Risultato della ricerca: fabbrica creatività

Riflessioni: occorre un cambio di paradigma

lampadadialadmicromicroRitenendo di fare cosa utile riproponiamo le riflessioni di Mauro Magatti, contenute nel suo intervento alla Settimana dei cattolici italiani sul Lavoro, tenutasi a Cagliari dal 26 al 29 ottobre u.s. Le stesse riflessioni sono sviluppate da Magatti in un suo libro, che anche noi di recente abbiamo segnalato.
———————————–
“Dopo l’inverno viene la primavera. Lavoro degno e futuro dell’Italia”
magatti-475x300di Mauro Magatti
Cagliari, 28 ottobre 2017

Oggi è il giorno dell’ascolto e della proposta.
Già ieri nei tavoli si è cominciato a discutere. E più tardi incontreremo le forze sociali e poi il governo e l’Europa.
In questo percorso, il mio compito è quello di provare a raccogliere in un orizzonte comune i tanti spunti e rinvigorire, se possibile, il passo di tutti così da procedere nel cammino.

1. È solo il racconto della vicenda delle ultime tre generazioni vissute nel nostro paese che ci permette di inquadrare adeguatamente la situazione nella quale ci troviamo.
La generazione del dopoguerra, quella di mio padre, ha lavorato con speranza e passione, creando una grande ricchezza diffusa per sè e i propri figli.
Poi è arrivata la generazione del baby boom, quella di cui io faccio parte: nata insieme all’individualismo e al consumerismo, è cresciuta col benessere, venendo poi investita dal vento forte della globalizzazione neoliberista. A conti fatti, questa generazione lascia in eredità molti debiti e pochi figli.
E così si arriva alla terza generazione, quella dei miei figli – i Millennials – che oggi hanno l’età per affacciarsi alla vita adulta, ma che sono spesso costretti alla scelta tra emigrare o stare in panchina.
È nel quadro di questo percorso storico – nel quale è cambiato anche il modo di essere presenti nella società e nella politica dei Cattolici – che la questione del lavoro in Italia oggi deve essere posta.

2. Una tale situazione non si è creata per caso. Nella storia recente del nostro paese, c’è infatti un punto di svolta: sono gli anni 80, quando il debito pubblico raddoppiò – passando dal 60 al 120% del Pil – e come una idrovora si divorò la ricchezza accumulata nei decenni passati, compromettendo il futuro delle generazioni successive. In quel decennio, esaurita la spinta creativa del dopoguerra, invece di aprire una nuova stagione di sviluppo, l’Italia si è ripiegata su se stessa, adottando un modello antigenerativo – tutto schiacciato sull’io, il breve termine, il binomio consumo-rendita (sostenuto dal debito) – vera causa delle difficoltà di oggi. Un’idea sbagliata – che ha prodotto una cultura – da cui derivano molti dei mali che ben conosciamo: disuguaglianze e povertà; blocco della natalità e del ricambio generazionale; elites estrattive e corruzione endemica; perdita di peso del lavoro sulla ricchezza prodotta.
Se vogliamo essere onesti, dobbiamo ammettere che da lì il paese non si è più ripreso. Come ha confermato la mostra che ha aperto le Settimane: l’Italia viene da una lunga stagione di declino (su cui ha poi inciso la grave crisi internazionale del 2008) il cui costo ricade soprattutto sulle spalle dei giovani, delle famiglie e delle donne.
In una parola, potremmo dire che l’Italia è invecchiata. Ed è invecchiata male.

3. 4. Da qualche tempo, finalmente, i dati parlano di ripresa. E questo è un bene perché respiriamo un pochino meglio
Ma è bene non fraintendere: i benefici della ripresa raggiungono troppo lentamente e parzialmente la quotidianità di molte persone. Nel frattempo sono passati 10anni!
La ragione è che la relazione tra aumento del PIL e condizioni di vita (mediata proprio dal lavoro) è oggi più labile che in passato: crescono i profitti, la produttività, le quotazioni di borsa, ma solo in misura modesta l’occupazione. La ricchezza rimane troppo concentrata e la crescita geograficamente troppo difforme: i salari sono stagnanti e buona parte del lavoro è precarizzata e sottopagata.
Per molte famiglie, le cose non sono migliorate e le aspettative per il futuro rimangono fiacche.
La verità è che la crisi del 2008 ha cambiato le condizioni dello sviluppo: che ce ne rendiamo conto o no, siamo entrati in una nuova fase storica, con la quale dobbiamo ancora imparare a fare i conti.

5. Siamo sulla soglia di una trasformazione profonda. Negli ultimi vent’anni sono state poste solo le premesse della “società digitale”. Sappiamo già che una buona parte del ‘lavoro umano’ sarà sostituito dal ‘lavoro delle macchine”.
Senza cedere al pessimismo, si può ragionevolmente ritenere che, mentre si distruggeranno, nasceranno nuovi lavori. Ma non dimentichiamo che, per le persone in carne e ossa, a contare saranno i modi e i tempi del processo di aggiustamento.
Il rapporto tra vita e lavoro è destinato a essere rimodulato. Il lavoro del futuro, infatti, sarà meno vincolato a luoghi e tempi specifici: in un mondo in cui saremo connessi sempre e ovunque, cosa vorrà dire “lavorare”? Che cosa ne limiterà il tempo? E come si determinerà il salario”? Cosa vorranno dire libertà e creatività?
Già oggi, col cosiddetto lavoro agile, si vanno diffondendo contratti che contemplano la possibilità di lavorare a casa. Una soluzione che può permettere una migliore compatibilità con la vita personale e famigliare, ma che – senza adeguate tutele – può al contrario favorire nuove forme di controllo e sfruttamento.
Sinteticamente, il compito che ci aspetta è di navigare tra la Scilla della società senza lavoro (jobless society) e la Cariddi di una società del tutto lavoro (total job society) – quella in cui ogni nostra attività – di produzione, consumo, cura – potrà venire assoggettata a controllo e misurazione.
Per evitare entrambi questi scogli è necessario impegnarsi per rendere la digitalizzazione una benedizione e non una maledizione.
Ma non sarà un compito facile.

6. Per muoversi nella giusta direzione senza dimenticare chi soffre la prima cosa da fare è mettersi in ascolto per scorgere i germogli di una nuova primavera.
Lo abbiamo fatto in questi mesi con Cercatori di lavoro e dobbiamo continuare a farlo, tornando a casa, nei mesi che verranno.
Ma quali sono questi germogli?
Che il tema della sostenibilità – nella sua accezione ampia: cioè ambientale e sociale – sia oggi imprescindibile lo hanno capito prima di tutto alcune imprese, quelle più dinamiche. La sostenibilità promuo-ve un modello di sviluppo in cui valore economico e sociale sono ricongiunti in un’ottica di medio-lungo periodo. Numerose ricerche dicono che le imprese di successo sono quelle che adottano una strategia centrata su qualità integrale della produzione; relazioni basate sulla fiducia e il reciproco riconoscimento con i dipendenti e la filiera dei fornitori; attenzione al territorio e all’ambiente. La logica dello sfruttamento invece (del lavoro, dei fornitori, dell’ambiente e del territorio, in una eterna lotta quotidiana su quantità e prezzo) non porta molto lontano.

Considerazioni analoghe valgono per i territori. A fiorire sono quelli capaci di mettersi insieme per fare squadra e creare sinergia, superando divisioni e lotte intestine. Le infrastrutture, la formazione, l’integrazione sociale, l’identità locale non sono costi ma investimenti. La stessa BCE ha di recente ammesso che le spese per sanità, educazione e infrastrutture “hanno effetti positivi sulla crescita a lungo termine, riducendo al tempo stesso la spesa improduttiva”.

In terzo luogo, oggi si riconosce che la motivazione è decisiva per armonizzare soddisfazione personale e successo d’impresa. Non solo, tra artigiani, professionisti, tecnici, manager, imprenditori – specie se donne – cresce la domanda di un lavoro associato a un senso. C’è voglia di qualche cosa di più: non solamente far funzionare macchine, servire un sistema efficiente, ma dare il proprio contributo, essere artefici del cambiamento di sè e della società, rispondere ai bisogni e risolvere i problemi mettendo in campo la propria intelligenza.
Una domanda da ascoltare e sostenere. Perché questo è il desiderio umano che è mediato dal lavoro: poter esprimere la propria creatività personale prendendo parte al movimento generativo della vita.

Anche tra i consumatori cresce la consapevolezza del voto col portafoglio. Come un sasso nello stagno, ogni atto di acquisto produce conseguenze che arrivano molto lontano all’interno del sistema economico. Una consapevolezza che cresce orientando nuovi stili di vita e nuovi modi di produzione.

Tutto ciò è particolarmente vero per i giovani. Le ricerche dicono che le nuove generazioni giudicano positivamente l’economia di mercato ma chiedono che sia regolata e messa al riparo dai suoi eccessi. Molto sensibili nei confronti della questione ambientale, i ragazzi sanno che sarà la loro generazione a sopportare i costi di una colpevole inazione. Inoltre, le nuove generazioni ambiscono a costruire un equilibrio migliore tra vita e lavoro, dove la remunerazione economica non costituisce l’unico criterio di scelta. Per lo più aperti e tolleranti verso i migranti, i giovani pensano che l’affermazione personale non debba andare a discapito delle relazioni. Il loro sogno è che il riconoscimento delle loro capacita dal desiderio non sia dissociato dal vantaggio per la comunità circostante.

Che in mezzo a tante difficoltà, a tanto dolore, ci sia ragione di sperare lo mostrerà efficacemente il docufilm che vedremo nel pomeriggio. Un documento prezioso che ci permetterà di intuire quale può essere il nostro futuro.
Prima di tutto rinnoviamo dunque i nostri occhi e il nostro cuore: di fronte ai guasti lasciati dallo sviluppo disordinato degli ultimi decenni, sono tanti coloro che stanno già cercando un nuovo modo di pensare e di vivere il legame con l’altro (visto come costitutivo e non minaccia della propria libertà) e la realtà che li circonda (da rispettare, non semplicemente da sfruttare e manipolare).
Secondo la cornice di uno sviluppo umano integrale tracciato dalla Laudato si’.
Si tratta di non disperdere questo fermento, ma di convogliarlo in una visione unitaria che un po’ per volta occorre far emergere.

Forzando un po’ (ma non troppo!) i termini della questione, si può dire che l’Italia si trova davanti a un bivio: o cadere ancora di più nella spirale di sfruttamento e disuguaglianza resa possibile da una digita-lizzazione che pretenda di organizzare l’intera società come una grande fabbrica; oppure incamminarsi verso un nuovo sentiero di sviluppo che, rilegando economia e società, metta al centro la creatività umana arrivando a delineare una transizione migliore tra vita e lavoro.

7. La primavera, però, non è l’estate – tempo del caldo e dell’attesa – e tanto meno l’autunno – tempo del raccolto. È piuttosto il tempo della semina, cioè della speranza, dell’audacia, dell’impegno. Di chi sa credere senza vedere ancora i frutti.
È questa la stagione che stiamo vivendo!
Ma che cosa possiamo o dobbiamo seminare?

8. Il tempo che viviamo ci sollecita a mettere in discussione l’idea semplice secondo la quale attraverso il consumo – sostenuto dalla finanza – sia possibile sostenere la crescita.
L’ordine dei fattori va invertito: solo quelle imprese, quelle organizzazioni, quei territori, quelle comuni-tà che sapranno mettersi insieme per “produrre valore” potranno prosperare.
Prima occorre produrre valore e poi, solo poi, si può consumare. Non più viceversa.
Si tratta di un vero e proprio Cambio di paradigma. Abbandonata la strada fasulla dell’illusionismo finanziario, siamo chiamati a tornare a “lavorare tutti insieme nella creazione di un valore comune”, in-sieme economico e sociale, materiale e spirituale, secondo un nuovo mix di efficienza e senso, imprenditività e solidarietà, immanenza e trascendenza.

9. Lo provo a dire con una metafora: nel nuovo “mare della tecnica” che avvolge l’intero pianeta, si ripropone la questione della terra.
Etimologicamente, il termine “terra” significa secco, non umido, in contrapposizione al mare, ambiente liquido e infido e come tale impossibile da dominare. Dante usa l’espressione “gran secca” per dire che, per esistere, la terra deve emergere dal mare.
La terra dà dunque il senso di una solidità, di una permanenza, cioè di una storia, di una cultura, di un futuro. Di un servizio.
In una parola, di un nomos, una legge. Parola che ha una triplice valenza etimologica: Nehmen significa presa, conquista; Teilen divisione, sparti-zione; Weiden coltivazione, valorizzazione.
Che la “terra” (cioè la politica) rischi di ripresentarsi oggi come conquista (guerra) o divisione (muri) è evidente.
Ma la verità è che, al di là di ogni pretesa di autosufficienza, la terra umana oggi si può costituire solo in rapporto al mare della tecnica e alle altre terre emerse.
Certo, la terra presuppone un limite, una cultura (cioè una coltivazione). Ma questo non implica né muri né contrapposizioni.
La via ce la suggeriscono piuttosto i biologi quando, a proposito delle cellule, distinguono tra parete e membrana: la prima trattiene tutto per quanto può e da via quanto meno possibile; la seconda, porosa e resistente, permette il fluire delle diverse sostanze senza per questo perdere la propria struttura.
In effetti, se è vero che nessuna terra può fiorire oggi indipendentemente dal mare tecnico planetario (con i suoi codici, i suoi linguaggi, i suoi standard) è altrettanto vero che la terra – e il suo nomos – oggi può “emergere” più che mediante il richiamo alla separatezza e, con essa, al sangue, attraverso l’azione del custodire e del coltivare – che mette la tecnica al servizio della vita dei suoi abitanti.

