Risultato della ricerca: Vanni Tola

Nizza

sedia di VannitolaLa sedia
di Vanni Tola

Attentato di Nizza – Non ci sono più parole.
Rabbia, orrore, angoscia, paura, impotenza, nemico invisibile e imprevedibile e molte altre ancora. E’ il momento del dolore, dei soccorsi, delle indagini, della elaborazione dell’ennesimo lutto. Chiudiamoci nel silenzio, lo dobbiamo alle vittime e alla popolazione che vive momenti di terrore e panico. Utilizziamo però il silenzio per riflettere. Combattere un nemico invisibile e imprevedibile con gli strumenti tradizionali è quasi impossibile. Occorre una nuova strategia globale, un confronto serrato con tutti i paesi di orientamento islamico per trovare insieme la strategia vincente contro il terrorismo. I rapporti commerciali e le relazioni diplomatiche possono essere uno degli strumenti per scardinare il potere dei tagliatori di teste. Al bando le ambiguità, interrompere i rapporti diplomatici e commerciali con gli stati che mentre trattano affari con l’occidente non disdegnano il sostegno all’estremismo terrorista. Promuovere nuovi trattati internazionali che sanciscano e riconoscano alcuni principi fondamentali per la convivenza, primo fra tutti il riconoscimento del diritto assoluto di ciascun essere umano di praticare qualunque credo religioso e perfino quello di non averne nessuno. Interrompiamo la vendita di armi prodotte in occidente che attraverso canali commerciali, neppure tanto segreti, finiscono nelle mani dei terroristi. Interrompiamo la vendita dei fuoristrada e dei pezzi di ricambio occidentali a bordo dei quali vediamo quotidianamente circolare i miliziani del Califfo. Scegliamo l’ideologia del confronto e della risoluzione pacifica dei conflitti come strumento assolutamente prioritario nei rapporti tra i popoli in alternativa alle logiche del profitto dei commerci internazionali. Forse qualcosa cambierà.

Semplicemente ridicolo

sedia di Vannitoladi Vanni Tola
Semplicemente ridicolo – L’avere impedito a Sabina Guzzanti la proiezione ad Olbia di un film-documentario, asserendo che i suoi contenuti offendevano Forza Italia e Berlusconi, è sicuramente una operazione lesiva della libertà di informazione e comunicazione. Ciò premesso, il buon Settimo Nizzi, Sindaco di Olbia, non me ne vorrà se mi limiterò a definire il suo intervento semplicemente ridicolo. Oltre tutto ciò accade in tempi di grandi manovre e ricollocazione di ruoli all’interno di Forza Italia in attesa dell’ennesima “discesa in campo” di Berlusconi prevista per il prossimo autunno. E’ più che legittimo pensare che l’azione di Nizzi sia finalizzata principalmente ad accreditarlo nella sua area politica come il custode dell’integrità di immagine e della storia del suo partito. In ciò è in buona compagnia con altri suoi compagni di partito, figli illegittimi del patrigno Silvio che dopo averli usati li ha messi da parte. L’ex presidente Ugo Cappellacci che rilancia la sua immagine pubblica sui media con una foto che lo ritrae a torso nudo per mostrare gli effetti miracolosi della sua palestra su pettorali e addominali (ricorda il Duce ai tempi della “campagna del grano”. L’altro è l’immarcescibile Mauro Pili (ex Forza Italia) presente da sempre in qualunque luogo dove si radunino più di tre persone per farsi paladino delle loro proteste. Da tempo Pili sta sommergendo l’intero mondo di interrogazioni parlamentari sui più disparati argomenti. Tornando a Nizzi alcuni hanno parlato di lui come di un novello Podestà di Olbia. A me ricorda invece il parroco del film “Nuovo Cinema Paradiso” che, seduto in platea in assoluta solitudine, visionava anticipatamente il film che la sera sarebbe stato proiettato e, con una campanella, segnalava all’operatore le scene scabrose da tagliare. Come dicevo, semplicemente ridicolo.
——————————————-
disperazioneMattinalino domestico.
di Tonino Dessì
-Ieri in Consiglio regionale si è svolta una discussione surreale sulla politica dei trasporti aerei e via mare. L’unica cosa che si è capita davvero è che l’intera classe politica non ha uno straccio di idea su come uscire da un disastro che condanna per lungo tempo l’Isola alla precarietà dei collegamenti con la Penisola e col Continente.
-Nel frattempo il neosindaco di Olbia assume comportamenti ispirati al più sfrontato bullismo. Con un’ordinanza revoca l’autorizzazione alla proiezione, in una rassegna precedentemente sponsorizzata dal Comune, del film di Sabina Guzzanti “La trattativa”, motivando la censura col fatto che il film mette in cattiva luce Berlusconi, Forza Italia e il suo elettorato.
Un provvedimento amministrativo di tal fatta non solo sarebbe da considerare giuridicamente nullo, ma, poiché non ha come presupposto un interesse pubblico e reca un danno ingiusto a terzi, a mio avviso rientra pienamente nella fattispecie dell’abuso d’ufficio penalmente sanzionato.
Non contento, il Sindaco manda i vigili urbani a impedire la proiezione del film in un altro locale pubblico, nel quale era stata alternativamente e autonomamente programmata la proiezione.
Se non è una fattispecie ulteriore di comportamento illecito, sicuramente è un’aggravante, come continuazione, del comportamento precedente.
-Infine, dalla Sardegna e dal Sindaco di Cagliari parte la resa dei conti della parte di SEL collaterale al PD, volta all’epurazione dei promotori della sfortunata esperienza di Sinistra Italiana.
Non è vero che Migliore era il peggiore: è stato solo il più coerente e soprattutto il più veloce.

Disastro

disastrosedia di VannitolaDisastro ferroviario – Tutti li a piangere e strapparsi i capelli per i poveri morti. Nessuno però dei politici intervistati ha detto l’unica cosa da dire. E’ vergognoso che esistano ancora in Italia delle tratte ferroviarie a binario unico. Basterebbe un semplice provvedimento da approvare in un paio d’ore per stabilire che, nel più breve tempo possibile, si dovrà provvedere al raddoppio dei binari. sull’intera rete ferroviaria. Che ci vuole?
—————————-
Un F35 o un secondo binario ferroviario? Un F35 o mettere in sicurezza qualche centinaio di scuole? Un F35 o alcune infrastrutture necessarie nel sud Italia?
Un TAV discutibile o tanti piccoli interventi nel territorio?
Governare significa fare delle scelte. Le avete sbagliate, spesso.
(marco meloni su fb)
—————————–
Strage ferroviaria Ruvo di Puglia, ma quale errore umano responsabile è l’austerità
Un articolo di Giorgio Cremaschi su L’antidiplomatico.

Razzismo: il sonno della ragione

no al razzismo 11 lugLa sedia
Vanni Tola

Il desiderio di abbandonare una triste realtà e portare il pensiero in un’altra dimensione. Il razzismo e il fascismo che non scompaiono.

Difficile, duro, drammatico commentare ciò che è accaduto nelle ultime trentasei ore. Il desiderio di non guardare, di scappare via lontano, di parlare di altro è fortissimo. Ma non parlarne, non riflettere sull’accaduto, sarebbe una forma inaccettabile di codardia, un atteggiamento che ci collocherebbe tra coloro che si limitano a osservare con rassegnazione gli accadimenti della società della quale fanno parte. Analogamente non si può assecondare la tendenza a farsi guidare, nell’analisi e nel racconto, da sentimenti di rabbia e rancore, da posizioni inclini al desiderio di incoraggiare o sostenere forme di giustizia sommaria che nulla modificano e poco concorrono alla soluzione dei problemi. Affrontare la realtà, per quanto dura essa sia, è la strada obbligata per chi desidera giustizia, libertà e democrazia. Partiamo da una considerazione molto amara. Il razzismo, come il fascismo, non è sconfitto, non è superato, non è una questione del passato. E’ ancora ben presente nella nostra società insieme al rifiuto di tutto ciò che appare diverso, di ciò che non si conosce adeguatamente e viene vissuto con ansia, paura e ostilità. Parliamo dei neri ma potremmo estendere il discorso all’omosessualità, alla diversità rappresentata da handicap psico-fisici, alle differenze religiose, alle scelte di vita individuali. Non sono bastati otto anni di presidenza Obama, il primo nero della storia a ricoprire tale prestigioso incarico, per far compiere passi avanti nel rapporto fra bianchi e neri in America e nel mondo. Omofobia, rifiuto del diverso, contrapposizioni pseudo religiose, conflitti storici in corso in alcune parti del mondo (in primis la irrisolta questione israelo-palestinese), il terrorismo internazionale, restano manifestazioni organiche alle società contemporanea. Si spiega cosi il fatto che la polizia bianca, in America, uccida ogni anno un numero notevole di neri spesso senza fondati motivi per farlo (ammesso che uccidere possa essere una pratica accettabile e giustificabile con esigenze di “ordine pubblico”). Accade che si continui liberamente ad insultare i neri e i diversi nelle più disparate circostanze. Lo fanno tutti, perfino esponenti delle istituzioni. Ricordiamo tutti il parlamentare e noto provocatore Calderoli che ha definito un orango una ministra nera del Governo italiano e se l’è cavata con qualche rimprovero e nessun provvedimento serio nei suoi confronti. Accade che talvolta coloro che ricevono insulti per il proprio stato reagiscano con conseguenza spesso drammatiche. Ciò che è accaduto in America e in Italia in questi giorni non può che essere letto in tale contesto. Sia l’uccisione per strada di individui apparentemente innocenti, sia la mattanza di poliziotti da parte di cecchini armati fin ai denti come risposta barbara alla barbarie della polizia. La lotta al terrorismo fondamentalista, che pure ha fatto registrare progressi in campo militare e in attività di prevenzione di attentati, sta li a dimostrare che non sarà certo il pugno di ferro a far accettare a una parte di popolazione del pianeta l’idea che altri individui possano praticare religioni differenti o essere perfino atei. Parliamo di episodi e di problemi di carattere straordinario per gravità e dimensione. Ma sono episodi che traggono fondamento e vengono supportati da comportamenti individuale e vicende che soltanto formalmente appaiono meno gravi pur facendo parte del vissuto quotidiano degli individui in differenti realtà e latitudini. Un esempio per tutti la diffusa abitudine dei tifosi negli stadi di calcio di coprire di insulti il giocatore di colore della squadra avversaria pur avendo nella propria squadra altrettanti giocatori neri. E’ diffusa la diffidenza verso gli stranieri, soprattutto se migranti, permangono nella cultura occidentale radicati pregiudizi e luoghi comuni sugli “altri”, sui diversi. Come si supera questo insieme di drammatici problemi nessuno può dirlo, certamente si tratta di questioni complesse e di difficile risoluzione. Penso comunque che il percorso obbligato non possa che essere la crescita culturale. La cultura della integrazione e della accettazione di chi appare diverso, la cultura della convivenza e della soluzione pacifica dei conflitti, la cultura dell’informazione corretta e, ultima ma non certo la meno importante, la lotta all’ignoranza che sta alla base di molte scelte e comportamenti decisamente condannabili ma che trovano una loro spiegazione razionale appunto nella condizione di non conoscenza, di ignoranza, di chi pratica tali comportamenti. Istruzione e cultura della convivenza sono le uniche armi a disposizione della parte migliore dell’Umanità per impedire la corsa verso la barbarie, la violenza e la guerra che rappresentano oggi la principale minaccia per il mondo intero.

Anche Lamarmora fuori dalla Toponomastica sarda?

Alberto_La_MarmoraAnche Alberto Lamarmora fuori dalla Toponomastica sarda?
Ecco alcuni elementi per valutare il personaggio e la sua opera

di Francesco Casula

Alberto Ferrero della Marmora, scrittore, geografo e militare (Torino 1789- ivi 1863) visiterà la Sardegna, la prima volta nel 1819 e in seguito vi soggiornerà più volte. Egli infatti soggiornò nell’Isola, sebbene non stabilmente, per un arco di quasi quattro decenni, dal 1819 al 1857. Di essa sottolinea che : Difficoltà immense e gravi intralciano lo zelo del viaggiatore, che vuole percorrere quest’isola; la mancanza di strade, il difetto dei comodi più modesti, i pericoli in qualche contrada per il carattere irrequieto degli abitanti, infine le insidie del clima per parecchi mesi.
A proposito della figura complessiva di La Marmora, Giovanni Lilliu – nella presentazione al 2° volume del Voyage in Sardaigne, Gianni Trois editore, Cagliari 1995 – scrive che “Nel lavoro il Lamarmora pose onestà, lealtà e rettitudine, categorie che applicò anche nella vita, qualunque giudizio i Sardi possano oggi dare di lui che, per forza della storia e per la suggestione del potere non seppe resistere alla tentazione di oscurare i suoi giovanili ideali « rivoluzionari» con atti di reazione e repressione di cui soprattutto i Sardi soffrirono”.
Il grande archeologo sardo si riferisce al ruolo che La Marmora esercitò nel 1849 quando divenne Commissario straordinario per la Sardegna, inviato nell’Isola con poteri eccezionali per gestire la difficile situazione venutasi a creare dopo la «fusione» con il Piemonte , con la rinuncia all’autonomia stamentaria, ovvero al Parlamento sardo.
A proposito di questo suo ruolo l’intellettuale e scrittore Eliseo Spiga è molto più severo. Scrive che “giunse ai primi del 1849 come commissario per pacificare l’Isola, scossa dai continui tumulti esplosi dalle gravissime condizioni economiche e anche da rinnovati sentimenti repubblicani filofrancesi. Conservatore e militaresco, il generale si dedicò alla pacificazione, affrontando il dissenso e la protesta con la repressione più brutale e la violazione sistematica delle meschine libertà statutarie, per lui lo stato d’assedio divenne sistema di governo , inaugurando la pratica della dittatura militare, che poco più di dieci anni dopo diventerà usuale, durante la guerra di conquista del Mezzogiorno da parte della monarchia italiana” (La Sardità come utopia, Cuec edizioni, Cagliari 2006). - segue -

Sardegna. Sinistra cercasi

disperazionesedia di VannitolaLa sedia
di Vanni Tola

Il PD sardo alla disperata ricerca di un equilibrio fra componenti, tutto il resto può attendere.

