Risultato della ricerca: Vanni Tola

Cosa penso della Riforma costituzionale. Parla il Prof. Alessandro Pace

democraziaoggiEcco un’interessante intervista al Prof. Alessandro Pace pubblicata in formiche.net e ripresa da molti siti web, ta i quali Democraziaoggi e Aladinews. Il Prof. Pace sarà a Cagliari giovedì 8 settembre per una Conferenza all’Hotel Regina Margherita (a partire dalle ore 17.30).

alessandro pace prof
Cosa penso della Riforma costituzionale. Parla il Prof. Alessandro Pace

La riforma della Costituzione è una cosa seria. Per questo è importante discuterne in modo approfondito. Ascoltare prima di tutto, le varie posizioni e le argomentazioni che vengono proposte. Di seguito propongo una lunga intervista con Alessandro Pace, professore emerito di Diritto Costituzionale e Presidente del Comitato per il No.

Prof. Pace, lei è il Presidente del Comitato per il No alla Riforma Costituzionale. Chi fa parte di questo comitato oltre a lei?

Giuristi come Gianni Ferrara, Lorenza Carlassare, Massimo Villone, Giuseppe Ugo Rescigno, Mauro Volpi, Gaetano Azzariti e Francesco Bilancia; magistrati come Domenico Gallo, Armando Spataro, Giovanni Palombarini e Nicola D’Angelo; sindacalisti come Alfiero Grandi e Mauro Beschi; ex parlamentari come Francesco Pardi, Vincenzo Vita, Giovanni Russo Spena. Successivamente si sono aggiunti ex giudici costituzionali come Franco Bile, Riccardo Chieppa, Gustavo Zagrebelsky e Paolo Maddalena; politologi come Gianfranco Pasquino, Michele Prospero, Nadia Urbinati e Maurizio Viroli; storici di discipline umanistiche come Nicola Tranfaglia, Luciano Canfora, Paul Ginsborg, Salvatore Settis, Marco Revelli e Tomaso Montanari; filosofi come Gianni Vattimo, Girolamo Cotroneo e Giuseppe Rocco Gembillo; fisici come Piergiogio Odifreddi, Giorgio Parisi e Giorgio Nebbia; registi cinematografici come Giuliano Montaldo e Citto Maselli; attori come Monica Guerritore, Toni Servillo e Moni Ovadia; un attore-autore come Dario Fo, e infine due sacerdoti impegnati nel sociale come don Luigi Ciotti e don Alex Zanotelli.

E cosa vi ha spinti a compiere questa scelta?

Ciò che ci ha spinti a questa scelta è stata la difesa dei principi della nostra Costituzione, che con questa riforma verrebbero travolti, in quanto essa va ben oltre alla modifica della seconda parte.

Secondo alcuni, i sostenitori del No sono dei conservatori. Persone che vorrebbero impedire che questo paese venga riformato. È così? Si ritrova in questa descrizione?

Niente affatto! Un filosofo indiano, Inayat Khan, molti anni fa, scrisse che non tutto quello che viene dopo, è progresso. E la riforma Boschi costituisce complessivamente un regresso rispetto alla Costituzione del 1947. E’ una riforma pasticciata: 1) perché i senatori, nella falsa ed infondata pretesa di rappresentare gli enti territoriali minori – che si potrebbe avere soltanto negli Stati federali – , svolgerebbero part-time sia le funzioni di consiglieri regionali o di sindaci, sia quelle di senatore, ancorché le funzioni del Senato siano notevoli e impegnative; 2) perché i tipi di procedimento legislativo, dagli attuali due, diventerebbero almeno otto, con notevoli rischi di contrasto tra Camera e Senato; 3) perché la distribuzione delle attribuzioni legislative tra Stato e Regioni, oltre ad essere fortemente sperequata a favore dello Stato, è piena di errori e di dimenticanze con riferimento anche a materie importanti; 4) perché, in prospettiva, grazie all’Italicum – che della riforma costituzionale ha costituito il perno -, il Presidente del Consiglio, con il Senato ridotto ad un ombra, avrebbe il dominio incontrastato dei deputati in parte da lui stesso nominati, con un implicito e strisciante ridimensionamento degli organi di garanzia.
- segue -

TTIP

TTIP-aladin-300x171 bissedia di VannitolaGrande vittoria del movimento internazionale contro il trattato intercontinentale TTIP. L’accordo salta, i potentati economici Usa e Europa non hanno raggiunto gli obiettivi previsti. Il premier Renzi, che si era dichiarato disponibile a sottoscrivere il Trattato dovrà farsene una ragione. Non credo tuttavia che la partita sia terminata, i sostenitori del TTIP torneranno alla carica. Chi volesse saperne di più troverà diversi articoli in www.aladinpensiero.it
- La Germania: “Fallito il negoziato tra Usa e Ue sul Ttip”
Il vice cancelliere Gabriel: «Non possiamo accettare supinamente le richiesta americane». Su La Stampa/Economia online.

