devono essere costruiti e realizzati da ciascuno, da ciascuna famiglia, in comunione con gli altri esseri umani e in una giusta relazione con tutti gli ambienti nei quali si sviluppa la socialità umana – amici, comunità, villaggi e comuni, scuole, imprese e sindacati, province, nazioni, ecc. Questo suppone ed esige il diritto all’istruzione – anche per le bambine (escluse in alcuni luoghi) – che si assicura in primo luogo rispettando e rafforzando il diritto primario della famiglia a educare e il diritto delle Chiese e delle altre aggregazioni sociali a sostenere e collaborare con le famiglie nell’educazione delle loro figlie e dei loro figli. L’educazione, così concepita, è la base per la realizzazione dell’Agenda 2030 e per il risanamento dell’ambiente.

Al tempo stesso, i governanti devono fare tutto il possibile affinché tutti possano disporre della base minima materiale e spirituale per rendere effettiva la loro dignità e per formare e mantenere una famiglia, che è la cellula primaria di qualsiasi sviluppo sociale. Questo minimo assoluto, a livello materiale ha tre nomi: casa, lavoro e terra; e un nome a livello spirituale: libertà dello spirito, che comprende la libertà religiosa, il diritto all’educazione e gli altri diritti civili.

Per tutte queste ragioni, la misura e l’indicatore più semplice e adeguato dell’adempimento della nuova Agenda per lo sviluppo sarà l’accesso effettivo, pratico e immeditato, per tutti, ai beni materiali e spirituali indispensabili: abitazione propria, lavoro dignitoso e debitamente remunerato, alimentazione adeguata e acqua potabile; libertà religiosa e, più in generale, libertà dello spirito ed educazione. Nello stesso tempo, questi pilastri dello sviluppo umano integrale hanno un fondamento comune, che è il diritto alla vita, e, in senso ancora più ampio, quello che potremmo chiamare il diritto all’esistenza della stessa natura umana.

La crisi ecologica, insieme alla distruzione di buona parte della biodiversità, può mettere in pericolo l’esistenza stessa della specie umana. Le nefaste conseguenze di un irresponsabile malgoverno dell’economia mondiale, guidato unicamente dall’ambizione di guadagno e di potere, devono costituire un appello a una severa riflessione sull’uomo: “L’uomo non si crea da solo. È spirito e volontà, però anche natura” (Benedetto XVI, Discorso al Parlamento della Repubblica Federale di Germania, 22 settembre 2011; citato in Enc. Laudato sì, 6). La creazione si vede pregiudicata “dove noi stessi siamo l’ultima istanza [...]. E lo spreco della creazione inizia dove non riconosciamo più alcuna istanza sopra di noi, ma vediamo soltanto noi stessi” (Id., Incontro con il Clero della Diocesi di Bolzano-Bressanone, 6 agosto 2008, citato ibid.). Perciò, la difesa dell’ambiente e la lotta contro l’esclusione esigono il riconoscimento di una legge morale inscritta nella stessa natura umana, che comprende la distinzione naturale tra uomo e donna (cfr Enc. Laudato sì, 155) e il rispetto assoluto della vita in tutte le sue fasi e dimensioni (cfr ibid., 123; 136).

Senza il riconoscimento di alcuni limiti etici naturali insormontabili e senza l’immediata attuazione di quei pilastri dello sviluppo umano integrale, l’ideale di “salvare le future generazioni dal flagello della guerra” (Carta delle Nazioni Unite, Preambolo) e di “promuovere il progresso sociale e un più elevato livello di vita all’interno di una più ampia libertà” (ibid.) corre il rischio di diventare un miraggio irraggiungibile o, peggio ancora, parole vuote che servono come scusa per qualsiasi abuso e corruzione, o per promuovere una colonizzazione ideologica mediante l’imposizione di modelli e stili di vita anomali estranei all’identità dei popoli e, in ultima analisi, irresponsabili.

La guerra è la negazione di tutti i diritti e una drammatica aggressione all’ambiente. Se si vuole un autentico sviluppo umano integrale per tutti, occorre proseguire senza stancarsi nell’impegno di evitare la guerra tra le nazioni e tra i popoli.

A tal fine bisogna assicurare il dominio incontrastato del diritto e l’infaticabile ricorso al negoziato, ai buoni uffici e all’arbitrato, come proposto dalla Carta delle Nazioni Unite, vera norma giuridica fondamentale. L’esperienza dei 70 anni di esistenza delle Nazioni Unite, in generale, e in particolare l’esperienza dei primi 15 anni del terzo millennio, mostrano tanto l’efficacia della piena applicazione delle norme internazionali come l’inefficacia del loro mancato adempimento. Se si rispetta e si applica la Carta delle Nazioni Unite con trasparenza e sincerità, senza secondi fini, come un punto di riferimento obbligatorio di giustizia e non come uno strumento per mascherare intenzioni ambigue, si ottengono risultati di pace. Quando, al contrario, si confonde la norma con un semplice strumento da utilizzare quando risulta favorevole e da eludere quando non lo è, si apre un vero vaso di Pandora di forze incontrollabili, che danneggiano gravemente le popolazioni inermi, l’ambiente culturale, e anche l’ambiente biologico.

Il Preambolo e il primo articolo della Carta delle Nazioni Unite indicano le fondamenta della costruzione giuridica internazionale: la pace, la soluzione pacifica delle controversie e lo sviluppo delle relazioni amichevoli tra le nazioni. Contrasta fortemente con queste affermazioni, e le nega nella pratica, la tendenza sempre presente alla proliferazione delle armi, specialmente quelle di distruzione di massa come possono essere quelle nucleari. Un’etica e un diritto basati sulla minaccia della distruzione reciproca – e potenzialmente di tutta l’umanità – sono contraddittori e costituiscono una frode verso tutta la costruzione delle Nazioni Unite, che diventerebbero “Nazioni unite dalla paura e dalla sfiducia”. Occorre impegnarsi per un mondo senza armi nucleari, applicando pienamente il Trattato di non proliferazione, nella lettera e nello spirito, verso una totale proibizione di questi strumenti.
Il recente accordo sulla questione nucleare in una regione sensibile dell’Asia e del Medio Oriente, è una prova delle possibilità della buona volontà politica e del diritto, coltivati con sincerità, pazienza e costanza. Formulo i miei voti perché questo accordo sia duraturo ed efficace e dia i frutti sperati con la collaborazione di tutte le parti coinvolte.

In tal senso, non mancano gravi prove delle conseguenze negative di interventi politici e militari non coordinati tra i membri della comunità internazionale. Per questo, seppure desiderando di non avere la necessità di farlo, non posso non reiterare i miei ripetuti appelli in relazione alla dolorosa situazione di tutto il Medio Oriente, del Nord Africa e di altri Paesi africani, dove i cristiani, insieme ad altri gruppi culturali o etnici e anche con quella parte dei membri della religione maggioritaria che non vuole lasciarsi coinvolgere dall’odio e dalla pazzia, sono stati obbligati ad essere testimoni della distruzione dei loro luoghi di culto, del loro patrimonio culturale e religioso, delle loro case ed averi e sono stati posti nell’alternativa di fuggire o di pagare l’adesione al bene e alla pace con la loro stessa vita o con la schiavitù.

Queste realtà devono costituire un serio appello ad un esame di coscienza di coloro che hanno la responsabilità della conduzione degli affari internazionali. Non solo nei casi di persecuzione religiosa o culturale, ma in ogni situazione di conflitto, come in Ucraina, in Siria, in Iraq, in Libia, nel Sud-Sudan e nella regione dei Grandi Laghi, prima degli interessi di parte, pur se legittimi, ci sono volti concreti. Nelle guerre e nei conflitti ci sono persone, nostri fratelli e sorelle, uomini e donne, giovani e anziani, bambini e bambine che piangono, soffrono e muoiono. Esseri umani che diventano materiale di scarto mentre non si fa altro che enumerare problemi, strategie e discussioni.

Come ho chiesto al Segretario Generale delle Nazioni Unite nella mia lettera del 9 agosto 2014, “la più elementare comprensione della dignità umana [obbliga] la comunità internazionale, in particolare attraverso le norme e i meccanismi del diritto internazionale, a fare tutto il possibile per fermare e prevenire ulteriori sistematiche violenze contro le minoranze etniche e religiose” e per proteggere le popolazioni innocenti.

In questa medesima linea vorrei citare un altro tipo di conflittualità, non sempre così esplicitata ma che silenziosamente comporta la morte di milioni di persone. Molte delle nostre società vivono un altro tipo di guerra con il fenomeno del narcotraffico. Una guerra “sopportata” e debolmente combattuta. Il narcotraffico per sua stessa natura si accompagna alla tratta delle persone, al riciclaggio di denaro, al traffico di armi, allo sfruttamento infantile e al altre forme di corruzione. Corruzione che è penetrata nei diversi livelli della vita sociale, politica, militare, artistica e religiosa, generando, in molti casi, una struttura parallela che mette in pericolo la credibilità delle nostre istituzioni.

Ho iniziato questo intervento ricordando le visite dei miei predecessori. Ora vorrei, in modo particolare, che le mie parole fossero come una continuazione delle parole finali del discorso di Paolo VI, pronunciate quasi esattamente 50 anni or sono, ma di perenne valore. “È l’ora in cui si impone una sosta, un momento di raccoglimento, di ripensamento, quasi di preghiera: ripensare, cioè, alla nostra comune origine, alla nostra storia, al nostro destino comune. Mai come oggi [...] si è reso necessario l’appello alla coscienza morale dell’uomo [poiché] il pericolo non viene né dal progresso né dalla scienza: questi, se bene usati, potranno anzi risolvere molti dei gravi problemi che assillano l’umanità” (Discorso ai Rappresentanti degli Stati, 4 ottobre 1965). Tra le altre cose, senza dubbio, la genialità umana, ben applicata, aiuterà a risolvere le gravi sfide del degrado ecologico e dell’esclusione. Proseguo con le parole di Paolo VI: “Il pericolo vero sta nell’uomo, padrone di sempre più potenti strumenti, atti alla rovina ed alle più alte conquiste!” (ibid.).

La casa comune di tutti gli uomini deve continuare a sorgere su una retta comprensione della fraternità universale e sul rispetto della sacralità di ciascuna vita umana, di ciascun uomo e di ciascuna donna; dei poveri, degli anziani, dei bambini, degli ammalati, dei non nati, dei disoccupati, degli abbandonati, di quelli che vengono giudicati scartabili perché li si considera nient’altro che numeri di questa o quella statistica. La casa comune di tutti gli uomini deve edificarsi anche sulla comprensione di una certa sacralità della natura creata.

Tale comprensione e rispetto esigono un grado superiore di saggezza, che accetti la trascendenza, rinunci alla costruzione di una élite onnipotente e comprenda che il senso pieno della vita individuale e collettiva si trova nel servizio disinteressato verso gli altri e nell’uso prudente e rispettoso della creazione, per il bene comune. Ripetendo le parole di Paolo VI, “l’edificio della moderna civiltà deve reggersi su principii spirituali, capaci non solo di sostenerlo, ma altresì di illuminarlo e di animarlo” (ibid.).

Il Gaucho Martin Fierro, un classico della letteratura della mia terra natale, canta: “I fratelli siano uniti perché questa è la prima legge. Abbiano una vera unione in qualsiasi tempo, perché se litigano tra di loro li divoreranno quelli di fuori”.

Il mondo contemporaneo apparentemente connesso, sperimenta una crescente e consistente e continua frammentazione sociale che pone in pericolo “ogni fondamento della vita sociale” e pertanto “finisce col metterci l’uno contro l’altro per difendere i propri interessi” (Enc. Laudato sì, 229).