Il PD sardo, o meglio i capi delle quattro o cinque correnti del partito, avevano già capito tutto e scelto la linea riconfermata da Renzi nella Direzione nazionale. Incuranti della crisi dell’Isola, sempre più drammatica, proseguono nella ricerca di un equilibrio tra le correnti interne per eleggere un segretario che porti il PD sardo al congresso. In quella sede poi si faranno i conti definitivamente tra le diverse componenti e i comitati d’affari. Una volta trovato l’equilibrio tra le correnti interne la tabella di marcia prevede poi il confronto con il Presidente Pigliaru per studiare un nuovo equilibrio nel consiglio regionale che tenga naturalmente conto del ruolo delle componenti del PD nella assegnazione degli incarichi regionali. Come l’ultimo giapponese che ha vissuto per decenni nella foresta pensando che la guerra non fosse ancora terminata, così i dirigenti delle diverse componenti del PD procedono a testa bassa nella ricerca dell’equilibrio tra le componenti, che tradotto dal politichese significa trovare un adeguato numero di poltrone sul quale adagiare altrettanti culi, riservando a ciascuno il suo pezzetto di potere e di influenza nella gestione della cosa pubblica. Alla direzione nazionale del partito qualcuno ha fatto timidamente osservare che se il PD non cambia rotta finirà coll’andare a sbattere rovinosamente. Loro, i dirigenti delle correnti regionali del Pd, hanno risposto: ” Si, va bene, purché si vada a sbattere tenendo conto del valore e del peso specifico delle diverse componenti”. Neppure il mitico Tafazzi avrebbe saputo fare di meglio.
——————————————–
NO NO NOOOReferendum costituzionale: che sfascio il PD sardo!
democraziaoggidi Andrea Pubusa su Democraziaoggi

Vittorio Emanuele II: giù dal piedistallo!

vitt eman II fto tesseraVittorio Emanuele II: un altro Savoia da eliminare dalla toponomastica sarda. Ecco perché.
di Francesco Casula
Vittorio Emanuele II è stato l’ultimo re di Sardegna (dal 1849 al 1861) e il primo re d’Italia (dal 1861 al 1878).
Nonostante gli smisurati elogi da parte di tutta la pubblicistica patriottarda, – fu soprannominato il re galantuomo – tesa ad esaltare le magnifiche sorti e progressive del Risorgimento italiano, la sua opera nei confronti della nostra Isola sia come ultimo re di Sardegna sia come primo re d’Italia, fu nefasta.

1. Vittorio Emanuele ultimo re di Sardegna.
Con Vittorio Emanuele II, dopo la Fusione Perfetta con gli stati del continente, la Sardegna perderà ogni forma residuale di sovranità e di autonomia statuale per confluire nei confini di uno stato più grande e il cui centro degli interessi risultava radicato interamente sul continente. L’Unione Perfetta non apportò alcun vantaggio all’Isola, né dal punto di vista economico, né da quelli politico, sociale e culturale. Tale esito fallimentare, fu ben chiaro sin dai primi anni con l’aggravamento fiscale e una maggiore repressione che sfociò nello stato d’assedio, – che divenne sistema di governo – sia con Alberto la Marmora (1849) che con il generale Durando (1852).
Gianbattista Tuveri scrisse che dopo la fusione perfetta del 1847, la Sardegna era diventata una fattoria del Piemonte, misera e affamata da un governo senza cuore e senza cervello.
Ad esemplificare l’estraneità della Sardegna al Piemonte basta un episodio paradigmatico: Giovanni Siotto Pintor, uno di quegli intellettuali sardi che nel novembre del 1847 più si era adoperato perché si raggiungesse l’obiettivo della fusione con il Piemonte, all’ingresso di Palazzo Carignano viene fermato dal portiere. Il suo abbigliamento (si era presentato con il costume caratteristico dei sardi, con sa berritta, orbace e cerchietto d’oro all’orecchio) contrastava con l’eleganza e severità dei suoi colleghi piemontesi o liguri o savoiardi della Camera di nomina regia. Per questo si dice che entrò nell’aula del Senato solo dopo aver vinto con la forza le resistenze del portiere che evidentemente aveva una qualche difficoltà a riconoscere in lui un Senatore.
Il secondo episodio venne denunciato con una lettera al Presidente della Camera dal deputato di Sassari Pasquale Tola, che, quando nel maggio del 1848 in occasione di una riunione con i colleghi delle altre province, rimarcò l’assenza dell’emblema della Sardegna nell’aula dove,invece, erano dipinti e diversamente raffigurati quelli delle altre province del Regno.

2. Vittorio Emanuele primo re d’Italia
Le cose per la nostra Isola con cambiano con l’Unità d’Italia. Se è possibile, anzi, si aggravano, ad iniziare dal campo fiscale.
- segue -

Grande confusione sotto i cieli d’Europa

nuvoleBrexit e indipendenze delle nazioni senza stato
di Nicolò Migheli

By sardegnasoprattutto/ 27 giugno 2016/ Culture/

Grande confusione sotto i cieli d’Europa. Il Brexit inaspettato, rimescola strategie, rapporti di potenza. Inutile sottolinearlo, l’Europa che conoscevamo, quella uscita dai due eventi traumatici: la II Guerra Mondiale e il crollo dell’Urss non sarà più la stessa. Il percorso di abbandono britannico non si annuncia facile, Nicola Sturgeon la premier scozzese, annuncia una opposizione dura contro il Brexit; in caso di uscita dalla Ue, un secondo referendum sull’indipendenza della Scozia.

Brent_oilfieldOliver Perra dall’Ulster, scrive nel suo blog che il percorso stavolta non si prospetta né facile né tranquillo. Se la GB dovesse lasciare la Ue e la Scozia indipendente, il Vallo di Adriano diventerebbe una frontiera comunitaria esterna, con tutti i controlli usuali, con l’Inghilterra oggi primo partner commerciale della Scozia e il Brent a 50 dollari. Condizioni economiche non facili e gli scozzesi- mi si passi il pregiudizio- sono noti per la loro attenzione al danaro. Allo stesso modo la pace del Venerdì Santo, che ha disarmato l’irridentismo nord irlandese è avvenuta perché il confine tra Ulster e Eire era comunitario, quasi insesistente.

Cosa potrebbe avvenire in futuro? Nessuno lo sa. L’Inghilterra è disposta a perdere l’unica base dei suoi sommergibili atomici, del suo deterrente nucleare, che si trova in Scozia? Chi pagherebbe i costi stratosferici di trasferimento? Lo stessa adesione di una Scozia indipendente alla Ue è in dubbio, verrebbe tenuta nel medesimo limbo in cui oggi versano Serbia, Montenegro, Macedonia e Kosovo? Chi lo sa.

Sergio Romano su LinKinchiesta.it: Mi piacerebbe che se ne andassero [gli scozzesi, n.d.r] dal Regno Unito. Sarebbe una lezione della Storia, un altro modo per fare capire all’Inghilterra che ha sbagliato tutto. L’Unione Europea però non è nata per spaccare gli Stati. Il giorno in cui se ne va la Scozia, come fa un leader catalano ad accontentarsi di meno?

Per le regole che governano i consessi internazionali non basta dichiarare la propria indipendenza, bisogna che gli altri stati la riconoscano, che lo stato nascituro sia all’interno dei loro disegni geopolitici. Se guardiamo ai nuovi stati nati in Europa negli ultimi settant’anni troveremo che le ragioni internazionali o la volontaria cessione di sovranità da parte della potenza dominante sono la costante. Cipro e Malta divennero indipendenti per scelta della Gran Bretagna, la prima dopo una lotta di liberazione, la seconda perché il ruolo della Royal Navy in Mediterraneo si era contratto.

Indipendenze che rientrano nel più vasto panorama di fine dell’Impero britannico e nella seguente decolonizzazione. Gli stati baltici riacquistarono l’indipendenza perduta al principio della II Guerra Mondiale per la scomparsa dell’Urss, così come Bielorussia ed Ucraina, la Moldavia, Georgia, Armenia, per rimanere in Europa. Stati che vennero immediatamente riconosciuti dall’Occidente perché considerati una sorta di bottino della Guerra Fredda. La Jugoslavia scomparve dopo guerre sanguinose, non solo per i conflitti insanabili tra le nazionalità e gli interessi contrastanti, ma anche perché le indipendenze rispondevano al disegno di allargamento di influenza della Germania unificata nei Balcani.

Non dimentichiamoci che il primo stato che riconobbe la Croazia fu il Vaticano del papa polacco. Stato piccolo, ma con un grande peso nel mondo. Come si può vedere il desiderio di autodeterminazione deve incontrare un contesto internazionale che lo consenta, in caso contrario o stati che non esistono per gli altri, come il Donbass, o solo annessioni – peraltro riconosciuta da pochi – come la Crimea o l’Ossezia del Sud. L’unico caso di divorzio consensuale, la separazione pacifica di Cechia e Slovacchia. Oggi è tempo di indipendenze in Europa? Sembrerebbe di no.

La Brexit ha sancito il ritorno di Wesfalia, la rinascita degli stati nazionali ottocenteschi. Muri e frontiere che risorgono, minacce di abbandono della Ue. La guerra permanente ad oriente in Ucraina, e a sud nel Mediterraneo allargato; il terrorismo jihadista, lo spostamento epocale di migliaia di persone per fame, guerra e siccità. Un quadro di instabilità che determina nelle persone paure continue. Non è tempo di referendum per le indipendenze delle nazioni senza stato, anche se venissero concessi dagli stati-nazione classici, probabilmente verrebbero persi.

In periodi come questi l’indipendenza viene vissuta come un ulteriore rischio personale. Non si lascia la casa conosciuta, anche se scomoda, per un’avventura quando il resto del mondo è sconvolto dalla tormenta. Rinunciare a qualsiasi prospettiva di autodeterminazione per luoghi come la Sardegna? No di certo. Paradossalmente l’unica possibilità è una Unione Europea che si configuri come confederazione, o se si vuole federazione, di stati indipendenti, dove anche le nazioni senza stato stiano in un piano di parità giuridica con le altre.

Non solo un sogno, ma l’unica prospettiva realistica, sempre che la parola abbia ancora un senso. Se dovesse crollare l’impianto europeo, il sogno verrebbe rimandato per chissà quanto tempo. La Storia però non procede per cammini razionali, anzi quella condizione gli appartiene raramente. Tutto può succedere, bisogna essere pronti a qualsiasi evenienza, dovremmo avere una classe dirigente, non solo politica, consapevole delle scelte migliori per noi. Una classe dirigente che abbia contatti internazionali con chi poi decide negli scacchieri.