Terremoto, come un film già visto

rieti_25ago_ore_08 1
sedia di VannitolaLa sedia
di Vanni Tola
La cronaca del terremoto, l’ennesimo in quelle aree, non ha bisogno di altri commenti. Prontamente i media ci hanno informato nel merito. E’ chiara in noi la gravità dell’accaduto, cresce il numero dei morti e dei feriti, aumenta vertiginosamente il numero dei senza tetto. Si muovono la macchina dei soccorsi e della protezione civile e il volontariato. Negli ospedali si registrano code per donare il sangue e la raccolta di aiuti e di denaro è attivata. Non è il momento delle polemiche e delle analisi ma quello della lotta per salvare vite, soccorrere i feriti e dare ospitalità e sostegno a chi non ha più un alloggio. Resta comunque netta la sensazione di rivedere un film già visto, qualcosa che abbiamo già vissuto in altre circostanze, in altre aree geografiche e con gli stessi drammatici problemi. Diventa quindi inevitabile cominciare a riflettere su alcune questioni fondamentali da approfondire ulteriormente quando la prima emergenza sarà superata. L’Italia è un paese con un alto tasso di pericolo sismico, un paese con vaste aree del territorio fortemente degradate e suscettibili di favorire catastrofi naturali di dimensioni considerevoli, si pensi alle frane e agli smottamenti diffusi. E’ evidente quindi che, pur evitando sterili polemiche e atteggiamenti demagogici poco produttivi, sia necessario riflettere seriamente per individuare valide linee guida per il governo del territorio e la massima protezione possibile dalle catastrofi. E’ vero che un terremoto non può essere previsto con assoluta certezza ma è anche vero che terremoti della stessa entità di quello in corso in questi giorni, in altre aree del pianeta fanno registrare un numero di morti molto esiguo e danni limitati. In un paese cosi esposto a eventi sismici, è inconcepibile che non si sia ancora pensato di estendere a tutte le nuove costruzioni, l’obbligo di adottare criteri costruttivi capaci di contenere l’impatto e i danni dei terremoti futuri che inevitabilmente accadranno. E’ inconcepibile che in nessuna città si pratichi la ristrutturazione ordinaria degli edifici antichi e il consolidamento dei monumenti dimenticando che qualunque edificio realizzato dall’uomo non può essere eterno, prima o poi subirà lesioni, cedimenti, crolli che produrranno danni per le vite umane e l’ambiente. La maggior parte dei Comuni non ha, nelle proprie commissioni edilizie, la figura del geologo e dell’esperto in sismi per garantire la massima sicurezza possibile almeno nelle nuove costruzioni e un’intelligente politica di recupero e consolidamento degli edifici vecchi. Occorre pensarci e agire di conseguenza. Sono necessari provvedimenti governativi che individuino concrete linee guida che vadano di là dell’emergenza. C’è poi da tenere sotto osservazione il meccanismo della raccolta dei fondi per i terremotati. La generosità della gente è sempre considerevole e di questo dobbiamo andare fieri. Ma è anche vero che troppe volte abbiamo assistito al fenomeno dei finanziamenti raccolti utilizzati con grave ritardo e in modo non sempre appropriato a causa dei meccanismi della burocrazia che si trova a dover gestire tale operazione di distribuzione degli aiuti finanziari. Anche in questo caso è necessario imparare dagli errori del passato. Le catastrofi naturali sono un qualcosa di relativamente imprevedibile, una fatalità con la quale convivere, ma sono anche fenomeni da controllare e, per quanto possibile, gestire in condizioni di massima sicurezza. La prevenzione dei rischi, un’attenta politica delle costruzioni di opere e infrastruttura, una politica di governo dei fenomeni naturali che interessano il territorio, sono quindi assolutamente indispensabili e prioritarie.
—————————–
norcia675
(Da Il Fatto quotidiano) Norcia esempio virtuoso, senza morti né feriti grazie alla “buona ricostruzione”
Il caso del comune umbro: senza vittime, nonostante sia a soli 17 km in linea d’aria dall’epicentro del sisma che ha provocato devastazioni tra le Marche e il Lazio. Qui le case sono state ricostruite, rispettando le disposizioni antisismiche, dopo i terremoti del 1979 e 1997. Il sismologo Boschi: “In Italia si costruisce con criteri antisismici solo dopo un terremoto grave”
di F. Q. | 24 agosto 2016
————————————-
Amatrice_distesa-macerie CNG
“(…) una realistica classificazione sismica del territorio nazionale, una pianificazione urbanistica una progettazione che segua i criteri antisismici non basta. Ma una delle condizioni fondamentali per la sicurezza del territorio è anche una “cultura diffusa” della prevenzione sismica, dal mondo politico ed istituzionale ai bambini delle scuole primarie”
Comunicato del Consiglio Nazionale dei Geologi
Tortorici: “In Italia in media un sisma di magnitudo superiore ai 6.3 ogni 15 anni”
“Sul nostro Pianeta, si verificano, in media, ogni anno, almeno un paio di terremoti distruttivi ed in Italia un sisma di magnitudo superiore a 6.3. ogni 15 anni in media. Ciò dovrebbe spingere ad una maggiore cultura della prevenzione sismica e della protezione civile”. Lo ha dichiarato Fabio Tortorici, Presidente della Fondazione Centro Studi del Consiglio Nazionale dei Geologi, commentando quanto sta accadendo in queste ore in Italia.
“È necessario un continuo aggiornamento delle mappe di pericolosità sismica del territorio nazionale – ha proseguito Tortorici – e per far ciò sarebbe indispensabile la presenza dei geologi in ogni comune, con una loro distribuzione accurata sul territorio e non lacunosa come allo stato attuale.
Gli studi di microzonazione sismica, cioè di suddivisione di un dato territorio in zone omogenee sotto il profilo della risposta a un terremoto di riferimento atteso, tenendo conto delle interazioni tra onde sismiche e condizioni geologiche, topografiche e geotecniche locali, hanno dato i loro risultati; infatti, i fabbricati realizzati dopo l’entrata in vigore delle nuove Norme Tecniche sulle Costruzioni (NTC) del 2008, hanno meglio resistito alla scossa di questa notte.
La microzonazione sismica ha una importante dimensione “sociale”, perché la conoscenza delle risposte dei vari siti è una condizione imprescindibile per prendere decisioni di governo del territorio. I risultati sono di grande utilità nella: pianificazione territoriale e urbanistica (per orientare la scelta di nuovi insediamenti e infrastrutture, per definire le priorità degli interventi sull’esistente); questo tipo di studi sono il futuro della geologia sismica e della prevenzione dai terremoti.
Ma una realistica classificazione sismica del territorio nazionale, una pianificazione urbanistica una progettazione che segua i criteri antisismici non basta. Ma una delle condizioni fondamentali per la sicurezza del territorio è anche una “cultura diffusa” della prevenzione sismica, dal mondo politico ed istituzionale ai bambini delle scuole primarie”
.
——————————
Amatrice particolare di dipinto Madonna in trono
Citta’ di Amatrice- Lazio-Italy
Dal sito fb Fan di Philippe Daverio
<< Amatrice è la città delle cento chiese, tanti sono i luoghi di culto presenti sul territorio del comune reatino. Dal 2015 è entrata a far parte del Club "I borghi più belli d'Italia per il suo patrimonio storico architettonico che comprende monumenti romani, barocchi e rinascimentali, tra cui vanno ricordate: la Torre civica risalente al XIII secolo e le torri campanarie risalenti al quattrocento della chiesa Sant'Emidio e della chiesa di Sant'Agostino, la chiesa di San Francesco della seconda metà del Trecento con un portale gotico di marmo e contenente nell'abside affreschi del XV secolo, e quella di Santa Maria di Porta Ferrata. Amatrice deve la sua gloria gastronomica ad una tradizione antica; elemento fondante della sua scuola erano e sono le qualità degli ingredienti primari: la carne di primissimo livello, grazie ai pascoli abbondanti dei Monti della Laga, i formaggi conseguenti >> (Nella foto: particolare dell’affresco della Madonna in trono con bambino benedicente)
———————–
Emergenza sisma
emergenza sisma ONG