Il tempo presente ci invita a privilegiare azioni che possano generare nuovi dinamismi nella società e che portino frutto in importanti e positivi avvenimenti storici (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 223).

Non possiamo permetterci di rimandare “alcune agende” al futuro. Il futuro ci chiede decisioni critiche e globali di fronte ai conflitti mondiali che aumentano il numero degli esclusi e dei bisognosi.

La lodevole costruzione giuridica internazionale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e di tutte le sue realizzazioni, migliorabile come qualunque altra opera umana e, al tempo stesso, necessaria, può essere pegno di un futuro sicuro e felice per le generazioni future. Lo sarà se i rappresentanti degli Stati sapranno mettere da parte interessi settoriali e ideologie e cercare sinceramente il servizio del bene comune. Chiedo a Dio Onnipotente che sia così, e vi assicuro il mio appoggio, la mia preghiera e l’appoggio e le preghiere di tutti i fedeli della Chiesa Cattolica, affinché questa Istituzione, tutti i suoi Stati membri e ciascuno dei suoi funzionari, renda sempre un servizio efficace all’umanità, un servizio rispettoso della diversità e che sappia potenziare, per il bene comune, il meglio di ciascun popolo e di ciascun cittadino.

La benedizione dell’Altissimo, la pace e la prosperità a tutti voi e a tutti i vostri popoli. Grazie.
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Papa e senzatetto
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Addio Pietro Ingrao

Pietro IngraoAddio Pietro Ingrao – Oggi è una giornata triste per la Sinistra e l’Italia. Ci lascia Pietro Ingrao, un esempio di vita per diverse generazione, un raro esempio di coerenza e degnità, un eroe della Resistenza. Ho avuto il sedia di Vannitolapiacere di salutarlo a Sassari, in piazza d’Italia, al termine di un comizio e nel Centro di Formazione CGIL di Ariccia. Un grande uomo.
- Notizie di stampa.
pietro il saggio ingrao

Papa Francesco alla scoperta delle Americhe

Papa e Obama'sPapa e FidelPapa e senzatettosedia di VannitolaLa sedia
di Vanni Tola

Una settimana da ricordare, qualcosa si muove nel vecchio mondo. Il Papa alla scoperta delle Americhe.

La settimana che si è appena conclusa sorvola appena la cronaca per entrare di diritto nei libri di storia. Soltanto gli storici infatti sapranno ricostruire, col tempo necessario, l’importanza politica delle vicende che si sono succedute in queste giornate così dense di avvenimenti tutti ugualmente memorabili. Si comincia con le vicende drammatiche dei migranti con un susseguirsi di azioni positive di accoglienza e tragici episodi di esclusione. Stati che cingono i loro confini con barriere e filo spinato con l’illusione di fermare un processo storico in atto – tanto straordinario quanto destinato a durare nel tempo – che vede svolgersi di fronte alle telecamere uno spostamento di esseri umani tra i paesi della guerra e della miseria e il continente europeo alla disperata ricerca di sicurezza, pace e un minimo di benessere. L’incontro di Bruxelles tra i capi di stato e di governo, dal quale ci si attendavano grandi risoluzioni si è rivelato un mezzo fallimento con i paesi europei impelagati nella discussione per stabilire come ripartire tra i paesi dell’Unione una quota esigua di migranti e sul come sconfiggere le resistenza dei paesi dell’est che vorrebbero ostacolare quella che considerano un’invasione e una minaccia per il loro territorio. Ancora si discute di come definire meglio la distinzione tra quei migranti che scappano da guerre in corso e coloro che invece sfuggono “soltanto” da fame, miseria e malattie che a parere di molti, forze progressiste e democratiche comprese, andrebbero comunque rimpatriati, cioè rimandati nell’inferno dal quale sono miracolosamente riusciti a scappare. In tale contesto “esplode” l’azione diplomatica, lo scossone internazionale rappresentato del viaggio di Papa Francesco in America. Inizio col botto con il viaggio a Cuba per ratificare l’operazione di nuovo confronto tra Cuba e Stati per la quale il Papa ha svolto un ruolo determinante. Significativo l’incontro con il vecchio leader Fidel Castro. Da Cuba, terminate le manifestazioni con straordinaria partecipazione di fedeli e non, il Papa, per la prima volta, arriva in America con un volo diretto dall’isola inaugurando di fatto una ripresa dei contati tra due mondi che si sono fatti la guerra per decenni. In America Francesco si presenta come pellegrino, come figlio di emigrati in un paese di figli di emigrati ad incontrare il presidente americano, anch’esso figlio di migranti. E qui l’uomo politico Francesco, il Papa che viene dal Sud America e viaggia con borsa e scarpe nere, mette a segno una serie di altri “colpi”. Il discorso al Congresso americano, la visita all’area delle Torri Gemelle con la preghiera insieme ai rappresentanti di tutte le religioni del mondo contro il terrorismo e la violenza, il discorso alle Nazioni Unite (che il nostro giornale pubblica integralmente nello spazio riservato agli editoriali) e l’incontro di Filadelfia con le famiglie. In tutte queste circostanze il Papa svolge una serie di interventi di grande spessore politico oltre che religioso sviluppando considerazioni, richieste e proposte che, nel loro insieme, costituiscono un manifesto politico per gli uomini di buona volontà di tutto il mondo. Un programma al quale non si può non aderire qualunque sia il proprio rapporto personale con la religione cattolica. Avremo modo di approfondire meglio i contenuti dei diversi interventi del Papa che ha parlato di accoglienza, di dialogo, di inclusione e confronto, di superamento dei conflitti di abolizione della pena di morte, di diritti civili e di libertà religiosa, di difesa dell’ambiente, senza troppa attenzione alle convenienze diplomatiche e parlando il linguaggio semplice e diretto che contraddistingue la Sua comunicazione. Ci piace al momento concludere con una sintesi efficace del suo pensiero: “Casa, lavoro, terra e libertà per tutti”.
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Terra, casa, lavoro e libertà per tutti

Papa Francesco all’Assemblea generale dell’Onu
Papa logo-usa-wmof2015
Signor Presidente, Signore e Signori,

ancora una volta, seguendo una tradizione della quale mi sento onorato, il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha invitato il Papa a rivolgersi a questa onorevole assemblea delle nazioni. A mio nome e a nome di tutta la comunità cattolica, Signor Ban Ki-moon, desidero esprimerLe la più sincera e cordiale riconoscenza; La ringrazio anche per le Sue gentili parole. Saluto inoltre i Capi di Stato e di Governo qui presenti, gli Ambasciatori, i diplomatici e i funzionari politici e tecnici che li accompagnano, il personale delle Nazioni Unite impegnato in questa 70. ma Sessione dell’Assemblea Generale, il personale di tutti i programmi e agenzie della famiglia dell’ONU e tutti coloro che in un modo o nell’altro partecipano a questa riunione. Tramite voi saluto anche i cittadini di tutte le nazioni rappresentate a questo incontro. Grazie per gli sforzi di tutti e di ciascuno per il bene dell’umanità.

Questa è la quinta volta che un Papa visita le Nazioni Unite. Lo hanno fatto i miei predecessori Paolo VI nel 1965, Giovanni Paolo II nel 1979 e nel 1995 e il mio immediato predecessore, oggi Papa emerito Benedetto XVI, nel 2008. Tutti costoro non hanno risparmiato espressioni di riconoscimento per l’Organizzazione, considerandola la risposta giuridica e politica adeguata al momento storico, caratterizzato dal superamento delle distanze e delle frontiere ad opera della tecnologia e, apparentemente, di qualsiasi limite naturale all’affermazione del potere. Una risposta imprescindibile dal momento che il potere tecnologico, nelle mani di ideologie nazionalistiche o falsamente universalistiche, è capace di produrre tremende atrocità. Non posso che associarmi all’apprezzamento dei miei predecessori, riaffermando l’importanza che la Chiesa Cattolica riconosce a questa istituzione e le speranze che ripone nelle sue attività.

La storia della comunità organizzata degli Stati, rappresentata dalle Nazioni Unite, che festeggia in questi giorni il suo 70° anniversario, è una storia di importanti successi comuni, in un periodo di inusitata accelerazione degli avvenimenti. Senza pretendere di essere esaustivo, si può menzionare la codificazione e lo sviluppo del diritto internazionale, la costruzione della normativa internazionale dei diritti umani, il perfezionamento del diritto umanitario, la soluzione di molti conflitti e operazioni di pace e di riconciliazione, e tante altre acquisizioni in tutti i settori della proiezione internazionale delle attività umane. Tutte queste realizzazioni sono luci che contrastano l’oscurità del disordine causato dalle ambizioni incontrollate e dagli egoismi collettivi. È sicuro che, benché siano molti i gravi problemi non risolti, è però evidente che se fosse mancata tutta quell’attività internazionale, l’umanità avrebbe potuto non sopravvivere all’uso incontrollato delle sue stesse potenzialità. Ciascuno di questi progressi politici, giuridici e tecnici rappresenta un percorso di concretizzazione dell’ideale della fraternità umana e un mezzo per la sua maggiore realizzazione.

Rendo perciò omaggio a tutti gli uomini e le donne che hanno servito con lealtà e sacrificio l’intera umanità in questi 70 anni. In particolare, desidero ricordare oggi coloro che hanno dato la loro vita per la pace e la riconciliazione dei popoli, a partire da Dag Hammarskjöld fino ai moltissimi funzionari di ogni grado, caduti nelle missioni umanitarie di pace e di riconciliazione.

L’esperienza di questi 70 anni, al di là di tutto quanto è stato conseguito, dimostra che la riforma e l’adattamento ai tempi sono sempre necessari, progredendo verso l’obiettivo finale di concedere a tutti i Paesi, senza eccezione, una partecipazione e un’incidenza reale ed equa nelle decisioni. Tale necessità di una maggiore equità, vale in special modo per gli organi con effettiva capacità esecutiva, quali il Consiglio di Sicurezza, gli Organismi finanziari e i gruppi o meccanismi specificamente creati per affrontare le crisi economiche. Questo aiuterà a limitare qualsiasi sorta di abuso o usura specialmente nei confronti dei Paesi in via di sviluppo. Gli organismi finanziari internazionali devono vigilare in ordine allo sviluppo sostenibile dei Paesi e per evitare l’asfissiante sottomissione di tali Paesi a sistemi creditizi che, ben lungi dal promuovere il progresso, sottomettono le popolazioni a meccanismi di maggiore povertà, esclusione e dipendenza.

Il compito delle Nazioni Unite, a partire dai postulati del Preambolo e dei primi articoli della sua Carta costituzionale, può essere visto come lo sviluppo e la promozione della sovranità del diritto, sapendo che la giustizia è requisito indispensabile per realizzare l’ideale della fraternità universale. In questo contesto, è opportuno ricordare che la limitazione del potere è un’idea implicita nel concetto di diritto. Dare a ciascuno il suo, secondo la definizione classica di giustizia, significa che nessun individuo o gruppo umano si può considerare onnipotente, autorizzato a calpestare la dignità e i diritti delle altre persone singole o dei gruppi sociali. La distribuzione di fatto del potere (politico, economico, militare, tecnologico, ecc.) tra una pluralità di soggetti e la creazione di un sistema giuridico di regolamentazione delle rivendicazioni e degli interessi, realizza la limitazione del potere. Oggi il panorama mondiale ci presenta, tuttavia, molti falsi diritti, e – nello stesso tempo – ampi settori senza protezione, vittime piuttosto di un cattivo esercizio del potere: l’ambiente naturale e il vasto mondo di donne e uomini esclusi. Due settori intimamente uniti tra loro, che le relazioni politiche ed economiche preponderanti hanno trasformato in parti fragili della realtà. Per questo è necessario affermare con forza i loro diritti, consolidando la protezione dell’ambiente e ponendo termine all’esclusione.