Vicente_Bacallar_SannaPotrebbe succedere come nel 1713, quando il diplomatico Bacallar Sanna cercava un re bavarese per la Sardegna e ritrovarsi con un Savoia. Perché allora perdemmo la possibilità di sceglierci un sovrano? Le condizioni internazionali, gli accordi tra le potenze europee avevano deciso altrimenti. È successo allora potrebbe capitare domani.
———————————————–

Per correlazione: LUCIO GIORDANO, EDITORIALE SU ALGANEWS
BREXIT, LA MERAVIGLIOSA VENDETTA DI VAROUFAKIS
————————————–
Brexit, Ue, Italia e Referendum costituzionale
Europa_Bandiera_Europeasedia di VannitolaC’era una volta l’Europa. Una analisi del giornalista Corradino Mineo esperto osservatore della politica comunitaria.
In Italia c’è un’unica grande arma per salvare il salvabile: il referendum di ottobre. Trasformato in plebiscito pro o contro il realismo dei mercati, pro o contro l’Europa dorotea, pro o contro la politica che pretende deleghe in bianco, da un apprendista stregone che somiglia a Cameron come una goccia d’acqua a un’altra. Battiamoci perché vinca il No, perché si apra una vera fase costituente, con il dialogo con la destra senza inciucio nazareni con una apertura di credito (e con rispetto) nei confronti dei 5 Stelle

C’era una volta l’Europa. Semplice, evocativo, non vanamente consolatorio. Il titolo più efficace è del Manifesto. Gli altri parlano di “tempesta”, la Stampa, di “colpo all’Europa”, il Corriere, di un “piano per salvarla”, La Repubblica. Oppure usano l’esortazione: “Europa svegliati!”, il Sole24Ore. Ricorderete: dopo aver vinto il suo referendum Tsipras fu umiliato dalla Merkel, da Hollande, da Renzi e tutti si accorsero che “Atene non aveva un piano B”. Ora sono gli aguzzini di Trsipras a non avere “un piano B” davanti alla porta che gli elettori britannici gli hanno sbattuto in faccia. Sì, certo, Draghi allaga borse e banche stampando euro, compra titoli del debito italiani e spagnoli per evitare che lo spread torni. Sono risposte necessarie ma il loro effetto è temporaneo: possono attutire il crollo delle borse -pauroso quello di Milano, meno 12,5% -, possono evitare che l’euro si apprezza dopo l’ondata di vendite che investe la sterlina. Ma poi? I commenti di Polito per il Corriere, Scalfari su Repubblica, Napoletano per il Sole, confermano questo vuoto di idee: chiedono – in modo più accorato e urgente il direttore del Sole24Ore- che i politici al governo in Francia, Germania e Italia, facciano ora quello che non hanno fatto fino a ieri: che diano all’Europa, con urgenza, sotto la pressione del Brexit, istituzioni federali e democratiche, che imbocchino per l’Europa la strada di una politica espansiva e più solidale. Dove erano questi commentatori quando gli stessi governanti strozzavano la piccola Grecia, in nome delle regole immutabili che presiedono al modo folle con cui si è costruita l’Europa dell’euro? Dove, quando in Spagna si infliggeva un colpo doppio ai lavoratori e alle famiglie in nome della ripresa: prima il licenziamento poi lo sfratto? Il piano di cui parla Repubblica nel titolo si limita a due mosse. La prima: fare presto, visto che Londra deve uscire, che esca subito. La seconda rimanda come al solito alla BCE e quello che può fare, per limitare i danni, l’onesto Draghi. Non basta. Perché -ha ragione Ezio Mauro- la malattia d’Europa è prima di tutto una malattia politica.
“L’europeismo non è più un sentimento politico, in nessuno dei nostri Paesi”, scrive l’ex direttore di Repubblica. “L’antieuropeismo è invece un risentimento robusto e potente, distribuito a piene mani dovunque”. Siamo arrivati fin qui perché : né Cameron né Merkel, né Hollande né Renzi, sono mai stati leader europei. Sono stati, e sono, leader nazionali pronti a usare a piene mani populismo e demagogia per confermarsi nel loro ruolo. Cameron ha voluto il referendum: pensava di domare gli istinti nazionalisti e secessionisti del suo paese e si è visto con che risultato. In tutti questi anni Merkel ha fatto credere ai tedeschi di aver generosamente contribuito a un progetto -l’Euro e l’Europa- nascondendo i vantaggi incassati dalla Germania nell’operazione e promettendone altri, grazie alla sua leadership e alla sua grinta nell’imporre “compiti a casa” e sacrifici ai partner piùdeboli. Hollande contro ogni evidenza ripete ai francesi “Ca va mieux” mentre strizza l’occhio alla Grandeur gollista, con le sue incursioni in Africa e in Medio Oriente. Renzi, toglie diritti e deprime la partecipazione democratica, come gli chiedono le istituzioni sovra nazionali, ma distribuisce bonus elettorali e sgravi fiscali, e mostra i muscoli da giovanotto con cui -promette- rimetterà in riga “i burocrati” di Bruxelles. E, con questo spettacolo, vorreste che il sentimento europeo vinca il risentimento? Naturalmente ogni segno di rinsavimento, ogni ritorno a una politica degna del nome, l’abbandono del populismo dei governi, sarebbe benvenuto. E non mancherò di segnalarlo e di lodarlo, qualora venisse. Per ora, lasciatemi constatare come questa classe politica e dirigente abbia fatto fallimento. C’erano un tempo elites europee.
Ottimista, nonostante tutto. Lo sapete, a me l’analisi spietata serve per vedere, comunque, la possibilità che si può aprire. Possibilità non vuol dire “probabilità”, è solo uno spiraglio per il quale, comunque, val la pena di battersi. Lo vedo, questo spiraglio, nel voto di domani in Spagna: se Podemos vincesse o arrivasse a un’incollatura dai popolari, forse potrebbe dar vita a un governo delle sinistre, l’ottusità del Psoe. Potrebbe proporre una Spagna federale in un’Europa federale. Anche in Gran Bretagna qualcosa può accadere: i giovani hanno votato contro Brexit, anche se sono andati alle urne in percentuale più bassa degli anziani “risentiti” che hanno scelto il Leave. In tutte le città ha prevalso il Remain, nelle campagne ha trionfato il Leave. Scozia e Irlanda del Nord cercheranno bloccare l’anacronistico nazionalismo imperiale britannico, a costo di disunire il regno, chiedendo di far parte dell’Europa e restando legati a Galles e England in uno stato federale molto lasco. Bernie Sanders, che non si è ritirato dalle primarie, dice però ai suoi millennials: votiamo per la Clinton e contro Trump. Non gli chiede di credere nella Clinton, di tornate sotto l’ala dell’establishment. Vuole almeno che il Partito cambi il suo programma, che si sposti a sinistra, mentre comincia a proporre la sua corsa entusiasmante come quella di un nuovo soggetto. In Italia c’è un’unica grande arma per salvare il salvabile: il referendum di ottobre. Trasformato in plebiscito pro o contro il realismo dei mercati, pro o contro l’Europa dorotea, pro o contro la politica che pretende deleghe in bianco, da un apprendista stregone che somiglia a Cameron come una goccia d’acqua a un’altra. Battiamoci perché vinca il No, perché si apra una vera fase costituente, con il dialogo con la destra senza inciucio nazareni con una apertura di credito (e con rispetto) nei confronti dei 5 Stelle. Se Renzi non Renzi fosse un leader politico, e non solo un tattico che gioca con la politica, prenderebbe atto del no e cambierebbe il verso della sua azione di governo. Altrimenti, senza rimpianti, avremo un Cameron in meno anche in Italia. La rivoluzione copernicana della politica vuol dire oggi partire dai giovani. Quelli che sanno che lavoro sicuro non l’avranno, perché la ripresa che si annuncia fa persino crescere disuguaglianze e precariato. Quelli che lasciano il paese per studiare o fare ricerca, che ma sono pronti a tornare. Quelli che sono italiani o turchi, inglesi o nati in Siria ma hanno un progetto comune: trasformare il mondo al lume della ragione, costruire la convivenza nel diritto. Progetto europeo! L’unico vero progetto europeo. Vedete, fa più per l’Europa un prete che dice a Yerevan, sì’ quello degli armeni fu genocidio, degli esorcismi e delle promesse dei politici professionisti dopo Brexit
——————————–
NO NO NOOO
Non solo modifiche, è un’altra Costituzione
di Luigi Ferrajoli, su Left

La legge di revisione costituzionale Renzi-Boschi investe l’intera seconda parte della Costituzione: ben 47 articoli su un totale di 139. Non è quindi, propriamente, una “revisione”, ma un’altra costituzione, diversa da quella del 1948. Di qui il suo primo, radicale aspetto di illegittimità: l’indebita trasformazione del potere di revisione costituzionale previsto dall’articolo 138, che è un potere costituito, in un potere costituente non previsto dalla nostra Costituzione e perciò anticostituzionale ed eversivo.
La differenza tra i due tipi di potere è radicale: il potere costituente è un potere sovrano, che l’articolo 1 attribuisce al “popolo” e solo al popolo, sicché nessun potere costituito può appropriarsene; il potere di revisione è invece un potere costituito, il cui esercizio può consistere soltanto in singoli e specifici emendamenti onde sia consentito ai cittadini, come ha più volte stabilito la Corte Costituzionale, di esprimere consenso o dissenso nel referendum confermativo alle singole revisioni. È una questione elementare di grammatica giuridica: l’esercizio di un potere costituito non può trasformare lo stesso potere del quale è esercizio in un potere costituente senza degradare ad eccesso o peggio ad abuso di potere.
Ma ancor più gravi sono la forma e la sostanza della nuova costituzione. Per il metodo con cui è stata approvata e per i suoi contenuti, questa legge di revisione è un oltraggio non tanto e non solo alla Costituzione del 1948, ma al costituzionalismo in quanto tale, cioè all’idea stessa di Costituzione.
Innanzitutto per il metodo. Non è con i modi adottati dal governo Renzi che si trattano le costituzioni. Le costituzioni sono patti di convivenza. Stabiliscono le pre-condizioni del vivere civile, idonee a garantire tutti, maggioranze e minoranze, e perciò tendenzialmente sorrette da un consenso generale. Servono a unire, e non a dividere, dato che equivalgono a sistemi di limiti e vincoli imposti a qualunque maggioranza, di destra o di sinistra o di centro, a garanzia di tutti. Così è stato per la Costituzione italiana del 1948, approvata dalla grandissima maggioranza dei costituenti – 453 voti a favore e 62 contrari – pur divisi dalle contrapposizioni ideologiche dell’epoca. Così è sempre stato per qualunque costituzione degna di questo nome.
La costituzione di Renzi è invece una costituzione che divide: una costituzione neppure di maggioranza, ma di minoranza, approvata ed imposta, però, con lo spirito arrogante e intollerante delle maggioranze. È in primo luogo una costituzione approvata da una piccola minoranza: dal partito di maggioranza relativa, che alle ultime elezioni prese il 25% dei voti, corrispondenti a poco più del 15% degli elettori, trasformati però, dalla legge elettorale Porcellum dichiarata incostituzionale, in una fittizia maggioranza assoluta, per di più compattata dalla disciplina di partito e dal trasformismo governativo di gran parte dei suoi esponenti, pur apertamente contrari. Insomma, una pura operazione di palazzo. E tuttavia questa minoranza ha imposto la sua costituzione con l’arroganza di chi crede nell’onnipotenza della maggioranza: rifiutando il confronto con le opposizioni e perfino con il dissenso interno alla cosiddetta maggioranza (“abbiamo i numeri!”), rimuovendo e sostituendo i dissenzienti in violazione dell’articolo 67 della Costituzione, minacciando lo scioglimento delle Camere, strozzando il dibattito parlamentare con “canguri” e tempi di discussione ridotti in sedute-fiume e notturne, ponendo più volte la fiducia come se si trattasse di una legge di indirizzo politico, ottenendo l’approvazione in un clima di scontro giunto a forme di protesta di tipo aventiniano, fino all’ultima, gravissima deformazione del processo di revisione: il carattere plebiscitario impresso al referendum costituzionale dal presidente del Consiglio che lo ha trasformato in un voto su se stesso. Non si potrebbe immaginare un’anticipazione più illuminante di quelli che saranno i rapporti tra governo e parlamento se questa riforma andasse in porto: un parlamento ancor più umiliato, espropriato delle sue classiche funzioni, ridotto a organo di ratifica delle decisioni governative. Del resto, sia l’iniziativa che l’intera gestione del procedimento di revisione sono state, dall’inizio alla fine, nelle mani del governo; laddove, se c’è una questione di competenza esclusiva del Parlamento e che nulla ha a che fare con le funzioni di governo, questa è precisamente la modifica della Costituzione. L’illegittima mutazione del referendum costituzionale in un plebiscito era perciò implicita fin dall’origine del processo di revisione e strettamente connesso a un altro suo profilo di illegittimità: al fatto che il potere di revisione costituzionale, proprio perché è un potere costituito, ammette solo emendamenti singolari e univoci, i quali soltanto consentono che il successivo referendum previsto dall’articolo 138 avvenga, come ha più volte richiesto la Corte costituzionale, su singole e determinate questioni, e non si tramuti, appunto, in un plebiscito.
Si capisce come una simile revisione – quali che fossero i suoi contenuti, anche i più condivisi e condivisibili – meriti comunque di essere respinta, soltanto per il modo con cui è stata approvata. Giacché essa è uno sfregio alla Costituzione repubblicana, dopo il quale la nostra costituzione non sarà più la stessa perché non avrà più lo stesso prestigio. Le costituzioni, infatti, valgono anche per il carattere evocativo e simbolico del loro momento costituente quale patto sociale di convivenza. Questa nuova costituzione sarà percepita come il frutto di un colpo di mano, di un atto di prepotenza e prevaricazione sul Parlamento e sulla società italiana. Sarà la costituzione non della concordia ma della discordia; non del patto pre-politico, ma della rottura del patto implicito in ogni momento costituente: indipendentemente dai contenuti.