Terremoto, come un film già visto

emergenza sisma ONGsedia di VannitolaLa sedia
di Vanni Tola
La cronaca del terremoto, l’ennesimo in quelle aree, non ha bisogno di altri commenti. Prontamente i media ci hanno informato nel merito. E’ chiara in noi la gravità dell’accaduto, cresce il numero dei morti e dei feriti, aumenta vertiginosamente il numero dei senza tetto. Si muovono la macchina dei soccorsi e della protezione civile e il volontariato. Negli ospedali si registrano code per donare il sangue e la raccolta di aiuti e di denaro è attivata. Non è il momento delle polemiche e delle analisi ma quello della lotta per salvare vite, soccorrere i feriti e dare ospitalità e sostegno a chi non ha più un alloggio. Resta comunque netta la sensazione di rivedere un film già visto, qualcosa che abbiamo già vissuto in altre circostanze, in altre aree geografiche e con gli stessi drammatici problemi. Diventa quindi inevitabile cominciare a riflettere su alcune questioni fondamentali da approfondire ulteriormente quando la prima emergenza sarà superata. L’Italia è un paese con un alto tasso di pericolo sismico, un paese con vaste aree del territorio fortemente degradate e suscettibili di favorire catastrofi naturali di dimensioni considerevoli, si pensi alle frane e agli smottamenti diffusi. E’ evidente quindi che, pur evitando sterili polemiche e atteggiamenti demagogici poco produttivi, sia necessario riflettere seriamente per individuare valide linee guida per il governo del territorio e la massima protezione possibile dalle catastrofi. E’ vero che un terremoto non può essere previsto con assoluta certezza ma è anche vero che terremoti della stessa entità di quello in corso in questi giorni, in altre aree del pianeta fanno registrare un numero di morti molto esiguo e danni limitati. In un paese cosi esposto a eventi sismici, è inconcepibile che non si sia ancora pensato di estendere a tutte le nuove costruzioni, l’obbligo di adottare criteri costruttivi capaci di contenere l’impatto e i danni dei terremoti futuri che inevitabilmente accadranno. E’ inconcepibile che in nessuna città si pratichi la ristrutturazione ordinaria degli edifici antichi e il consolidamento dei monumenti dimenticando che qualunque edificio realizzato dall’uomo non può essere eterno, prima o poi subirà lesioni, cedimenti, crolli che produrranno danni per le vite umane e l’ambiente. La maggior parte dei Comuni non ha, nelle proprie commissioni edilizie, la figura del geologo e dell’esperto in sismi per garantire la massima sicurezza possibile almeno nelle nuove costruzioni e un’intelligente politica di recupero e consolidamento degli edifici vecchi. Occorre pensarci e agire di conseguenza. Sono necessari provvedimenti governativi che individuino concrete linee guida che vadano di là dell’emergenza. C’è poi da tenere sotto osservazione il meccanismo della raccolta dei fondi per i terremotati. La generosità della gente è sempre considerevole e di questo dobbiamo andare fieri. Ma è anche vero che troppe volte abbiamo assistito al fenomeno dei finanziamenti raccolti utilizzati con grave ritardo e in modo non sempre appropriato a causa dei meccanismi della burocrazia che si trova a dover gestire tale operazione di distribuzione degli aiuti finanziari. Anche in questo caso è necessario imparare dagli errori del passato. Le catastrofi naturali sono un qualcosa di relativamente imprevedibile, una fatalità con la quale convivere, ma sono anche fenomeni da controllare e, per quanto possibile, gestire in condizioni di massima sicurezza. La prevenzione dei rischi, un’attenta politica delle costruzioni di opere e infrastruttura, una politica di governo dei fenomeni naturali che interessano il territorio, sono quindi assolutamente indispensabili e prioritarie.
—————————–
norcia675
(Da Il Fatto quotidiano) Norcia esempio virtuoso, senza morti né feriti grazie alla “buona ricostruzione”
Il caso del comune umbro: senza vittime, nonostante sia a soli 17 km in linea d’aria dall’epicentro del sisma che ha provocato devastazioni tra le Marche e il Lazio. Qui le case sono state ricostruite, rispettando le disposizioni antisismiche, dopo i terremoti del 1979 e 1997. Il sismologo Boschi: “In Italia si costruisce con criteri antisismici solo dopo un terremoto grave”
di F. Q. | 24 agosto 2016

Sabato 20 agosto 2016

vanni 19 8 16Logo_Aladin_Pensieroaladin-lampada-di-aladinews312sardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413. .
giglio1

Giovedì 4 agosto 2016

Logo_Aladin_Pensieroaladin-lampada-di-aladinews312sardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413. .
panorama fto vanni tola foto Vanni Tola

Auscwitz

imagesedia di VannitolaL’avvenimento più importante della visita del Papa ad Auscwitz, una visita silenziosa, nessun discorso, parlano le immagini e le espressioni del volto di Francesco. Ha lasciato una sola frase nel libro dei visitatori. Ha scritto, nella sua lingua: ” Signore, perdona tanta crudeltà”. Durante la giornata il Papa ha poi espresso altre considerazioni. – segue

Salviamo i bambini

imagesedia di VannitolaLe vicenda della bambina “dimenticata” in macchina dalla madre rappresenta un aspetto non marginale per comprendere che società “civile” ci siamo realizzati attorno. Siamo soltanto dei produttori di lavoro e dei consumatori ai quali vendere i prodotti. Siamo sempre meno individui, persone con bisogni, con sentimenti, con diritti naturali inalienabili. Persone che meritano di vivere una vita in condizioni dignitose e gratificanti per la nostra stessa natura umana. Le donne sono costrette a lavorare durante la gravidanza (quando non vengono discriminate o allontanate dal lavoro per questa loro condizione). Le donne devono tornare a lavorare immediatamente dopo il parto pur non essendoci servizi sociali adeguati a sostenere la cura dei bambini. Al mattino è facile vedere in città bambini anche molto piccoli, ancora assonnati, sballottati da una parte all’altra, in cerca di “parcheggio” da genitori pressati dall’esigenza di raggiungere rapidamente il posto di lavoro. E i luoghi di “parcheggio”, mancando quasi totalmente i servizi sociali, sono solitamente le case dei nonni (quando possibile) e, raramente, asili nido o servizi analoghi. Poi tutti a piangere sul calo delle nascite e sulle conseguenza negative che si riversano su giovani vite necessariamente “trascurate” nella fase più importante e delicata della propria esistenza, quale è la primissima infanzia. Pubblichiamo una riflessione dell’amica Claudia Crabuzza che condividiamo interamente. (V. T)
———–
L’incidente capitato pochi giorni fa, di nuovo, a una mamma che è andata a lavorare dimenticando la bimba di un anno e mezzo in auto, è spiegabile molto semplicemente. Non c’è nulla di misterioso né di raro. È una tragica evidenza di come la vita che abbiamo costruito e che inseguiamo e che insegniamo sia del tutto sbagliata. Da ripensare completamente.
Bisogna avere il coraggio di dire che non è giusto trovarsi a correre subito dopo la nascita di un figlio, per non perdere il lavoro o per paura di trovarsi scavalcate, o lasciate indietro. Non è un paese civile questo che non offre altra scelta che mettere un bambino di pochi mesi al nido per tutta la giornata. Bisogna pretendere che questo non sia necessario.
Ma bisogna anche smuovere profondamente la nostra coscienza di donne, bisogna che smettiamo di raccontarci che partorire e tornare al lavoro nel giro di pochi mesi sia giusto e necessario. Conosco molte donne e amiche che l’hanno fatto, sostenute da una cultura comune che dice che non ci sia niente di sbagliato, pure obbligate da condizioni che non prevedono alternative. Hanno rinunciato ad allattare perché tornando al lavoro sarebbe impossibile, e ancora molti pediatri sostengono che non cambia nulla, anzi forse è meglio il latte artificiale, è più completo, dicono.
Quando si ha un figlio invece l’unica cosa che si deve fare è andare al suo ritmo, fare in modo che altri si occupino di questioni meno importanti, come la casa e la spesa. Recuperare la forma e le forze col tempo che ci vuole, e spesso non è una cosa rapida perché un bambino magari non dorme di notte e ti sembra di impazzire, o perché i tuoi ormoni non vogliono rimettersi in ordine e la stanchezza non passa. Bisogna lasciare che il piccolo inizi a mangiare quando ha il desiderio di farlo, lasciandogli a disposizione il seno materno per tutto il tempo che gli serve.
L’idea che le donne debbano disporre del proprio corpo è valida sino a che un bambino non arriva ed impone il suo di corpo e di bisogno. Certo, ogni madre può scegliere quanto dare, ma è la percezione che non cambi nulla che è sbagliata. Dovrebbe fare le proprie scelte, ogni donna, valutando quale sia la soluzione più adatta a se stessa, però mantenendo la consapevolezza di quanto sta togliendo al proprio figlio.