10. Ecco dunque il “nomos della terra” nell’era del mare tecnico: per diventare umana, la terra va lavo-rata, insieme, con impegno e generosità. Perché così solo così può fruttare.
In tale contesto, il lavoro non solo può, ma deve tornare a essere al centro del nostro modello di sviluppo.
E non a parole ma nei fatti. Nelle scelte concrete delle imprese, della pubblica amministrazione, delle famiglie. Il che significa nelle forme contrattuali, nella imposizione fiscale, nelle regole degli appalti, nella organizzazione scolastica e educativa.

11. Invero, non c’è nulla di scontato nel dire che occorre rimettere al centro del nostro modello di sviluppo il lavoro nella sua accezione antropologicamente più ampia.
Semplicemente perché veniamo da una lunga stagione in cui ciò non è stato vero.
Ma cosa vuol dire mettere al centro il lavoro?

12. Primo: prendersi cura dell’umano in tutte le sue dimensioni. Si discute di formazione e competenze. Ma una cosa va riaffermata con forza: occorre for-mare, cioè capacitare, la persona, superando le false dicotomie che separano invece di tenere insieme. Non va bene un’idea di cultura astratta, distaccata, rispetto alla quale la realtà non pare mai all’altezza; ma nemmeno un tecnicismo asfittico, schiacciato sul fare per il fare. Occorre ribadire che la persona intera è fatta di tante dimensioni (cognitiva, emotiva, manuale, sociale) che vanno tutte stimolate e curate, coltivando il sapere teorico che quello pratico, la conoscenza formale e quella informale. La possibilità di realizzarsi anche lavorativamente (senza produrre scarti) dipende dalla crescita armoniosa di tante dimensioni diverse.
Un processo delicato che deve vedere tanti soggetti e istituzioni agire di concerto. Perché una formazione integrale non è mai solo un affare privato. Dice bene un proverbio africano: per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio. Tradotto nel linguaggio contemporaneo: L’educazione è un bene comune.
Il che significa anche che, alla lunga, non c’è nemmeno crescita se la comunità non si cura dei propri giovani, soprattutto di quelli più fragili. In una prospettiva di sviluppo sostenibile, l’inclusione è un principio economico.

13. Secondo: Mettere al centro il lavoro significa creare un ecosistema favorevole a chi lo crea e a chi lo pratica.
Obiettivo che in Italia appare rimane lontano.
Andare in questa direzione significa:
detassare quanto più possibile il lavoro e poi in generale le attività che lo creano;
fare arrivare a chi crea lavoro (non a chi specula o vive di rendita) le risorse disponibili.
Combattere il castello kafkiano della burocrazia.
Gli avversari dunque sono chiari: finanza predatrice, stato distruttore, speculazione edilizia, sovranità del consumatore.
Ma non si tratta solo di “liberare” il lavoro.
Si tratta anche di creare nuovo valore. Cioè nuova economia. Obiettivo che richiede una rinnovata capacità di stipulare “alleanze” per creare quel “valore condiviso” tra le cui pieghe è nascosta buona parte dell’economia del futuro.
Gli esempi sono tanti. Dal welfare all’edilizia, dall’ambiente ai beni culturali, dall’educazione alla ricerca, dall’energia alle infrastrutture: il lavoro può nascere solo la dove si saprà mettersi insieme per produrre nuovi tipi di beni.
Quello che viviamo è un tempo di innovazione non di conservazione.

14. Terzo: Non basta parlare del lavoro purchessia. Il lavoro va sempre e di nuovo Umanizzato. Nell’epoca dei robot e della intelligenza artificiale, il lavoro si salverà solo capendo meglio e valoriz-zando la specificità del lavoro umano.
Per reggere l’impatto della digitalizzazione c’è bisogno di una conversione culturale: passare da un’economia della sussistenza a un’economia dell’esistenza; produttrice, cioè, di saper-vivere e di saper-fare, dove il lavoro non sia mera fabbricazione, ma contribuzione. Come ha detto Papa Francesco, “Oggi la creazione di nuovo lavoro ha bisogno di persone aperte e intraprendenti, di relazioni fraterne, di ricerca e investimenti per risolvere le sfide del cambiamento climatico”.
Per umanizzare occorre avere ben chiara la distinzione tra estrazione e creazione di valore. Nel primo caso si tratta di spremere il limone dell’efficienza andando a scovare tutti i frammenti di realtà a cui si può applicare un prezzo. Nel secondo caso, si tratta di cogliere i bisogni che non hanno ancora risposta, di mettere insieme ciò che è frammentato o disperso, di favorire la collaborazione tra le parti, di scommettere sulla capacità di iniziativa delle persone e delle comunità.
Due strade in apparenza sovrapposte, ma che portano a esiti molto diversi.

15. Sono questi i 3 temi delle tre sessioni parallele dove proseguiremo il lavoro dei tavoli di ieri.

16. Di fronte alle gravissime difficoltà in cui si dibatte la generazione dei nostri figli non basta perciò evocare una generica ripresa, dubbia nella consistenza e ancora di più nei suoi effetti.
Né tanto meno si tratta di sollecitarli a correre non si sa verso dove né per fare che cosa.
Si tratta, piuttosto, di autorizzarli a diventare autori – col nostro pieno e convinto sostegno – della costruzione di un modello di sviluppo meno ossessionato dalla crescita quantitativa, dalle performatività, dall’efficienza e più interessato a una nuova sintesi tra materiale e spirituale, strumentalità e senso, efficienza e creatività.
È questo l’invito di Papa Francesco: “adoperatevi per andare oltre il modello di ordine sociale oggi prevalente. Dobbiamo chiedere al mercato non solo di essere efficiente nella produzione di ricchezza e nell’assicurare una crescita sostenibile, ma anche di porsi al servizio dello sviluppo umano integrale. Non possiamo sacrificare sull’altare dell’efficienza – “vitello d’oro” dei nostri tempi – valori fonda-mentali come la democrazia, la giustizia, la libertà, la famiglia, il creato. In sostanza, dobbiamo mirare a “civilizzare il mercato”, nella prospettiva di un’etica amica dell’uomo e del suo ambiente”
Questa dunque deve essere l’ambizione: lavorare con e per le nuove generazioni allo scopo di promuovere il lavoro degno, non sfruttato e degradato, ragionevolmente retribuito e stabile. Come pilastro di un nuovo modello di sviluppo.
Prima di tutto per ragioni di senso. Perché vogliamo la felicità delle persone. Di tutte le persone. E poi per ragioni di merito: perché nel tempo che viviamo solo la qualità del lavoro sarà capace di fare anche la sua quantità.

17. E tuttavia, nel caso Italiano, indicare la direzione non basta. Perché i nostri giovani ce la facciano, c’è bisogno di uno sforzo straordinario per trasformare in un’occasione l’allungamento della vita media.
Giovedì il card. Bassetti ha parlato di un grande patto per il lavoro. Un patto che deve essere prima di tutto intergenerazionale.
Se si vuole invertire il declino generazionale occorre realizzare un patto intergenerazionale che miri a sciogliere una contraddizione che rischia di essere micidiale: chi ha il patrimonio non investe perché vuole proteggersi (gli anziani) e chi vuole investire non può farlo perché non dispone delle risorse necessarie e anzi è gravato dal debito accumulato (i giovani).
In condizioni differenti, ci troviamo in un passaggio di fase paragonabile al 1945 (con la Costituzione) e al 1970 (con lo statuto dei lavoratori). Oggi si tratta di proporre all’Italia di stipulare un grande patto intergenerazionale basato sulla rinnovata centralità del lavoro degno così da far emergere il “bene comune” (vero e proprio Interesse) che lega anziani e giovani: l’avvio di una stagione qualitativamente diversa di sviluppo (basata sulla centralità del lavoro) a vantaggio delle giovani generazioni come condizione per la sostenibilità della protezione degli anziani (che vivono più a lungo).
Una opportunità che richiede la creazione di nuovi strumenti (finanziari, fiscali, contrattuali, etc.) per mettere in gioco Il patrimonio (cioè il dono-del-padre) mobiliare e immobiliare accumulato in favore della ripartenza delle giovani generazioni.
Una questione che deve riguardare le famiglie, ma anche le imprese, le associazioni, lo stato, la chiesa.

17bis. Ecco dunque cosa ci chiede l’arrivo di una nuova primavera: tornare a seminare con speranza e larghezza così da poter sperare di raccogliere, a suo tempo, frutti buoni.

18. Ci sostiene una convinzione profonda: l’Italia ha tutte le qualità per essere il luogo dove aprire il cantiere di questo nuovo paradigma.
La tradizione italiana si distingue infatti per non avere mai ridotto il lavoro alla astrazione, alla serialitá, alla banalizzazione, mantenendo piuttosto la capacità di incarnarlo nella concretezza della vita. Quando è stata fedele a questa sua vocazione, il lavoro italiano ha saputo tenere assieme ciò che altrove si è separato: il bello con la funzione, la mano con la testa, il singolo con la comunità, l’utilità con il dono, e soprattutto, il particolare con l’universale e l’immanenza con la trascendenza.
In tale modello, il lavoro – inteso come esperienza viva in cui la persona conosce se stessa e si forma nel suo rapporto con la realtà (come dice Guardini, “l’uomo diventa se stesso quando abbandona se stesso, non però nella forma della leggerezza del vuoto ma in direzione di qualcosa che giustifica il rischio di sacrificare se stessi” – è stato fondamento del ben vivere e del ben essere, fattore di incivilimento, mediatore tra politica, economia e cultura.
Ciò spiega perché il lavoro è sempre stato uno dei modi – forse il modo – mediante cui l’Italia ha saputo esprimere la propria anima.
Da questo genius loci, che valorizza l’unicità di ogni esistenza, talento, vocazione, terra origina anche quella creatività che tanto peso ha sulla prosperità economica.
Una originalità profondamente intrisa di quella matrice Cristiana che, secondo Guardini, fonda l’umanesimo della concretezza.
Al di là delle difficoltà, la transizione in corso è l’occasione per recuperare e valorizzare questa nostra matrice culturale e spirituale che nel secoli ha prodotto esperienze straordinarie, ancora oggi ammirate in tutto il mondo.
L’ultima in ordine di tempo è quella di Adriano Olivetti che già 50anni fa aveva intuito, e provato a mettere in pratica, l’opportunità di uno sviluppo sostenibile basato sulla valorizzazione del territorio e delle comunità di persone che lo abitano.
È ripartendo da qui, dalla riscoperta della sua più intima matrice cattolica, che oggi l’Italia può risollevarsi, cogliendo le opportunità del cambio di paradigma in corso.
Dobbiamo chiudere una pagina e aprirne una nuova.
La primavera si annuncia, come suggeriscono i segni dei tempi. Ma, come altre volte in passato, senza il contributo coraggioso della radice Cattolica il paese non ce la farà.
È questa la responsabilità da assumere: L’umanesimo della concretezza è, oggi come ieri, il codice più appropriato per ricomporre fede e storia.
———–
- Fonte articolo
- Il docufilm Il Lavoro che vogliamo.
- Per correlazione: intervento del direttore di Aladinews.
————————————————-
28 ottobre 2017 – Le quattro proposte della Chiesa italiana al governo
Settimane Sociali Le quattro proposte della Chiesa al governo

Il Lavoro fondamentale impegno dei cattolici insieme con tutte le persone di buona volontà anche se provenienti da esperienze culturali differenti. “Qualcosa di simile è accaduto con il contributo dei parlamentari cattolici nella stesura della nostra costituzione repubblicana”.

img_4422
48a Settimana Sociale
“Il lavoro che vogliamo: libero, creativo, partecipativo, solidale”
Cagliari, 26-29 ottobre 2017
Conclusioni di Mons. Filippo Santoro, Presidente del Comitato
Cagliari, 29 ottobre 2017

Si conclude la Settimana Sociale dei Cattolici Italiani. Le proposte per il Lavoro

logo-settimane-sociali-300x212-gkj8v228 ottobre 2017 – Le quattro proposte della Chiesa italiana al governo
Settimane Sociali Le quattro proposte della Chiesa al governo
——————————————
- Le tre proposte per l’Europa.
————————————————-
Intervento conclusivo della Settimana del presidente mons. Filippo Santoro
Il mandato finale del Card. Gualtiero Bassetti, Presidente della CEI
—————–
Video LE SETTE PROPOSTE per #illavorochevogliamo
Quattro per l’Italia, tre per l’Europa (a cura di Sergio Gatti, vicepresidente del Comitato per la Settimana Sociale di Cagliari).
.
(segue)

Contributi e riflessioni dalla Settimana cattolica per il Lavoro

logo-settimane-sociali-300x212-gkj8v2
gentili-475x300“Dopo l’inverno viene la primavera. Lavoro degno e futuro dell’Italia”
magatti-475x300di Mauro Magatti
Cagliari, 28 ottobre 2017

Oggi è il giorno dell’ascolto e della proposta.
Già ieri nei tavoli si è cominciato a discutere. E più tardi incontreremo le forze sociali e poi il governo e l’Europa.
In questo percorso, il mio compito è quello di provare a raccogliere in un orizzonte comune i tanti spunti e rinvigorire, se possibile, il passo di tutti così da procedere nel cammino.

1. È solo il racconto della vicenda delle ultime tre generazioni vissute nel nostro paese che ci permette di inquadrare adeguatamente la situazione nella quale ci troviamo.
La generazione del dopoguerra, quella di mio padre, ha lavorato con speranza e passione, creando una grande ricchezza diffusa per sè e i propri figli.
Poi è arrivata la generazione del baby boom, quella di cui io faccio parte: nata insieme all’individualismo e al consumerismo, è cresciuta col benessere, venendo poi investita dal vento forte della globalizzazione neoliberista. A conti fatti, questa generazione lascia in eredità molti debiti e pochi figli.
E così si arriva alla terza generazione, quella dei miei figli – i Millennials – che oggi hanno l’età per affacciarsi alla vita adulta, ma che sono spesso costretti alla scelta tra emigrare o stare in panchina.
È nel quadro di questo percorso storico – nel quale è cambiato anche il modo di essere presenti nella società e nella politica dei Cattolici – che la questione del lavoro in Italia oggi deve essere posta.