Anzitutto occorre affermare che esiste un vero “diritto dell’ambiente” per una duplice ragione. In primo luogo perché come esseri umani facciamo parte dell’ambiente. Viviamo in comunione con esso, perché l’ambiente stesso comporta limiti etici che l’azione umana deve riconoscere e rispettare. L’uomo, anche quando è dotato di “capacità senza precedenti” che “mostrano una singolarità che trascende l’ambito fisico e biologico” (Enc. Laudato sì, 81), è al tempo stesso una porzione di tale ambiente. Possiede un corpo formato da elementi fisici, chimici e biologici, e può sopravvivere e svilupparsi solamente se l’ambiente ecologico gli è favorevole. Qualsiasi danno all’ambiente, pertanto, è un danno all’umanità. In secondo luogo, perché ciascuna creatura, specialmente gli esseri viventi, ha un valore in sé stessa, di esistenza, di vita, di bellezza e di interdipendenza con le altre creature. Noi cristiani, insieme alle altre religioni monoteiste, crediamo che l’universo proviene da una decisione d’amore del Creatore, che permette all’uomo di servirsi rispettosamente della creazione per il bene dei suoi simili e per la gloria del Creatore, senza però abusarne e tanto meno essendo autorizzato a distruggerla. Per tutte le credenze religiose l’ambiente è un bene fondamentale (cfr ibid., 81).

L’abuso e la distruzione dell’ambiente, allo stesso tempo, sono associati ad un inarrestabile processo di esclusione. In effetti, una brama egoistica e illimitata di potere e di benessere materiale, conduce tanto ad abusare dei mezzi materiali disponibili quanto ad escludere i deboli e i meno abili, sia per il fatto di avere abilità diverse (portatori di handicap), sia perché sono privi delle conoscenze e degli strumenti tecnici adeguati o possiedono un’insufficiente capacità di decisione politica. L’esclusione economica e sociale è una negazione totale della fraternità umana e un gravissimo attentato ai diritti umani e all’ambiente. I più poveri sono quelli che soffrono maggiormente questi attentati per un triplice, grave motivo: sono scartati dalla società, sono nel medesimo tempo obbligati a vivere di scarti e devono soffrire ingiustamente le conseguenze dell’abuso dell’ambiente. Questi fenomeni costituiscono oggi la tanto diffusa e incoscientemente consolidata “cultura dello scarto”.
agenda svil sost
La drammaticità di tutta questa situazione di esclusione e di inequità, con le sue chiare conseguenze, mi porta, insieme a tutto il popolo cristiano e a tanti altri, a prendere coscienza anche della mia grave responsabilità al riguardo, per cui alzo la mia voce, insieme a quella di tutti coloro che aspirano a soluzioni urgenti ed efficaci. L’adozione dell’“Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile” durante il Vertice mondiale che inizierà oggi stesso, è un importante segno di speranza. Confido anche che la Conferenza di Parigi sul cambiamento climatico raggiunga accordi fondamentali ed effettivi.

Non sono sufficienti, tuttavia, gli impegni assunti solennemente, anche quando costituiscono un passo necessario verso la soluzione dei problemi. La definizione classica di giustizia alla quale ho fatto riferimento anteriormente contiene come elemento essenziale una volontà costante e perpetua: Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi. Il mondo chiede con forza a tutti i governanti una volontà effettiva, pratica, costante, fatta di passi concreti e di misure immediate, per preservare e migliorare l’ambiente naturale e vincere quanto prima il fenomeno dell’esclusione sociale ed economica, con le sue tristi conseguenze di tratta degli esseri umani, commercio di organi e tessuti umani, sfruttamento sessuale di bambini e bambine, lavoro schiavizzato, compresa la prostituzione, traffico di droghe e di armi, terrorismo e crimine internazionale organizzato. È tale l’ordine di grandezza di queste situazioni e il numero di vite innocenti coinvolte, che dobbiamo evitare qualsiasi tentazione di cadere in un nominalismo declamatorio con effetto tranquillizzante sulle coscienze. Dobbiamo aver cura che le nostre istituzioni siano realmente efficaci nella lotta contro tutti questi flagelli.

La molteplicità e complessità dei problemi richiede di avvalersi di strumenti tecnici di misurazione. Questo, però, comporta un duplice pericolo: limitarsi all’esercizio burocratico di redigere lunghe enumerazioni di buoni propositi – mete, obiettivi e indicatori statistici – , o credere che un’unica soluzione teorica e aprioristica darà risposta a tutte le sfide. Non bisogna perdere di vista, in nessun momento, che l’azione politica ed economica, è efficace solo quando è concepita come un’attività prudenziale, guidata da un concetto perenne di giustizia e che tiene sempre presente che, prima e aldilà di piani e programmi, ci sono donne e uomini concreti, uguali ai governanti, che vivono, lottano e soffrono, e che molte volte si vedono obbligati a vivere miseramente, privati di qualsiasi diritto.

Affinché questi uomini e donne concreti possano sottrarsi alla povertà estrema, bisogna consentire loro di essere degni attori del loro stesso destino. Lo sviluppo umano integrale e il pieno esercizio della dignità umana non possono essere imposti. Devono essere costruiti e realizzati da ciascuno, da ciascuna famiglia, in comunione con gli altri esseri umani e in una giusta relazione con tutti gli ambienti nei quali si sviluppa la socialità umana – amici, comunità, villaggi e comuni, scuole, imprese e sindacati, province, nazioni, ecc. Questo suppone ed esige il diritto all’istruzione – anche per le bambine (escluse in alcuni luoghi) – che si assicura in primo luogo rispettando e rafforzando il diritto primario della famiglia a educare e il diritto delle Chiese e delle altre aggregazioni sociali a sostenere e collaborare con le famiglie nell’educazione delle loro figlie e dei loro figli. L’educazione, così concepita, è la base per la realizzazione dell’Agenda 2030 e per il risanamento dell’ambiente.

Al tempo stesso, i governanti devono fare tutto il possibile affinché tutti possano disporre della base minima materiale e spirituale per rendere effettiva la loro dignità e per formare e mantenere una famiglia, che è la cellula primaria di qualsiasi sviluppo sociale. Questo minimo assoluto, a livello materiale ha tre nomi: casa, lavoro e terra; e un nome a livello spirituale: libertà dello spirito, che comprende la libertà religiosa, il diritto all’educazione e gli altri diritti civili.

Per tutte queste ragioni, la misura e l’indicatore più semplice e adeguato dell’adempimento della nuova Agenda per lo sviluppo sarà l’accesso effettivo, pratico e immeditato, per tutti, ai beni materiali e spirituali indispensabili: abitazione propria, lavoro dignitoso e debitamente remunerato, alimentazione adeguata e acqua potabile; libertà religiosa e, più in generale, libertà dello spirito ed educazione. Nello stesso tempo, questi pilastri dello sviluppo umano integrale hanno un fondamento comune, che è il diritto alla vita, e, in senso ancora più ampio, quello che potremmo chiamare il diritto all’esistenza della stessa natura umana.

La crisi ecologica, insieme alla distruzione di buona parte della biodiversità, può mettere in pericolo l’esistenza stessa della specie umana. Le nefaste conseguenze di un irresponsabile malgoverno dell’economia mondiale, guidato unicamente dall’ambizione di guadagno e di potere, devono costituire un appello a una severa riflessione sull’uomo: “L’uomo non si crea da solo. È spirito e volontà, però anche natura” (Benedetto XVI, Discorso al Parlamento della Repubblica Federale di Germania, 22 settembre 2011; citato in Enc. Laudato sì, 6). La creazione si vede pregiudicata “dove noi stessi siamo l’ultima istanza [...]. E lo spreco della creazione inizia dove non riconosciamo più alcuna istanza sopra di noi, ma vediamo soltanto noi stessi” (Id., Incontro con il Clero della Diocesi di Bolzano-Bressanone, 6 agosto 2008, citato ibid.). Perciò, la difesa dell’ambiente e la lotta contro l’esclusione esigono il riconoscimento di una legge morale inscritta nella stessa natura umana, che comprende la distinzione naturale tra uomo e donna (cfr Enc. Laudato sì, 155) e il rispetto assoluto della vita in tutte le sue fasi e dimensioni (cfr ibid., 123; 136).

Senza il riconoscimento di alcuni limiti etici naturali insormontabili e senza l’immediata attuazione di quei pilastri dello sviluppo umano integrale, l’ideale di “salvare le future generazioni dal flagello della guerra” (Carta delle Nazioni Unite, Preambolo) e di “promuovere il progresso sociale e un più elevato livello di vita all’interno di una più ampia libertà” (ibid.) corre il rischio di diventare un miraggio irraggiungibile o, peggio ancora, parole vuote che servono come scusa per qualsiasi abuso e corruzione, o per promuovere una colonizzazione ideologica mediante l’imposizione di modelli e stili di vita anomali estranei all’identità dei popoli e, in ultima analisi, irresponsabili.

La guerra è la negazione di tutti i diritti e una drammatica aggressione all’ambiente. Se si vuole un autentico sviluppo umano integrale per tutti, occorre proseguire senza stancarsi nell’impegno di evitare la guerra tra le nazioni e tra i popoli.

A tal fine bisogna assicurare il dominio incontrastato del diritto e l’infaticabile ricorso al negoziato, ai buoni uffici e all’arbitrato, come proposto dalla Carta delle Nazioni Unite, vera norma giuridica fondamentale. L’esperienza dei 70 anni di esistenza delle Nazioni Unite, in generale, e in particolare l’esperienza dei primi 15 anni del terzo millennio, mostrano tanto l’efficacia della piena applicazione delle norme internazionali come l’inefficacia del loro mancato adempimento. Se si rispetta e si applica la Carta delle Nazioni Unite con trasparenza e sincerità, senza secondi fini, come un punto di riferimento obbligatorio di giustizia e non come uno strumento per mascherare intenzioni ambigue, si ottengono risultati di pace. Quando, al contrario, si confonde la norma con un semplice strumento da utilizzare quando risulta favorevole e da eludere quando non lo è, si apre un vero vaso di Pandora di forze incontrollabili, che danneggiano gravemente le popolazioni inermi, l’ambiente culturale, e anche l’ambiente biologico.

Il Preambolo e il primo articolo della Carta delle Nazioni Unite indicano le fondamenta della costruzione giuridica internazionale: la pace, la soluzione pacifica delle controversie e lo sviluppo delle relazioni amichevoli tra le nazioni. Contrasta fortemente con queste affermazioni, e le nega nella pratica, la tendenza sempre presente alla proliferazione delle armi, specialmente quelle di distruzione di massa come possono essere quelle nucleari. Un’etica e un diritto basati sulla minaccia della distruzione reciproca – e potenzialmente di tutta l’umanità – sono contraddittori e costituiscono una frode verso tutta la costruzione delle Nazioni Unite, che diventerebbero “Nazioni unite dalla paura e dalla sfiducia”. Occorre impegnarsi per un mondo senza armi nucleari, applicando pienamente il Trattato di non proliferazione, nella lettera e nello spirito, verso una totale proibizione di questi strumenti.
Il recente accordo sulla questione nucleare in una regione sensibile dell’Asia e del Medio Oriente, è una prova delle possibilità della buona volontà politica e del diritto, coltivati con sincerità, pazienza e costanza. Formulo i miei voti perché questo accordo sia duraturo ed efficace e dia i frutti sperati con la collaborazione di tutte le parti coinvolte.