Un bambino di un anno e mezzo, per come la vedo io, dovrebbe stare ancora a casa con sua mamma. Sopratutto sinché la mamma non si sente completamente pronta.
La mia non è una critica a quella madre, che avrà già dolore a sufficienza per il resto dei suoi giorni anche con tutta la mia comprensione, né alle donne che non hanno tenuto con sé i figli per almeno due o tre anni. La mia è una critica al sistema sociale che non protegge chi fa alla società il dono più grande, i propri figli. Mentre in molti paesi europei non solo la maternità è coperta sino a tre anni e le facilitazioni sono numerose e permettono di lavorare un numero di ore adatto a chi ha messo al mondo dei bambini, ma il proprio valore lavorativo non viene messo in discussione dalla quantità di assenza dal posto di lavoro.
La mia è una critica alla cultura imperante che trasforma i bambini in un ingranaggio del mercato da quando nascono, sotto il segno della fretta, in nome di una malintesa libertà femminile che non rende libere ma semmai schiave. Perché togliere attenzione e tempo al momento in cui si costruiscono le fondamenta dell’esistenza dei bambini significa crescere ragazzi meno stabili, più bisognosi quando invece dovrebbero diventare indipendenti, prolungando all’infinito il momento dell’emancipazione dalla madre e della madre dai figli. Senza contare il danno emotivo e di salute nell’accorciare il tempo dell’allattamento, o non cominciarlo nemmeno.

Basterebbe guardare agli animali per tornare a una visione più umana e più compatibile con le nostre possibilità. Siamo animali, siamo fragili, non possiamo fare finta di essere altro. Di certo non siamo macchine, e non lo sono i bambini.

Cattolici per il NO: NO alla democrazia dimezzata

comitato-no-logo-okEcco l’appello dei CATTOLICI DEL NO NEL REFERENDUM COSTITUZIONALE; dicono NO alla democrazia dimezzata (pubblicato dal Coordinamento Democrazia Costituzionale · in DOCUMENTI). ·

La posta in gioco tra il Sì e il No nel prossimo referendum costituzionale non è il Senato ma è l’abbandono della Costituzione vigente e la sua sostituzione con un sistema di democrazia dimezzata in cui i valori e i diritti riconosciuti nella prima parte della Carta, da cui dipendono la vita, la salute e la possibile felicità del cittadini, sarebbero isolati e neutralizzati per lasciare libero campo al potere del denaro e delle sue istituzioni nazionali e sovranazionali.
Questo, col supporto di una legge elettorale congegnata per dare tutto il potere a un solo partito, è il disegno delle riforme istituzionali oggi sottoposte al popolo come nuove, ma concepite da vecchi politici, nostalgici dei modi spicciativi di governo di un lontano passato.
Mettendo mano alla Costituzione questi politici vogliono riaprire vecchie questioni di democrazia risolte da tempo e da cui non si può tornare indietro: divisione dei poteri, sovranità popolare, fiducia parlamentare ai governi senza vincolo di disciplina di partito, libertà e diritti sottratti all’arbitrio dei poteri, anche se espressi dalle maggioranze. Si sarebbero dovute fare al contrario riforme rivolte al futuro, a partire dalla domanda sul perché i diritti al lavoro e a condizioni economiche e sociali che non impediscano il pieno sviluppo della persona umana, pur sanciti in Costituzione, non si sono mai realizzati, e non certo per colpa solo del Senato. È questa domanda, non quella sul numero dei senatori, che avrebbe risvegliato la coscienza pubblica, a cominciare dai giovani oggi così disperati, e curato la piaga sociale dell’assenteismo e dell’indifferenza.
La Costituzione è un bene comune e, pur provenendo ciascuno da parti diverse, comune deve essere la battaglia di uomini e donne per la sua cura e la sua difesa, ognuno lottando però con i suoi colori e con le sue bandiere. I cristiani già altre volte, in momenti cruciali della storia della Repubblica, sono stati determinanti con le loro scelte nei referendum per un avanzamento della democrazia e della laicità e per tenere aperta la via di vere riforme.
Oggi come cattolici ci sentiamo di nuovo chiamati a votare NO alle spinte restauratrici, e così ci saranno dei “Cattolici del NO” in questo referendum. Allo stesso modo speriamo nell’impegno di molti altri cristiani di ogni denominazione e confessione.
Ugualmente voteranno NO moltissimi che cristiani o credenti non sono, magari anche più motivati e determinati di noi. Ma noi, che pur non siamo soliti nominare la fede nella lotta politica, questa volta diciamo NO proprio come cattolici, rispettando in ogni caso quanti saranno spinti da motivazioni diverse.Prima di tutto votiamo NO per una questione di giustizia. Se, nel suo significato più elementare, la giustizia è “la correttezza di una pesata eguale”, lo scambio che ci viene proposto, di dar via metà della Costituzione per avere in cambio ancora Renzi al potere, non è giusto. Renzi e la Costituzione non hanno lo stesso peso, e mentre il primo non ci è costato niente (non lo abbiamo nemmeno eletto) la Costituzione ci è costata molto, in pensiero e martiri anche nostri. Perciò, come voto di scambio, Renzi contro la Costituzione è uno scambio ineguale.
Di conseguenza se in questo gioco d’azzardo con la Costituzione Renzi, perdendo, vorrà lasciare il potere, ce ne faremo una ragione. Ma avremo salvato l’idea che ci vuole un minimo d’equità anche in un baratto.
In secondo luogo votiamo NO per una questione di verità. Non è vero che la Costituzione vigente è vecchia, tant’è che da vent’anni si cerca di cambiarla. Vero è che da vent’anni essa resiste, anche grazie a imponenti voti popolari. Vecchia è invece la proposta Costituzione nuova, che dà più potere al potere e meno potere ai cittadini, in ciò tornando allo Statuto albertino concesso dal re e finito in Mussolini.
Ma è un’illusione che dia più potere a Renzi e alla Boschi, che già conosciamo; in realtà darà più potere e forza esecutiva a uno di quei mangiapopoli arruffoni e razzisti che oggi circolano in Europa e che facilmente, col marketing delle agenzie pubblicitarie e dei telefonini scambiati per modernità, potrà insediarsi a palazzo Chigi e nei 340 seggi di replicanti assegnatigli per legge nella Camera residua, con tutti i poteri compreso il diritto di guerra. Non è vero che con la nuova Costituzione si ridurranno i costi della politica.
I deputati restano 630, le spese delle province ricadranno su altri enti, il Senato rimane a gravare sul bilancio pubblico col suo palazzo e tutto il suo apparato, anche se viene ridotto ad un club nobiliare per consiglieri regionali e sindaci che passeranno a Roma uno o due giorni alla settimana (sicché il Senato sarà il primo Ufficio Pubblico a brillare per l’assenteismo del suo personale).
In terzo luogo votiamo no per una questione di patriottismo costituzionale. Consideriamo la Costituzione la nostra Patria, sia come cittadini che come cattolici. Come cittadini temiamo che il crollo dell’architettura della Repubblica causato dalla ristrutturazione in corso travolga anche i diritti e i valori fondamentali. Come cattolici ci sentiamo figli della Costituzione perché, benché inattuata, mette al di sopra di tutto la persona umana e perché fa del lavoro, che una volta era considerato il compito abbrutente del servo, il fondamento stesso della Repubblica e il diritto col quale sta o cade la dignità del cittadino.
Infine votiamo NO per coerenza storica. Per secoli si è chiesto alla Chiesa di riconoscere la sovranità del diritto e la divisione dei poteri, e sarebbe assurdo che proprio ora che il papa le ha solennemente proclamate all’ONU, i cattolici italiani ne abbandonassero la difesa per tornare a quella vecchia, decrepita, infausta cosa che è l’uomo solo al comando e tutti gli altri a dire di sì. Ma coerenza storica ci impone di votare no anche perché i cattolici in Italia hanno messo il meglio di sé nella Costituzione repubblicana. È la cosa migliore che hanno fatto nel Novecento. Dopo la scelta antiunitaria e revanscista della questione romana, dopo la sconfitta del Partito popolare, dopo l’acquiescenza al fascismo, e grazie alla partecipazione alla Resistenza, la Costituzione è stato il dono più alto che i cattolici, certo non da soli, hanno fatto all’Italia. Ora si dovrebbe cambiarla per portarla su posizioni più avanzate (più diritti, più sicurezza sociale, lavoro, cultura, più garanzie contro la cattiva “governabilità” e l’arroganza della politica), non certo sfasciarla.
Queste sono le ragioni, laiche e sacrosante, del nostro NO alla rottamazione costituzionale. Fatto a Roma il 21 gennaio 2016, dopo l’approvazione in seconda lettura della nuova Costituzione da parte del Senato, senza i due terzi dei voti.
Seguono i primi firmatari.