2. Una tale situazione non si è creata per caso. Nella storia recente del nostro paese, c’è infatti un punto di svolta: sono gli anni 80, quando il debito pubblico raddoppiò – passando dal 60 al 120% del Pil – e come una idrovora si divorò la ricchezza accumulata nei decenni passati, compromettendo il futuro delle generazioni successive. In quel decennio, esaurita la spinta creativa del dopoguerra, invece di aprire una nuova stagione di sviluppo, l’Italia si è ripiegata su se stessa, adottando un modello antigenerativo – tutto schiacciato sull’io, il breve termine, il binomio consumo-rendita (sostenuto dal debito) – vera causa delle difficoltà di oggi. Un’idea sbagliata – che ha prodotto una cultura – da cui derivano molti dei mali che ben conosciamo: disuguaglianze e povertà; blocco della natalità e del ricambio generazionale; elites estrattive e corruzione endemica; perdita di peso del lavoro sulla ricchezza prodotta.
Se vogliamo essere onesti, dobbiamo ammettere che da lì il paese non si è più ripreso. Come ha confermato la mostra che ha aperto le Settimane: l’Italia viene da una lunga stagione di declino (su cui ha poi inciso la grave crisi internazionale del 2008) il cui costo ricade soprattutto sulle spalle dei giovani, delle famiglie e delle donne.
In una parola, potremmo dire che l’Italia è invecchiata. Ed è invecchiata male.

3. 4. Da qualche tempo, finalmente, i dati parlano di ripresa. E questo è un bene perché respiriamo un pochino meglio
Ma è bene non fraintendere: i benefici della ripresa raggiungono troppo lentamente e parzialmente la quotidianità di molte persone. Nel frattempo sono passati 10anni!
La ragione è che la relazione tra aumento del PIL e condizioni di vita (mediata proprio dal lavoro) è oggi più labile che in passato: crescono i profitti, la produttività, le quotazioni di borsa, ma solo in misura modesta l’occupazione. La ricchezza rimane troppo concentrata e la crescita geograficamente troppo difforme: i salari sono stagnanti e buona parte del lavoro è precarizzata e sottopagata.
Per molte famiglie, le cose non sono migliorate e le aspettative per il futuro rimangono fiacche.
La verità è che la crisi del 2008 ha cambiato le condizioni dello sviluppo: che ce ne rendiamo conto o no, siamo entrati in una nuova fase storica, con la quale dobbiamo ancora imparare a fare i conti.

5. Siamo sulla soglia di una trasformazione profonda. Negli ultimi vent’anni sono state poste solo le premesse della “società digitale”. Sappiamo già che una buona parte del ‘lavoro umano’ sarà sostituito dal ‘lavoro delle macchine”.
Senza cedere al pessimismo, si può ragionevolmente ritenere che, mentre si distruggeranno, nasceranno nuovi lavori. Ma non dimentichiamo che, per le persone in carne e ossa, a contare saranno i modi e i tempi del processo di aggiustamento.
Il rapporto tra vita e lavoro è destinato a essere rimodulato. Il lavoro del futuro, infatti, sarà meno vincolato a luoghi e tempi specifici: in un mondo in cui saremo connessi sempre e ovunque, cosa vorrà dire “lavorare”? Che cosa ne limiterà il tempo? E come si determinerà il salario”? Cosa vorranno dire libertà e creatività?
Già oggi, col cosiddetto lavoro agile, si vanno diffondendo contratti che contemplano la possibilità di lavorare a casa. Una soluzione che può permettere una migliore compatibilità con la vita personale e famigliare, ma che – senza adeguate tutele – può al contrario favorire nuove forme di controllo e sfruttamento.
Sinteticamente, il compito che ci aspetta è di navigare tra la Scilla della società senza lavoro (jobless society) e la Cariddi di una società del tutto lavoro (total job society) – quella in cui ogni nostra attività – di produzione, consumo, cura – potrà venire assoggettata a controllo e misurazione.
Per evitare entrambi questi scogli è necessario impegnarsi per rendere la digitalizzazione una benedizione e non una maledizione.
Ma non sarà un compito facile.

6. Per muoversi nella giusta direzione senza dimenticare chi soffre la prima cosa da fare è mettersi in ascolto per scorgere i germogli di una nuova primavera.
Lo abbiamo fatto in questi mesi con Cercatori di lavoro e dobbiamo continuare a farlo, tornando a casa, nei mesi che verranno.
Ma quali sono questi germogli?
Che il tema della sostenibilità – nella sua accezione ampia: cioè ambientale e sociale – sia oggi imprescindibile lo hanno capito prima di tutto alcune imprese, quelle più dinamiche. La sostenibilità promuo-ve un modello di sviluppo in cui valore economico e sociale sono ricongiunti in un’ottica di medio-lungo periodo. Numerose ricerche dicono che le imprese di successo sono quelle che adottano una strategia centrata su qualità integrale della produzione; relazioni basate sulla fiducia e il reciproco riconoscimento con i dipendenti e la filiera dei fornitori; attenzione al territorio e all’ambiente. La logica dello sfruttamento invece (del lavoro, dei fornitori, dell’ambiente e del territorio, in una eterna lotta quotidiana su quantità e prezzo) non porta molto lontano.

Considerazioni analoghe valgono per i territori. A fiorire sono quelli capaci di mettersi insieme per fare squadra e creare sinergia, superando divisioni e lotte intestine. Le infrastrutture, la formazione, l’integrazione sociale, l’identità locale non sono costi ma investimenti. La stessa BCE ha di recente ammesso che le spese per sanità, educazione e infrastrutture “hanno effetti positivi sulla crescita a lungo termine, riducendo al tempo stesso la spesa improduttiva”.

In terzo luogo, oggi si riconosce che la motivazione è decisiva per armonizzare soddisfazione personale e successo d’impresa. Non solo, tra artigiani, professionisti, tecnici, manager, imprenditori – specie se donne – cresce la domanda di un lavoro associato a un senso. C’è voglia di qualche cosa di più: non solamente far funzionare macchine, servire un sistema efficiente, ma dare il proprio contributo, essere artefici del cambiamento di sè e della società, rispondere ai bisogni e risolvere i problemi mettendo in campo la propria intelligenza.
Una domanda da ascoltare e sostenere. Perché questo è il desiderio umano che è mediato dal lavoro: poter esprimere la propria creatività personale prendendo parte al movimento generativo della vita.

Anche tra i consumatori cresce la consapevolezza del voto col portafoglio. Come un sasso nello stagno, ogni atto di acquisto produce conseguenze che arrivano molto lontano all’interno del sistema economico. Una consapevolezza che cresce orientando nuovi stili di vita e nuovi modi di produzione.

Tutto ciò è particolarmente vero per i giovani. Le ricerche dicono che le nuove generazioni giudicano positivamente l’economia di mercato ma chiedono che sia regolata e messa al riparo dai suoi eccessi. Molto sensibili nei confronti della questione ambientale, i ragazzi sanno che sarà la loro generazione a sopportare i costi di una colpevole inazione. Inoltre, le nuove generazioni ambiscono a costruire un equilibrio migliore tra vita e lavoro, dove la remunerazione economica non costituisce l’unico criterio di scelta. Per lo più aperti e tolleranti verso i migranti, i giovani pensano che l’affermazione personale non debba andare a discapito delle relazioni. Il loro sogno è che il riconoscimento delle loro capacita dal desiderio non sia dissociato dal vantaggio per la comunità circostante.

Che in mezzo a tante difficoltà, a tanto dolore, ci sia ragione di sperare lo mostrerà efficacemente il docufilm che vedremo nel pomeriggio. Un documento prezioso che ci permetterà di intuire quale può essere il nostro futuro.
Prima di tutto rinnoviamo dunque i nostri occhi e il nostro cuore: di fronte ai guasti lasciati dallo sviluppo disordinato degli ultimi decenni, sono tanti coloro che stanno già cercando un nuovo modo di pensare e di vivere il legame con l’altro (visto come costitutivo e non minaccia della propria libertà) e la realtà che li circonda (da rispettare, non semplicemente da sfruttare e manipolare).
Secondo la cornice di uno sviluppo umano integrale tracciato dalla Laudato si’.
Si tratta di non disperdere questo fermento, ma di convogliarlo in una visione unitaria che un po’ per volta occorre far emergere.

Forzando un po’ (ma non troppo!) i termini della questione, si può dire che l’Italia si trova davanti a un bivio: o cadere ancora di più nella spirale di sfruttamento e disuguaglianza resa possibile da una digita-lizzazione che pretenda di organizzare l’intera società come una grande fabbrica; oppure incamminarsi verso un nuovo sentiero di sviluppo che, rilegando economia e società, metta al centro la creatività umana arrivando a delineare una transizione migliore tra vita e lavoro.

7. La primavera, però, non è l’estate – tempo del caldo e dell’attesa – e tanto meno l’autunno – tempo del raccolto. È piuttosto il tempo della semina, cioè della speranza, dell’audacia, dell’impegno. Di chi sa credere senza vedere ancora i frutti.
È questa la stagione che stiamo vivendo!
Ma che cosa possiamo o dobbiamo seminare?

8. Il tempo che viviamo ci sollecita a mettere in discussione l’idea semplice secondo la quale attraverso il consumo – sostenuto dalla finanza – sia possibile sostenere la crescita.
L’ordine dei fattori va invertito: solo quelle imprese, quelle organizzazioni, quei territori, quelle comuni-tà che sapranno mettersi insieme per “produrre valore” potranno prosperare.
Prima occorre produrre valore e poi, solo poi, si può consumare. Non più viceversa.
Si tratta di un vero e proprio Cambio di paradigma. Abbandonata la strada fasulla dell’illusionismo finanziario, siamo chiamati a tornare a “lavorare tutti insieme nella creazione di un valore comune”, in-sieme economico e sociale, materiale e spirituale, secondo un nuovo mix di efficienza e senso, imprenditività e solidarietà, immanenza e trascendenza.

9. Lo provo a dire con una metafora: nel nuovo “mare della tecnica” che avvolge l’intero pianeta, si ripropone la questione della terra.
Etimologicamente, il termine “terra” significa secco, non umido, in contrapposizione al mare, ambiente liquido e infido e come tale impossibile da dominare. Dante usa l’espressione “gran secca” per dire che, per esistere, la terra deve emergere dal mare.
La terra dà dunque il senso di una solidità, di una permanenza, cioè di una storia, di una cultura, di un futuro. Di un servizio.
In una parola, di un nomos, una legge. Parola che ha una triplice valenza etimologica: Nehmen significa presa, conquista; Teilen divisione, sparti-zione; Weiden coltivazione, valorizzazione.
Che la “terra” (cioè la politica) rischi di ripresentarsi oggi come conquista (guerra) o divisione (muri) è evidente.
Ma la verità è che, al di là di ogni pretesa di autosufficienza, la terra umana oggi si può costituire solo in rapporto al mare della tecnica e alle altre terre emerse.
Certo, la terra presuppone un limite, una cultura (cioè una coltivazione). Ma questo non implica né muri né contrapposizioni.
La via ce la suggeriscono piuttosto i biologi quando, a proposito delle cellule, distinguono tra parete e membrana: la prima trattiene tutto per quanto può e da via quanto meno possibile; la seconda, porosa e resistente, permette il fluire delle diverse sostanze senza per questo perdere la propria struttura.
In effetti, se è vero che nessuna terra può fiorire oggi indipendentemente dal mare tecnico planetario (con i suoi codici, i suoi linguaggi, i suoi standard) è altrettanto vero che la terra – e il suo nomos – oggi può “emergere” più che mediante il richiamo alla separatezza e, con essa, al sangue, attraverso l’azione del custodire e del coltivare – che mette la tecnica al servizio della vita dei suoi abitanti.

10. Ecco dunque il “nomos della terra” nell’era del mare tecnico: per diventare umana, la terra va lavo-rata, insieme, con impegno e generosità. Perché così solo così può fruttare.
In tale contesto, il lavoro non solo può, ma deve tornare a essere al centro del nostro modello di sviluppo.
E non a parole ma nei fatti. Nelle scelte concrete delle imprese, della pubblica amministrazione, delle famiglie. Il che significa nelle forme contrattuali, nella imposizione fiscale, nelle regole degli appalti, nella organizzazione scolastica e educativa.

11. Invero, non c’è nulla di scontato nel dire che occorre rimettere al centro del nostro modello di sviluppo il lavoro nella sua accezione antropologicamente più ampia.
Semplicemente perché veniamo da una lunga stagione in cui ciò non è stato vero.
Ma cosa vuol dire mettere al centro il lavoro?

12. Primo: prendersi cura dell’umano in tutte le sue dimensioni. Si discute di formazione e competenze. Ma una cosa va riaffermata con forza: occorre for-mare, cioè capacitare, la persona, superando le false dicotomie che separano invece di tenere insieme. Non va bene un’idea di cultura astratta, distaccata, rispetto alla quale la realtà non pare mai all’altezza; ma nemmeno un tecnicismo asfittico, schiacciato sul fare per il fare. Occorre ribadire che la persona intera è fatta di tante dimensioni (cognitiva, emotiva, manuale, sociale) che vanno tutte stimolate e curate, coltivando il sapere teorico che quello pratico, la conoscenza formale e quella informale. La possibilità di realizzarsi anche lavorativamente (senza produrre scarti) dipende dalla crescita armoniosa di tante dimensioni diverse.
Un processo delicato che deve vedere tanti soggetti e istituzioni agire di concerto. Perché una formazione integrale non è mai solo un affare privato. Dice bene un proverbio africano: per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio. Tradotto nel linguaggio contemporaneo: L’educazione è un bene comune.
Il che significa anche che, alla lunga, non c’è nemmeno crescita se la comunità non si cura dei propri giovani, soprattutto di quelli più fragili. In una prospettiva di sviluppo sostenibile, l’inclusione è un principio economico.