In tal senso, non mancano gravi prove delle conseguenze negative di interventi politici e militari non coordinati tra i membri della comunità internazionale. Per questo, seppure desiderando di non avere la necessità di farlo, non posso non reiterare i miei ripetuti appelli in relazione alla dolorosa situazione di tutto il Medio Oriente, del Nord Africa e di altri Paesi africani, dove i cristiani, insieme ad altri gruppi culturali o etnici e anche con quella parte dei membri della religione maggioritaria che non vuole lasciarsi coinvolgere dall’odio e dalla pazzia, sono stati obbligati ad essere testimoni della distruzione dei loro luoghi di culto, del loro patrimonio culturale e religioso, delle loro case ed averi e sono stati posti nell’alternativa di fuggire o di pagare l’adesione al bene e alla pace con la loro stessa vita o con la schiavitù.

Queste realtà devono costituire un serio appello ad un esame di coscienza di coloro che hanno la responsabilità della conduzione degli affari internazionali. Non solo nei casi di persecuzione religiosa o culturale, ma in ogni situazione di conflitto, come in Ucraina, in Siria, in Iraq, in Libia, nel Sud-Sudan e nella regione dei Grandi Laghi, prima degli interessi di parte, pur se legittimi, ci sono volti concreti. Nelle guerre e nei conflitti ci sono persone, nostri fratelli e sorelle, uomini e donne, giovani e anziani, bambini e bambine che piangono, soffrono e muoiono. Esseri umani che diventano materiale di scarto mentre non si fa altro che enumerare problemi, strategie e discussioni.

Come ho chiesto al Segretario Generale delle Nazioni Unite nella mia lettera del 9 agosto 2014, “la più elementare comprensione della dignità umana [obbliga] la comunità internazionale, in particolare attraverso le norme e i meccanismi del diritto internazionale, a fare tutto il possibile per fermare e prevenire ulteriori sistematiche violenze contro le minoranze etniche e religiose” e per proteggere le popolazioni innocenti.

In questa medesima linea vorrei citare un altro tipo di conflittualità, non sempre così esplicitata ma che silenziosamente comporta la morte di milioni di persone. Molte delle nostre società vivono un altro tipo di guerra con il fenomeno del narcotraffico. Una guerra “sopportata” e debolmente combattuta. Il narcotraffico per sua stessa natura si accompagna alla tratta delle persone, al riciclaggio di denaro, al traffico di armi, allo sfruttamento infantile e al altre forme di corruzione. Corruzione che è penetrata nei diversi livelli della vita sociale, politica, militare, artistica e religiosa, generando, in molti casi, una struttura parallela che mette in pericolo la credibilità delle nostre istituzioni.

Ho iniziato questo intervento ricordando le visite dei miei predecessori. Ora vorrei, in modo particolare, che le mie parole fossero come una continuazione delle parole finali del discorso di Paolo VI, pronunciate quasi esattamente 50 anni or sono, ma di perenne valore. “È l’ora in cui si impone una sosta, un momento di raccoglimento, di ripensamento, quasi di preghiera: ripensare, cioè, alla nostra comune origine, alla nostra storia, al nostro destino comune. Mai come oggi [...] si è reso necessario l’appello alla coscienza morale dell’uomo [poiché] il pericolo non viene né dal progresso né dalla scienza: questi, se bene usati, potranno anzi risolvere molti dei gravi problemi che assillano l’umanità” (Discorso ai Rappresentanti degli Stati, 4 ottobre 1965). Tra le altre cose, senza dubbio, la genialità umana, ben applicata, aiuterà a risolvere le gravi sfide del degrado ecologico e dell’esclusione. Proseguo con le parole di Paolo VI: “Il pericolo vero sta nell’uomo, padrone di sempre più potenti strumenti, atti alla rovina ed alle più alte conquiste!” (ibid.).

La casa comune di tutti gli uomini deve continuare a sorgere su una retta comprensione della fraternità universale e sul rispetto della sacralità di ciascuna vita umana, di ciascun uomo e di ciascuna donna; dei poveri, degli anziani, dei bambini, degli ammalati, dei non nati, dei disoccupati, degli abbandonati, di quelli che vengono giudicati scartabili perché li si considera nient’altro che numeri di questa o quella statistica. La casa comune di tutti gli uomini deve edificarsi anche sulla comprensione di una certa sacralità della natura creata.

Tale comprensione e rispetto esigono un grado superiore di saggezza, che accetti la trascendenza, rinunci alla costruzione di una élite onnipotente e comprenda che il senso pieno della vita individuale e collettiva si trova nel servizio disinteressato verso gli altri e nell’uso prudente e rispettoso della creazione, per il bene comune. Ripetendo le parole di Paolo VI, “l’edificio della moderna civiltà deve reggersi su principii spirituali, capaci non solo di sostenerlo, ma altresì di illuminarlo e di animarlo” (ibid.).

Il Gaucho Martin Fierro, un classico della letteratura della mia terra natale, canta: “I fratelli siano uniti perché questa è la prima legge. Abbiano una vera unione in qualsiasi tempo, perché se litigano tra di loro li divoreranno quelli di fuori”.

Il mondo contemporaneo apparentemente connesso, sperimenta una crescente e consistente e continua frammentazione sociale che pone in pericolo “ogni fondamento della vita sociale” e pertanto “finisce col metterci l’uno contro l’altro per difendere i propri interessi” (Enc. Laudato sì, 229).

Il tempo presente ci invita a privilegiare azioni che possano generare nuovi dinamismi nella società e che portino frutto in importanti e positivi avvenimenti storici (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 223).

Non possiamo permetterci di rimandare “alcune agende” al futuro. Il futuro ci chiede decisioni critiche e globali di fronte ai conflitti mondiali che aumentano il numero degli esclusi e dei bisognosi.

La lodevole costruzione giuridica internazionale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e di tutte le sue realizzazioni, migliorabile come qualunque altra opera umana e, al tempo stesso, necessaria, può essere pegno di un futuro sicuro e felice per le generazioni future. Lo sarà se i rappresentanti degli Stati sapranno mettere da parte interessi settoriali e ideologie e cercare sinceramente il servizio del bene comune. Chiedo a Dio Onnipotente che sia così, e vi assicuro il mio appoggio, la mia preghiera e l’appoggio e le preghiere di tutti i fedeli della Chiesa Cattolica, affinché questa Istituzione, tutti i suoi Stati membri e ciascuno dei suoi funzionari, renda sempre un servizio efficace all’umanità, un servizio rispettoso della diversità e che sappia potenziare, per il bene comune, il meglio di ciascun popolo e di ciascun cittadino.

La benedizione dell’Altissimo, la pace e la prosperità a tutti voi e a tutti i vostri popoli. Grazie.
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papa Francesco ONU
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- Rif. Sala stampa Vaticano

Oggi giovedì giobia 24 settembre cabudanni 2015

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ape-innovativaLogo_Aladin_Pensieroaladin-lampada-di-aladinews312sardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413.
unicanotte_ricercatori- IL PROGRAMMA COMPLETO di UNICA.
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ass  9 m urpinu CEMENTO PRIVATO O BENE SOCIALE? Domani venerdì assemblea pubblica alle ore 19.00 alla scuola Randaccio di via Venezia.

La Sardegna che vogliamo. “Se realizzassimo una balentia senza fucili?”

Atzeni-copertina-sito-622053_960x368ape-innovativa2Come è noto, dal 22 al 27 settembre 2015 si terranno in città una serie di manifestazioni, nell’ambito del Progetto “Quando buttavano a mare i tram”, fatte di letture, musica, teatro e poesia, per ricordare lunascarlattaSergio Atzeni a vent’anni dalla sua scomparsa. Il pensiero e le parole dello scrittore nei luoghi inconsueti della città: Teatro Civico di Castello, piazza San Domenico, piazza Costituzione, Mercato di San Benedetto, Is Mirrionis e Marina Piccola. Ingresso libero a tutti gli eventi. Il progetto, ideato e gestito dall’associazione culturale Luna Scarlatta, è inserito all’interno dei Progetti in Rete per Cagliari Capitale Italiana della Cultura 2015. Nell’occasione riteniamo utile e bello pubblicare tre articoli scritti da Sergio Atzeni (ripresi dal sito web a lui dedicato), che, al di là dei fatti e delle polemiche contingenti, mantengono decisamente validità per le considerazioni e le indicazioni di fondo. Sì, perché come ha sostenuto Vito Biolchini in un suo recente intervento sullo scrittore cagliaritano, intitolato “Perché Sergio Atzeni ci manca veramente”: “Si poteva anche non essere d’accordo con lui ma i suoi interventi non erano mai banali, perché Atzeni non scriveva a caso e non amava apparire, non era il prototipo di scrittore rockstar (che poi abbiamo conosciuto, ahimè, anche alle nostre latitudini). Le parole di Atzeni avevano un peso: tutte. Oggi in tanti ricordano banalmente lo scrittore, ma pochi rimpiangono l’intellettuale. Eppure è proprio in quell’ambito che Atzeni ha lasciato un vuoto che nessuno dopo di lui è mai riuscito a colmare. Perché si avviava ad essere per i sardi quello che per gli italiani è stato Pier Paolo Pasolini. Atzeni stava creando quel ponte tra cultura e politica che serviva all’una e all’altra per essere realmente utili alla società. Il suo sforzo era teso anche a mettere in collegamento le ragioni della Sardegna urbana con quelle della Sardegna rurale, azione di mediazione straordinaria perché tra i due ambiti le incomunicabilità sono ancora troppe”.

Se realizzassimo una balentia senza fucili?
SergioAtzeni fto microdi Sergio Atzeni

(dal sito ufficiale www.sergioatzeni.com)