Ma sono precisamente i contenuti l’aspetto più allarmante della nuova costituzione. Si dice che con essa viene superato il bicameralismo perfettamente paritario. È vero. Ma il superamento del bicameralismo perfetto avviene con la sua sostituzione con un monocameralismo sommamente imperfetto. Imperfetto per due ragioni.
In primo luogo perché la seconda Camera non è affatto abolita, ma sostituita da un Senato eletto non dai cittadini, come vorrebbe il principio della sovranità popolare, ma dai Consigli regionali “in conformità” – non è chiaro in quali forme e grado – “alle scelte espresse dagli elettori”, e tuttavia dotato di molteplici competenze legislative. Contrariamente alla semplificazione vantata dalla propaganda governativa, ne seguirà un’enorme complicazione del procedimento di approvazione delle leggi. Basti confrontare l’attuale articolo 70 della Costituzione composto da una riga – “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere” – con il suo nuovo testo, articolato in sette commi lunghi e tortuosi che prevedono ben quattro tipi di leggi e di procedure: a) le leggi di competenza bicamerale, come le leggi costituzionali, le leggi di revisione costituzionale, le leggi elettorali e altre importanti e numerose leggi sull’ordinamento della Repubblica; b) tutte le altre leggi, di competenza della Camera ma a loro volta differenziate, a seconda del grado di coinvolgimento del Senato nella loro approvazione, in tre tipi di leggi: b1) le leggi il cui esame da parte del Senato può essere richiesto da un terzo dei suoi componenti e sulle cui modificazioni la Camera si pronuncia a maggioranza semplice in via definitiva; b2) le leggi di cui all’articolo 81 4° comma, le quali vanno sempre sottoposte all’esame del Senato, che può deliberare proposte di modificazione entro quindici giorni dalla data di trasmissione; b3) le leggi di attuazione dell’articolo 117, 4° comma della Costituzione, che richiedono sempre l’esame del Senato e le cui modificazioni a maggioranza assoluta dei suoi componenti sono derogabili solo dalla maggioranza assoluta dei componenti della Camera.
All’unico procedimento bicamerale attuale vengono dunque sostituiti quattro tipi di procedure, differenziati sulla base delle diverse materie ad esse attribuite. È chiaro che questo pasticcio si risolve in un’inevitabile incertezza sui diversi tipi di fonti e procedimenti, ancorati alle diverse ma non sempre precise e perciò controvertibili competenze per materia. Il comma 6° del nuovo articolo 70 stabilisce che «i Presidenti delle Camere decidono, d’intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza». Ma come si risolverà la questione se i due presidenti non raggiungeranno un accordo? E comunque l’incertezza e l’opinabilità delle soluzioni adottate rimangono, e rischiano di dar vita a un contenzioso incontrollabile su questioni di forma che finirà per allungare i tempi dei procedimenti e per investire la Corte Costituzionale di una quantità imprevedibile di ricorsi di incostituzionalità per difetti di competenza.

Ma c’è soprattutto una seconda ragione, ben più grave e di fondo, che rende inaccettabile il monocameralismo imperfetto introdotto da questa revisione: la trasformazione della nostra democrazia parlamentare, provocata dalla legge elettorale maggioritaria n. 52 del 6 maggio 2015, in un sistema autocratico nel quale i poteri politici saranno interamente concentrati nell’esecutivo, e di fatto nel suo capo, ben più di quanto accada in qualunque sistema presidenziale, per esempio negli Stati Uniti, dove è comunque garantita la netta separazione e indipendenza del Congresso, titolare del potere legislativo, dal Presidente. Il sistema monocamerale infatti, in una democrazia parlamentare, implica un sistema elettorale puramente proporzionale, in forza del quale i governi e le loro maggioranze si formano in maniera trasparente in Parlamento, quali frutti del dibattito e del compromesso parlamentare, e restano costantemente subordinati alla volontà della Camera della quale il governo è espressione. Solo così il monocameralismo è un fattore di raffor­zamento, anziché di emarginazione del Parlamento: solo se l’unica Camera – la Camera dei deputati – viene eletta con un sistema elettorale perfettamente proporzionale, in grado di rappresentare l’intero arco delle posizioni politiche, di garantire perfettamente l’uguaglianza del voto, di riflettere pienamente il pluralismo politico e, soprattutto, di assicurare costantemente la presenza e il ruolo di controllo delle forze di minoranza e di opposizione. È stato solo questo il monocameralismo proposto in passato dalla sinistra: quello che, grazie alla massima rappresentatività ed efficienza decisionale dell’unica Camera, alla sua composizione pluralista e alla forza delle opposizioni, assicura quella che chiamavamo la “centralità del Parlamento”, cioè il suo ruolo di indirizzo politico e di controllo sull’attività del governo quale si conviene a una democrazia parlamentare.

Brexit, Ue, Italia e Referendum costituzionale

Europa_Bandiera_Europeasedia di VannitolaC’era una volta l’Europa. Una analisi del giornalista Corradino Mineo esperto osservatore della politica comunitaria.
In Italia c’è un’unica grande arma per salvare il salvabile: il referendum di ottobre. Trasformato in plebiscito pro o contro il realismo dei mercati, pro o contro l’Europa dorotea, pro o contro la politica che pretende deleghe in bianco, da un apprendista stregone che somiglia a Cameron come una goccia d’acqua a un’altra. Battiamoci perché vinca il No, perché si apra una vera fase costituente, con il dialogo con la destra senza inciucio nazareni con una apertura di credito (e con rispetto) nei confronti dei 5 Stelle

C’era una volta l’Europa. Semplice, evocativo, non vanamente consolatorio. Il titolo più efficace è del Manifesto. Gli altri parlano di “tempesta”, la Stampa, di “colpo all’Europa”, il Corriere, di un “piano per salvarla”, La Repubblica. Oppure usano l’esortazione: “Europa svegliati!”, il Sole24Ore. Ricorderete: dopo aver vinto il suo referendum Tsipras fu umiliato dalla Merkel, da Hollande, da Renzi e tutti si accorsero che “Atene non aveva un piano B”. Ora sono gli aguzzini di Trsipras a non avere “un piano B” davanti alla porta che gli elettori britannici gli hanno sbattuto in faccia. Sì, certo, Draghi allaga borse e banche stampando euro, compra titoli del debito italiani e spagnoli per evitare che lo spread torni. Sono risposte necessarie ma il loro effetto è temporaneo: possono attutire il crollo delle borse -pauroso quello di Milano, meno 12,5% -, possono evitare che l’euro si apprezza dopo l’ondata di vendite che investe la sterlina. Ma poi? I commenti di Polito per il Corriere, Scalfari su Repubblica, Napoletano per il Sole, confermano questo vuoto di idee: chiedono – in modo più accorato e urgente il direttore del Sole24Ore- che i politici al governo in Francia, Germania e Italia, facciano ora quello che non hanno fatto fino a ieri: che diano all’Europa, con urgenza, sotto la pressione del Brexit, istituzioni federali e democratiche, che imbocchino per l’Europa la strada di una politica espansiva e più solidale. Dove erano questi commentatori quando gli stessi governanti strozzavano la piccola Grecia, in nome delle regole immutabili che presiedono al modo folle con cui si è costruita l’Europa dell’euro? Dove, quando in Spagna si infliggeva un colpo doppio ai lavoratori e alle famiglie in nome della ripresa: prima il licenziamento poi lo sfratto? Il piano di cui parla Repubblica nel titolo si limita a due mosse. La prima: fare presto, visto che Londra deve uscire, che esca subito. La seconda rimanda come al solito alla BCE e quello che può fare, per limitare i danni, l’onesto Draghi. Non basta. Perché -ha ragione Ezio Mauro- la malattia d’Europa è prima di tutto una malattia politica.
“L’europeismo non è più un sentimento politico, in nessuno dei nostri Paesi”, scrive l’ex direttore di Repubblica. “L’antieuropeismo è invece un risentimento robusto e potente, distribuito a piene mani dovunque”. Siamo arrivati fin qui perché : né Cameron né Merkel, né Hollande né Renzi, sono mai stati leader europei. Sono stati, e sono, leader nazionali pronti a usare a piene mani populismo e demagogia per confermarsi nel loro ruolo. Cameron ha voluto il referendum: pensava di domare gli istinti nazionalisti e secessionisti del suo paese e si è visto con che risultato. In tutti questi anni Merkel ha fatto credere ai tedeschi di aver generosamente contribuito a un progetto -l’Euro e l’Europa- nascondendo i vantaggi incassati dalla Germania nell’operazione e promettendone altri, grazie alla sua leadership e alla sua grinta nell’imporre “compiti a casa” e sacrifici ai partner piùdeboli. Hollande contro ogni evidenza ripete ai francesi “Ca va mieux” mentre strizza l’occhio alla Grandeur gollista, con le sue incursioni in Africa e in Medio Oriente. Renzi, toglie diritti e deprime la partecipazione democratica, come gli chiedono le istituzioni sovra nazionali, ma distribuisce bonus elettorali e sgravi fiscali, e mostra i muscoli da giovanotto con cui -promette- rimetterà in riga “i burocrati” di Bruxelles. E, con questo spettacolo, vorreste che il sentimento europeo vinca il risentimento? Naturalmente ogni segno di rinsavimento, ogni ritorno a una politica degna del nome, l’abbandono del populismo dei governi, sarebbe benvenuto. E non mancherò di segnalarlo e di lodarlo, qualora venisse. Per ora, lasciatemi constatare come questa classe politica e dirigente abbia fatto fallimento. C’erano un tempo elites europee.
Ottimista, nonostante tutto. Lo sapete, a me l’analisi spietata serve per vedere, comunque, la possibilità che si può aprire. Possibilità non vuol dire “probabilità”, è solo uno spiraglio per il quale, comunque, val la pena di battersi. Lo vedo, questo spiraglio, nel voto di domani in Spagna: se Podemos vincesse o arrivasse a un’incollatura dai popolari, forse potrebbe dar vita a un governo delle sinistre, l’ottusità del Psoe. Potrebbe proporre una Spagna federale in un’Europa federale. Anche in Gran Bretagna qualcosa può accadere: i giovani hanno votato contro Brexit, anche se sono andati alle urne in percentuale più bassa degli anziani “risentiti” che hanno scelto il Leave. In tutte le città ha prevalso il Remain, nelle campagne ha trionfato il Leave. Scozia e Irlanda del Nord cercheranno bloccare l’anacronistico nazionalismo imperiale britannico, a costo di disunire il regno, chiedendo di far parte dell’Europa e restando legati a Galles e England in uno stato federale molto lasco. Bernie Sanders, che non si è ritirato dalle primarie, dice però ai suoi millennials: votiamo per la Clinton e contro Trump. Non gli chiede di credere nella Clinton, di tornate sotto l’ala dell’establishment. Vuole almeno che il Partito cambi il suo programma, che si sposti a sinistra, mentre comincia a proporre la sua corsa entusiasmante come quella di un nuovo soggetto. In Italia c’è un’unica grande arma per salvare il salvabile: il referendum di ottobre. Trasformato in plebiscito pro o contro il realismo dei mercati, pro o contro l’Europa dorotea, pro o contro la politica che pretende deleghe in bianco, da un apprendista stregone che somiglia a Cameron come una goccia d’acqua a un’altra. Battiamoci perché vinca il No, perché si apra una vera fase costituente, con il dialogo con la destra senza inciucio nazareni con una apertura di credito (e con rispetto) nei confronti dei 5 Stelle. Se Renzi non Renzi fosse un leader politico, e non solo un tattico che gioca con la politica, prenderebbe atto del no e cambierebbe il verso della sua azione di governo. Altrimenti, senza rimpianti, avremo un Cameron in meno anche in Italia. La rivoluzione copernicana della politica vuol dire oggi partire dai giovani. Quelli che sanno che lavoro sicuro non l’avranno, perché la ripresa che si annuncia fa persino crescere disuguaglianze e precariato. Quelli che lasciano il paese per studiare o fare ricerca, che ma sono pronti a tornare. Quelli che sono italiani o turchi, inglesi o nati in Siria ma hanno un progetto comune: trasformare il mondo al lume della ragione, costruire la convivenza nel diritto. Progetto europeo! L’unico vero progetto europeo. Vedete, fa più per l’Europa un prete che dice a Yerevan, sì’ quello degli armeni fu genocidio, degli esorcismi e delle promesse dei politici professionisti dopo Brexit
——————————–
NO NO NOOO
Non solo modifiche, è un’altra Costituzione
di Luigi Ferrajoli, su Left