13. Secondo: Mettere al centro il lavoro significa creare un ecosistema favorevole a chi lo crea e a chi lo pratica.
Obiettivo che in Italia appare rimane lontano.
Andare in questa direzione significa:
detassare quanto più possibile il lavoro e poi in generale le attività che lo creano;
fare arrivare a chi crea lavoro (non a chi specula o vive di rendita) le risorse disponibili.
Combattere il castello kafkiano della burocrazia.
Gli avversari dunque sono chiari: finanza predatrice, stato distruttore, speculazione edilizia, sovranità del consumatore.
Ma non si tratta solo di “liberare” il lavoro.
Si tratta anche di creare nuovo valore. Cioè nuova economia. Obiettivo che richiede una rinnovata capacità di stipulare “alleanze” per creare quel “valore condiviso” tra le cui pieghe è nascosta buona parte dell’economia del futuro.
Gli esempi sono tanti. Dal welfare all’edilizia, dall’ambiente ai beni culturali, dall’educazione alla ricerca, dall’energia alle infrastrutture: il lavoro può nascere solo la dove si saprà mettersi insieme per produrre nuovi tipi di beni.
Quello che viviamo è un tempo di innovazione non di conservazione.

14. Terzo: Non basta parlare del lavoro purchessia. Il lavoro va sempre e di nuovo Umanizzato. Nell’epoca dei robot e della intelligenza artificiale, il lavoro si salverà solo capendo meglio e valoriz-zando la specificità del lavoro umano.
Per reggere l’impatto della digitalizzazione c’è bisogno di una conversione culturale: passare da un’economia della sussistenza a un’economia dell’esistenza; produttrice, cioè, di saper-vivere e di saper-fare, dove il lavoro non sia mera fabbricazione, ma contribuzione. Come ha detto Papa Francesco, “Oggi la creazione di nuovo lavoro ha bisogno di persone aperte e intraprendenti, di relazioni fraterne, di ricerca e investimenti per risolvere le sfide del cambiamento climatico”.
Per umanizzare occorre avere ben chiara la distinzione tra estrazione e creazione di valore. Nel primo caso si tratta di spremere il limone dell’efficienza andando a scovare tutti i frammenti di realtà a cui si può applicare un prezzo. Nel secondo caso, si tratta di cogliere i bisogni che non hanno ancora risposta, di mettere insieme ciò che è frammentato o disperso, di favorire la collaborazione tra le parti, di scommettere sulla capacità di iniziativa delle persone e delle comunità.
Due strade in apparenza sovrapposte, ma che portano a esiti molto diversi.

15. Sono questi i 3 temi delle tre sessioni parallele dove proseguiremo il lavoro dei tavoli di ieri.

16. Di fronte alle gravissime difficoltà in cui si dibatte la generazione dei nostri figli non basta perciò evocare una generica ripresa, dubbia nella consistenza e ancora di più nei suoi effetti.
Né tanto meno si tratta di sollecitarli a correre non si sa verso dove né per fare che cosa.
Si tratta, piuttosto, di autorizzarli a diventare autori – col nostro pieno e convinto sostegno – della costruzione di un modello di sviluppo meno ossessionato dalla crescita quantitativa, dalle performatività, dall’efficienza e più interessato a una nuova sintesi tra materiale e spirituale, strumentalità e senso, efficienza e creatività.
È questo l’invito di Papa Francesco: “adoperatevi per andare oltre il modello di ordine sociale oggi prevalente. Dobbiamo chiedere al mercato non solo di essere efficiente nella produzione di ricchezza e nell’assicurare una crescita sostenibile, ma anche di porsi al servizio dello sviluppo umano integrale. Non possiamo sacrificare sull’altare dell’efficienza – “vitello d’oro” dei nostri tempi – valori fonda-mentali come la democrazia, la giustizia, la libertà, la famiglia, il creato. In sostanza, dobbiamo mirare a “civilizzare il mercato”, nella prospettiva di un’etica amica dell’uomo e del suo ambiente”
Questa dunque deve essere l’ambizione: lavorare con e per le nuove generazioni allo scopo di promuovere il lavoro degno, non sfruttato e degradato, ragionevolmente retribuito e stabile. Come pilastro di un nuovo modello di sviluppo.
Prima di tutto per ragioni di senso. Perché vogliamo la felicità delle persone. Di tutte le persone. E poi per ragioni di merito: perché nel tempo che viviamo solo la qualità del lavoro sarà capace di fare anche la sua quantità.

17. E tuttavia, nel caso Italiano, indicare la direzione non basta. Perché i nostri giovani ce la facciano, c’è bisogno di uno sforzo straordinario per trasformare in un’occasione l’allungamento della vita media.
Giovedì il card. Bassetti ha parlato di un grande patto per il lavoro. Un patto che deve essere prima di tutto intergenerazionale.
Se si vuole invertire il declino generazionale occorre realizzare un patto intergenerazionale che miri a sciogliere una contraddizione che rischia di essere micidiale: chi ha il patrimonio non investe perché vuole proteggersi (gli anziani) e chi vuole investire non può farlo perché non dispone delle risorse necessarie e anzi è gravato dal debito accumulato (i giovani).
In condizioni differenti, ci troviamo in un passaggio di fase paragonabile al 1945 (con la Costituzione) e al 1970 (con lo statuto dei lavoratori). Oggi si tratta di proporre all’Italia di stipulare un grande patto intergenerazionale basato sulla rinnovata centralità del lavoro degno così da far emergere il “bene comune” (vero e proprio Interesse) che lega anziani e giovani: l’avvio di una stagione qualitativamente diversa di sviluppo (basata sulla centralità del lavoro) a vantaggio delle giovani generazioni come condizione per la sostenibilità della protezione degli anziani (che vivono più a lungo).
Una opportunità che richiede la creazione di nuovi strumenti (finanziari, fiscali, contrattuali, etc.) per mettere in gioco Il patrimonio (cioè il dono-del-padre) mobiliare e immobiliare accumulato in favore della ripartenza delle giovani generazioni.
Una questione che deve riguardare le famiglie, ma anche le imprese, le associazioni, lo stato, la chiesa.

17bis. Ecco dunque cosa ci chiede l’arrivo di una nuova primavera: tornare a seminare con speranza e larghezza così da poter sperare di raccogliere, a suo tempo, frutti buoni.

18. Ci sostiene una convinzione profonda: l’Italia ha tutte le qualità per essere il luogo dove aprire il cantiere di questo nuovo paradigma.
La tradizione italiana si distingue infatti per non avere mai ridotto il lavoro alla astrazione, alla serialitá, alla banalizzazione, mantenendo piuttosto la capacità di incarnarlo nella concretezza della vita. Quando è stata fedele a questa sua vocazione, il lavoro italiano ha saputo tenere assieme ciò che altrove si è separato: il bello con la funzione, la mano con la testa, il singolo con la comunità, l’utilità con il dono, e soprattutto, il particolare con l’universale e l’immanenza con la trascendenza.
In tale modello, il lavoro – inteso come esperienza viva in cui la persona conosce se stessa e si forma nel suo rapporto con la realtà (come dice Guardini, “l’uomo diventa se stesso quando abbandona se stesso, non però nella forma della leggerezza del vuoto ma in direzione di qualcosa che giustifica il rischio di sacrificare se stessi” – è stato fondamento del ben vivere e del ben essere, fattore di incivilimento, mediatore tra politica, economia e cultura.
Ciò spiega perché il lavoro è sempre stato uno dei modi – forse il modo – mediante cui l’Italia ha saputo esprimere la propria anima.
Da questo genius loci, che valorizza l’unicità di ogni esistenza, talento, vocazione, terra origina anche quella creatività che tanto peso ha sulla prosperità economica.
Una originalità profondamente intrisa di quella matrice Cristiana che, secondo Guardini, fonda l’umanesimo della concretezza.
Al di là delle difficoltà, la transizione in corso è l’occasione per recuperare e valorizzare questa nostra matrice culturale e spirituale che nel secoli ha prodotto esperienze straordinarie, ancora oggi ammirate in tutto il mondo.
L’ultima in ordine di tempo è quella di Adriano Olivetti che già 50anni fa aveva intuito, e provato a mettere in pratica, l’opportunità di uno sviluppo sostenibile basato sulla valorizzazione del territorio e delle comunità di persone che lo abitano.
È ripartendo da qui, dalla riscoperta della sua più intima matrice cattolica, che oggi l’Italia può risollevarsi, cogliendo le opportunità del cambio di paradigma in corso.
Dobbiamo chiudere una pagina e aprirne una nuova.
La primavera si annuncia, come suggeriscono i segni dei tempi. Ma, come altre volte in passato, senza il contributo coraggioso della radice Cattolica il paese non ce la farà.
È questa la responsabilità da assumere: L’umanesimo della concretezza è, oggi come ieri, il codice più appropriato per ricomporre fede e storia.
———–
- Fonte articolo
- Il docufilm Il Lavoro che vogliamo.
- Per correlazione: intervento del direttore di Aladinews.
————————————————-
28 ottobre 2017 – Le quattro proposte della Chiesa italiana al governo
Settimane Sociali Le quattro proposte della Chiesa al governo

Oggi martedì 24 ottobre 2017

democraziaoggisardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413filippo-figari-sardegna-industre-2
——————————–riflessioni & dibattito——————————-
democraziaoggi-loghettoVeneto, Lombardia, Catalogna: che vento è?
24 Ottobre 2017

Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
——————————————
eddyburgSOCIETÀ E POLITICA » TEMI E PRINCIPI » POLITICA
Neoliberalismo: l’idea che ha inghiottito il mondo
di CARMENTHESISTER
vocidall’estero, 19 ottobre 2017, ripreso da eddyburg e da aladinews. Un articolo di Stephen Metcalf dal The Guardian sul pensiero che domina la nostra epoca: il neoliberalismo. (c.m.c.)
«Sul The Guardian, un approfondimento che risale alle origini del neoliberalismo per rintracciarne le caratteristiche peculiari e sottolineare l’ambizione di trasformare completamente la visione del mondo contenuta in quella “Grande Idea” di Von Hayek, che alla fine è riuscita a permeare completamente la società di oggi. Il neoliberalismo è divenuto l’idea dominante della nostra era, che venera la logica del mercato, deprivandoci delle capacità e dei valori che ci rendono più propriamente umani. (…)
——————————————————————————-
lampada aladin micromicroGli Editoriali di Aladinews. Grave provocazione della Giunta regionale contro il Movimento Pastori Sardi, la più importante organizzazione di lavoratori dell’Isola. Di Vanni Tola.
——————————————————-
lucamercalliEDDYBURG » POSTILLE » INVERTIRE LA ROTTA
Luca Mercalli: «Auto elettrica e tele-lavoro: soluzioni pratiche per non intasare le metropoli»
di MAURIZIO PIGLIASSOTTI
il manifesto, 22 ottobre 2017, ripreso da eddyburg e da aladinews. «Siamo di fronte alla combinazione di un fenomeno anomalo, sicuramente. La seconda estate più calda della storia si è saldata con una siccità prolungata che riguarda le regioni del nord ovest». Ha ragione, ma c’è ben di più, vedi postilla
———————————————————————–domani&dopodomani
cropped-railway-wallpaperok-ok-ok-5Cagliari: 25 e 26 ottobre, Sala Capitini Sa Duchessa, Convegno internazionale su Pavel A. Florenskij nell’80° anniversario della morte
Su SardegnaSoprattutto.
- Su Unica: il sito dedicato del Convegno.
———————————————————————————-
labsusIL PUNTO DI LABSUS
Città e sussidiarietà: da Aristotele ai beni comuni
Filippo Maria Giordano – 24 ottobre 2017, su LabSus.

La città è stata motore della civiltà europea e costituisce una fonte di creatività e sviluppo senza eguali, in cui è possibile rintracciare l’origine di molte peculiarità sociali, economiche e politiche che ancora oggi caratterizzano le società del nostro continente. (segue)

Materiali del Convegno per il Lavoro.

locandina-convegno-2Intervento di Giacomo Meloni al Convegno “Lavorare meno. Lavorare meglio. Lavorare tutti”
Cagliari 4-5 ottobre 2017

giacomo-mNon vi parlerò come sindacalista, ma, viste le polemiche di questi giorni, voglio precisare che sono contro ogni intervento dei Governi sui sindacati, che devono necessariamente riformarsi ed adeguarsi alla società contemporanea.
La vera riforma del sindacato è quella di regolare per legge la rappresentanza, affidandola a libere elezioni tra i lavoratori col sistema proporzionale.
(segue)

Trasformare l’esistente: che lavoro vogliamo?

mani2
di Giacomo COSTA, Aggiornamenti Sociali,
as-loghettolampada aladin micromicro
Il tema del lavoro attraverserà l’annata 2017 della Rivista “Aggiornamenti Sociali”, per arricchire la riflessione in vista della Settimana sociale dei Cattolici italiani che si terrà a Cagliari dal 26 al 29 ottobre p.v. A partire da un’analisi del contesto attuale, la Rivista con il presente Editoriale e con altri articoli correlati inizia a presentare alcuni spunti per rimettere a fuoco il senso del lavoro stesso. Come Aladinews ci permettiamo riprendere queste importanti riflessioni che costituiscono preziosa documentazione anche per il Convegno sul Lavoro promosso dal Comitato d’Iniziativa Sociale Costituzionale Statutaria di Cagliari, che si terrà nei giorni 4 e 5 ottobre 2017 (tra i relatori: Domenico De Masi e Silvano Tagliagambe).
——————
aggiornamenti-sociali-logo
Trasformare l’esistente: che lavoro vogliamo?
Il lavoro, e ancora di più la sua mancanza, sono al centro dell’attenzione collettiva del nostro Paese, dalle preoccupazioni e sofferenze di tante persone e famiglie, al dibattito sulle politiche nazionali ed europee, passando per la rappresentazione mediatica di questi fenomeni. L’interesse si concentra in larga parte sull’andamento del tasso di disoccupazione (generale e giovanile), con l’onnipresente interrogativo se sia o meno effetto del Jobs Act, sulle modifiche delle tutele normative, sulle crisi aziendali e i relativi esuberi, sugli ammortizzatori sociali per chi perde il lavoro (ad esempio gli “esodati”), sul ruolo del sindacato, la dialettica al suo interno e con le controparti datoriali e governative.