Promittu: si una borta mi tzerriais a Bitti a kistionai, kistion’in sardu de s’inkuminzu ’a s’akabu, in sardu de domu mia, Santa Renner’in Kasteddu, po bir’itta ’n di kumprendeis a Bitti, tott’a korp’e bagarias beccias frunzias e sbentiaras, krukurigas, pingiaras, aggittorius, faulas isciaquaras in su feli, fiuras frastimaras, bottus de potekarius susuncus, bentus kontrarius ki bandat akù’akùa e arregalanta kallenturas, sparedda purescia e murenas arenaras, krokongius, puddas e pippius. Po urtimu arregordu unu mesu muttettu bell’e antigu: is proprius funis sardas impi- kanta su sardu. Si mi tzerriais a Bitti. Si no, e poi immoi, kistion’e iscriu italianu, mankai siara disamistade bittesa inkuminzada de vissignoria Iuanne Dettori e sighia de vissignoria Bachis Bandinu. E pirmissu, bittesos balentes? Giovanni Dettori, su queste pagine, ha parlato con voce chiara, non priva di volute e spirali né di citazioni eleganti, ha parlato di noi e dell’isola dove siamo nati e dove prima che il viaggio finisca vorremmo tornare, per costruire (Noi chi? I sardi d’oltramare, vagabondi in epoca vagabonda, liberi da ogni catena tranne il bisogno di campare e la lotta volontaria contro i vizi e il male che fanno parte di ciascuno). Di noi e dell’isola Dettori ha cantato un attittidu, dolore e nostalgia. Gli piacerebbe scrivere in spagnolo, ha confessato, y entre los petalos habìa motitas de oro.
Gli ha risposto Bachisio Bandinu usando strumenti psicanalitici e parlando di madri e padri, oralità e scrittura, un saggio strano e pensoso, anche bello. Strano perché mi pare psicoanalizzi un emigrante che non è Dettori (per quel che lo conosco ma un Signor Tale che nell’avventura oltremare ha incontrato problemi difficili e non li ha saputi risolvere, dovrebbe andare in analisi). Strano anche per un particolare: Bandinu scrive in italiano invitando Dettori a scrivere in sardo. Non è strano?
Quanto ai temi centrali sollevati da Dettori e rilanciati da Bandinu, ovvero dove vada la nostra isola e che senso abbia la mutazione denunciata, la perdita dell’antica lingua sostituita da un ibrido che fa paura, delle antiche abitudini sostituite da un’imitazione imbelle di modelli televisivi, che senso abbia oggi la nostra identità di sardi, poco ho da dire e disordinato.
Ogni tanto mi chiedo: qualcuno in Sardegna pensa o vuole imbrigliare il sardo di Santa Rennera in vocabolari indiscutibili di condanne? Qualcuno pensa o vuole dizionari e grammatiche sarde imparate a memoria in prima elementare? Se questo qualcuno esiste, continui a pensare, a volere, per carità, siamo in democrazia e siamo nati per sopportare il peggio. Ma potremo parlare sardo quando vogliamo? Altrimenti italiano inglese o quello che vogliamo come vogliamo e sappiamo? O qualcuno pensa e vuole che la Regione e lo stato debbano intervenire per costringere con la forza qualcun altro a parlare come non sa o non vuole?
Credo giusto che in prima elementare i bambini possano studiare inglese e francese, oltre l’italiano. Se fra vent’anni l’intera gioventù sarda leggerà non tradotti i romanzi di Mc Ewan e Chamoiseau, non mi lamenterò. Se qualcuno pensa o vuole scrivere quindi romanzi in sardo, capaci di sfidare il tempo e affascinare i futuri, perché non lo fa? Cossu e Lobina hanno provato, la strada è aperta. Ci si vuole misurare creando misture fra saggio e racconto? Pira ha provato, la strada è aperta. Signor qualcuno, se esisti, regalaci il capolavoro. Ti applaudiremo.
O qualcuno pensa o vuole decretare traditori della causa sarda gli scrittori che hanno scritto e scrivono in italiano? Qualcuno, se ci sei, ti pare il caso? Senza Deledda e Satta? Senza Gramsci e Lussu? Senza Asproni e Bacaredda? Che storia letteraria ti resta? Sos poetas in limba? E tottu s’atr’a mari? Ci as pensau beni?
Ho un timore. Che questo ennesimo dibattito sulla lingua e sull’etnia sarà interessante ma inutile come quelli che nel secolo l’hanno preceduto (e sono schiera ingente). Continueremo a fare finta di nulla. Ogni anno ad aprile avremo qualcuno nelle mani dei banditi e una o più famiglie in attesa. Ad agosto fiamme nei pochi boschi rimasti. Da gennaio a Natale i ragazzi a vagare nel mondo con rabbia e voglia di tornare. Mai lavoro sulla nostra terra. I condotti dell’acqua perderanno, i bacini saranno insufficienti, regnerà la sete: anni di pioggia si alterneranno ad anni di siccità, ci si potrà lavare ogni giorno a ogni ora o soltanto il martedì alle tre. Con dibattito periodico sulla lingua e sull’identità. Per quanti secoli ancora?
Nuovo mattino cercasi per isola che ha bisogno di cambiare. Siamo capaci di provare a cambiare? Per gioco. Per vedere l’effetto che fa. Impedendo l’evitabile e costruendo il costruibile con decisione sorridente e fraterna di molti assieme, ogni volta che serve. Attenti a quel che succede nei nostri paesi e nelle città. Attenti al dibattito e i fatti. Più ai fatti che alle parole. Rompendo i coglioni al potere ogni volta che si può, lo merita sempre, l’ha sempre meritato, il potere di Roma come quello di Cagliari.
Massima penalità a chi si prende troppo sul serio. Di solito si comincia prendendosi sul serio, zuppi d’orgoglio, e si finisce per ammazzare il vicino per questioni di pascolo, di donne, di soldi, di ragioni. Quanto improbabili ragioni.
Riusciremo a cambiare? Cambiare come? Verso dove? Ridando vita all’antica balentia, magari. Ma disarmata. Intelligente. Balentia senza fucili. Ne saremo capaci?
Senza fucili, senza sequestratori. Per favore, signori banditi, siate degni dell’antico nome. Non dovete dare il cattivo esempio ai bambini. Abbiamo urgente bisogno di bambini liberi che possano diventare uomini coraggio- si, intelligenti e onesti come gli antichi di cui parla la storia o la leggenda dei sardi resistenti. Non abbiamo bisogno di uomini che per arricchire sequestrano uomini. Signori banditi, perché non andate a svaligiare qualche banca svizzera che guadagna coi soldi della mafia? Inzandus eia (tando ei), sarebbe balentia banditesca degna degli antichi costumi, delle antiche bardane.
Non dimenticando le volte innumerevoli che gli antichi sono fuggiti senza combattere o si sono arresi o hanno barattato gli interessi dell’isola in cambio di un titolo da barone o da senatore, non dimenticando che siamo stati comprati e venduti in blocco con la terra, mezzadri di Spagna e Savoia. Senza troppo orgoglio neppure per gli antichi, non erano tutti santi, non erano tutti eroi.
«l’Unione Sarda», 7 Maggio 1995
[Con questo articolo Sergio Atzeni intervenne in un dibattito sulla lingua e l’identità sarda sulle pagine de L’Unione Sarda iniziato da Giovanni Dettori e proseguito da altri intellettuali come Bachisio Bandinu, Eliseo Spiga e Placido Cherchi].
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Naufragio di Joyce nella noia
Borges non scrive mai più. Impedito dalla cecità totale che lo accompagna da oltre un ventennio; da quel giorno del 1955 in cui definitivamente si concluse il «lento crepuscolo durato più di mezzo secolo» che aveva accompagnato la sua vista.
Non scrive, Borges. Ma detta i suoi pensieri: completamente parlati – e forse proprio perciò straordinariamente lievi e aerei – erano racconti del Libro di sabbia, scritti nei primi anni settanta. I racconti, le conversazioni, sono raccolti da mani fedeli: la loro correzione immagino come un alternarsi di canti e controcanti fra la voce del poeta e quelle degli aiutanti che instancabilmente ripetono le sue parole.
Nel 1978, Borges tenne una serie di “lezioni” per gli studenti dell’università di Belgrado. Cinque lezioni. Gli argomenti, nell’ordine: il libro, l’immortalità, Emauel Swedenborg, il racconto poliziesco, il tempo. Il legame fra temi in apparenza tanto alieni l’uno all’altro, è dato dall’unica voce che attorno ad essi riflette: sono i nodi attraverso cui si è sviluppata l’opera vastissima di Borges, e di cui, qui, si offrono al lettore chiavi di interpretazione e fili conduttori “ideologici”.
Il libro, stretto fra le tenaglie della sacralità, da un lato, e dell’oggettualità industriale dall’altro, viene “rubato”, da Borges, che lo restituisce – seguendo Montaigne – come “provocatore di gioia”. Il giudizio su Joyce è inappellabile: non provoca gioia, ma tedio: «ha essenzialmente fallito».
Le conclusioni borgesiane (sempre raggiunta attraverso esplorazioni non consuete del patrimonio culturale della civiltà occidentale, ma non mancano interessanti “fughe” verso i libri religiosi indiani o mussulmani) si colorano di laica rassegnazione; anche nei vasti territori del misticismo (il saggio su Swedenborg), anche in quelli minati da temi eminentemente religiosi. L’immortalità è concessa: ma al genere umano, alla specie: non ai singoli individui. Il pensiero, la cultura, la scienza degli uomini: solo qui stà l’immortalità. La riflessione è animata da squarci d’ironia garbata: a San Tommaso d’Aquino che ci ha lasciato la sentenza «la mente desidera spontaneamente di essere eterna», Borges risponde che la mente «desidera anche altre cose (…) Ci sono i casi dei suicidi, o il nostro caso quotidiano di persone che hanno bisogno di dormire, il che è anche una forma di morte». Il Borges “orale” che emerge da queste lezioni (raccolte in volume dagli Editori Riuniti, titolo Oral, appunto), mentre si lascia trascinare dai suoi stessi intrighi di parole e concetti (dopo più paradossi concentrici, conclude che il tempo non può essere spiegato, né capito) pare un vecchio saggio che racconta che cosa rimane del nostro tumulto quotidiano: poca fede, qualche bella immagine poetica, una biblioteca di Babele – un gradino nella storia della specie –: tutto con voce limpida, che sa mormorare con la sobrietà dei classici, e non esorcizza i tormenti dell’epoca: ma non permette che siano essi a tormentarla.
«La Nuova Sardegna», 26 Maggio 1981
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Migliaia in un capannone a Cagliari per il jazz di Don Cherry
L’appuntamento era alla Fiera campionaria. Si sono ritrovati in tanti – oltre tremila giovani e ragazze – in un capannone adibito solitamente all’esposizione di tende da campeggio e motoscafi. Un locale enorme, freddissimo, senza sedie. È mai possibile che a Cagliari, sede del governo regionale e capoluogo sardo, per andare a sentire uno dei più grandi trombettisti jazz viventi (l’afro-americano Don Cherry) ci si debba sdraiare per terra sul cemento freddo?
È possibile. Il teatro Massimo è interdetto a qualunque manifestazione musicale che non sia la lirica (e non va neppure per questo genere di spettacolo, lo squallido cinematografo in disuso), fin dai tempi in cui un concerto- pop provocò scontri tra pubblico e polizia. Motivo: l’organizzazione aveva venduto un numero di biglietti incredibilmente superiore alla capienza del locale.
L’Auditorium è stato chiuso a tempo indeterminato dalle autorità comunali. Si sono sollevate le proteste dei partiti di sinistra e delle organizzazioni culturali, ma invano. La giunta, da quell’orecchio non ci sente. Il teatro della istituzione dei concerti “Pierliugi da Palestrina” è in costruzione, più o meno, dall’immediato dopoguerra: i lavori ancora non sono conclusi. Intanto Cagliari è rimasta senza teatro durante la guerra: il Politeama Regina Marghe- rita distrutto da un incendio, e il Civico ridotto dai bombardamenti in un cumulo di macerie.
Il Palazzetto dello Sport, ultima possibilità rimasta fino a qualche tempo fa, d’ora in poi ospiterà soltanto partite di pallacanestro. Con buona pace degli amanti della musica, quindi, rimane il capannone della Fiera. O mangi di questo cemento, o salti lo appuntamento.
Un quadro desolante che è urgente sanare. Infatti, la musica è uno dei pochi strumenti rimasti in grado di produrre fenomeni di aggregazione giovanile. Privarsi delle possibilità di organizzare concerti significa – e non ci sono mezzi termini – voler aumentare e incancrenire la disgregazione del mondo giovanile, gravissima per i motivi che tutti conosciamo.
Ma torniamo al concerto. Dopo un breve spettacolo del gruppo cagliaritano degli Hara Quartet, (quattro ragazzi coraggiosi che hanno rifiutato le sirene delle sagre strapaesane a trecentomila la serata, per una scelta musicale e ideologica ardua, e che sono costretti a studiare e provare nei sottani di Castello), è finalmente il turno di Don Cherry. L’artista negro interviene con l’accompagnamento di una chitarra e una batteria, e con un coro formato da sua moglie e due bambini, praticamente un intero nucleo familiare.
Ben presto ci si dimentica delle difficoltà di ascolto e climatiche: il concerto termina con tutto il pubblico che canta assieme agli artisti, in un fenomeno di partecipazione mai visto prima d’ora in questa città. Il suono di Don Cherry, ritmi afro-americani inseriti in moduli “circolari” orientali su una melodia spesso rock, è talmente trascinante e coinvolgente da suscitare entusiasmo giustificatissimo nel pubblico. Come dire che il freddo dell’ambiente è stato combattuto e vinto dal calore umano. Non succederà purtroppo nel caso di musiche più rarefatte e “difficili”.
Il concerto è stato organizzato dal Movimento dei Lavoratori per il Socialismo (ex Movimento Studentesco). Anche in questo caso una osservazione si rende necessaria: come mai Don Cherry non è stato invitato nella nostra città dall’ARCI? Non crediamo si tratti di ignoranza: l’artista negro è stato presente alla maggior parte dei festival dell’Unità dell’estate scorsa, compreso quello nazionale. Non essersi accorti quindi della sua presenza in Italia e della sua disponibilità per i circuiti “«alternativi” sarebbe stato molto grave. Non crediamo si tratti di questo, quanto piuttosto di un vizio di mentalità difficile da estirpare: ogni volta che si parla di jazz, infatti, vengono posti problemi sulla affluenza possibile di pubblico («non viene nessuno – si sente dire – è roba
d’élite»). Questo discorso valeva fino a una decina di anni fa: oggi è esattamente il contrario di allora, il jazz è divenuto spettacolo capace di attirare masse di giovani, e le prove non mancano a Cagliari. Si tratta piuttosto di fare scelte oculate e tempestive. Non per una pretesa in qualche modo “totalizzante” (il «vogliamo fare tutto noi»), ma perché crediamo che un intervento delle organizzazioni culturali della sinistra in questo settore sia ormai improcrastinabile. Perché è necessario comprendere i gusti dei giovani, ed educarli. Altrimenti qualunque discorso sulla “«cultura progressiva” è solo fumo.
«l’Unità», 23 Marzo 1976
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Europa, Europa…