La legge di revisione costituzionale Renzi-Boschi investe l’intera seconda parte della Costituzione: ben 47 articoli su un totale di 139. Non è quindi, propriamente, una “revisione”, ma un’altra costituzione, diversa da quella del 1948. Di qui il suo primo, radicale aspetto di illegittimità: l’indebita trasformazione del potere di revisione costituzionale previsto dall’articolo 138, che è un potere costituito, in un potere costituente non previsto dalla nostra Costituzione e perciò anticostituzionale ed eversivo.
La differenza tra i due tipi di potere è radicale: il potere costituente è un potere sovrano, che l’articolo 1 attribuisce al “popolo” e solo al popolo, sicché nessun potere costituito può appropriarsene; il potere di revisione è invece un potere costituito, il cui esercizio può consistere soltanto in singoli e specifici emendamenti onde sia consentito ai cittadini, come ha più volte stabilito la Corte Costituzionale, di esprimere consenso o dissenso nel referendum confermativo alle singole revisioni. È una questione elementare di grammatica giuridica: l’esercizio di un potere costituito non può trasformare lo stesso potere del quale è esercizio in un potere costituente senza degradare ad eccesso o peggio ad abuso di potere.
Ma ancor più gravi sono la forma e la sostanza della nuova costituzione. Per il metodo con cui è stata approvata e per i suoi contenuti, questa legge di revisione è un oltraggio non tanto e non solo alla Costituzione del 1948, ma al costituzionalismo in quanto tale, cioè all’idea stessa di Costituzione.
Innanzitutto per il metodo. Non è con i modi adottati dal governo Renzi che si trattano le costituzioni. Le costituzioni sono patti di convivenza. Stabiliscono le pre-condizioni del vivere civile, idonee a garantire tutti, maggioranze e minoranze, e perciò tendenzialmente sorrette da un consenso generale. Servono a unire, e non a dividere, dato che equivalgono a sistemi di limiti e vincoli imposti a qualunque maggioranza, di destra o di sinistra o di centro, a garanzia di tutti. Così è stato per la Costituzione italiana del 1948, approvata dalla grandissima maggioranza dei costituenti – 453 voti a favore e 62 contrari – pur divisi dalle contrapposizioni ideologiche dell’epoca. Così è sempre stato per qualunque costituzione degna di questo nome.
La costituzione di Renzi è invece una costituzione che divide: una costituzione neppure di maggioranza, ma di minoranza, approvata ed imposta, però, con lo spirito arrogante e intollerante delle maggioranze. È in primo luogo una costituzione approvata da una piccola minoranza: dal partito di maggioranza relativa, che alle ultime elezioni prese il 25% dei voti, corrispondenti a poco più del 15% degli elettori, trasformati però, dalla legge elettorale Porcellum dichiarata incostituzionale, in una fittizia maggioranza assoluta, per di più compattata dalla disciplina di partito e dal trasformismo governativo di gran parte dei suoi esponenti, pur apertamente contrari. Insomma, una pura operazione di palazzo. E tuttavia questa minoranza ha imposto la sua costituzione con l’arroganza di chi crede nell’onnipotenza della maggioranza: rifiutando il confronto con le opposizioni e perfino con il dissenso interno alla cosiddetta maggioranza (“abbiamo i numeri!”), rimuovendo e sostituendo i dissenzienti in violazione dell’articolo 67 della Costituzione, minacciando lo scioglimento delle Camere, strozzando il dibattito parlamentare con “canguri” e tempi di discussione ridotti in sedute-fiume e notturne, ponendo più volte la fiducia come se si trattasse di una legge di indirizzo politico, ottenendo l’approvazione in un clima di scontro giunto a forme di protesta di tipo aventiniano, fino all’ultima, gravissima deformazione del processo di revisione: il carattere plebiscitario impresso al referendum costituzionale dal presidente del Consiglio che lo ha trasformato in un voto su se stesso. Non si potrebbe immaginare un’anticipazione più illuminante di quelli che saranno i rapporti tra governo e parlamento se questa riforma andasse in porto: un parlamento ancor più umiliato, espropriato delle sue classiche funzioni, ridotto a organo di ratifica delle decisioni governative. Del resto, sia l’iniziativa che l’intera gestione del procedimento di revisione sono state, dall’inizio alla fine, nelle mani del governo; laddove, se c’è una questione di competenza esclusiva del Parlamento e che nulla ha a che fare con le funzioni di governo, questa è precisamente la modifica della Costituzione. L’illegittima mutazione del referendum costituzionale in un plebiscito era perciò implicita fin dall’origine del processo di revisione e strettamente connesso a un altro suo profilo di illegittimità: al fatto che il potere di revisione costituzionale, proprio perché è un potere costituito, ammette solo emendamenti singolari e univoci, i quali soltanto consentono che il successivo referendum previsto dall’articolo 138 avvenga, come ha più volte richiesto la Corte costituzionale, su singole e determinate questioni, e non si tramuti, appunto, in un plebiscito.
Si capisce come una simile revisione – quali che fossero i suoi contenuti, anche i più condivisi e condivisibili – meriti comunque di essere respinta, soltanto per il modo con cui è stata approvata. Giacché essa è uno sfregio alla Costituzione repubblicana, dopo il quale la nostra costituzione non sarà più la stessa perché non avrà più lo stesso prestigio. Le costituzioni, infatti, valgono anche per il carattere evocativo e simbolico del loro momento costituente quale patto sociale di convivenza. Questa nuova costituzione sarà percepita come il frutto di un colpo di mano, di un atto di prepotenza e prevaricazione sul Parlamento e sulla società italiana. Sarà la costituzione non della concordia ma della discordia; non del patto pre-politico, ma della rottura del patto implicito in ogni momento costituente: indipendentemente dai contenuti.

Ma sono precisamente i contenuti l’aspetto più allarmante della nuova costituzione. Si dice che con essa viene superato il bicameralismo perfettamente paritario. È vero. Ma il superamento del bicameralismo perfetto avviene con la sua sostituzione con un monocameralismo sommamente imperfetto. Imperfetto per due ragioni.
In primo luogo perché la seconda Camera non è affatto abolita, ma sostituita da un Senato eletto non dai cittadini, come vorrebbe il principio della sovranità popolare, ma dai Consigli regionali “in conformità” – non è chiaro in quali forme e grado – “alle scelte espresse dagli elettori”, e tuttavia dotato di molteplici competenze legislative. Contrariamente alla semplificazione vantata dalla propaganda governativa, ne seguirà un’enorme complicazione del procedimento di approvazione delle leggi. Basti confrontare l’attuale articolo 70 della Costituzione composto da una riga – “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere” – con il suo nuovo testo, articolato in sette commi lunghi e tortuosi che prevedono ben quattro tipi di leggi e di procedure: a) le leggi di competenza bicamerale, come le leggi costituzionali, le leggi di revisione costituzionale, le leggi elettorali e altre importanti e numerose leggi sull’ordinamento della Repubblica; b) tutte le altre leggi, di competenza della Camera ma a loro volta differenziate, a seconda del grado di coinvolgimento del Senato nella loro approvazione, in tre tipi di leggi: b1) le leggi il cui esame da parte del Senato può essere richiesto da un terzo dei suoi componenti e sulle cui modificazioni la Camera si pronuncia a maggioranza semplice in via definitiva; b2) le leggi di cui all’articolo 81 4° comma, le quali vanno sempre sottoposte all’esame del Senato, che può deliberare proposte di modificazione entro quindici giorni dalla data di trasmissione; b3) le leggi di attuazione dell’articolo 117, 4° comma della Costituzione, che richiedono sempre l’esame del Senato e le cui modificazioni a maggioranza assoluta dei suoi componenti sono derogabili solo dalla maggioranza assoluta dei componenti della Camera.
All’unico procedimento bicamerale attuale vengono dunque sostituiti quattro tipi di procedure, differenziati sulla base delle diverse materie ad esse attribuite. È chiaro che questo pasticcio si risolve in un’inevitabile incertezza sui diversi tipi di fonti e procedimenti, ancorati alle diverse ma non sempre precise e perciò controvertibili competenze per materia. Il comma 6° del nuovo articolo 70 stabilisce che «i Presidenti delle Camere decidono, d’intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza». Ma come si risolverà la questione se i due presidenti non raggiungeranno un accordo? E comunque l’incertezza e l’opinabilità delle soluzioni adottate rimangono, e rischiano di dar vita a un contenzioso incontrollabile su questioni di forma che finirà per allungare i tempi dei procedimenti e per investire la Corte Costituzionale di una quantità imprevedibile di ricorsi di incostituzionalità per difetti di competenza.

Ma c’è soprattutto una seconda ragione, ben più grave e di fondo, che rende inaccettabile il monocameralismo imperfetto introdotto da questa revisione: la trasformazione della nostra democrazia parlamentare, provocata dalla legge elettorale maggioritaria n. 52 del 6 maggio 2015, in un sistema autocratico nel quale i poteri politici saranno interamente concentrati nell’esecutivo, e di fatto nel suo capo, ben più di quanto accada in qualunque sistema presidenziale, per esempio negli Stati Uniti, dove è comunque garantita la netta separazione e indipendenza del Congresso, titolare del potere legislativo, dal Presidente. Il sistema monocamerale infatti, in una democrazia parlamentare, implica un sistema elettorale puramente proporzionale, in forza del quale i governi e le loro maggioranze si formano in maniera trasparente in Parlamento, quali frutti del dibattito e del compromesso parlamentare, e restano costantemente subordinati alla volontà della Camera della quale il governo è espressione. Solo così il monocameralismo è un fattore di raffor­zamento, anziché di emarginazione del Parlamento: solo se l’unica Camera – la Camera dei deputati – viene eletta con un sistema elettorale perfettamente proporzionale, in grado di rappresentare l’intero arco delle posizioni politiche, di garantire perfettamente l’uguaglianza del voto, di riflettere pienamente il pluralismo politico e, soprattutto, di assicurare costantemente la presenza e il ruolo di controllo delle forze di minoranza e di opposizione. È stato solo questo il monocameralismo proposto in passato dalla sinistra: quello che, grazie alla massima rappresentatività ed efficienza decisionale dell’unica Camera, alla sua composizione pluralista e alla forza delle opposizioni, assicura quella che chiamavamo la “centralità del Parlamento”, cioè il suo ruolo di indirizzo politico e di controllo sull’attività del governo quale si conviene a una democrazia parlamentare.

La Gran Bretagna abbandona l’Unione Europea. Non è la fine del mondo, potrebbe perfino rappresentare l’inizio di una nuova Unione che vada al di la della sola unione monetaria dei paesi europei

Europa_Bandiera_Europeasedia di Vannitoladi Vanni Tola

Buongiorno, la notizia principale della giornata è che la Gran Bretagna non farà più parte dell’Unione Europea. Oggi si scateneranno i commentatori per aiutarci a comprendere quali saranno le conseguenze di tale avvenimento e noi, naturalmente, ascolteremo e leggeremo con interesse perché i destini dell’Unione europea ci riguardano direttamente. Una modesta riflessione. Non è la fine del mondo, non è scattata l’ora X dello smantellamento dell’Unione Europea, non è detto che l’uscita della Gran Bretagna, oltre ad alimentare i sogni dei nazionalisti, non si traduca in un serio dibattito che ci conduca alla revisione dei trattati e alla costruzione, anche politica e non soltanto monetaria, degli Stati Uniti d’Europa.
—————————————————
lampadadialadmicromicro1- Brexit su Aladinews.
——————————————————-
Nicolino fto micro fbDitemi, ma veramente sono convinti di riprendersi l’India? Cameron verrà ricordato come il politico che ha distrutto il Regno Unito e privato la regina dall’essere la maggior beneficiaria dei fondi europei in agricoltura. Buone notizie.

Hanno vinto i vecchi gli impauriti, quelli poco scolarizzati e i poveri. O cambia l’Europa o il futuro ci riserva cosa pessime. Cominciate ad imparare il latino intanto, tornerà utile nella nuova età buia.
Dati ref Brexit Migheli
—————————————–
BOLOGNA 22 GIU16
——————————————————-
Brexit z
Brexit – è successo l’impensabile
di Nicola Ortu
By sardegnasoprattutto/ 24 giugno 2016/ Società & Politica/

Sono le cinque del mattino, la televisione ancora accesa in sottofondo, sintonizzata su BBC Parliament, che trasmette la “maratona” per la conta dei voti referendari. E no, non sembra essere un buongiorno per me, europeista convinto.

Mi sono svegliato con un piede fuori dall’Unione Europea. I mercati sono in fibrillazione, la Sterlina ha toccato i minimi storici dal 1985, e l’incertezza regna sovrana. Mi sembra quasi incredibile che tutto ciò stia accadendo. Un voto di protesta era altamente preventivabile, e l’Unione Europea era già stata, non solo in contesto britannico, utilizzata come capro espiatorio per problemi riconducibili più a quel di Westminster che a Bruxelles. Ma sicuramente nessuno si aspettava una prevalenza del “leave” a circa il 52%, ai dati aggiornati alle cinque di questa mattina, ora di Londra.