Votalela!

La barca di Vanni Tola lug2016Votate la foto di Vanni: https://a.cstmapp.com/voteme/14329/618174542

Fabrizio De Andrè

De Andre' Piano Tempiosedia di VannitolaVi mostro soltanto una foto per non togliervi il piacere di scoprire personalmente l’opera di Renzo Piano per ricordare Fabrizio De Andrè.

C’è qualcosa di stantio e ferocemente arcaico nelle immagini che arrivano dalla Turchia dopo il tentato golpe

sedia di VannitolaLa sedia
di Vanni Tola

Turchia – Intervento di Dacia Maraini (Corriere della Sera).
Dacia Maraini fto microEra vero golpe o poco più di una drammatica messa in scena per rafforzare il potere di Erdogan ed eliminare radicalmente l’opposizione al regime e la resistenza democratica? Troppo presto per affermarlo con certezza. Molto interessante, fra i tanti commenti degli osservatori, quanto scrive Dacia Maraini sul Corriere della Sera. “C’è qualcosa di stantio e ferocemente arcaico nelle immagini che arrivano dalla Turchia dopo il tentato golpe”. Il riferimento è alle numerose immagini di brutali repressioni, alle punizioni corporali impartite dai miliziani del regime nelle piazze a favore di telecamera. Indubbiamente le immagini di uomini seminudi seduti per terra o sdraiati sul pavimento con le mani legate dietro la schiena fanno rabbrividire. Non di ritorno all’ordine costituito si tratta bensì di grave e palese violazione delle più elementari regole democratiche e di violazione dei diritti fondamentali dell’individuo. La Maraini fa notare che è in atto una formidabile operazione di repressione dell’opposizione realizzata attraverso lo strumento della vendetta che si erge a giustiziera e, giustamente, si domanda: “Ma la vendetta può chiamarsi giustizia?”. La vendetta del sistema utilizzata come vendetta purificatrice che dovrebbe rilanciare l’autorità del Capo con punizioni esemplari è ciò che sta accadendo in un paese che costituisce un pilastro dell’Alleanza Atlantica e che ambisce a diventare un paese dell’Unione Europea, per la quale svolge dei compiti importanti relativamente alla vicenda dei flussi migratori. Un argomento di fondamentale importanza, sostiene la Maraini, che segna il confine tra storia antica e storia moderna che è rappresentato dalla capacità di separare la giustizia dalla vendetta. La vendetta, in tutta la sua brutalità si ripropone sempre come il modo più rapido per rivalersi sul nemico, per ripagare oltraggi e offese subite. La storia del passato, le guerre realizzate in nome di vendette nazionali e diversi altri vicende umane degli ultimi secoli, hanno fatto maturare la convinzione che è fondamentale separare la giustizia dalla vendetta. La giustizia che risponde alle leggi, ai codici, al diritto degli accusati di avere giudizi imparziali da giudici il cui unico scopo deve essere quello di applicare la legge ignorando qualsiasi proposito di vendetta. In Turchia tutto ciò passa in secondo ordine, prevale invece il recupero dell’idea di vendetta che si spinge perfino nell’ipotizzare il ritorno alla pena capitale pur sapendo che tale scelta metterebbe la parola fine alle trattative per includere tale paese nell’Unione Europea. C’è poi un’altra considerazione che Dacia Maraini pone in evidenza, la questione delle donne in Turchia. Nelle immagini terribili della repressione anti golpe colpisce la totale assenza di figure femminili quasi come se Erdogan ritenesse la vendetta “una questione squisitamente maschile”. In un paese nel quale le donne studiano, lavorano, guidano l’auto, intervengono in dibattiti pubblici non vi è traccia di presenza femminile né tra gli arrestati né tra chi è sceso in piazza per sostenere il vecchio regime. E’ possibile che le donne turche siano state tutte messe a tacere o sta passando qualcosa di altro che tende a relegare ancora una volta la donna in un ruolo marginale e secondario nella società turca? In questo senso la Maraini afferma che: “c’è qualcosa di stantio e ferocemente arcaico in queste punizioni plateali che devono servire come esempio”. Lo scontro appare essere tra la condanna del mondo moderno caratterizzato dalla libertà di critica, dalla libertà sessuale, e di religione e, per contro, l’uso degli strumenti della modernità (soprattutto dei Media) per riaffermare le proprie ragioni. “Il massimo della spregiudicatezza tecnologica si sposa con il massimo dell’arcaismo storico. Per chi crede nei diritti dell’essere umano, sono forme di schizofrenia storica. Una malattia della fede e della memoria, una peste della ragione”. La questione turca diventa quindi anche un importante banco di prova per difendere, proteggere e tutelare conquiste fondamentali dalla società certamente irrinunciabili.
———————
- Per correlazione: Iniziativa sulla Turchia al Circolo ME-TI

Ricordando Paolo Borsellino insieme con Emanuela Loi e gli altri agenti della sua scorta. La forza delle Parole

Borsellino 19 lug 2016“Grazie caro papà”
di Manfredi Borsellino, da fb

Il primo pomeriggio di quel 23 maggio studiavo a casa dei miei genitori, preparavo l’esame di diritto commerciale, ero esattamente allo “zenit” del mio percorso universitario. Mio padre era andato, da solo e a piedi, eludendo come solo lui sapeva fare i ragazzi della scorta, dal barbiere Paolo Biondo, nella via Zandonai, dove nel bel mezzo del “taglio” fu raggiunto dalla telefonata di un collega che gli comunicava dell’attentato a Giovanni Falcone lungo l’autostrada Palermo-Punta Raisi.
Ricordo bene che mio padre, ancora con tracce di schiuma da barba sul viso, avendo dimenticato le chiavi di casa bussò alla porta mentre io ero già pietrificato innanzi la televisione che in diretta trasmetteva le prime notizie sull’accaduto. Aprii la porta ad un uomo sconvolto, non ebbi il coraggio di chiedergli nulla né lui proferì parola.

Si cambiò e raccomandandomi di non allontanarmi da casa si precipitò, non ricordo se accompagnato da qualcuno o guidando lui stesso la macchina di servizio, nell’ospedale dove prima Giovanni Falcone, poi Francesca Morvillo, gli sarebbero spirati tra le braccia. Quel giorno per me e per tutta la mia famiglia segnò un momento di non ritorno. Era l’inizio della fine di nostro padre che poco a poco, giorno dopo giorno, fino a quel tragico 19 luglio, salvo rari momenti, non sarebbe stato più lo stesso, quell’uomo dissacrante e sempre pronto a non prendersi sul serio che tutti conoscevamo.