poveraEuropa filo_spinato europesedia di VannitolaRilanciare il processo di costruzione dell’Europa politica con un piano unitario per l’accoglienza dei migranti.
di Vanni Tola

La giornata di martedì, 15 settembre, ha un significato particolare nel panorama politico europeo. Ha sancito l’inconsistenza o, se preferite, l’inesistenza dell’Europa politica, la mancanza di obiettivi politici unificanti intorno ai quali realizzare e concretizzare l’idea stessa di Unione Europea teorizzata dai padri dell’europeismo. L’Europa, molti lo denunciano da tempo, al momento è soltanto una entità economico-finanziaria creata intorno alla moneta unica euro e tenuta insieme dalle scelte della Banca Centrale Europea. Al di fuori da tale ambito l’Unione non esiste, non decolla un progetto di unione politica, di scelte condivise, di stati uniti d’Europa. In sole tre settimane si sono registrate una serie infinita di cambiamenti di fronte che, se pure aprono qualche spiraglio di ottimismo, evidenziano la inconsistenza del progetto unitario del vecchio continente. La questione del profughi, dopo essere stata confinata a problema geopolitico limitato alla sola Europa mediterranea, si è manifestato in tutta la sua portata come fenomeno straordinario e duraturo che coinvolge l’intero continente. La Germania della Merkel, con un incredibile cambiamento di rotta, ha mostrato per prima di aver colto la complessità del problema e ha risposto dichiarando e mettendo in pratica delle scelte di grande apertura in termini di accoglienza. Per conseguenza si sono intensificati gli arrivi di profughi che ormai non arrivano più e soltanto dal mare ma anche attraverso altre vie, attraversando diversi paesi dell’est europeo. E’ a questo punto che esplodono le contraddizioni finora dormienti. Una consistente parte dell’Unione dichiara esplicitamente che non intende accogliere profughi e neppure consentirne il transito verso altri paesi. Ricompaiono i confini chiusi da filo spinato e sorvegliati dall’esercito che ricordano ai meno giovani un triste passato fatto di divisioni, guerre, muri. Un’altra parte dell’Europa invece si mobilita con slancio per realizzare la migliore accoglienza possibile dei profughi. La gente in particolare, superando i ritardi dei politici, si mobilita con entusiasmo, accoglie i profughi con affetto e simpatia, offre ospitalità nelle case. Due realtà diverse e contrapposte che andrebbero raccordate. Si propone di formalizzare e applicare il criterio della cittadinanza europea superando i vecchi trattati che, nei fatti, confinavano i migranti nel paese di prima accoglienza limitandone la circolazione in Europa. Si ripropone il criterio della ripartizione dei migranti fra i diversi paesi dell’Unione sulla base di quote obbligatorie di accoglienza. E arriviamo alla giornata di ieri, agli incontri tra i paesi dell’Unione durante i quali diversi paesi dell’est Europa ripropongono con forza la loro scelta di non accogliere migranti rendendo irrealizzabile il progetto unitario di accoglienza che si andava delineando. L’Unione europea, sulla questione dei migranti mostra cosi il nanismo politico del gigante economico realizzato intorno all’euro. Ora l’intera vicenda della accoglienza è demandata alla riunione urgente dei capi di governo che si terrà la prossima settimana nel tentativo di produrre una qualche scelta umanitaria mentre l’Ungheria e altri paesi blindano i loro confini e arrestano i migranti che li violano, mentre continuano gli sbarchi, le drammatiche vicende di uomini, donne e bambini sempre più disperati e mentre paesi quali l’Austria, alcuni paesi del nord Europa e perfino la Svizzera ribadiscono volontà e disponibilità ad accogliere di più e meglio. L’Italia fa la sua parte in termini di accoglienza in tutte le regioni, comprese quelle controllate dalla Lega ma continuano le provocazioni delle forze politiche razziste e xenofobe locali alla disperata ricerca di consensi elettorali fondati su disinformazione e paure della gente. L’ultima in ordine di tempo la scelta di togliere i finanziamenti della regione Lombardia a quelle strutture alberghiere che, rispondendo all’appello del Ministero dell’Interno, dovessero concedere ospitalità ai migranti.
Commentando il fallimento della riunione europea del 15 settembre, che avrebbe dovuto definire il progetto delle quote di accoglienza dei profughi, il vice cancelliere tedesco ha dichiarato che con tale fallimento l’Unione europea si è coperta di ridicolo dando un’immagine negativa dell’Europa e generando in alcuni paesi dell’Unione leggi restrittive della libera circolazione degli individui che fanno arrossire e delle quali ci si dovrebbe vergognare. Questa la situazione a tutt’oggi, ora non resta che attendere nuovi sviluppi dal prossimo incontro straordinario dei paesi dell’Unione sperando che la logica, la ragione e l’idea di costruire un’Europa politica si concretizzino attraverso scelte politiche illuminate.
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Per correlazione exodus-thanks-13-1024x425
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Giulio Sapelli su Il Messaggero. Tra euro e profughi. L’agonia dell’Europa che ha perso i suoi valori

L’esclusivismo etnico e la storia che ci sorpassa
di Nicolò Migheli

By sardegnasoprattutto/ 14 settembre 2015/ Società & Politica/

“Il faut réfléchir comment l’histoire nous dépasse“. Lo scriveva un mio amico sulla sua bacheca di Fb raccontando lo sconcerto di una funzionaria greca della Commissione Europea davanti alla tragedia dei rifugiati-migranti. Centinaia di migliaia di persone che premono alle nostre frontiere. La fotografia del bambino curdo in una spiaggia turca commuove il continente e costringe frau Merkel ad aprire le frontiere tedesche ai rifugiati siriani. Qualsiasi interpretazione si voglia dare, quel gesto politico cambia l’Europa e ne mostra il limite. Eravamo rimasti alla divisione Nord Sud sull’economia, ed ora ci ritroviamo anche con quella Ovest Est sui valori.

La vecchia e nuova Europa, come ai tempi della guerra contro Saddam Hussein. Da una parte la Germania, Austria, Svezia, Francia, Italia, Spagna e Grecia e dall’altra Polonia, Cechia, Slovacchia ed Ungheria che chiudono le frontiere, dichiarano che non accoglieranno nessuno. In Polonia si manifesta nelle piazze contro l’accoglienza. L’Ungheria accusata di pratiche neonaziste per il muro al confine, i treni blindati, i campi di concentramento, l’uso dei reparti anti sommossa, i lanci di panini e bottiglie d’acqua sugli stranieri chiusi in gabbia. Un’apocalisse della nostra umanità. Quei paesi sono entrati frettolosamente nella Ue senza avere riflettuto seriamente sulla loro storia. Vittime degli espansionismi tedeschi e russi degli ultimi due secoli, ora sono diventati gelosi della loro etnicità esclusiva. Si sentono difensori di una identità omologante, incapaci di dialogare con il diverso.

L’Ungheria in più distribuisce passaporti agli ungheresi cittadini dei paesi limitrofi, nel sogno di poter rimettere in discussione i confini stabiliti alla fine della Prima Guerra Mondiale. Il Governo di Orbán si erge a difensore della civiltà cristiana immaginaria. Un’apocalisse come rivelazione della realtà che tocca noi sardi nel profondo. Occorrerebbe riflettere per l’irruzione della Storia e del mutamento in noi e nei nostri parametri di giudizio.

Occorrerebbe riflettere come i soliti cinici per calcoli di bottega politica usino questi drammi per instillare paure, mettendo contro bisogni legittimi della povertà dei locali e il dovere umano di aiutare chi fugge dalla morte. Perché anche da noi si notano segni pesanti di rifiuto della realtà. Nascono movimenti che usano la retorica identitaria per marcare confini.

Un’identità che si immagina ferma ed immutabile, il sogno di un comunitarismo cerchio caldo, per usare la brillante definizione di Göran Rosemberg. Una concezione dell’identità simile a quella dei teorici waabiti dell’Isis. Saremo salvi se non ci saranno contaminazioni, se tutti si riconosceranno come i-dentici. Perché ciò avvenga è necessario costruirsi sempre è comunque come vittime – il collettivo Wu Ming, ha scritto un articolo illuminante a proposito- di un presente che non si riesce a capire e di un passato raccontato sempre con il mito della perdita. Perché l’oggi, grazie a Tv e reti sociali, induce un tempo schiacciato sul presente, una rimozione della memoria che impedisce ogni elaborazione che sia riflessione, che sia razionalità e non semplice razionalizzazione.

Ad esempio, ogni fatto terroristico viene sottolineato con un “Da oggi siamo in guerra”. Il conflitto permanente come instrumentum regni. Ogni sbarco vissuto come invasione. Una forma sofisticata di controllo sociale che comincia con l’essere sottoposti continuamente a narrazioni manipolate, ad una incessante riproposizione di video e messaggi violenti che oltre a indurre assuefazione abbassano pericolosamente il confine della percezione dell’orrore, fino ad essere il rumore di fondo della nostra psiche. L’indignazione come corollario, il sentimentalismo e non il sentimento. Le passioni fredde che uccidono l’empatia. Tv e reti sociali il luogo eletto per un continuo lavaggio del cervello che si traduce in senso comune di ostilità nei confronti di chi è diverso, povero, fugge.

Un bisogno di ordine che somiglia molto al ritorno nel grembo materno. La sindrome del ritiro, la chiama così lo psicanalista Luigi Zoia. Una realtà che mi preoccupa molto come sardo; come la nostra nazione ad identità debole si lascia traviare in una deriva etnica esclusiva, che immagini l’appartenenza solo legata a sangue e terra, con il corollario della folklorizzazione incessante. Questo governo regionale, bloccando ogni intervento per la crescita del sardo come lingua normale, ha creato uno degli elementi che accentuano l’identità labile dei sardi. Le azioni di governo che non difendono la nostra terra dal Land Grabbing, sono ulteriori fatti che inducono il senso della perdita. Su quello i teorici dello scontento potranno costruire il rifiuto dell’altro indicato come causa di tutti i mali. Da quella rabbia il nostro inconscio collettivo potrà produrre il mostro.