La palla passerà ora al Premier David Cameron, che, se non rassegnerà le dimissioni subito, sarà comunque costretto a fare non poche concessioni alle figure principali della campagna Leave, fra cui l’ex sindaco di Londra, Boris Johnson, e l’euroscettico Nigel Farage. Sembra comunque preventivabile un cambio di guida al numero 10 di Downing Street.

Questioni ancor più serie arrivano invece dalla solita Scozia, che ha votato, con una maggioranza incredibile per rimanere all’interno dell’Unione Europea, al contrario dell’Inghilterra e del Galles. Il leader del Partito Indipendentista Scozzese, Nicola Sturgeon, ha già annunciato che ci sarebbero state conseguenze in caso in cui il Paese avesse votato in controtendenza alla maggioranza del Regno Unito: un ulteriore referendum indipendentista sembra essere all’orizzonte, e l’Unione britannica nazionale sempre più destinata a sgretolarsi.

Se per la Scozia si vocifera già di un 194esimo posto da membro all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, poche miglia marine ad ovest, l’Irlanda del Nord vedrà forse problemi ancor più gravi. La stabilità degli accordi del Venerdì Santo, basati in larga misura sulla rispettiva appartenenza dei due paesi-Repubblica d’Irlanda e Regno Unito-all’Unione Europea, è messa oggi a forte rischio. I controlli frontalieri sono solo una delle tante problematiche che renderebbero la situazione in Irlanda tumultuosa come forse non lo è stata per decenni.

Per quanto riguarda le future relazioni economico-commerciali fra Regno Unito e Unione Europea, queste saranno ridefinite in un periodo di negoziazione della durata di minimo due anni, secondo le regolamentazioni dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona. Se quindi da un lato per i concittadini residenti in Regno Unito non dovrebbero esserci stravolgimenti immediati, sicuramente in campo comunitario Bruxelles non sarà molto propensa ad adottare un approccio particolarmente conciliatorio con Londra.

Lo stesso Presidente della Commissione Europea, Juncker, aveva già affermato che, in caso di Brexit, non si sarebbero fatte ulteriori concessioni al Regno Unito aldilà della “special membership” accordata in un summit di tre giorni in febbraio al premier David Cameron. L’accesso al mercato comune europeo, a differenza di quanto affermato da numerosi esponenti della campagna per il “leave”, dovrà necessariamente essere correlato ad una libera circolazione delle persone, di conseguenza andando a minare uno dei punti su cui tanto hanno insistito gli egli euroscettici: l’immigrazione.

E se comunque la possibilità di vedere Londra al difuori del mercato comune sia relativamente bassa, si è comunque parlato di un piano B: un ricorso più attivo al Commonwealth delle Nazioni sembra essere la scelta principe, la cui praticabilità però, appare ben lontana da una reale realizzazione (la stessa India, forse il membro più importante ad oggi del Commonwealth, aveva fatto sapere che avrebbe visto di buon occhio il Regno Unito all’interno dell’Unione Europea), in quanto Londra, da questo referendum, non può che uscire ridimensionata dal punto di vista sia politico che economico.

Crogiolandosi in uno splendido isolazionismo che solo il futuro sa dirci dove potrà portarla, la Gran Bretagna avvierà a breve i negoziati per l’uscita dall’Unione Europea.

Sono convinto che oggi più che mai i restanti ventisette paesi membri debbano ancorarsi saldamente alle radici dell’Unione Europea. Cerchiamo di non perdere quel minimo di buonsenso che ci rimane e non precipitare in degli scenari fin troppo simili a quelli che la generazione precedente ha dovuto provare sulla propria pelle durante il secolo scorso. Per quanto riguarda l’oggi i mercati sono già instabili, l’ambiente politico a dir poco bollente, ma il Brexit è solo appena cominciato.

* Studente Department of War Studies – King’s College London

La teoria delle “finestre rotte” e i processi di sensemaking: il caso della statua di Carlo Felice

carlo ferocefelice mag 2016 foto FMdi Giuseppe Melis Giordano*

1. L’abitudine di convivere con le finestre rotte. La teoria delle “finestre rotte” fa riferimento a un esperimento di psicologia sociale, condotto nel 1969 presso l’Università di Stanford, dal prof. Philip Zimbaldo. Lo studioso dimostrò che non è la povertà ad innescare comportamenti criminali ma il senso di deterioramento, di disinteresse, di non curanza che si genera su una situazione qualsiasi, tale per cui si diffonde la percezione che i codici di convivenza, una volta rotti, inducano le persone a pensare che le regole e più in generale qualsiasi codice di regolazione sociale sia del tutto inutile, generando in questo modo un progressivo deterioramento delle stesse.

L’esempio è proprio quello di un vetro che si rompe e non viene riparato, dando luogo ad un progressivo decadimento dell’edificio, tale per cui dopo il primo vetro rotto, se ne rompe un altro, e così via tutti gli altri elementi dell’edificio. Ecco perché quando non si interviene subito per rimettere in ordine una situazione negativa, presto si innescherà un processo di decadimento senza fine. “Se una comunità presenta segni di deterioramento e questo è qualcosa che sembra non interessare a nessuno, allora lì si genererà la criminalità. Se sono tollerati piccoli reati come parcheggio in luogo vietato, superamento del limite di velocità o passare col semaforo rosso, se questi piccoli “difetti” o errori non sono puniti, si svilupperanno “difetti maggiori” e poi i crimini più gravi” (http://www.unitresorrentina.org/foto/24-forum/85-la-teoria-delle-finestre-rotte).

Dal punto di vista di questo scritto, la non conoscenza della storia della Sardegna, è come una finestra rotta di casa che non viene aggiustata e che fa deperire la casa. Fuor di metafora, i Sardi cresciuti senza conoscere la storia della propria terra e dei propri antenati (ma che non conoscono pure la geografia, la fauna, la flora, la geologia, ecc.) concorrono a far deperire la propria casa: non la conoscono e non la rispettano, non la conoscono e si abituano a non conoscerla e pertanto non sanno di non sapere.

Non solo, ma se non la conosci non la ami e se non la ami ti è indifferente. Se poi invece dicessi di amarla, quanto questo amore è consapevole o piuttosto superficiale ed effimero (basato solo sul mare azzurro, sul sole cocente, sui panorami mozzafiato, ma non su nuraghi e chiese, piuttosto che su pittori e scultori, ecc.). L’abitudine a convivere con la non conoscenza della propria storia, fa si che le persone possano interagire con il reale affidandosi esclusivamente a ciò che essi vedono e sentono nel contingente, seguendo il vento del momento al pari di una moda. In altre parole mancano di radici, cioè quegli agganci alla propria terra che rende le persone consapevoli di ciò che hanno ma anche di ciò che servirebbe per stare meglio.

È sulla base di queste considerazioni che così come non si avverte la mancata conoscenza della propria storia come una lacuna da colmare, analogamente non si avverte neppure la necessità di conoscere la propria lingua, non si avverte la necessità di tutelare il proprio patrimonio culturale, naturale, ecc. E non avvertendo queste necessità, non ci si rende di vivere in una casa con le finestre rotte e, di converso, ci si abitua a questo modo di vivere tanto che giorno dopo giorno quella casa deperisce, viene meno cioè l’attaccamento alla propria terra e ai valori che essa possiede, sostituiti, forse, da altri valori, comunque estranei ad essa.

Ecco perchè molte persone in generale e giovani di oggi in particolare, di sardo hanno solo la città di nascita, e siccome poi fanno difficoltà ad interagire in modo corretto con questa terra, prima di tutto perché non sono nella condizione di “inventarsi” un lavoro, accade con sempre più frequenza che ci sia chi la percepisce come matrigna, giungendo alla conclusione che per essi c’è solo una via d’uscita: quella di scappare, di fuggire, perché le condizioni di esistenza sono tali per cui non si trova soddisfazione alle proprie ambizioni lavorative, non si sente di appartenere a questa terra, non c’è nulla che li tenga legati, neppure gli affetti che in molti casi paiono effimeri e utilitaristici.

Di fronte a questa situazione chi ha responsabilità di qualsiasi tipo dovrebbe chiedersi: perché ci siamo abituati a vivere con le finestre rotte? Perché una finestra rotta non genera “fastidio”, “dolore”, tali per cui ci si impegna per “aggiustarle”. Cosa si può fare perché si inverta questa cattiva abitudine?

2. Conoscere la storia per riconoscere noi stessi. Il bambino impara a riconoscersi attraverso una sequenza ripetuta di azioni volte a vedersi allo specchio, ad ascoltare la propria voce, a toccare la propria pelle. Nello stesso tempo impara a riconoscere il contesto che gli sta intorno sempre attraverso i propri sensi che sollecitati generano la memoria della sua esperienza. La combinazione di questi atti di riconoscimento interni ed esterni plasma l’identità dell’individuo, la sua personalità, che quindi è, nel contempo, relazionale, posizionale e contestuale. Ciascuno di noi, pertanto, è il prodotto storico delle quotidiane esperienze di relazione con il mondo.

Ciò permette di dire che ciascuno ha una propria identità frutto di questo processo storico ma, a questo punto, si può anche affermare che la formazione di questa identità è fortemente condizionata, per esempio, dall’aver vissuto in una casa con le finestre rotte. Ecco perché tanti Sardi non sentono la mancanza di determinate conoscenze. Perché ci è mancato e ci manca ancora oggi il rapporto con una parte di mondo, quello della storia della nostra terra, nelle sue diverse declinazioni della storia, della geografia, della lingua, ecc..

Se poi accade che le esperienze di apprendimento cui siamo stati sottoposti (a scuola in modo particolare) sono le storie di “altri”, è molto probabile che il processo di auto identificazione avvenga secondo quei modelli “altri”. Il risultato è che tanti sardi sono “apolidi” nella terra che li ha visti nascere e crescere e ciò ha fatto maturare in essi un senso di rapporto schizofrenico, di amore (spesso effimero e superficiale) e odio (rappresentato dalla voglia di scappare).

È ovvio che chi non sa, non ha consapevolezza di non sapere ed è qui che spetterebbe alle classi dirigenti più consapevoli intervenire con appropriati investimenti “infrastrutturali” volti ad “aggiustare” la gran mole di case con le finestre rotte con le quali ci siamo, purtroppo, abituati a convivere: infrastrutturazione che dovrebbe avvenire prima di tutto e soprattutto nelle scuole con l’insegnamento della storia di questa terra, ma anche della lingua sarda.

3. La conoscenza della propria storia come base di processi di sensemaking. Se si conosce la propria storia, si è in grado di riconoscere meglio se stessi e il contesto circostante, si dispone cioè di nuovi codici atti ad identificare la realtà in modo differente. Il che vuol dire che ciò che si osserva viene letto e interpretato in base a nuovi codici e questo vale in generale e vale per i contesti in cui viviamo. Conoscere la propria storia ci rende consapevoli dei vetri rotti con cui si è convissuto fino a quel momento ed è ovvio che in questo modo nasce un fastidio per qualcosa che si capisce dovrebbe essere diverso.

Ecco pertanto che quanto si viene a scoprire che in una delle strade principali della città in cui si vive si trova una statua dedicata ad un personaggio che, grazie al processo di studio della storia, si scopre non essere stato un benefattore ma un tiranno che ha soggiogato la popolazione, l’ha sfruttata per il solo proprio interesse e piacere, allora sorge spontanea la domanda: ma perché a costui è dedicata una statua? E perché addirittura gli è stata dedicata una strada?

Se poi si scopre che la decisione di realizzare la statua nasce in seno a organismi dediti ad acquisire la benevolenza del sovrano per tutelare propri interessi e poi si scopre che tutta la toponomastica di quelle aree venne modificata proprio in quel periodo di dominazione come modo per affermare la sovranità di un regno e sottomettere anche in questo modo la popolazione residente, allora le domande dovrebbero generare un “dolore” ancora più acuto.

Ed è qui che si inseriscono i processi di “sensemaking” di cui è autore lo studioso Karl Weick (1995) che sviluppò le proprie riflessioni intorno ai processi organizzativi e, in quest’ambito, ai processi cognitivi. Questi ultimi “sono quei processi, messi in atto da un soggetto (sia esso un individuo o un’organizzazione), che gli consentono di conferire senso ai propri flussi di esperienza” (Bartezzaghi, 2010). Secondo Weick, pertanto, i processi di creazione di senso (sensemaking) coincidono esattamente con i processi di organizzazione (organizing). In altre parole, organizzare corrisponde a dare senso ai flussi di esperienza”(Bartezzaghi, 2010).

Questo significa, per esempio, che le scelte di una comunità, attraverso le sue istituzioni rappresentative, sono l’esito di un processo di sensemaking, perché conferiscono significato ai luoghi e alle relazioni tra luoghi e persone. E questo implica che se una comunità ritiene consapevolmente che alcuni dei significati ereditati dal passato siano inadeguati o controproducenti possa porre in campo delle strategie volte a ridefinire il senso di quegli spazi. Operazioni come queste non solo sono legittime ma sono auspicabili perché è tramite l’attivazione di un ambiente desiderato è possibile favorire una diversa presa di coscienza della comunità residente in quel contesto e, di conseguenza, un’identità più consapevole di ciò che essa vuole essere anche rispetto a terzi con cui entra in relazione.