Ho iniziato a piangere la morte di mio padre con lui accanto mentre vegliavamo la salma di Falcone nella camera ardente allestita all’interno del Palazzo di Giustizia. Non potrò mai dimenticare che quel giorno piangevo la scomparsa di un collega ed amico fraterno di mio padre ma in realtà è come se con largo anticipo stessi già piangendo la sua.
Dal 23 maggio al 19 luglio divennero assai ricorrenti i sogni di attentati e scene di guerra nella mia città ma la mattina rimuovevo tutto, come se questi incubi non mi riguardassero e soprattutto non riguardassero mio padre, che invece nel mio subconscio era la vittima. Dopo la strage di Capaci, eccetto che nei giorni immediatamente successivi, proseguii i miei studi, sostenendo gli esami di diritto commerciale, scienze delle finanze, diritto tributario e diritto privato dell’economia. In mio padre avvertivo un graduale distacco, lo stesso che avrebbero percepito le mie sorelle, ma lo attribuivo (e giustificavo) al carico di lavoro e di preoccupazioni che lo assalivano in quei giorni. Solo dopo la sua morte seppi da padre Cesare Rattoballi che era un distacco voluto, calcolato, perché gradualmente, e quindi senza particolari traumi, noi figli ci abituassimo alla sua assenza e ci trovassimo un giorno in qualche modo “preparati” qualora a lui fosse toccato lo stesso destino dell’amico e collega Giovanni.

La mattina del 19 luglio, complice il fatto che si trattava di una domenica ed ero oramai libero da impegni universitari, mi alzai abbastanza tardi, perlomeno rispetto all’orario in cui solitamente si alzava mio padre che amava dire che si alzava ogni giorno (compresa la domenica) alle 5 del mattino per “fottere” il mondo con due ore di anticipo. In quei giorni di luglio erano nostri ospiti, come d’altra parte ogni estate, dei nostri zii con la loro unica figlia, Silvia, ed era proprio con lei che mio padre di buon mattino ci aveva anticipati nel recarsi a Villagrazia di Carini dove si trova la residenza estiva dei miei nonni materni e dove, nella villa accanto alla nostra, ci aveva invitati a pranzo il professore “Pippo” Tricoli, titolare della cattedra di Storia contemporanea dell’Università di Palermo e storico esponente dell’Msi siciliano, un uomo di grande spessore culturale ed umano con la cui famiglia condividevamo ogni anno spensierate stagioni estive.

Mio padre, in verità, tentò di scuotermi dalla mia “loffia” domenicale tradendo un certo desiderio di “fare strada” insieme, ma non ci riuscì. L’avremmo raggiunto successivamente insieme agli zii ed a mia madre. Mia sorella Lucia sarebbe stata impegnata tutto il giorno a ripassare una materia universitaria di cui avrebbe dovuto sostenere il relativo esame il giorno successivo (cosa che fece!) a casa di una sua collega, mentre Fiammetta, come è noto, era in Thailandia con amici di famiglia e sarebbe rientrata in Italia solo tre giorni dopo la morte di suo padre.
Non era la prima estate che, per ragioni di sicurezza, rinunciavamo alle vacanze al mare; ve ne erano state altre come quella dell’85, quando dopo gli assassini di Montana e Cassarà eravamo stati “deportati” all’Asinara, o quella dell’anno precedente, nel corso della quale mio padre era stato destinatario di pesanti minacce di morte da parte di talune famiglie mafiose del trapanese. Ma quella era un’estate particolare, rispetto alle precedenti mio padre ci disse che non era più nelle condizioni di sottrarsi all’apparato di sicurezza cui, soprattutto dolo la morte di Falcone, lo avevano sottoposto, e di riflesso non avrebbe potuto garantire a noi figli ed a mia madre quella libertà di movimento che negli anni precedenti era riuscito ad assicurarci.

Così quell’estate la villa dei nonni materni, nella quale avevamo trascorso sin dalla nostra nascita forse i momenti più belli e spensierati, era rimasta chiusa. Troppo “esposta” per la sua adiacenza all’autostrada per rendere possibile un’adeguata protezione di chi vi dimorava. Ricordo una bellissima giornata, quando arrivai mio padre si era appena allontanato con la barchetta di un suo amico per quello che sarebbe stato l’ultimo bagno nel “suo” mare e non posso dimenticare i ragazzi della sua scorta, gli stessi di via D’Amelio, sulla spiaggia a seguire mio padre con lo sguardo e a godersi quel sole e quel mare.
Anche il pranzo in casa Tricoli fu un momento piacevole per tutti, era un tipico pranzo palermitano a base di panelle, crocché, arancine e quanto di più pesante la cucina siciliana possa contemplare, insomma per stomaci forti. Ricordo che in Tv vi erano le immagini del Tour de France ma mio padre, sebbene fosse un grande appassionato di ciclismo, dopo il pranzo, nel corso del quale non si era risparmiato nel “tenere comizio” come suo solito, decise di appisolarsi in una camera della nostra villa. In realtà non dormì nemmeno un minuto, trovammo sul portacenere accanto al letto un cumulo di cicche di sigarette che lasciava poco spazio all’immaginazione.

Dopo quello che fu tutto fuorché un riposo pomeridiano mio padre raccolse i suoi effetti, compreso il costume da bagno (restituitoci ancora bagnato dopo l’eccidio) e l’agenda rossa della quale tanto si sarebbe parlato negli anni successivi, e dopo avere salutato tutti si diresse verso la sua macchina parcheggiata sul piazzale limitrofo le ville insieme a quelle della scorta. Mia madre lo salutò sull’uscio della villa del professore Tricoli, io l’accompagnai portandogli la borsa sino alla macchina, sapevo che aveva l’appuntamento con mia nonna per portarla dal cardiologo per cui non ebbi bisogno di chiedergli nulla. Mi sorrise, gli sorrisi, sicuri entrambi che di lì a poche ore ci saremmo ritrovati a casa a Palermo con gli zii.
Ho realizzato che mio padre non c’era più mentre quel pomeriggio giocavo a ping pong e vidi passarmi accanto il volto funereo di mia cugina Silvia, aveva appena appreso dell’attentato dalla radio. Non so perché ma prima di decidere il da farsi io e mia madre ci preoccupammo di chiudere la villa. Quindi, mentre affidavo mia madre ai miei zii ed ai Tricoli, sono salito sulla moto di un amico d’infanzia che villeggia lì vicino ed a grande velocità ci recammo in via D’Amelio.

Non vidi mio padre, o meglio i suoi “resti”, perché quando giunsi in via D’Amelio fui riconosciuto dall’allora presidente della Corte d’Appello, il dottor Carmelo Conti, che volle condurmi presso il centro di Medicina legale dove poco dopo fui raggiunto da mia madre e dalla mia nonna paterna. Seppi successivamente che mia sorella Lucia non solo volle vedere ciò che era rimasto di mio padre, ma lo volle anche ricomporre e vestire all’interno della camera mortuaria. Mia sorella Lucia, la stessa che poche ore dopo la morte del padre avrebbe sostenuto un esame universitario lasciando incredula la commissione, ci riferì che nostro padre è morto sorridendo, sotto i suoi baffi affumicati dalla fuliggine dell’esplosione ha intravisto il suo solito ghigno, il suo sorriso di sempre; a differenza di quello che si può pensare mia sorella ha tratto una grande forza da quell’ultima immagine del padre, è come se si fossero voluti salutare un’ultima volta.

La mia vita, come d’altra parte quella delle mie sorelle e di mia madre, è certamente cambiata dopo quel 19 luglio, siamo cresciuti tutti molto in fretta ed abbiamo capito, da subito, che dovevamo sottrarci senza “se” e senza “ma” a qualsivoglia sollecitazione ci pervenisse dal mondo esterno e da quello mediatico in particolare. Sapevamo che mio padre non avrebbe gradito che noi ci trasformassimo in “familiari superstiti di una vittima della mafia”, che noi vivessimo come figli o moglie di …, desiderava che noi proseguissimo i nostri studi, ci realizzassimo nel lavoro e nella vita, e gli dessimo quei nipoti che lui tanto desiderava. A me in particolare mi chiedeva “Paolino” sin da quando avevo le prime fidanzate, non oso immaginare la sua gioia se fosse stato con noi il 20 dicembre 2007, quando è nato Paolo Borsellino, il suo primo e, per il momento, unico nipote maschio.