L’Orbán in vellutino aspetta solo l’occasione giusta per manifestarsi. Occorre riflettere su come la Storia ci sorpassi. Non siamo riusciti a prevederla, ma almeno cerchiamo di fare in modo che non ci travolga e ci muti in peggio per sempre.
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lanzicchnecchi
Ben vengano i “barbari”
di Umberto Cocco

By sardegnasoprattutto / 15 settembre 2015/ Società & Politica/

Tutto accade troppo tardi, chi non lo vede? Arriva tardi la coscienza dell’Europa, o di una sua parte, davanti alle migrazioni che la penetrano. Anche l’articolo di Nicolò Migheli arriva tardi… Ma è il primo che proviene da quel mondo, è così sincero e così sinceramente autocritico, che il riferimento alle colpe altrui, il Land Grabbing, etc., sembra un inciampo nel ragionamento, forse un riflesso condizionato.

Tutte le versioni dell’indipendentismo, del sovranismo, del sardismo, sembrano così fuori tempo in queste settimane. I nazionalismi che rialzano la testa in Europa come vede bene Migheli hanno un inquietante profilo, salvo forse che in Scozia. Ma tutti sembrano ideologie obsolete, con le quali ora è pericoloso baloccarsi, alla vigilia di uno sconvolgimento delle nostre società dove il peggio può venire dal confronto-scontro di identità, le nostre e le loro.

Si vedeva da lontano che la moltiplicazione dei movimenti indipendentisti e sovranisti coincideva con la caduta della presa reale di quella prospettiva sulla società sarda. Secolarizzata, smagata, subalterna a modelli culturali e sottoculturali prodotti altrove, e che mentre distrugge ogni tratto di autonomia propria anche personale e comunitaria (le case, la lingua, il paesaggio, i beni culturali) e non produce nemmeno più beni per il proprio autoconsumo, si ubriaca di retorica, di folclore, costumi sardi a processioni dal Redentore a piazza San Pietro (gli insegnanti dal Papa), all’Expo dove molti sardi si sono vergognati di essere rappresentati così, e io con loro.

Poca e nessuna autonomia e figurarsi indipendentismo, ma il petto gonfio di aria, ogni segno identitario volgarizzato e pompato con un autocompiacimento che fa tristezza e non credo si ricordi a questi livelli di pervasività nei 50 anni passati. (Che ci fa l’assessore Morandi nelle foto sui giornali affiancato a donne in costume e maschere di carnevale fuori contesto? Che sorriso si mette in faccia, perché?

A nessuno della giunta regionale o comunale è venuto in mente di farsi fotografare con Francesco Cucca? Leggete la Repubblica di oggi, ne scrive Elena Cattaneo, nientemeno).

Scusate lo sfogo. E’ anche perché non si sta meglio a sinistra. E’ una democristiana tedesca la leader più coraggiosa di questa fase, dopo il Papa cattolico. Tutte le altre posizioni, le cautele, le chiacchiere di Renzi, saranno spazzate via, e le velleità alla Syriza, ahimè, pure, e speriamo non anche Corbyn.

Anche per cambiare questa esausta società sarda, le stanche società europee, ben vengano i barbari, si potrebbe dire con il poeta.
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Ludwing Van Beethoven InnoGioiaBeethoven, Inno alla Gioia
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ape-innovativa Europa, Europa… Una piccola proposta di grande significato simbolico: dovunque possibile, insieme agli inni sardo e italiano, sia eseguito l’inno europeo, l’inno alla gioia!
A proposito di Inno alla Gioia, inno europeo, ricordiamo quanto detto in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università della Sardegna-Università di Sassari: (…) – Benissimo l’inno sardo “Procurade ‘e moderare” eseguito dopo quello italiano. Annotiamo che ci sarebbe stato bene anche l’Inno alla gioia di Beethoven, che, come è noto, è l’inno dell’Unione Europea, sebbene forse non ufficiale, come peraltro non è ufficiale l’inno sardo.
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Il ruolo di Cagliari per l’Europa che vogliamo
di Franco Meloni

Un tempo contestando il malgoverno della cosa pubblica in diverse realtà si diceva che anche la sola “buona amministrazione” costituisce di per se un fatto rivoluzionario. Mi è venuto in mente pensando all’esperienza amministrativa del sindaco di Cagliari Massimo Zedda e della sua Giunta. Fare una buona amministrazione per la nostra città come il sindaco ha cercato di fare ha aspetti positivi a vantaggio dei cittadini cagliaritani. E di questo occorre dare atto, come abbiamo fatto in diverse circostanze. Ma certamente non basta. L’amministrazione Zedda ha finito per rinchiudersi nell’ambito dell’ordinario, senza azzardare progetti strategici di lungo respiro dei quali la città ha invece ineludibile bisogno, pena l’acuirsi di processi di decadenza e marginalità. Ecco perché si avverte l’inadeguatezza degli attuali amministratori unita alla non credibilità che siano in grado di prospettare esiti diversi per il futuro. Cagliari non ha finora saputo esercitare quel ruolo decisivo che le compete: di guida dell’intera regione, di peso paragonabile a quello dell’Istituzione Regione. Come capita a tutte le capitali di questo mondo, per esercitare questa funzione dispone (e dovrebbe poter disporre in misura maggiore) di risorse specifiche, che, al di là delle critiche universalmente rivolte a tutte le capitali del mondo, deve congruamente restituire in benefici non solo ai suoi abitanti ma a tutti i cittadini che gliele hanno affidate, cioè a tutti i sardi. In Sardegna abbiamo bisogno di praticare nuove politiche di sviluppo attraverso la realizzazione di nuovi modelli sociali ed economici. Siamo proprio in questa fase, come necessità, non certo, purtroppo, come visioni politiche egemoni e concrete realizzazioni e come attuale classe dirigente in grado di farsene carico. Al riguardo è richiesto soprattutto a Cagliari – ovviamente insieme alla Regione e agli altri Enti locali – di cimentarsi in una sfida epocale. Ci sono tanti modi per farlo. Io credo che la stella polare della ricerca di nuove strade debba essere l’Europa, non certo l’attuale Europa, che in questa fase storica sta dimostrando la sua inadeguatezza, proprio perché chiusa nella cura dei mercati e degli interessi dei mercanti, quanto invece una nuova Europa che dobbiamo costruire: l’Europa dei popoli, capace di accogliere nuove genti e con esse rigenerarsi. In questo recuperando i valori delle origini, quando, all’indomani della seconda guerra mondiale, i padri fondatori dell’Europa comunitaria misero le basi della cooperazione economica pensando e preconfigurando come un sogno l’integrazione politica europea. Purtroppo tuttora, dopo tanti decenni, l’integrazione dell’Europa attraverso una vera e propria Confederazione o Federazione di Stati è solo ancora un sogno, e l’integrazione politica rischia di arretrare anche rispetto agli scarsi attuali livelli.
Allora Cagliari deve conquistare sul campo il ruolo di “città capitale”, sarda e insieme europea, in grado di tracciare nuove strade per se stessa, per la Sardegna e per l’Europa, della quale può rappresentare in certa parte le politiche per il Mediterraneo (soprattutto della sua sponda sud). Un’impostazione di questo tipo, appena qui tratteggiata, ha moltissimi risvolti pratici, concretizzandosi pertanto anche nelle scelte del quotidiano amministrare. In questo quadro la stessa “opzione indipendentista” (comunque la vogliamo nominare) per la Sardegna può essere praticata con condivisione maggioritaria, non quindi come concezione separatista minoritaria o scelta estremista, proprio in quanto si può sviluppare con piena cittadinanza e dignità nell’ambito della possibile nuova Europa che abbiamo prospettato.
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Europa, Europa…

filo_spinato europesedia di VannitolaRilanciare il processo di costruzione dell’Europa politica con un piano unitario per l’accoglienza dei migranti.
di Vanni Tola
La giornata di ieri, 15 settembre, ha un significato particolare nel panorama politico europeo. Ha sancito l’inconsistenza o, se preferite, l’inesistenza dell’Europa politica, la mancanza di obiettivi politici unificanti intorno ai quali realizzare e concretizzare l’idea stessa di Unione Europea teorizzata dai padri dell’europeismo. L’Europa, molti lo denunciano da tempo, al momento è soltanto una entità economico-finanziaria creata intorno alla moneta unica euro e tenuta insieme dalle scelte della Banca Centrale Europea. Al di fuori da tale ambito l’Unione non esiste, non decolla un progetto di unione politica, di scelte condivise, di stati uniti d’Europa. In sole tre settimane si sono registrate una serie infinita di cambiamenti di fronte che, se pure aprono qualche spiraglio di ottimismo, evidenziano la inconsistenza del progetto unitario del vecchio continente. La questione del profughi, dopo essere stata confinata a problema geopolitico limitato alla sola Europa mediterranea, si è manifestato in tutta la sua portata come fenomeno straordinario e duraturo che coinvolge l’intero continente. La Germania della Merkel, con un incredibile cambiamento di rotta, ha mostrato per prima di aver colto la complessità del problema e ha risposto dichiarando e mettendo in pratica delle scelte di grande apertura in termini di accoglienza. Per conseguenza si sono intensificati gli arrivi di profughi che ormai non arrivano più e soltanto dal mare ma anche attraverso altre vie, attraversando diversi paesi dell’est europeo. E’ a questo punto che esplodono le contraddizioni finora dormienti. Una consistente parte dell’Unione dichiara esplicitamente che non intende accogliere profughi e neppure consentirne il transito verso altri paesi. Ricompaiono i confini chiusi da filo spinato e sorvegliati dall’esercito che ricordano ai meno giovani un triste passato fatto di divisioni, guerre, muri. Un’altra parte dell’Europa invece si mobilita con slancio per realizzare la migliore accoglienza possibile dei profughi. La gente in particolare, superando i ritardi dei politici, si mobilita con entusiasmo, accoglie i profughi con affetto e simpatia, offre ospitalità nelle case. Due realtà diverse e contrapposte che andrebbero raccordate. Si propone di formalizzare e applicare il criterio della cittadinanza europea superando i vecchi trattati che, nei fatti, confinavano i migranti nel paese di prima accoglienza limitandone la circolazione in Europa. Si ripropone il criterio della ripartizione dei migranti fra i diversi paesi dell’Unione sulla base di quote obbligatorie di accoglienza. E arriviamo alla giornata di ieri, agli incontri tra i paesi dell’Unione durante i quali diversi paesi dell’est Europa ripropongono con forza la loro scelta di non accogliere migranti rendendo irrealizzabile il progetto unitario di accoglienza che si andava delineando. L’Unione europea, sulla questione dei migranti mostra cosi il nanismo politico del gigante economico realizzato intorno all’euro. Ora l’intera vicenda della accoglienza è demandata alla riunione urgente dei capi di governo che si terrà la prossima settimana nel tentativo di produrre una qualche scelta umanitaria mentre l’Ungheria e altri paesi blindano i loro confini e arrestano i migranti che li violano, mentre continuano gli sbarchi, le drammatiche vicende di uomini, donne e bambini sempre più disperati e mentre paesi quali l’Austria, alcuni paesi del nord Europa e perfino la Svizzera ribadiscono volontà e disponibilità ad accogliere di più e meglio. L’Italia fa la sua parte in termini di accoglienza in tutte le regioni, comprese quelle controllate dalla Lega ma continuano le provocazioni delle forze politiche razziste e xenofobe locali alla disperata ricerca di consensi elettorali fondati su disinformazione e paure della gente. L’ultima in ordine di tempo la scelta di togliere i finanziamenti della regione Lombardia a quelle strutture alberghiere che, rispondendo all’appello del Ministero dell’Interno, dovessero concedere ospitalità ai migranti. Commentando il fallimento della riunione europea del 15 settembre, che avrebbe dovuto definire il progetto delle quote di accoglienza dei profughi, il vice cancelliere tedesco ha dichiarato che con tale fallimento l’Unione europea si è coperta di ridicolo dando un’immagine negativa dell’Europa e generando in alcuni paesi dell’Unione leggi restrittive della libera circolazione degli individui che fanno arrossire e delle quali ci si dovrebbe vergognare. Questa la situazione a tutt’oggi, ora non resta che attendere nuovi sviluppi dal prossimo incontro straordinario dei paesi dell’Unione sperando che la logica, la ragione e l’idea di costruire un’Europa politica si concretizzino attraverso scelte politiche illuminate.
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Per correlazione exodus-thanks-13-1024x425
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Giulio Sapelli su Il Messaggero. Tra euro e profughi. L’agonia dell’Europa che ha perso i suoi valori