Va da sé che è proprio la Politica, quella con la P maiuscola, che operando delle scelte nel territorio di sua competenza, che possono essere di fare e di non fare, conferisce un senso a quel contesto, un senso che può essere di comunità consapevole della propria storia proiettata verso il futuro, oppure comunità semplicemente localizzata in un territorio, ma senza legami col passato, che pure vuole costruire un futuro ma lo fa senza radici, da apolide.

Chiaramente, il Consiglio comunale, in quanto rappresentante della popolazione, dovrebbe avere sempre una attenzione particolare nei confronti del territorio e della popolazione che rappresenta, non essendo stato investito con una delega in bianco.

4. Il sensemaking territoriale tra innovazione e barriere culturali. Il termine “Innovazione” è uno di quei concetti ripetuti come non mai, ma proprio per questo rischia di essere abusato e svuotato di significati: si pensi che nel 2014, questa parola è comparsa in più di 14.000 articoli pubblicati in Svizzera, secondo la banca dati dei media elvetici SMD. Letteralmente, “innovazione” significa “novità”, “rinnovamento” ed etimologicamente la parola deriva dal latino “novus” (nuovo) e “innovatio” (equivalente di “qualcosa di nuovo”).

In economia, per esempio, l’innovazione è connaturata all’esistenza dell’impresa: Joseph Schumpeter definiva l’imprenditore come colui che innova, per significare che se manca questa attività non esiste l’imprenditore e non esiste l’impresa. Ora, innovare implica cambiare, eppure quando si deve cambiare si va incontro a difficoltà enormi: accade cioè che anche chi parla di cambiamento, lo pensa per gli altri e quasi mai per se stesso, di conseguenza ci sono persone che entrano in ansia, che vivono il cambiamento come un trauma, come spiegano bene gli psicologi, così come ci sono quelli contrari ai cambiamenti perché dalla situazione esistente traggono dei benefici personali, anche se vanno a discapito di interessi più generali.

Per quanto riguarda la paura del cambiamento essa deriva, essenzialmente, dal timore di uscire dal proprio ambiente “protetto”, anche quando non è considerato perfetto e soddisfacente. Ciò impedisce a molti non solo di vivere il nuovo, ma di allargare gli orizzonti della mente. Eppure è noto che un ambiente protetto, se immobile nel tempo, a lungo andare rischia di diventare una prigione; “c’è chi, per non cambiarlo, preferisce reprimere i propri sentimenti e le proprie esigenze, non volendo rendersi conto che l’affrontare una situazione nuova è un’ulteriore possibilità di migliorarsi, mettersi in gioco, evolvere, dare ascolto ai propri bisogni e desideri” (Steri, 2011).

Ciò che più spaventa spesso è la paura di lasciare il vecchio, il passato, piuttosto che scoprire e costruire il futuro, oltre che aver timore di fallire, magari per l’ennesima volta. Sul piano individuale ci possono essere diverse soluzioni che portano a vincere la paura del cambiamento e a migliorarsi: “lavorare sulla propria autostima per conoscere e scoprire le proprie risorse; non essere impulsivi e vedere nel cambiamento una possibilità di miglioramento; capire che la vita è dinamica e che cambiare significa maturare; allargare i propri orizzonti e darsi una piacevole opportunità di sperimentare e conoscere altro” (Steri, 2011).

Ora, se questo sul piano individuale è un fenomeno di cui si occupano psicologi, come lo si può considerare invece sul piano collettivo, di una comunità insediata in un certo territorio? In altre parole, perché un’azione di innovazione che intende creare nuovi significati in uno spazio urbano, crea paura, ansia, fastidio, terrore addirittura e, conseguentemente, fiera opposizione? Se una comunità per il tramite delle sue istituzioni rappresentative decide di intervenire su un certo spazio per ridisegnare il senso dello stesso, perché questo genera reazioni negative che tendono a contrastare il cambiamento, l’innovazione, l’attivazione di nuovi significati?

E perché mai un’azione legittima di questo tipo dovrebbe configurarsi come un’operazione di “cancellazione” del passato e non come un’ulteriore “stratificazione storica” volta a mettere in ordine qualcosa (aggiustare le finestre rotte) di cui si è presa consapevolezza?

5. Proposte per una riprogettazione consapevole dello spazio occupato dalla statua di Carlo Felice. I punti trattati in precedenza costituiscono l’impianto concettuale su cui si basa la petizione “spostiamo la statua di Carlo Felice”, iniziativa con la quale si chiede all’istituzione municipale di Cagliari di ragionare sul senso dello spazio oggi denominato “Largo Carlo Felice”.

I presupposti da cui nasce l’iniziativa sono da ascrivere alla necessità di aggiustare le “finestre rotte” mettendo in ordine fatti avvenuti nel passato secondo criteri che restituiscano a questo popolo di cagliaritani e sardi la fierezza di chi avendo patito tirannie di ogni tipo, oggi vuole guardare al presente e al futuro conscio del proprio passato. In altre parole, mostrare in modo acritico simboli negativi, nella toponomastica e negli arredi urbani, significa perpetuare l’idea della convivenza con le “finestre rotte” cui si è fatto cenno inizialmente.

Se si vuole intervenire ricostruendo il senso di quegli spazi è necessario essere conseguenti, riposizionando, non cancellando, i simboli di quel passato in contesti più adeguati per poterli riconoscere meglio e ricordare per non cadere più nella tentazione di accettare l’idea della sottomissione al tiranno di turno che ciclicamente la storia mette di fronte, spesso sotto le suadenti spoglie di “benefattori” che pensano solo al proprio interesse (come dimostra peraltro la storia dell’industrializzazione della Sardegna). In concreto cosa significa tutto questo?

In sintesi:

Occorre che la municipalità consideri come elemento indispensabile e irrinunciabile la formazione dei propri giovani alla storia della città e della Sardegna tutta, a partire dalle scuole elementari fino a tutta la scuola dell’obbligo. Ciò nasce dalla constatazione in base alla quale i programmi ministeriali dello stato italiano non contemplano la nostra isola nello studio della storia. Questo è gravissimo per la formazione di un’identità consapevole, che traendo spunto da quanto di bene e di male accadde nei secoli trascorsi generi quelle motivazioni volte a sentire la responsabilità di migliorarsi, di guardare con fiducia al futuro, di considerare le proprie radici importanti sia per la crescita individuale di ogni individuo che per sviluppare il senso di appartenenza al popolo sardo.
La presa di coscienza della propria storia ha come conseguenza quella di mettere ordine tra eventi positivi e negativi. Gli storici ci raccontano che il periodo della dominazione sabauda è stato caratterizzato da condizioni di vita sociale di povertà e arretratezza, di incapacità dei sovrani di capire la natura delle richieste provenienti da diversi strati della popolazione e dalla conseguente adozione di misure volte a reprimere pesantemente, anche con il sangue, ogni anelito di rivendicazione di condizioni di vita migliori. La casa Savoia, inoltre, per imporre la propria presenza adottò tra i diversi provvedimenti anche quello di modificare la toponomastica dei centri abitati tra cui Cagliari: “Nelle intitolazioni delle vie di Cagliari (ma anche delle altre città sarde) è incisa la biografia della nostra nazione, e della sua abdicazione rispetto a se stessa” (Mongili, 2016). È da queste considerazioni che allora emerge (o dovrebbe emergere) quella consapevolezza volta a riprendere in mano il proprio destino, dando un senso più consono a quei luoghi, un senso coerente con l’orgoglio di chi rifiuta la tirannia: questo può avvenire cambiando il nome della strada da “largo Carlo Felice” in, per esempio, “largo 28 aprile 1794. Die de sa Sardigna”. In questa modifica si sostanzia il fulcro dell’operazione di sensemaking richiamato in precedenza.
La logica conseguenza della presa di coscienza che si dovrebbe sostanziare nel riprogettare il significato di quello spazio dal punto di vista simbolico modificando la toponomastica della strada, dovrebbe poi trovare completamento con lo spostamento della statua di Carlo Felice in luogo più consono alla conservazione di una statua rappresentativa di un tiranno. In particolare, per far si che non si dimentichino le gesta di questo tiranno si propone la sistemazione della statua in uno spazio museale nel quale, corredata di appropriata didascalia, possa veicolare il giusto messaggio di conoscenza a quanti vengono a visitare la città, a partire dai suoi residenti e in particolare dagli studenti che dovrebbero essere istruiti adeguatamente come indicato nel precedente punto 1.
Così come sul piano della toponomastica si sostituisce un richiamo positivo ad uno negativo, analogamente, se si reputa che la collocazione più adeguata della statua di Carlo Felice sia la cittadella dei musei di Cagliari, luogo nel quale a suo tempo venne forgiata, si propone la sostituzione con quella di un personaggio che ha combattuto la tirannia dei Savoia, che potrebbe essere Giovanni Maria Angioy, ma potrebbe essere anche un fatto, sempre riconducibile a Carlo Felice, quale per esempio un monumento ai martiri di Palabanda. Monumento la cui realizzazione potrebbe essere realizzata da un artista sardo e donata alla municipalità cagliaritana.
6. I vincoli di legge e le modalità operative. Le statue si configurano come beni mobili e, quando rivestono interesse dal punto di vista storico culturale, sono assoggettate al Codice dei beni culturali e del paesaggio. Dal punto di vista di ciò che interessa la proposta, la statua della quale si richiede lo spostamento, è assoggettata ad autorizzazione del Ministero dei beni culturali ai sensi dell’articolo 21 comma 1, lettera b, mentre al comma 5 dello stesso articolo si precisa che “L’autorizzazione è resa su progetto o, qualora sufficiente, su descrizione tecnica dell’intervento, presentati dal richiedente, e può contenere prescrizioni”.

Dal che si evince che il Comune, una volta deliberata la decisione di spostare la statua, deve predisporre, attraverso il proprio ufficio tecnico, un progetto che spieghi le motivazioni culturali che stanno a base della decisione e le modalità tecnico operative per dar seguito a tale decisione.

Peraltro è già accaduto in Italia che si siano assunti provvedimenti di spostamento delle statue (per esempio http://www.quicosenza.it/news/le-notizie-dell-area-urbana-di-cosenza/cosenza/86077-statue-migranti-su-corso-mazzini), il che significa che salvo i casi di rischio di danneggiamento o distruzione non dovrebbe esserci alcun motivo per negare l’autorizzazione, soprattutto perché poi la ricollocazione nello spazio museale citato ne arricchirebbe il valore storico e culturale, permettendo in quella sede di corredare la statua di ogni informazione utile a dare un senso ad oggi inesistente.

Chiaramente si tratta di un insieme di azioni che comportano spese la cui copertura può essere garantita anche da contributi volontari della cittadinanza, visto che tutta l’operazione nasce su iniziativa di un comitato spontaneo che in virtù della rilevanza simbolica attribuita alla stessa si darebbe carico di lanciare una apposita campagna di crowdfunding. Il Comune potrebbe intanto deliberare la volontà di procedere nella direzione auspicata, stabilire una differenziazione degli interventi e fare la stima dei costi, subordinando la realizzazione al recupero di almeno una percentuale significativa delle risorse necessarie per dar seguito all’iniziativa.

7. Percorsi auspicati e percorsi possibili. Il percorso auspicato è ovviamente quello che contempla le quattro richieste della petizione, quale conseguenza della presa di consapevolezza dell’opportunità di ripensare il senso di quello spazio sito al centro della capitale della Sardegna.

Ovviamente ciò che conta per i promotori dell’iniziativa è avviare il processo di acquisizione di consapevolezza che non è né rapido né scontato per chi manifesta sempre dubbi, paure, oppure è contrario per principio o perché quei simboli sono funzionali ad una idea di società basata su chi comanda e chi subisce. Ciò che appare imprescindibile e non rimandabile è la realizzazione dei punti 1 e 2, riguardanti l’insegnamento immediato della storia sarda nelle scuole e la revisione della toponomastica di quello spazio di città.

Quanto ai contrari per principio o per visione ideologica forse vale la pena ricordare che questa iniziativa, oltre ad aver già fatto discutere centinaia di persone, forse migliaia, ha superato i confini della Sardegna, al punto da meritare la replica piccata di uno degli eredi della famiglia Savoia e del rappresentante dell’UMI (Unione Monarchici Italiani), i quali si sono espressi in modo nettamente contrario ad una ipotesi di questo genere.