Oggi vorrei dire a mio padre che la nostra vita è sì cambiata dopo che ci ha lasciati ma non nel senso che lui temeva: siamo rimasti gli stessi che eravamo e che lui ben conosceva, abbiamo percorso le nostre strade senza “farci largo” con il nostro cognome, divenuto “pesante” in tutti i sensi, abbiamo costruito le nostre famiglie cui sono rivolte la maggior parte delle nostre attenzioni come lui ci ha insegnato, non ci siamo “montati la testa”, rischio purtroppo ricorrente quando si ha la fortuna e l’onore di avere un padre come lui, insomma siamo rimasti con i piedi per terra. E vorrei anche dirgli che la mamma dopo essere stata il suo principale sostegno è stata in questi lunghi anni la nostra forza, senza di lei tutto sarebbe stato più difficile e molto probabilmente nessuno di noi tre ce l’avrebbe fatta.

Mi piace pensare che oggi sono quello che sono, ossia un dirigente di polizia appassionato del suo lavoro che nel suo piccolo serve lo Stato ed i propri concittadini come, in una dimensione ben più grande ed importante, faceva suo padre, indipendentemente dall’evento drammatico che mi sono trovato a vivere.
D’altra parte è certo quello che non sarei mai voluto diventare dopo la morte di mio padre, una persona che in un modo o nell’altro avrebbe “sfruttato” questo rapporto di sangue, avrebbe “cavalcato” l’evento traendone vantaggi personali non dovuti, avrebbe ricoperto cariche o assunto incarichi in quanto figlio di… o perché di cognome fa Borsellino. A tal proposito ho ben presente l’insegnamento di mio padre, per il quale nulla si doveva chiedere che non fosse già dovuto o che non si potesse ottenere con le sole proprie forze. Diceva mio padre che chiedere un favore o una raccomandazione significa mettersi nelle condizioni di dovere essere debitore nei riguardi di chi elargisce il favore o la raccomandazione, quindi non essere più liberi ma condizionati, sotto il ricatto, fino a quando non si restituisce il favore o la raccomandazione ricevuta.

Ai miei figli, ancora troppo piccoli perché possa iniziare a parlargli del nonno, vorrei farglielo conoscere proprio tramite i suoi insegnamenti, raccontandogli piccoli ma significativi episodi tramite i quali trasmettergli i valori portanti della sua vita. Caro papà, ogni sera prima di addormentarci ti ringraziamo per il dono più grande, il modo in cui ci hai insegnato a vivere.

—————————————————-
#Unlibrodascoprire
Annalisa Strada e la storia di Emanuela Loi, morta accanto a Borsellino
Emanuela Loi fto wick
Emanuela Loi
Sono passati quasi venticinque anni da quel 19 luglio 1992 in cui il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta “saltarono” in aria in via D’Amelio a Palermo.
Venticinque anni che non sono bastati a fare luce sui tanti interrogativi di quella strage. Come fece Cosa Nostra a conoscere in anticipo i movimenti di Borsellino? Qualcuno lo tradì? Furono sottratti i documenti riservati del giudice? Venticinque anni in cui, però, la memoria di Borsellino – e quella di Giovanni Falcone ucciso solo due mesi prima – non si è affievolita, anzi.
Se esiste un punto fermo, condiviso da tutti riguardo alla lotta contro la Mafia, ebbene quel punto è rappresentato dall’esempio e dai metodi dei due giudici che più di altri seppero colpire al cuore Cosa Nostra.
Per questa ragione è fondamentale raccontare soprattutto ai più giovani, a coloro che non erano ancora nati venticinque anni fa, la storia di Borsellino e Falcone e le tragedie di quel fatidico 1992.
Annalisa Strada, insegnante e autrice di molti libri per ragazzi, ha scelto di farlo partendo da una prospettiva diversa, più vicina probabilmente all’immaginario dei ragazzi a cui vuole rivolgersi.
Parte non dai processi, dalle indagini e dalle stragi, ma dalla vicenda umana di una giovane di quegli anni, Emanuela Loi, poliziotta destinata alla scorta di Borsellino e uccisa col giudice a poco più di vent’anni.
È nato così “Io, Emanuela – agente della scorta di Paolo Borsellino” (Einaudi Ragazzi, 2016, Euro 11, pp. 138), sorta di diario intimo, raccontato in prima persona da una giovane uguale a tante, nata a Sestu, non lontano da Cagliari sul finire degli anni Sessanta.
Emanuela è molto legata ai genitori, al fratello e soprattutto alla sorella Claudia, la sua migliore amica. Ha studiato da maestra, ma spinta proprio da Claudia partecipa a un concorso per entrare in polizia e diventa un agente.
È una poliziotta quasi per caso ma il suo lavoro le piace. Si sente utile, al servizio della comunità che contribuisce a proteggere.
I suoi giorni scorrono tra il servizio, le poche pause, i brevi rientri in famiglia e le vacanze con il fidanzato.
Intanto, attorno a lei, la guerra tra Mafia e Stato diventa sempre più cruenta ed Emanuela viene trasferita proprio in prima linea, a Palermo.
Non è un’eroina Emanuela, ha paura della realtà in cui si trova a vivere, spera in un trasferimento però non sfugge al proprio dovere, neppure quando le affidano il compito più pericoloso di tutti: proteggere Paolo Borsellino, il bersaglio numero uno della Mafia.
La giovane avverte che lei e i suoi colleghi possono fare poco, ha dubbi, sente che in qualche modo il giudice è stato abbandonato al suo destino.
Annalisa Strada dà allora voce – partendo dai ricordi dei famigliari della ragazza – alle ansie degli ultimi giorni di Emanuela. E lo fa senza enfasi, senza eccessi melodrammatici.
Lascia che Emanuela parli da sola e vada incontro al suo destino, consapevole che di fronte al Male le persone perbene non hanno che un’unica scelta: compiere fino in fondo il proprio dovere, senza eroismi e senza sotterfugi.
Ed Emanuela era questo, una persona perbene, che voleva essere felice, giusta e utile.
Non glielo hanno permesso ma quello che ha fatto non è stato dimenticato… e non sarà mai inutile.
Roberto Roveda, su L’Unione Sarda online del 19 luglio 2016
libro su Emanuela Loi
————————————————–
Paolo Borsellino foto con frase
—————————————————–
—————————————————–
Turchia
GOLPISTI Turchia

Una risata vi seppellirà!

sedia di Vannitola
La sedia di Vanni Tola
Ho scritto alcuni giorni fa un commento sulla vicenda della censura del film di Sabina Guzzanti definendo “ridicolo” il comportamento del sindaco Nizzi. Pubblico volentieri questa lettera, magistralmente ironica, del cantautore Piero Marras che, dovendo presentare in Olbia un suo spettacolo, “sottopone a censura preventiva” i testi delle sue canzoni. Grazie Benedetto per averla segnalata.
Marras vs Nizzi

Vittorio Emanuele III, l’improbabile Imperatore degno di oblio

vitt Eman |||Vittorio Emanuele III e le sciagurate scelte
di Francesco Casula

Alcune motivazioni perché Vittorio Emanuele III di Savoia non è degno di essere intestatario di una Via, una Piazza o altri simili ed equivalenti “onori” e riconoscimenti nei paesi e nelle città della Sardegna.