Confronti internazionali

air_force_one_boeing_707sedia di VannitolaRenzi ce l’ha piccolo, il più piccolo tra quelli degli altri capi di Governo dell’Unione Europea. Svelato il mistero che sta all’origine della decisione di Renzi di spendere qualche centinaio di milioni di euro per comprare un nuovo aereo per i voli di stato. Pare infatti che l’aereo di rappresentanza italiano sia il più piccolo fra quelli in uso per far volare i capi di governo europei. Da qui la decisione di Renzi di prenderne uno nuovo con una delle sue “paraculate”. Ha dichiarato che lo compra, il nuovo aereo, ma non ha deciso lui di acquistarlo. Furbescamente lasciando intendere che l’acquisto fosse stato deciso dal precedente governo Letta. Letta, a sua volta, smentisce affermando anzi che gli aerei in dotazione per i voli di stato sono efficienti e più che sufficienti. Dopo “Mamma ho perso l’aereo” siamo passati a “Mamma voglio l’aereo nuovo”. Cosi Obama la smetterà di dire in giro che Lui ce l’ha più grande di tutti.
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IERI IN VOLO. Ha detto Renzi che l’Italia è ripartita. Appuntatevelo in agenda per non dimenticarlo. Per ora l’unico che è partito è Renzi, sta volando in America per la finale mondiale di tennis. È lui va a prendersi un po’ di gloria ” a gratis”.

Migranti: un’opportunità per contrastare lo spopolamento dei paesi sardi

ACCOGLIENZA MIGRANTI: I COMUNI SARDI PREDISPONGANO PIANI URGENTI PER INDIVIDUARE E RISTRUTTURARE EDIFICI INUTILIZZATI

sedia di Vannitola Indubbi vantaggi per il patrimonio isolano in degrado, possibilità di impiegare gli stessi migranti per eseguire i lavori di ristrutturazione degli edifici, vantaggi per i proprietari degli alloggi che vedrebbero rivalutate le loro proprietà, incremento temporaneo o forse definitivo della popolazione dei paesi che si vanno sempre più spopolando.
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- Le foto di Macrì

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Migranti. Accettiamoli in Sardegna per loro e per la Sardegna

migranti in piazza Carmine   8 9 15ape-innovativa Le migrazioni in Sardegna: da problema a opportunità. In argomento ci sembra utile e interessante ripubblicare l’editoriale di Vanni Tola, che fornisce una chiara sintesi delle posizioni della nostra news. Tra l’altro, è riportata l’analisi e la proposta del prof. Giuseppe Pulina sulle problematiche delle migrazioni e delle opportunità fornite alla Sardegna per contrastare i fenomeni di spopolamento (allora del tutto inedita e giudicata da molti perfino provocatoria, non certo da noi che l’abbiamo sempre considerata ragionevole e percorribile). L’occasione per tornare sulla proposta e contribuire a rilanciare il dibattito è proprio la recentissima intervista al prof. Pulina (apparsa su L’Unione Sarda del 7 settembre), che riportiamo integrale in altra parte della nostra news. Pertinente anche l’intervista che il professore rilasciò ad Aladin il 15 marzo 2013, riproposta in questo stesso spazio. Ora si passi quanto prima dalle analisi alle decisioni operative. Ovviamente i primi interlocutori siano il Consiglio e la Giunta regionale. Noi facciamo la nostra piccola parte.
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La Sardegna senza Sardi?
Demografia e sviluppo nel prossimo futuro

sedia di Vannitoladi Vanni Tola (editoriale di Aladinews del 26 dicembre 2013)
“La Sardegna senza Sardi?”. Era questo il titolo di un convegno svoltosi a Sassari nei giorni scorsi. Un importante momento di discussione che ha stimolato ulteriori riflessioni nel merito di un problema poco esaminato: l’evoluzione demografica della Sardegna. Da decenni nell’isola si registra un incremento demografico negativo. In altri termini, il numero dei nuovi nati e degli immigrati è notevolmente inferiore a quello degli emigrati e dei deceduti. Gli studiosi di fenomeni demografici, elaborando dati reali (censimenti Istat in particolare), hanno indagato sul fenomeno e formulato delle previsioni prefigurando scenari futuri e realizzando ipotesi di evoluzione dell’andamento demografico fondate e attendibili. La considerazione che deriva dalla sintesi di tali elaborazioni è che la Sardegna rischia nei prossimi decenni un’implosione demografica. Una situazione che potrebbe essere caratterizzata da una consistente riduzione del numero dei sardi (alcuni parlano di 300-400 mila unità in meno, ed è l’ipotesi meno pessimistica), dalla scomparsa di centinaia di comuni minori, da un costante invecchiamento della popolazione attiva e da un insufficiente inserimento di intelligenze giovanili nel sistema Sardegna. Ipotesi preoccupanti, difficili da accettare perché pongono in discussione certezze consolidate. La millenaria civiltà isolana messa in crisi dal fenomeno delle “culle vuote”? Eppure è cosi. L’indice di natalità dell’isola è notevolmente inferiore, circa la metà, di quello che sarebbe necessario per mantenere costante la popolazione. L’indice dell’incremento demografico è negativo ormai da decenni in quasi tutta la Sardegna con l’unica eccezione di alcune limitate aree costiere (della Gallura, del Cagliaritano e del Sassarese). Centinaia di paesi potrebbero scomparire per mancanza di abitanti già dai prossimi decenni. La programmazione economica della Sardegna, i programmi di sviluppo, le strategie delle forze politiche impegnate nell’ennesima tornata elettorale, non possono più ignorare il problema, devono anzi considerarlo il punto di riferimento per qualunque nuova ipotesi riguardante lo sviluppo dell’isola. Alcuni esempi. Non ha più senso oggi, per la maggior parte delle amministrazioni comunali, predisporre piani urbanistici di sviluppo considerato che si va incontro a importanti decrementi della popolazione. Allo stesso modo occorre rivedere la progettazione e il ridimensionamento di una serie di servizi pubblici (in primo luogo sanità, edifici scolastici e altri) con riferimento alle previsioni di spopolamento delle aree amministrate. Naturalmente le previsioni demografiche sono appunto delle previsioni, non sono realizzate con la speranza che si concretizzino ma soprattutto per consentire la possibilità di intervenire in modo adeguato per governare le dinamiche in atto. Già alcuni studiosi propongono una lettura meno pessimistica degli scenari di decremento della popolazione, qualcuno formula perfino l’ipotesi che il decremento della popolazione possa perfino rappresentare una opportunità per determinare migliori condizioni di vita per i Sardi “residui”. Altri propongono di esaminare la possibilità di invertire le tendenze demografiche registrate e prevedibili per il futuro prossimo. Una proposta molto interessante e innovativa e che farà certamente discutere è quella avanzata dal prof. Pulina direttore del Dipartimento di Agraria dell’Università di Sassari. Partendo dalla considerazione che in Sardegna si registrano tassi di natalità che sono tra i più bassi al mondo e che i giovani continuano a emigrare, Pulina propone di attivare interventi concreti ed efficaci per invertire la tendenza ad un significativo spopolamento della Sardegna e delle zone interne in particolare. La principale attività dell’isola, l’agro-pastorizia, stante l’attuale andamento demografico tende a diventare nei prossimi decenni una attività praticata quasi esclusivamente da lavoratori anziani, e perfino a essere fortemente ridimensionata nel suo ruolo e nelle sue potenzialità economiche. La soluzione indicata è quella di programmare, per i prossimi dieci anni, l’accoglienza di quindicimila coppie di immigrati, un vero e proprio progetto di ripopolamento o se preferite di riantropizzazione di vaste aree dell’isola come è avvenuto in altre parti del mondo, per esempio in Argentina e Australia. Un progetto che non deve essere inteso esclusivamente in termini di trasferimento di forza lavoro bensì come progetto di inclusione di persone nella nostra realtà garantendo loro progetti di vita validi e accettabili a cominciare dal diritto di cittadinanza per i loro figli. La realizzabilità di tale progetto potrebbe essere favorita da finanziamenti europei già disponibili, ad esempio le risorse del programma Horizon 20.20 per le politiche di integrazione. Milioni di euro che potranno essere spesi dal 2014, se si avrà il coraggio, la capacità e la lungimiranza di predisporre adeguate programmazioni. La Sardegna potrebbe essere la prima realtà europea a realizzare un piano di questo tipo. L’isola si candiderebbe così a diventare un’area geografica di accoglienza e gestione programmata di flussi migratori che potrebbero, a loro volta, concorrere a rivitalizzare una società tendenzialmente minacciata di estinzione o comunque di un drastico ridimensionamento del proprio ruolo nel mondo. Ancora una volta la discussione, il confronto, lo studio di ipotesi di sviluppo valide e alternative alle logiche e alle scelte del passato ci pone drammaticamente di fronte alla necessità di compiere uno sforzo straordinario di elaborazione politica, di crescita culturale, di formulazione di strategie economiche alternative con le quali ci dovremo misurare. Saremo in grado di farlo?
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G-Pulina-intervistato-da-Aladinews-300x168- L’intervista del 15 marzo 2013 .
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Pulina-e-meigranti

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- Blog dedicato di Aladinews
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Per farci un’idea al di là della propaganda. Guerra e profughi, il ruolo e l’indifferenza delle monarchie del Golfo

sedia di VannitolaIl quotidiano !Il Manifesto”, nella edizione on line propone un interessante articolo di Abdel Bari Atwan, opi­nio­ni­sta tra i più noti del mondo arabo, diret­tore di www.raialyoum.com . Una lettura particolare della vicenda dei migranti e del ruolo (non ruolo) delle ricche monarchie arabe che, a differenza dell’Europa, non hanno accolto profughi arabi. Non prenderei nessuna analisi per “oro colato”, circolano troppe “verità” da verificare, l’argomento è particolarmente complesso e richiede conoscenza di geopolitica che la maggior parte di noi non possiede. Comunque vale la pena leggerlo.
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French President Francois Hollande poses for a family photo before the opening of the Gulf cooperation council summit in Riyadh, Saudi ArabiaGuerra e profughi, il ruolo e l’indifferenza delle monarchie del Golfo
Rifugiati siriani. Gli Stati Arabi, in particolar modo le petromonarchie, che hanno pagato miliardi di dollari per armare le opposizioni siriane, nella maggior parte dei casi non hanno accolto neanche uno dei rifugiati. Hanno chiuso le frontiere, voltando loro le spalle.

Oggi, mercoledì 9 settembre, cabudanni 2015

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Alghero, centro sotiro (V.Tola) Alghero, centro storico (Vanni Tola).