Evidentemente, l’iniziativa ha colto nel segno, e chi si oppone, al di là di paure e pregiudizi, forse non ha veramente a cuore la crescita consapevole del popolo sardo, che potrà esserci solo se prenderà coscienza della propria storia e delle vessazioni che ha subito nei secoli, non certo per ordire vendette senza senso, ma per ritrovare quell’orgoglio di popolo che vuole uscire con le proprie forze dalla condizione di dipendenza nella quale fino ad ora ha vissuto e di assumersi responsabilmente l’onore e l’onere delle decisioni riguardanti il proprio futuro.

Bibliografia

Bartezzaghi E. (2010). L’organizzazione d’impresa. Etas.

Mongili A. (2016). Carlo Felice e gli altri. www.sardegnasoprattutto.com/archives/10224

Sotgiu G. (1982). L’età dei Savoia. Brigaglia M. (a cura di). La Sardegna. Edizioni della Torre.

Steri C. (2011). Perchè il cambiamento ci fa tanta paura? http://caterinasteri.blog.tiscali.it/2011/10/27/perche-il-cambiamento-ci-fa-tanta-paura/

Weick K. E. (1995). Sensemaking in Organizations, Sage Publications (trad. it. Senso e significato nell’organizzazione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1997).
————————-
* By sardegnasoprattutto/ 13 giugno 2016/ Culture/

Alla ricerca di umanità perduta

Lutto per Orlando 13 6 16sedia di VannitolaLa sedia
di Vanni Tola

Strage di Orlando, in Florida. Un killer spara sui presenti in un locale pubblico, una cinquantina di morti e altrettanti feriti. Si segue la pista omofobica ma anche quella del terrorismo fondamentalista islamico.

Una di quelle notizie che non vorresti sentire ma che troppo spesso ci raggiungono. Come le guerre, i genocidi, le violenze sulle donne, le morti in mare o per fame di individui disperati. Questa volta il protagonista è un giovane di 29 anni, si chiama Omar Mateen, una guardia giurata che aveva con sé una pistola, un fucile mitragliatore d’assalto e dell’esplosivo. Perché lo ha fatto è difficile saperlo, le indagini seguono diverse piste. L’omofobia in quanto il locale pubblico preso di mira era frequentato dalla locale comunità gay. La pista terroristica per le noti simpatie dell’attentatore verso l’estremismo fondamentalista islamico. Altre motivazioni ancora da scoprire. Non dimentichiamo che in America è in corso una durissima campagna elettorale per la successione di Obama. Ci saranno indagini, ricerche, ricostruzioni della personalità dell’attentatore, analisi di esperti e di commentatori delle vicende di politica internazionale. Ma ciò che emerge al di là del rito delle indagini è la pericolosa deriva dei rapporti interpersonali che sono sempre più improntati alla prevaricazione violenta piuttosto che al confronto tra opinioni per giungere a soluzioni dei conflitti che siano accettabili e condivisibili. Le ragioni di stato, le ragioni di gruppi, di etnie, di centri di potere, di lobby internazionali che governano l’economia mondiale e le vicende del pianeta, ci allontanano sempre più dalla logiche del confronto democratico e rafforzano la tendenza a far valere le proprie opinioni e i propri diritti con la forza, la violenza, la guerra. Quando Papa Francesco dichiara, e lo ha fatto in più occasioni, che è in atto nel mondo la terza guerra mondiale, afferma qualcosa di estremamente realistico. Quando un raduno sportivo in Europa si trasforma in guerriglia fra gruppi che praticano una violenza inaudita contro altri individui che, sulla carta piuttosto che nella pratica politica, fanno parte della medesima Unione Europea. Quando si risponde ai problemi quali le migrazioni dei poveri e dei disperati del mondo erigendo barriere, resuscitando confini di filo spinato, tentando di classificare i disperati in artificiose graduatorie (profughi che scappano dalle guerre e dai genocidi migranti che fuggono da fame e miseria) e per farlo si da fiato alle becere teorie nazionaliste, alla ripresa degli egoismi localistici, alla intolleranza, al razzismo, significa che è in atto nel mondo una svolta autoritaria e fascista che non fa presagire niente di buono. Piangeremo ancora una volta i morti, i nostri morti, le vittime della violenza e della barbarie in qualunque parte del mondo. Ma tutto ciò non sarà sufficiente. Occorre ricostruire una nuova umanità, nuove regole democratiche fondate sul confronto, la tolleranza la lotta contro le ingiustizie e le discriminazioni per realizzare livelli superiori di convivenza pacifica contro i conflitti violenti e il pericolo di nuove guerre. Utopia? Forse. Ma pensiamo a quale altra potrebbe essere l’alternativa per l’Individuo, l’Umanità e il Mondo.

Oggi ci sentiamo in lutto ma la rabbia è tanta: basta odio, basta incitazione all’odio, basta fanatismo islamico, cattolico, ortodosso, ebraico, basta violenza!

Lutto per Orlando 13 6 16Comunicato del Movimento Omosessuale Sardo
La più grande strage della storia americana e la sua matrice è l’omofobia. Siamo sgomenti davanti a una tale tragedia e ancora di più per le motivazioni che hanno guidato il killer, ovvero che un bacio tra due gay potrebbe essere la molla che ha fatto scattare la rabbia: “Il movente religioso non c’entra nulla, ha visto due gay che si baciavano a Miami un paio di mesi fa ed era molto arrabbiato” dice il padre dell’assassino. Nello stesso momento “un uomo è stato arrestato a … Santa Monica, in California, diretto al Gay Pride di Los Angeles con un arsenale nella sua auto, tra cui alcuni fucili d’assalto ed esplosivi”. Molti di coloro che criticano i Pride dicono che ci sono problemi più urgenti a cui pensare: cosa c’è di più urgente della propria vita?? Cosa c’è di più urgente del diritto a vivere la propria vita e i propri affetti? L’ultima settimana è stata un bollettino di morte: in Italia una serie di donne uccise da ex che non accettavano il fatto di essere stati lasciati. Negli USA la più grande strage di persone omosessuali mai avvenuta. E, seppure fatti molto meno gravi, non ci dimentichiamo neanche dell’aggressione alle due ragazze che partecipavano al Roma Pride e ai due ragazzi di Quartu. Oggi ci sentiamo in lutto ma la rabbia è tanta: basta odio, basta incitazione all’odio, basta fanatismo islamico, cattolico, ortodosso, ebraico, basta violenza! Voi predicatori di odio, voi omofobi fondamentalisti, voi che tutti i giorni andate in piazza contro i diritti di gay, lesbiche e trans e per difendere il vostro diritto all’omofobia: siete VOI i responsabili di queste morti! E sabato prossimo scenderemo in piazza per urlarlo con tutto il fiato che abbiamo!
Manifestazione a Sassari Sabato 19 Giugno ore 16,30 Piazza Caduti del lavoro (corteo che si concluderà alle ore 21 con un concerto in piazza Tola)
—————————————————————————–
- Alla ricerca di umanità perduta. L’editoriale di Vanni Tola su Aladinews.

Manifestazione “Diritti al cuore”. Sassari si mobilita contro omofobia e razzismo

vt2 9 giu 16sedia di VannitolaLa sedia
di Vanni Tola

Grande mobilitazione in città per la nuova edizione della manifestazione “Diritti al cuore” promossa da 24 associazioni con l’obiettivo di stimolare la trasformazione delle coscienze per far crescere la consapevolezza che la diversità è parte integrante della natura umana, una risorsa preziosa da valorizzare. La manifestazione, nata nel 2009 e riproposta negli anni successivi, è nata per iniziativa di tre grandi movimenti: Il movimento LGBTQ (Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transgender, Queer), il Movimento delle Donne e quello antirazzista. Un appuntamento importante per richiamare l’attenzione sui diritti delle persone gay, lesbiche e trans ma anche sull’accoglienza dei migranti e il riconoscimento della cittadinanza, sulla lotta al sessismo e l’omofobia e agli stereotipi di genere. Una manifestazione per tutti che anche lo scorso anno ha fatto registrare una grande partecipazione dei cittadini di Sassari. Alla conferenza stampa di presentazione del programma delle manifestazioni previste ha partecipato l’onorevole Luigi Manconi affermando che “ il lavoro che porta verso l’esigibilità dei diritti è difficile e spesso anche contradditorio e non si deve pensare neanche per un attimo che l’affermazione e il rispetto di quei diritti siano concessi una volta per tutti, la convivenza è dolorosa e faticosa ma realizzabile e certamente preferibile a qualsiasi conflitto etnico a prescindere dalla sua portata”. L’iniziativa si articola in defferenti azioni. Si comincia il 14 giugno alle 17 nella sala Angioy della Provincia con il convegno “Vera accoglienza? Ch svilupperà il tema della accoglienza dei migranti. Si prosegue poi mercoledi 15 alle ore 17 nella stessa sede con l’incontro dibattito “Omofobia e sessismo, una questione di gender” con la partecipazione del filosofo Francesco Pivetta e di altri esponenti delle associazione promotrici, di studiosi e giornalisti. Ci sono poi gli spettacoli. Il 16 giugno alle ore 21 appuntamento in Largo Ittiri con lo spettacolo “Diritti al cabaret” con l’esibizione di drag queen e diverse performance teatrali. Sabato 18 giugno l’appuntamento più importante, la grande manifestazione per le vie cittadine con partenza alle ore 16,30 da piazza Caduti dl lavoro che si concluderà alle ore 21 con un concerto in piazza Tola. Una manifestazione da non perdere, una manifestazione per tutti, una occasione per manifestare in forma diretta il proprio impegno a sostegno dei diritti di tutti.
VT 1 9 6 16VT4 9 6 16
===========
Il Coordinamento della Manifestazione “Diritti al cuore” 2016 è composto da: Acos, Amnesty International, Anpi, Arci Sardegna, Asce, Ass.ne Franco Mura Onlus, Ass.ne Italia-Cuba, CGIL Sassari, Coordinamento LGBTQ Sardegna Pride, Cpo Comune di >Sassari, Emergency Sassari, FLC- CGIL Sassari, IRS, Le Ragazze Terribili, Associazione Culturale Movimento Omosessuale Sardo, Music&Movie, Nessun Dorma, Noi Donne 2005, Officine Musicali Sassari, Temperalapsus, Theatre en vol, UDU, Voce Amica, Zoe-Progetto antispecista Sassari.

… è difficile trovare parole per ciò che ci accade intorno, mi sono domandato spesso come avranno vissuto il dramma dell’olocausto i comuni cittadini che loro malgrado ne sono stati testimoni senza poter cambiare il corso della storia. Noi viviamo oggi la stessa situazione, purtroppo.

VT 4 6 16 unoVT 4 6 16 duesedia di VannitolaLa Sedia
di Vanni Tola

Un cimitero d’acqua per migliaia di persone. I corpi spiaggiati come balene che hanno perduto la rotta.

Ancora morti nel Mediterraneo. Notti insonni, risvegli all’alba. La paura di accendere la televisione e la radio sapendo che certamente è già accaduto o sta per accadere. L’ennesimo naufragio. Ieri i morti erano circa quattrocento, trecento individui “però” sono stati salvati. Oggi “soltanto” trecentocinquanta, molte donne e bambini. Però, cercano di rassicurare le autorità, il numero complessivo di sbarchi non è aumentato, sono aumentati “soltanto” i morti. Ieri il mare ha riportato sulla spiaggia i corpi di centinaia di donne e bambini. I governanti si incontreranno nuovamente, non ora e subito, ma soltanto a fine mese per programmare il niente, per continuare a disquisire sulla differenza tra disperati che fuggono dalle guerre e dalle persecuzioni di feroci dittature e altri disperati che fuggono “soltanto” da fame e miseria. Ci spiegano che i primi si chiamano “profughi” e vanno in qualche modo accolti e collocati da qualche parte, i secondi invece, vanno rispediti nei luoghi di provenienza dai quali sono fuggiti attraversando il deserto e poi il mare e riuscendo ad arrivare vivi sulle nostre spiagge. Ti senti male per rabbia e impotenza. La mente vorrebbe indirizzare lo sguardo altrove, rimuovere questo angosciante problema, indurci a pensare che, in fondo, non è colpa nostra, che non siamo anche noi responsabili di ciò che accade e delle vicende politiche, economiche e sociali che hanno determinato questa tragica migrazione. “Se questo è un uomo”, si domandava qualcuno in altro contesto comunque analogo. “Restiamo umani” diceva qualcun altro riferendosi ad altra analoga tragedia umanitaria. Diciamo alle nostre menti di non distogliere il pensiero indirizzandolo altrove, dirigiamo lo sguardo sulle drammatiche immagini che documentano ciò che accade e fissiamole nella nostra memoria. Operiamo con tutte le nostre forze per porre fine a questo sterminio. Guardiamo le foto dei corpi spiaggiati come balene che hanno perduto la rotta. Un giorno i nostri figli e i nostri nipoti ci domanderanno dove eravamo e che cosa abbiamo fatto per impedire che tutto ciò accadesse. E per allora dovremo avere una risposta da dare.
VT 4 6 16 treVT 4 6 16 quattro