In tutto ciò, il lavoro viene più o meno consapevolmente assunto come sinonimo di occupazione e, conseguentemente, di remunerazione, condizione peraltro essenziale per condurre un’esistenza dignitosa e progettare il proprio futuro. In questo modo però finisce col prevalere un approccio soprattutto economico al lavoro, e si lasciano nell’ombra altri aspetti non meno importanti.

Ad esempio, meno frequentato è il tema dei mutamenti radicali che il mondo del lavoro sta attraversando e che lo allontanano dall’impianto logico e ideologico novecentesco, ancora ben presente nell’immaginario collettivo: il posto fisso, la focalizzazione sul lavoro dipendente, le relazioni industriali e la concertazione. Serve dunque uno sforzo per mettere nuovamente a fuoco le coordinate del mondo del lavoro e capire come declinare al loro interno preoccupazioni antiche, ma non per questo obsolete: tutela dei diritti e della sicurezza di chi lavora, inclusione e protezione di chi un lavoro l’ha perso o non riesce a trovarlo, con un atteggiamento di rispetto per il dramma della disoccupazione che attraversa la vita di molte persone e la società nel suo insieme, in particolare al Sud, ma non solo.

8goals-buona-occupazione-crescita-economicaLa traiettoria evolutiva del lavoro è al centro dell’attenzione internazionale. L’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) si sta preparando a festeggiare il centenario della propria fondazione nel 2019 con una articolata iniziativa sul futuro del lavoro, che mette a tema i fattori che lo stanno cambiando, a partire da nuove tecnologie e cambiamenti climatici. Inoltre esso è uno dei temi centrali dell’intera Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, approvata dalle Nazioni Unite nel 2015, e non soltanto dell’Obiettivo n. 8, dedicato esplicitamente a lavoro dignitoso e crescita economica.

In ambito nazionale si sta preparando la 48ª Settimana sociale dei cattolici italiani, prevista a Cagliari dal 26 al 29 ottobre 2017, intitolata «Il lavoro che vogliamo: “libero, creativo, partecipativo e solidale” (EG 192)» (cfr ). Nell’invito rivolto a tutte le diocesi italiane, il presidente del Comitato organizzatore, l’arcivescovo di Taranto mons. Filippo Santoro, oltre a dettagliare le tappe di preparazione, indica come obiettivo un confronto sul lavoro inteso come vocazione, opportunità, valore, fondamento di comunità e strumento di promozione della legalità, capace di articolare una pluralità di registri comunicativi (denuncia, racconto e condivisione dell’esperienza diretta, raccolta e rilettura delle buone pratiche, elaborazione di proposte innovative).

Aggiornamenti Sociali ha deciso di partecipare a questo processo di riflessione con le modalità proprie di una rivista di approfondimento, accompagnando con un dossier il percorso verso la Settimana sociale di Cagliari. Gli articoli che appariranno via via sulle nostre pagine saranno raccolti in una sezione dedicata del sito [Dossier di Aggiornamenti Sociali], a partire da questo editoriale e dai contributi di questo numero sull’alternanza scuola-lavoro (Daniela Robasto, pp. 14-23), sull’enciclica Laborem exercens che nel 1981 Giovanni Paolo II dedicò al tema del lavoro (Philippe Laurent SJ, pp. 73-77) e sui green jobs (l’infografica alle pp. 64-65). All’interno di questa prospettiva, l’obiettivo di questo editoriale è provare a evidenziare quattro tra gli snodi più significativi per una riflessione sul lavoro: l’impatto dell’innovazione tecnologica, la dimensione sociale del lavoro, le contraddizioni del settore informale, la questione del senso del lavoro. In forma più analitica, questa riflessione si arricchirà dei contributi che andranno man mano a comporre il dossier.

Governare la quarta rivoluzione industriale
Senza dubbio il primo fattore di cambiamento del mondo del lavoro resta il progresso tecnologico. Si parla ormai abbastanza comunemente di quarta rivoluzione industriale o di industria 4.0: dopo quella del carbone e della macchina a vapore (XIX secolo), quella del petrolio, dell’energia elettrica e della produzione di massa (secondo dopoguerra), quella di Internet, delle tecnologie dell’informazione e dell’automazione, questa nuova tappa, di cui non siamo ancora in grado di precisare l’inizio, appare legata agli sviluppi nel campo dell’intelligenza artificiale (macchine in grado di apprendere), della stampa 3D, delle nanotecnologie e delle biotecnologie, con la possibilità di creare interfacce di interazione uomo-macchina fino a pochi anni fa considerate fantascienza. Quali cambiamenti provocherà nel lavoro, nella società e nella vita quotidiana?
robot
Macchine sempre più sofisticate, capaci di apprendere dalla propria esperienza e da quella delle persone, e in grado di analizzare in un batter d’occhio masse di dati che una persona impiegherebbe anni a raccogliere, rivoluzioneranno il rapporto con coloro che le utilizzano, che potrebbero ritrovarsi a diventare semplici “terminali umani” di sistemi interconnessi sempre più sofisticati. Se anche non fosse così, si amplierà lo spazio dell’impiego di macchine al posto dei lavoratori, investendo non solo le mansioni di routine o di fatica, ma anche quelle più sofisticate: i progressi nel campo della traduzione automatica, della guida senza conducente e addirittura delle diagnosi mediche automatizzate e a distanza ne sono un esempio. Anche settori normalmente considerati tradizionali, come quello del commercio e della distribuzione, stanno sperimentando cambiamenti rapidissimi, con effetti occupazionali già piuttosto evidenti [in argomento si segnala il saggio-breve di Fernando Codonesu su Aladinews].

Un altro effetto delle nuove tecnologie è ridurre la necessità della standardizzazione a favore della personalizzazione dei prodotti in base alle esigenze del cliente e della possibilità di produrre on demand. Crescono dunque le pressioni perché anche i lavoratori accettino questa logica, uscendo da un modello basato su prestazioni lavorative continuative, per offrire invece la propria opera quando un’applicazione tecnologica ne trasmette la richiesta. A qualche possibilità di conciliazione tra vita personale e lavorativa, questi scenari accoppiano inquietudini radicali dal punto di vista delle tutele dei lavoratori. Bloccare innovazioni che portano benefici al consumatore è praticamente impossibile nel medio-lungo periodo: quali politiche e quali strutture potrebbero aiutare a gestire il cambiamento e a rendere la transizione sostenibile per tutte le persone coinvolte?

Certamente il massiccio ingresso delle tecnologie digitali nei processi produttivi rende imprescindibile affrontare la questione dell’alfabetizzazione digitale, dato che non padroneggiarle è un fattore potenziale di esclusione. Immaginare però le trasformazioni del rapporto uomo-macchina come un flusso che, senza attriti, conduce all’automazione totale è una rappresentazione con pochi appigli nella realtà. Si tratta piuttosto di chiedersi come orientare e governare questo processo che resta ancora aperto a esiti diversi (papa Francesco ci ricorda che in definitiva «i costi umani sono sempre anche costi economici e le disfunzioni economiche comportano sempre anche costi umani» [enciclica Laudato si’, 2015, n. 105] e che «rinunciare a investire sulle persone per ottenere un maggior profitto immediato è un pessimo affare per la società» (LS, n. 128]).

Pur con significative differenze, nasce dall’innovazione tecnologica anche la sharing economy (economia della condivisione). Anch’essa tende a rendere flessibile la frontiera netta tra tempo di lavoro e di non lavoro (ad esempio quando si trasforma un viaggio in auto in una opportunità di guadagno, offrendo un passaggio a pagamento), ma promuove anche modelli di interazione che possono favorire nuove forme di legame sociale. In questo senso, ancora maggiori sono le potenzialità dell’applicazione delle nuove tecnologie a contesti quali il consumo critico: le piattaforme digitali aumentano la possibilità di interazione a distanza tra produttori e consumatori, offrendo una tutela della stabilità lavorativa per i primi e della qualità per i secondi.

Riscoprire la dimensione sociale del lavoro
La fabbrica come luogo simbolo del XX secolo metteva in risalto la dimensione collettiva, immediatamente sociale del lavoro, recepita con chiarezza anche dalla nostra Carta costituzionale. In quell’epoca, il lavoro costituiva la base dell’identità sociale, veicolata dal mestiere esercitato, ma per certi versi ancora di più dalla posizione occupata nelle gerarchie del mondo del lavoro; al suo interno si formava quel tessuto di legami in cui potevano affondare le proprie radici le esperienze di solidarietà da cui traggono origine i sindacati o le mutue cooperative.

La progressiva parcellizzazione della produzione, unita al prevalere di una cultura individualista, spiegano l’indebolimento della percezione del carattere sociale del lavoro. Certo esso non è più la base principale dell’identità sociale, affiancato e talvolta rimpiazzato dal consumo, mentre la crisi delle solidarietà di tipo sindacale risulta evidente nella maggior parte dei Paesi del mondo. Anche il lavoro sembra spinto sempre più nella sfera del privato e alcune tendenze della quarta rivoluzione industriale possono accentuare questo processo.

È in questo scenario che va collocato il ripensamento di alcuni istituti e pratiche della nostra società. Un primo fronte è quello del welfare, il cui modello universalista novecentesco sembra entrato in una crisi irreversibile per ragioni economiche, di fronte alla quale emergono risposte innovative anche interessanti, come il welfare di comunità, proposto da alcuni soggetti del terzo settore, o il welfare aziendale, oggetto di crescente attenzione da parte delle imprese, anche a causa di forme di incentivazione pubblica. Il rischio è di perdere in uguaglianza e inclusione, frammentando la platea dei beneficiari tra ipergarantiti (ad esempio quanti lavorano in grandi imprese o in settori ad alta produttività), poco garantiti (gli occupati di settori più marginali) e per nulla garantiti (gli esclusi dal mercato del lavoro), sulla base di una condizione individuale che non è rappresentativa del contributo che ciascuno reca al bene comune e al benessere collettivo. Perplessità suscitano anche quegli strumenti che sembrano ridurre il welfare a erogazione di sussidi monetari: possono dare risposta a bisogni immediati, ma difficilmente da soli riescono a innescare dinamiche di partecipazione e di attivazione delle capacità personali, in vista di una definitiva uscita dalla condizione di marginalità. Anche nel caso del welfare risulta cruciale trovare forme adeguate di governo delle sperimentazioni e dei processi di innovazione, puntando a identificare attraverso l’ascolto e il dialogo le soluzioni più promettenti nel lungo periodo, e a valorizzarle in quanto generatrici di capitale sociale.

Un secondo cantiere riguarda la costruzione creativa di forme di solidarietà fondate sulla partecipazione alla produzione di ricchezza come sforzo collettivo, a prescindere dalla forma contrattuale con cui ciascuno è ingaggiato: è lo spazio in cui possono rinnovare la propria vitalità il mondo cooperativo e quello associativo, e mettere radici le nuove reti di cittadinanza attiva. Questo interpella anche il sindacato: soltanto vincendo la sfida a diventare plurale esso potrà ritrovare la propria funzione all’interno di un mutato scenario, che peraltro ne mostra un impellente bisogno. Occorre abbandonare una concezione del sindacato come strumento di tutela del lavoro salariato (per di più magari ormai a riposo), per assumere una responsabilità nei confronti della partecipazione ai processi decisionali di tutti coloro che sono coinvolti, nell’ottica di una contrattazione sociale territoriale.

Un terzo ambito, in cui con piacere registriamo un certo fermento innovativo, è quello della promozione di luoghi di lavoro accoglienti e inclusivi, che permettano di dare spazio e valorizzare la ricchezza delle peculiarità e differenze delle persone che vi operano. Ci riferiamo al percorso che, partendo dalla lotta ai divari di genere e passando per la conciliazione tra vita lavorativa e personale, approda via via al diversity management e alla Human Cooperation, su cui già abbiamo avuto occasione di riflettere (cfr Costa G., «Oltre le pari opportunità: valorizzare generi e generazioni», in Aggiornamenti Sociali, 3 [2016] 181-188). Almeno alcune aziende, che svolgono un ruolo di pioniere o di minoranza profetica, hanno ormai scoperto che, quando si investe in questo campo, andando oltre quanto richiesto dalla normativa vigente, diventa possibile stabilire nuove alleanze con i propri lavoratori, a vantaggio del loro benessere e della loro produttività, in una logica di mutuo guadagno. Anche questo è uno dei modi in cui si sperimenta oggi la dimensione originariamente sociale del lavoro.

Ai margini del mercato del lavoro
I mutamenti sociali, economici e tecnologici stanno riconfigurando la tradizionale bipartizione tra lavoro formale e informale, che torna in evidenza anche nei Paesi normalmente considerati sviluppati. Secondo la definizione dell’OIL, appartengono all’economia informale le attività realizzate da lavoratori e unità produttive totalmente o in larga parte prive di coperture formali, perché si situano al di fuori di quanto previsto dalle disposizioni legislative, o perché queste non sono di fatto applicate o ancora perché il rispetto della normativa è disincentivato dalla sua complessità o dagli eccessivi costi che impone. Come è noto, l’informalità lavorativa rappresenta una sfida per la tutela della dignità e dei diritti dei lavoratori, oltre che una minaccia per la solidità delle istituzioni e la sostenibilità economica, sociale e ambientale del sistema produttivo, e un danno per le finanze pubbliche.

La frequente coincidenza tra informalità, precarietà e un certo grado di esclusione non significa però che si tratti di un fenomeno marginale: si stima che operino nel settore informale circa 3 dei 7 miliardi di abitanti del pianeta, non solo nei Paesi in via di sviluppo (dove il lavoro informale rappresenta oltre la metà dell’occupazione non agricola). Proprio quest’ampia diffusione richiede attenzione alla complessità del fenomeno, accompagnando una transizione graduale verso l’economia formale che preservi e sviluppi il potenziale imprenditoriale, la creatività, il dinamismo e la capacità innovativa che sono spesso una cifra del settore informale.