Durante il suo regno (1900-1946) Vittorio Emanuele III fu connivente e spesso attivo sostenitore di scelte sciagurate e funeste per l’intera Italia e per la Sardegna in particolare, per le conseguenze devastanti che quelle scelte comportarono. Per cui il giudizio della storia sulla sua figura è spietato e senza appello. Egli infatti è, in quanto re e dunque capo dello stato, responsabile o comunque corresponsabile della partecipazione dell’Italia alle due grandi guerre e del Fascismo.
Anche durante il suo regno, fin dall’inizio del Novecento, continua la repressione violenta nei confronti della protesta popolare e dei movimenti di opposizione che aveva caratterizzato la fine dell’Ottocento, culminata con l’omicidio di Umberto I per mano dell’anarchico Gaetano Bresci, rientrato appositamente dagli Stati Uniti per “vendicare” la strage di Milano del 1898.

1. Repressione poliziesca agli inizi del Novecento in Sardegna
L’eccidio di Buggerru. La sommossa di Cagliari, Villasalto e Iglesias
Ricollegandosi al clima di repressione di fine secolo in Italia con la strage di Milano, nel romanzo Paese d’ombre Giuseppe Dessì scrive a proposito dell’eccidio di Buggerru: Bava Beccaris era nell’aria e con esso il suo demente insegnamento.
Anche a Buggerru, allora importante centro minerario, l’esercito, come a Milano nel 1898, sparò sulla folla inerme. Il 4 settembre del 1904 nel paese di Buggerru giunsero da Cagliari due compagnie del 42° reggimento di fanteria. La folla che gremiva la strada principale del paese li accolse in un silenzio ostile. Poco dopo i soldati con le baionette già cariche si schierarono in assetto da guerra all’esterno dell’Albergo dove alloggiavano. Le minacce e i tentativi di disperdere con la forza i manifestanti da parte dei soldati non sortirono alcun effetto. Fu allora che i soldati imbracciarono i moschetti e spararono sulla folla inerme. La tragedia si consumò in pochi minuti: sulla terra battuta della piazza giacevano una decina di minatori. Due, Felice Littera di 31 anni, di Masullas, e Giovanni Montixi di 49 anni, di Sardara, erano morti. Un terzo, Giustino Pittau, di Serramanna, colpito alla testa, morì in ospedale. Un mese dopo anche il ferito Giovanni Pilloni perì.
A Cagliari due anni dopo nel 1906, in seguito a una sommossa popolare contro il caro vita ci furono 10 morti.
“Alla notizia dei morti di Cagliari – scrive Natale Sanna – insorsero subito i centri minerari dell’Iglesiente con richieste varie, scioperi, saccheggi, scontri con i soldati, morti (due a Gonnesa e duie a Nebida) e feriti (17 a Gonnesa e quindici a Nebida) fra i dimostranti” (Natale Sanna, Il cammino dei Sardi, volume terzo, Editrice Sardegna, Cagliari, 1986, pagina 472).
Duramente repressi furono anche gli scioperi e le manifestazioni che si innescarono sempre dopo i fatti di Cagliari a Villasimius, San Vito, Muravera, Abbasanta, Escalaplano, Villasalto (con 6 morti e 12 feriti). Mentre a Iglesias nel 1920 i carabinieri sparano su una manifestazione di minatori causando 7 morti.

Sciboletta2. Vittorio Emanuele III e la Prima Guerra mondiale
La decisione di entrare in guerra fu presa esclusivamente dal sovrano, in collaborazione con il primo ministro Salandra, desideroso com’era di completare la cosiddetta “unità nazionale” con la conquista di Trento e Trieste, ancora in mano austriaca. il conflitto fu, come noto, tremendo per le forze armate italiane, che andarono incontro ad una spaventosa carneficina, tra il fango, la neve delle trincee e tra indicibili stragi e sofferenze.
Fu lo stesso Papa Benedetto XV a definire quella guerra una inutile strage. Ma in una enciclica del 1914 Ad Beatissimi Apostolorum Principis lo stesso papa era stato ancora più duro definendola una gigantesca carneficina.
Sarà il sardo Emilio Lussu, in una suggestiva testimonianza storica e letteraria come Un anno sull’altopiano a descrivere gli orrori di quella guerra. Egli infatti al fronte però sperimenterà sulla propria pelle l’assurdità e l’insensatezza della guerra: con la protervia e la stupidità dei generali che mandano al macello sicuro i soldati; con i miliardi di pidocchi, la polvere e il fumo, i tascapani sventrati, i fucili spezzati, i reticolati rotti, i sacrifici inutili.
Una guerra che comportò oltre a immani risorse (e sprechi) economici e finanziari immani lutti, con decine di migliaia di morti, feriti, mutilati e dispersi. A pagare i costi e il fio maggiore fu la Sardegna: “Pro difender sa patria italiana/distrutta s’este sa sardigna intrea, cantavano i mulattieri salendo i difficili sentieri verso le trincee, ha scritto Camillo Bellieni, ufficiale della Brigata” (Brigaglia, Mastino, Ortu, Storia della Sardegna, Editori Laterza, 2002, pagina 9).
Infatti alla fine del conflitto la Sardegna avrebbe contato bel 13.602 morti (più i dispersi nelle giornate di Caporetto, mai tornati nelle loro case). Una media di 138,6 caduti ogni mille chiamati alle armi, contro una media “nazionale” di 104,9.
E a “crepare” saranno migliaia di pastori, contadini, braccianti chiamati alle armi: i figli dei borghesi, proprio quelli che la guerra la propagandavano come “gesto esemplare” alla D’Annunzio o, cinicamente, come “igiene del mondo” alla futurista, alla guerra non ci sono andati.
La retorica patriottarda e nazionalista sulla guerra come avventura e atto eroico, va a pezzi. Abbasso la guerra, “Basta con le menzogne” gridavano, ammutinandosi con Lussu, migliaia di soldati della Brigata Sassari il 17 Gennaio 1916 nelle retrovie carsiche, tanto da far scrivere allo stesso Lussu – in Un anno sull’altopianoIl piacere che io sentii in quel momento, lo ricordo come uno dei grandi piaceri della mia vita.
In cambio delle migliaia di morti – per non parlare delle migliaia di mutilati e feriti – ci sarà il retoricume delle medaglie, dei ciondoli, delle patacche. Ma la gloria delle trincee – sosterrà lo storico sardo Carta-Raspi – non sfamava la Sardegna.
Sempre Carta Raspi scrive: ”Neppure in seguito fu capito il dramma che in quegli anni aveva vissuto la Sardegna, che aveva dato all’Italia le sue balde generazioni, mentre le popolazioni languivano fra gli stenti e le privazioni. La gloria delle trincee non sfamava la Sardegna, anzi la impoveriva sempre di più, senza valide braccia, senza aiuti, con risorse sempre più ridotte. L’entusiasmo dei suoi fanti non trovava perciò che scarsa eco nell’isola, fiera dei suoi figli ma troppo afflitta per esaltarsi, sempre più conscia per antica esperienza dello sfruttamento e dell’ingratitudine dei governi, quasi presaga dell’inutile sacrificio. Al ritorno della guerra i Sardi non avevano da seminare che le decorazioni:le medaglie d’oro. d’argento e di bronzo e le migliaia di croci di guerra; ma esse non germogliavano, non davano frutto”. (Raimondo Carta Raspi, Storia della Sardegna, Ed. Mursia, Milano, 1971, pagina 904)
- segue –