Probabilmente si può andare oltre, valorizzando il settore informale non come strumento di compensazione delle crisi, una sorta di ammortizzatore sociale a basso costo, ma come punto di osservazione per una rilettura critica del sistema in vista di una sua riprogettazione [in argomento le riflessioni di Gianfranco Sabattini, su Democraziaoggi, riprese da Aladinews]. Il settore informale ha la potenzialità per diventare il laboratorio di una economia morale, solidale e radicata nei diversi contesti territoriali, al cui interno emerge con più facilità l’innovazione sociale, purché non sia circondato da barriere invalicabili verso il settore formale, che lo trasformano invece in una sorta di ghetto per cittadini di seconda categoria (lavoratori poveri e poco qualificati, specie se di sesso femminile, migranti, giovani che non riescono a ottenere un impiego formale, ecc.). Sia gli studi sociologici sul settore informale, sia l’esperienza diretta di chi lo pratica – a cui spesso si richiama anche papa Francesco, ad esempio in occasione degli Incontri con i movimenti popolari – evidenziano come esso costituisca una riserva di valori, capacità e opportunità che risultano invece più scarsi in altri segmenti della compagine sociale. Ne citiamo alcuni a titolo di esempio: la resilienza, come capacità di abitare il limite in modo creativo, aperto al cambiamento attraverso la costruzione di legami; la cura, come atteggiamento di responsabilità verso il mondo che può prendere diverse forme, dal lavoro in ambito domestico al rispetto della natura tipico di molti popoli indigeni, che sempre di più la globalizzazione spinge ai margini e dunque nell’informalità; la solidarietà e la cooperazione, come capacità di generare relazioni che superano l’anonimato dell’individualismo consumista attraverso pratiche di riconoscimento che si traducono in empowerment di tutte le persone coinvolte.

Senza attingere a queste risorse è difficile che il settore formale e gli ordinari strumenti politici e normativi possano dare risposte efficaci alla situazione di coloro che oggi non riescono a trovare un impiego formale e talvolta neppure informale: disoccupati di lunga durata, inattivi per scoraggiamento (persone che hanno perso la speranza di trovare lavoro e quindi nemmeno più lo cercano), NEET (giovani che non hanno un lavoro né frequentano la scuola o corsi di formazione).

Per un lavoro «libero, creativo, partecipativo e solidale»
L’indispensabile attenzione alle forme concrete del lavoro, alle contraddizioni che vi si possono nascondere e alle forme di tutela che richiedono, non deve però occultare la domanda più profonda sul senso del lavoro: a che scopo lavoriamo? A quali criteri e valori si ispira il nostro lavoro e il modo in cui lo svolgiamo? Sono domande rivolte a ciascuno individualmente, alle diverse istanze sociali (impresa, reparto, équipe) al cui interno si opera e alla società nel suo insieme (su scala locale, nazionale, ecc.), che devono trovare risposta su tutti i livelli.

Diamo spesso per scontato che la remunerazione economica rappresenti un elemento costitutivo del lavoro, accettando così di definirlo e misurarlo con un metro monetario e perdendo di vista che merita di essere definita lavoro «qualsiasi attività che implichi qualche trasformazione dell’esistente» (LS, n. 125). Fin dalle prime pagine, la Bibbia non teme di presentare la creazione come un lavoro e Dio come un lavoratore, in evidente assenza di qualunque remunerazione. Senza trascurare il dramma di coloro per i quali mancanza di lavoro equivale ad assenza di reddito e povertà, rimettere a tema il senso del lavoro richiede di tornare a interrogare anche il rapporto tra lavoro, remunerazione e gratuità, per riscoprire sia la dignità di tutti quegli impegni che trasformano la realtà (spesso in meglio) escludendo deliberatamente una retribuzione economica, sia la necessità che la logica della gratuità trovi spazio anche all’interno dei rapporti economici (lavoro compreso), che altrimenti diventano rapidamente inabitabili, secondo la lezione della Caritas in veritate di Benedetto XVI.

Nel corso della storia, in particolare all’interno della cultura occidentale, il lavoro come trasformazione dell’esistente è diventato strumento di un paradigma di dominio e sfruttamento della natura che oggi mostra tutta la sua inadeguatezza nella complessa e profonda crisi socioambientale che stiamo attraversando. Ne vediamo tutta la necessità, ma la costruzione di un paradigma in cui il lavoro sia invece inserito nella logica della cura della casa comune ha ancora bisogno di avanzare per affermarsi definitivamente. È questo un secondo ambito estremamente fecondo per una ripresa degli interrogativi sul senso del lavoro.

Infine, nell’esperienza storica così come nell’immaginario collettivo, il lavoro è posto sotto il segno del dovere e della necessità, oltre a essere spesso il luogo di forme odiose di sfruttamento e oppressione (schiavitù, tratta, lavoro forzato, ecc.). Tuttavia di tanto in tanto questo telo scuro si squarcia e l’impegno per la trasformazione dell’esistente diventa l’occasione per sperimentare libertà, creatività, realizzazione e pienezza di sé: è quanto accade non solo agli artisti, ma a tutti coloro che portano a termine qualcosa di cui sentono di poter andare fieri. Riflettere sul senso del lavoro è dunque un modo di riattraversare anche il delicato rapporto tra dovere e scelta, tra necessità e libertà.

Prendere sul serio il lavoro, nella concretezza delle sue forme e nel senso umano che lo abita, è dunque un investimento che ci permette di guadagnare, come singoli e come società, in dignità e inclusione, in gratuità, cura e libertà. È questo − come ricorda il titolo della Settimana sociale di Cagliari − il lavoro che vogliamo e che dobbiamo imparare a promuovere in maniera concreta. Ne vale certamente la pena e per questo lungo il 2017 Aggiornamenti Sociali cercherà di accompagnare i suoi lettori in questo cammino.
———————–

DIBATTITO. I limiti dello «sviluppo» . Intervento di Serge Latouche: “La via della decrescita come risposta all’inganno dello sviluppo sostenibile”

mondo blueddyburgSOCIETÀ E POLITICA
Il mondo non è una merce
di Serge Latouche

«Intervento di Serge Latouche preparato per un incontro promosso a Dublino (il 24 e 25 febbraio 2017) dal titolo “La via della decrescita come risposta all’inganno dello sviluppo sostenibile”». comune-info, 28 febbraio 2017 (c.m.c.), ripreso da eddyburg.

Fare della decrescita, come hanno fatto certi autori, una variante dello sviluppo sostenibile, costituisce un controsenso storico, teorico e politico sul significato e sulla portata del progetto. La necessità, provata da tutta una corrente dell’ecologia politica e dei critici dello sviluppo, di rompere con il linguaggio fasullo dello sviluppo sostenibile, ha portato a lanciare, quasi per caso, la parola d’ordine della decrescita.

All’inizio, quindi, non si trattava di un concetto, e in ogni caso di una idea simmetrica a quella della crescita, ma di uno slogan politico di provocazione, il cui contenuto era soprattutto diretto a far ritrovare il senso dei limiti; in particolare, la decrescita non è una recessione e neppure una crescita negativa. La parola quindi non deve essere presa in considerazione alla lettera: decrescere solo per decrescere sarebbe altrettanto assurdo di crescere soltanto per crescere. Tuttavia, i decrescenti volevano far crescere la qualità della vita, dell’aria, dell’acqua e di una pluralità di cose che la crescita per la crescita ha distrutto.

Per parlare in modo più rigoroso, si dovrebbe indubbiamente usare il termine a-crescita, con l’ «a» privativo greco, come si parla di ateismo. In quanto si tratta, d’altronde, esattamente di abbandonare una fede e una religione. È necessario diventare degli atei della crescita e dell’economia, degli agnostici del progresso e dello sviluppo. La rottura della decrescita incide quindi insieme sulle parole e sulle cose, implica una decolonizzazione dell’immaginario e la realizzazione di un altro mondo possibile.

La rottura con il produttivismo e la truffa dello sviluppo sostenibile

Seppure esiste un certo margine di incertezza nel concatenersi degli avvenimenti, l’emergere di un movimento radicale che propone una alternativa reale alla società dei consumi e al dogma della crescita, rispondeva sicuramente a una necessità che non è certo esagerato definire storica. Di fronte al trionfo dell’ultra liberalismo e all’arrogante affermazione della famosa Tina (acronimo di There is non alternative, non vi sono alternative) da parte della Margaret Thatcher, le piccole massonerie che si opponevano allo sviluppo e che auspicavano il rispetto dell’ecologia non potevano più accontentarsi di una critica teorica quasi confidenziale usata solo dai sostenitori del terzomondismo.

Inoltre l’altra faccia del trionfo dell’ideologia del pensiero unico non era altro che lo slogan consensuale dello «sviluppo sostenibile», un bell’ossimoro lanciato dal Pnue (Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente) per tentare di salvare la religione della crescita che doveva fronteggiare la crisi ecologica, e visione nella quale il movimento antiglobalizzazione sembrava essere perfettamente a suo agio. Diventava urgente contrapporre al capitalismo di mercato globalizzato un altro progetto di civilizzazione, o, più esattamente, di dare visibilità ad un disegno, da tempo in gestazione, ma che si evolveva in modo molto nascosto, quasi sotterraneo. Il movimento che prende il nome della decrescita trova il suo atto di nascita durante il colloquio «Disfare lo sviluppo, rifare il mondo», che si è tenuto all’Unesco nel marzo del 2002, una avventura culturale confermata dalla nascita, qualche mese più tardi, del giornale La décroissance che le ha procurato un eco più diffuso.

Diventato rapidamente la bandiera sotto la quale raccogliersi di tutti coloro che aspirano a costruire una reale alternativa a una società di consumo ecologicamente e socialmente insostenibile, la decrescita costituisce ormai uno spettacolo significativo per rendere evidente la necessità di una rottura rispetto alla società della crescita e per far emergere una civilizzazione basata su una abbondanza frugale. La rottura con lo sviluppismo, forma di produttivismo da offrire in uso ai Paesi cosiddetti in via di sviluppo, è stata quindi la base fondante di questo progetto alternativo. Ciò si è dapprima manifestato sotto forma di denuncia dell’etnocentrismo del concetto di sviluppo, prima ancora della rottura nei confronti del produttivismo come logica distruttiva dell’ambiente. Su questo punto, il contributo degli antropologi (Marcel Mauss, Karl Polanyi, Marshall Salhins, ad esempio), ignorato dagli economisti, è stato fondamentale.

Si tratta allora, con la decrescita di un altro paradigma economico, che contesta l’ortodossia neoclassica confrontabile con ciò che è stato il keynesismo a suo tempo? Questo è il significato che tentano di attribuirgli certe persone sulla scia del progetto di Bioeconomia di Nicholas Georgescu-Roegen. È chiaro che esistono altre politiche economiche possibili diverse dall’austerità imposta da Bruxelles all’interno di una società della crescita. Il periodo chiamato «i trenta gloriosi», (1945-1975) che ha visto il trionfo della regolamentazione keyneso-fordita ne costituisce la prova. Tuttavia, in una società della crescita senza una crescita, cioè la situazione in cui si trovano attualmente i paesi industrializzati, le politiche economiche alternative a quelle di ispirazione neo-liberista, sembrano impossibili da realizzare senza rimettere in causa il sistema economico e/o aggravare la crisi ecologica.

La denuncia della truffa dello sviluppo sostenibile è fondamentale per comprendere la necessità della rottura che la decrescita comporta e comprenderne tuta la portata. Questa, in effetti, è insieme un ossimoro e un pleonasma. Un ossimoro perché in realtà ne la crescita ne lo sviluppo sono in alcun modo sostenibili o durevoli. Questo è ciò che dimostra l’ecologia ed è il contributo di Nicholas Georgescu- Roegen: «Una crescita infinità è incompatibile con un pianeta finito». Un pleonasma, perché Walt Whitman Rostow ne Le tappe della crescita economica definisce lo sviluppo come una «crescita che si autosostiene», che sarebbe come dire che una crescita sostenibile o durevole, è una crescita durevole che dura.

Contrariamente a quanto sostengono alcuni dei suoi difensori, lo sviluppo sostenibile non si è allontanato dal suo significato e dalla sua funzione originali. Inventata, secondo la leggenda, da alcuni sinceri ecologisti, il progetto sarebbe stato deviato da alcune cattive imprese transnazionali preoccupate per il green washing, la spinta a mostrare un aspetto ecologico, e da responsabili politici senza scrupoli. Questo mito, che è duro a morire, non resiste all’analisi dei fatti. Lo sviluppo sostenibile fu lanciato esattamente come una marca di detersivo e con una accurata sceneggiatura, alla Conferenza di Rio del giugno 1992, da un buono, Maurice Strong segretario del Pnud. Poiché l’operazione seduttiva è pienamente riuscita al di la delle aspettative, le folle sono cadute nella trappola, inclusi gli intellettuali critici di Attac e gli ecologisti.

Verso la fine degli anni Settanta, lo sviluppo sostenibile si è imposto contro l’espressione più neutra di «ecosviluppo» , adottata nel 1972 alla Coferenza di Stoccolma, sotto la pressione della lobby industriale statunitense e grazie all’intervento personale di Henry kissinger. L’ecosviluppo sembrava troppo «ecologico» e poco «sviluppo» , soprattutto dopo che il paesi del Sud del Mondo se ne sono impadroniti alla conferenza di Cocoyoc del 1974, con lo scopo di rivendicare un nuovo ordine economico internazionale.

Lo sviluppo sostenibile del quale si ritrova l’invocazione in tutti i programmi politici, «ha solo la funzione – precisa Hervè Kempf – di mantenere i profitti e di evitare il cambiamento delle abitudini, modificando appena la superficie». Il fatto che il principale promotore dello sviluppo sostenibile, Stephan Schmidheiny, si sia rivelato un assassino seriale è quasi troppo bello per coloro che da anni si scagliano violentemente contro questo pseudo concetto per denunciare l’intera truffa. Questo miliardario svizzero, fondatore del World Business Council for Sustainable Development, eroe di Rio 1992, e che si presenta sul suo sito come filantropo, non è altro che l’ex-proprietario dell’impresa Eternit, chiamata in causa durante il processo per l’amianto di Casale Monferrato. L’industriale condannato dal tribunale di Milano a sedici anni di prigione e il paladino dell’ecologia industriale e della responsabilità sociale di impresa si sono scoperti essere la stessa identica persona.

Il progetto della decrescita non è ne quello di un’altra crescita, né quello di un altro sviluppo (sostenibile, sociale, solidale, ecc.). Esige di uscire dalla religione della crescita, ma questo aspetto merita di essere spiegato meglio. La crescita è un fenomeno naturale e in quanto tale è indiscutibile. Il ciclo biologico della nascita, dello sviluppo, della maturazione, del declino e della morte degli esseri viventi e la loro riproduzione sono anche la condizione della sopravvivenza della specie umana, che che deve metabolizzarsi con il suo contesto vegetale e animale. Gli uomini con molta naturalezza hanno celebrato le forze cosmiche che garantivano il loro benessere nella forma simbolica del riconoscimento di questa interdipendenza e del loro debito verso la natura per tutti questi aspetti.

Il problema nasce quando la distanza tra il simbolico e il reale scompare. Mentre tutte le società umane hanno dedicato un culto giustificato alla crescita, solo l’Occidente moderno ne ha fatto la sua religione. Il prodotto del capitale, risultato di una astuzia o di una frode commerciale, e quasi sempre di uno sfruttamento della forza dei lavoratori, è considerato simile all’accrescimento di una pianta. Con il capitalismo l’organismo economico, cioè l’organizzazione della sopravvivenza della società, non più in simbiosi con la natura, ma attraverso un suo sfruttamento senza pietà, deve crescere in modo infinito, come deve crescere il suo feticcio, il capitale. La riproduzione del capitale/economia mettono insieme, confondendoli, la fecondità e l’accrescimento, il tasso di interesse e il tasso di crescita.

Questa apoteosi dell’economia/capitale si trasforma nel fantasma dell’immortalità della società dei consumi. È in questo modo che noi viviamo nella società della crescita. La società della crescita può essere definita come una società dominata da una economia della crescita e che tende a lasciarsene assorbire. La crescita per la crescita diventa così l’obiettivo primordiale se non addirittura l’unico dell’economia e della vita. Non si tratta più di crescere per soddisfare dei bisogni riconosciuti, cosa che sarebbe ancora positiva, ma di crescere per crescere.

La società dei consumi è l’approdo normale di una società della crescita. Ciò si basa su una triplice mancanza di limiti: una produzione senza limiti e quindi sono illimitati anche i prelievi delle risorse, rinnovabili e non rinnovabili; assenza di limiti nei consumi, e quindi anche nella produzione di bisogni e di prodotti superflui; mancanza di limiti nella produzione di rifiuti e quindi nelle emissioni di scarichi e di inquinanti (dell’aria, della terra e dell’acqua).

Per essere sostenibile e durevole, qualunque società deve porsi dei limiti. Ora, la nostra, si vanta di essersi liberata da qualunque vincolo e ha optato per la dismisura. Certo, nella natura umana esiste qualche elemento che spinge l’uomo a superarsi continuamente. Ciò costituisce insieme la sua grandezza e una minaccia. Così tutte le società, eccetto la nostra, hanno cercato di canalizzare questa capacità e di farla lavorare per il bene comune. In effetti, quando la si spende nello sport non commercializzato, questa aspirazione può non essere nociva. Viceversa, essa diviene distruttiva quando si lascia libero corso alla pulsione dell’avidità («ricercare sempre qualcosa in più») nell’accumulazione di merci e di denaro. Si deve quindi ritrovare il senso del limite per garantire la sopravvivenza dell’umanità e del pianeta. Con la decrescita, si intende uscire da una società fagocitata dal feticismo della crescita. E per questo la decolonizzazione dell’immaginario è indispensabile.

Il progetto di una società dell’abbondanza frugale

La parola decrescita indica ormai un progetto alternativo complesso e che possiede una portata analitica e politica che non può essere contestata. Si tratta di costruire un’altra società, una società dell’abbondanza frugale, una società post-crescita (Niko Paech), cioè della prosperità senza crescita (Tim Jackson). In altre parole, non si tratta di creare all’improvviso un progetto economico, fosse pure di un’altra economia, ma un progetto societario che comporta di uscire dall’economia come realtà e come logica imperialista. Ciò che viene prima è dunque la decolonizzazione dell’immaginario.

L’idea e il progetto della decolonizzazione dell’immaginario hanno due fonti principali: la filosofia di Cornelius Castoriadis da una parte e la critica antropologica dell’imperialismo dall’altra. Queste due fonti si trovano in modo molto naturale, a fianco della critica ecologica, alle origine della decrescita. In Castoriadis l’accento è posto naturalmente sull’immaginario, mentre negli antropologi dell’imperialismo riguarda la decolonizzazione. Per cercare di pensare ad una uscita dall’immaginario dominante, si deve in primo luogo riandare al modo con il quale ci siamo entrati, vale a dire al processo di economicizzazione degli spiriti che si è verificato nello stesso momento della mercificazione del mondo. Per Castoriadis, come per noi, l’incredibile resilienza ideologica dello sviluppo si fonda su una non meno stupefacente resilienza del progresso. Come lo esprime mirabilmente:

«Nessuno più crede veramente nel progresso. Tutti vogliono avere qualcosa in più nell’anno successivo, ma nessuno crede che la felicità dell’umanità consista veramente nella crescita del 3 per cento all’anno del livello dei consumi. L’immaginario della crescita è certamente sempre lì: è sicuramente il solo che resiste nel mondo occidentale. L’uomo occidentale non crede più a nulla, se non nel fatto che potrà avere presto un televisore ad alta definizione» .

D’altra parte, nell’analisi dei rapporti Nord/Sud, la forma di sradicamento di una credenza si formula volentieri attraverso la metafora della decolonizzazione. Il termine colonizzazione, utilizzato correntemente dall’antropologia antimperialista per quanto riguarda le mentalità, si ritrova nel titolo di numerose opere. Ad esempio, Serge Gruzinski pubblica, nel 1988, La colonizzazione dell’immaginario, il cui sottotitolo evoca anche il processo di occidentalizzazione.

Con la crescita e lo sviluppo, si tratta proprio di avviare un processo di conversione delle mentalità, quindi di natura ideologica e quasi religiosa, diretto a fondare l’immaginario del progresso e dell’economia, ma la violazione dell’immaginario, per riprendere la bella espressione di Aminata Traorè, rimane simbolica. Con la colonizzazione dell’immaginario in Occidente, noi abbiamo a che fare con una invasione mentale di cui noi siamo le vittime ma anche gli agenti. Si tratta ampiamente di una autocolonizzazione, di una servitù in parte volontaria.

La decolonizzazione dell’immaginario comporta quindi all’inizio, ma non soltanto, un cambiamento della logica o del paradigma, o, ancora, una vera e propria rivoluzione culturale. Si tratta di uscire dall’economia, di cambiare i valori, e quindi, in qualche modo, di disoccidentarsi. E precisamente il programma sviluppato nel progetto sul dopo sviluppo dei «partigiani» della decrescita. Il problema dell’uscita dall’immaginario dominante o coloniale, per gli antropologi antimperialisti, come per noi, è una questione centrale, ma molto difficile, perché non si può decidere di cambiare il proprio immaginario, e ancora meno quello degli altri, soprattutto se essi sono «dipendenti» dalla droga della crescita. La cura di disintossicazione non è completamente possibile fino a quando la società della decrescita non è stata realizzata. Si dovrebbe preliminarmente essere usciti dalla società dei consumi e dal suo regime di «cretinizzazione civica», cosa che ci blocca dentro un cerchio che occorre rompere.

Denunciare l’aggressione pubblicitaria, oggi veicolo dell’ideologia, costituisce certamente il punto di partenza della controffensiva diretta a uscire da ciò che Castoriadis chiama «l’onanismo consumistico e televisivo». Il fatto che il giornale La décroissance sia edito dall’associazione Casseurs de pub , distruttori della pubblicità, non è certamente dovuto al caso poiché la pubblicità costituisce una forza essenziale nella società della crescita, e il movimento degli obiettori della crescita è largamente e naturalmente connesso con la resistenza all’aggressione pubblicitaria.

Infine, la decrescita non è l’alternativa, ma una matrice di alternative che riapre l’avventura umana a una pluralità di destini e lo spazio della creatività sollevando la cappa di piombo del totalitarismo economico. Si tratta di uscire dal paradigma dell’homo oeconomicus o dell’uomo a una dimensione di Marcuse, principale fonte dell’uniformatizzazione planetaria e del suicidio delle culture. Ne consegue che la società della a-crescita non si affermerà nello stesso modo in Europa, nell’Africa a sud del Sahara, oppure in America Latina, nel Texas e nel Chiapas, nel Senegal e nel Portogallo. Ciò che importa è favorire o ritrovare la diversità e il pluralismo. Non si può dunque proporre un modello chiavi in mano di una società della decrescita, ma solamente un abbozzo degli elementi fondamentali di qualunque società non produttivista sostenibile e degli esempi concreti di programmi di transizione.

Di sicuro, come in tutte le società umane, una società della decrescita dovrà organizzare la produzione necessaria per la sua vita e a questo scopo dovrà utilizzare in modo ragionevole le risorse offerte dal proprio ambiente e consumarle attraverso la realizzazione di beni materiali e di servizi, ma un pò come le società dell’abbondanza dell’età della pietra, descritte da Marshall Salhins, che non sono mai entrate nell’epoca dell’economia. Essa non lo farà costretta nel busto di ferro della rarità, dei bisogni, del calcolo economico e dell’homo oeconomicus. Queste basi immaginarie dell’istituzione dell’economia devono anche essere rimesse in discussione. Come aveva ben visto ai suoi tempi il sociologo Jean Baudrillard, il consumerismo genera «una pauperizzazione psicologica», uno stato di insoddisfazione generalizzato, che, egli dice, «definisce la società della crescita come il contrario di una società dell’abbondanza».

La frugalità ritrovata permette di ricostruire una società dell’abbondanza sulla base di quella che Ivan Illich definiva la «sussistenza moderna». Vale a dire »un modo di vivere in una economia post-industriale all’interno della quale le persone possono ridurre la loro dipendenza rispetto al mercato , e dove sono pervenuti proteggendo – con dei mezzi politici – una infrastruttura nella quale le tecniche e gli strumenti servono, in primo luogo, a creare dei valori d’uso non quantificati e non quantificabili dai fabbricanti professionisti di bisogni». Su questa base si è imposta l’idea che una società senza crescita che sia sostenibile, giusta e prospera non può essere che frugale.

L’abbondanza frugale quindi non è più un ossimoro ma una necessità logica. «La scelta (…), nota intelligentemente Jacques Ellul, è tra una austerità subita, ingiusta, imposta dalle circostanze sfavorevoli, e una frugalità comune, generale, volontaria e organizzata, che deriva da una scelta più di libertà e meno di consumo di beni materiali. Essa sarà legata ad un consumo diffuso di beni di base (…) una abbondanza frugale».

Se l’orizzonte di senso così definito e sintetizzato nella forma dei cerchi virtuosi delle 8R (Rivalutare, Riconcettualizzare, Ristrutturare, Ridistribuire, Rilocaliazzare, Ridurre, Riutilizzare, Riciclare) presuppone una rottura veramente rivoluzionaria, i programmi di transizione saranno necessariamente riformisti. Di conseguenza, molte delle proposte «alternative» che non rivendicano esplicitamente la decrescita possono trovare un loro spazio. La decrescita offre così un quadro generale che da un senso a numerose lotte settoriali o locali favorendo dei compromessi strategici e delle alleanze tattiche.

Uscire dall’immaginario economico implica tuttavia delle rotture molto concrete. Si tratterà di fissare delle regole che inquadrino e limitino lo scatenarsi delle avidità degli operatori (ricerca del profitto, del sempre di più): protezionismo ecologico e sociale, legislazione del lavoro, limitazioni delle dimensioni delle imprese,ecc. E in primo luogo, la «demercificazione» di quelle tre merci fittizie (nel senso di Polanyi) che sono il lavoro, la terra e la moneta.

Il loro ritiro dal mercato globalizzato segnerebbe il punto di inizio di una reincorporazione/reincastramento dell’economico nel sociale, nello stesso tempo di una lotta contro lo spirito del capitalismo. La ridefinizione della felicità come «abbondanza frugale in una società solidale» corrispondente alla rottura creata dal progetto della decrescita presuppone di uscire dal cerchio infernale della creazione illimitata dei bisogni e dei consumi e dalla frustrazione crescente che esso comporta. L’autolimitazione è la condizione per conseguire una prosperità senza crescita ed evitare in questo modo l’annientamento della civilizzazione umana.

Conclusione

I recenti dibattiti sulla significatività degli indicatori di ricchezza, hanno avuto il merito di ricordare l’inconsistenza del prodotto interno lordo, il Pil, come indice che possa permettere di misurare il benessere, mentre costituisce il simbolo feticcio indissolubilmente funzionale alla società della crescita. Non ci si è abbastanza accorti in quell’occasione che è la stessa inconsistenza ontologica dell’economia che è messa in evidenza nello stesso momento.

Criticando il Pil, sono le fondamenta stesse della fede nell’economia o dell’eonomia come religione che vengono ridotte in pezzi. L’economia come discorso presuppone il suo oggetto, la vita economica che non esiste come tale soltanto in grazia ad essa. In effetti, quale che sia la definizione di economia politica che si è scelta, quella dei classici (produzione, distribuzione, consumo) o quella dei neoclassici (allocazione ottimale delle risorse rare di uso alternativo), l’economia esiste solo a condizione di presupporre se stessa.

Il campo specifico della pratica e della teoria perseguite non può essere delimitato se la ricchezza come l’allocazione delle risorse concernono soltanto l’economia. Garry Becker è più coerente quando afferma che tutto ciò che costituisce l’oggetto di un desiderio umano fa di diritto parte dell’economia, salvo che se tutto è economico, niente lo è. In questo caso, la quantificazione totale del sociale e l’ossessione calcolatrice che egli descrive non sono che il risultato di un colpo di mano, quello della istituzione del capitalismo come mercificazione totale del mondo. È proprio contro questo progetto di trasformazione del mondo in merci che la globalizzazione ha largamente contribuito a realizzare che intende reagire il movimento della decrescita.

Traduzione per Comune-info di Alberto Castagnola.

Francesco: 1. mettere l’economia al servizio dei popoli; 2. costruire la pace e la giustizia; 3. difendere la Madre Terra.

Francesco 5 nov 16DISCORSO DI PAPA FRANCESCO
AI PARTECIPANTI AL 3° INCONTRO MONDIALE DEI MOVIMENTI POPOLARI

Aula Paolo VI Sabato, 5 novembre 2016.
Fratelli e sorelle buon pomeriggio!
In questo nostro terzo incontro esprimiamo la stessa sete, la sete di giustizia, lo stesso grido: terra, casa e lavoro per tutti.

Ringrazio i delegati che sono venuti dalle periferie urbane, rurali e industriali dei cinque continenti, più di 60 Paesi, che sono venuti per discutere ancora una volta su come difendere questi diritti che radunano. Grazie ai Vescovi che sono venuti ad accompagnarvi. Grazie alle migliaia di italiani ed europei che si sono uniti oggi al termine di questo incontro. Grazie agli osservatori e ai giovani impegnati nella vita pubblica che sono venuti con umiltà ad ascoltare ed imparare. Quanta speranza ho nei giovani! Ringrazio anche Lei, Cardinale Turkson, per il lavoro che avete fatto nel Dicastero; e vorrei anche ricordare il contributo dell’ex Presidente uruguaiano José Mujica che è presente.

Nel nostro ultimo incontro, in Bolivia, con maggioranza di latinoamericani, abbiamo parlato della necessità di un cambiamento perché la vita sia degna, un cambiamento di strutture; inoltre di come voi, i movimenti popolari, siete seminatori di cambiamento, promotori di un processo in cui convergono milioni di piccole e grandi azioni concatenate in modo creativo, come in una poesia; per questo ho voluto chiamarvi “poeti sociali”; e abbiamo anche elencato alcuni compiti imprescindibili per camminare verso un’alternativa umana di fronte alla globalizzazione dell’indifferenza: 1. mettere l’economia al servizio dei popoli; 2. costruire la pace e la giustizia; 3. difendere la Madre Terra.

Quel giorno, con la voce di una “cartonera” e di un contadino, vennero letti, alla conclusione, i dieci punti di Santa Cruz de la Sierra, dove la parola cambiamento era carica di gran contenuto, era legata alle cose fondamentali che voi rivendicate: lavoro dignitoso per quanti sono esclusi dal mercato del lavoro; terra per i contadini e le popolazioni indigene; abitazioni per le famiglie senza tetto; integrazione urbana per i quartieri popolari; eliminazione della discriminazione, della violenza contro le donne e delle nuove forme di schiavitù; la fine di tutte le guerre, del crimine organizzato e della repressione; libertà di espressione e di comunicazione democratica; scienza e tecnologia al servizio dei popoli. Abbiamo ascoltato anche come vi siete impegnati ad abbracciare un progetto di vita che respinga il consumismo e recuperi la solidarietà, l’amore tra di noi e il rispetto per la natura come valori essenziali. È la felicità di “vivere bene” ciò che voi reclamate, la “vita buona”, e non quell’ideale egoista che ingannevolmente inverte le parole e propone la “bella vita”.

Noi che oggi siamo qui, di origini, credenze e idee diverse, potremmo non essere d’accordo su tutto, sicuramente la pensiamo diversamente su molte cose, ma certamente siamo d’accordo su questi punti.

Ho saputo anche di incontri e laboratori tenuti in diversi Paesi, dove si sono moltiplicati i dibattiti alla luce della realtà di ogni comunità. Questo è molto importante perché le soluzioni reali alle problematiche attuali non verranno fuori da una, tre o mille conferenze: devono essere frutto di un discernimento collettivo che maturi nei territori insieme con i fratelli, un discernimento che diventa azione trasformatrice “secondo i luoghi, i tempi e le persone”, come diceva sant’Ignazio. Altrimenti, corriamo il rischio delle astrazioni, di «certi nominalismi dichiarazionisti (slogans) che sono belle frasi ma che non riescono a sostenere la vita delle nostre comunità» (Lettera al Presidente della Pontificia Commissione per l’America Latina, 19 marzo 2016). Sono slogan! Il colonialismo ideologico globalizzante cerca di imporre ricette sovraculturali che non rispettano l’identità dei popoli. Voi andate su un’altra strada che è, allo stesso tempo, locale e universale. Una strada che mi ricorda come Gesù chiese di organizzare la folla in gruppi di cinquanta per distribuire il pane (cfr Omelia nella Solennità del Corpus Domini, Buenos Aires, 12 giugno 2004).

Poco fa abbiamo potuto vedere il video che avete presentato come conclusione di questo terzo incontro. Abbiamo visto i vostri volti nelle discussioni su come affrontare “la disuguaglianza che genera violenza”. Tante proposte, tanta creatività, tanta speranza nella vostra voce che forse avrebbe più motivi per lamentarsi, rimanere bloccata nei conflitti, cadere nella tentazione del negativo. Eppure guardate avanti, pensate, discutete, proponete e agite. Mi congratulo con voi, vi accompagno e vi chiedo di continuare ad aprire strade e a lottare. Questo mi dà forza, questo ci dà forza. Credo che questo nostro dialogo, che si aggiunge agli sforzi di tanti milioni di persone che lavorano quotidianamente per la giustizia in tutto il mondo, sta mettendo radici.

Vorrei toccare alcuni temi più specifici, che sono quelli che ho ricevuto da voi e che mi hanno fatto riflettere e che ora vi riporto, in questo momento.

1. Il terrore e i muri

Tuttavia, questa germinazione, che è lenta – quella alla quale mi riferivo -, che ha i suoi tempi come tutte le gestazioni, è minacciata dalla velocità di un meccanismo distruttivo che opera in senso contrario. Ci sono forze potenti che possono neutralizzare questo processo di maturazione di un cambiamento che sia in grado di spostare il primato del denaro e mettere nuovamente al centro l’essere umano, l’uomo e la donna. Quel “filo invisibile” di cui abbiamo parlato in Bolivia, quella struttura ingiusta che collega tutte le esclusioni che voi soffrite, può consolidarsi e trasformarsi in una frusta, una frusta esistenziale che, come nell’Egitto dell’Antico Testamento, rende schiavi, ruba la libertà, colpisce senza misericordia alcuni e minaccia costantemente altri, per abbattere tutti come bestiame fin dove vuole il denaro divinizzato.

Chi governa allora? Il denaro. Come governa? Con la frusta della paura, della disuguaglianza, della violenza economica, sociale, culturale e militare che genera sempre più violenza in una spirale discendente che sembra non finire mai. Quanto dolore e quanta paura! C’è – l’ho detto di recente – c’è un terrorismo di base che deriva dal controllo globale del denaro sulla terra e minaccia l’intera umanità. Di questo terrorismo ​di base si alimentano i terrorismi derivati come il narco-terrorismo, il terrorismo di stato e quello che alcuni erroneamente chiamano terrorismo etnico o religioso. Ma nessun popolo, nessuna religione è terrorista! È vero, ci sono piccoli gruppi fondamentalisti da ogni parte. Ma il terrorismo inizia quando «hai cacciato via la meraviglia del creato, l’uomo e la donna, e hai messo lì il denaro» (Conferenza stampa nel volo di ritorno del Viaggio Apostolico in Polonia, 31 luglio 2016). Tale sistema è terroristico.

Quasi cent’anni fa, Pio XI prevedeva l’affermarsi di una dittatura economica globale che chiamò «imperialismo internazionale del denaro» (Lett. enc. Quadragesimo anno, 15 maggio 1931, 109). Sto parlando dell’anno 1931! L’aula in cui ora ci troviamo si chiama “Paolo VI”, e fu Paolo VI che denunciò quasi cinquant’anni fa, la «nuova forma abusiva di dominio economico sul piano sociale, culturale e anche politico» (Lett. ap. Octogesima adveniens, 14 maggio 1971, 44). Anno 1971. Sono parole dure ma giuste dei miei predecessori che scrutarono il futuro. La Chiesa e i profeti dicono, da millenni, quello che tanto scandalizza che lo ripeta il Papa in questo tempo in cui tutto ciò raggiunge espressioni inedite. Tutta la dottrina sociale della Chiesa e il magistero dei miei predecessori si ribella contro l’idolo denaro che regna invece di servire, tiranneggia e terrorizza l’umanità.

Nessuna tirannia si sostiene senza sfruttare le nostre paure. Questo è una chiave! Da qui il fatto che ogni tirannia sia terroristica. E quando questo terrore, che è stato seminato nelle periferie con massacri, saccheggi, oppressione e ingiustizia, esplode nei centri con diverse forme di violenza, persino con attentati odiosi e vili, i cittadini che ancora conservano alcuni diritti sono tentati dalla falsa sicurezza dei muri fisici o sociali. Muri che rinchiudono alcuni ed esiliano altri. Cittadini murati, terrorizzati, da un lato; esclusi, esiliati, ancora più terrorizzati, dall’altro. È questa la vita che Dio nostro Padre vuole per i suoi figli?

La paura viene alimentata, manipolata… Perché la paura, oltre ad essere un buon affare per i mercanti di armi e di morte, ci indebolisce, ci destabilizza, distrugge le nostre difese psicologiche e spirituali, ci anestetizza di fronte alla sofferenza degli altri e alla fine ci rende crudeli. Quando sentiamo che si festeggia la morte di un giovane che forse ha sbagliato strada, quando vediamo che si preferisce la guerra alla pace, quando vediamo che si diffonde la xenofobia, quando constatiamo che guadagnano terreno le proposte intolleranti; dietro questa crudeltà che sembra massificarsi c’è il freddo soffio della paura. Vi chiedo di pregare per tutti coloro che hanno paura, preghiamo che Dio dia loro coraggio e che in questo anno della misericordia possa ammorbidire i nostri cuori. La misericordia non è facile, non è facile… richiede coraggio. Per questo Gesù ci dice: «Non abbiate paura» (Mt 14,27), perché la misericordia è il miglior antidoto contro la paura. E’ molto meglio degli antidepressivi e degli ansiolitici. Molto più efficace dei muri, delle inferriate, degli allarmi e delle armi. Ed è gratis: è un dono di Dio.

Cari fratelli e sorelle, tutti i muri cadono. Tutti. Non lasciamoci ingannare. Come avete detto voi: «Continuiamo a lavorare per costruire ponti tra i popoli, ponti che ci permettano di abbattere i muri dell’esclusione e dello sfruttamento» (Documento Conclusivo del II Incontro mondiale dei movimenti popolari, 11 luglio 2015, Santa Cruz de la Sierra, Bolivia). Affrontiamo il terrore con l’amore.

Il secondo punto che voglio toccare è: l’Amore e i ponti.

Un giorno come questo, un sabato, Gesù fece due cose che, ci dice il Vangelo, affrettarono il complotto per ucciderlo. Passava con i suoi discepoli per un campo da semina. I discepoli avevano fame e mangiarono le spighe. Niente si dice del “padrone” di quel campo… soggiacente è la destinazione universale dei beni. Quello che è certo è che, di fronte alla fame, Gesù ha dato priorità alla dignità dei figli di Dio su un’interpretazione formalistica, accomodante e interessata dalla norma. Quando i dottori della legge lamentarono con indignazione ipocrita, Gesù ricordò loro che Dio vuole amore e non sacrifici, e spiegò che il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato (cfr Mc 2,27). Affrontò il pensiero ipocrita e presuntuoso con l’intelligenza umile del cuore (cfr Omelia, I Congreso de Evangelización de la Cultura, Buenos Aires, 3 novembre 2006), che dà sempre la priorità all’uomo e non accetta che determinate logiche impediscano la sua libertà di vivere, amare e servire il prossimo.

E dopo, in quello stesso giorno, Gesù fece qualcosa di “peggiore”, qualcosa che irritò ancora di più gli ipocriti e i superbi che lo stavano osservando perché cercavano una scusa per catturarlo. Guarì la mano atrofizzata di un uomo. La mano, questo segno tanto forte dell’operare, del lavoro. Gesù restituì a quell’uomo la capacità di lavorare e con questo gli restituì la dignità. Quante mani atrofizzate, quante persone private della dignità del lavoro! Perché gli ipocriti, per difendere sistemi ingiusti, si oppongono a che siano guariti. A volte penso che quando voi, i poveri organizzati, vi inventate il vostro lavoro, creando una cooperativa, recuperando una fabbrica fallita, riciclando gli scarti della società dei consumi, affrontando l’inclemenza del tempo per vendere in una piazza, rivendicando un pezzetto di terra da coltivare per nutrire chi ha fame, quando fate questo state imitando Gesù, perché cercate di risanare, anche se solo un pochino, anche se precariamente, questa atrofia del sistema socio-economico imperante che è la disoccupazione. Non mi stupisce che anche voi a volte siate sorvegliati o perseguitati, né mi stupisce che ai superbi non interessi quello che voi dite.

Gesù che quel sabato rischiò la vita, perché, dopo che guarì quella mano, farisei ed erodiani (cfr Mc 3,6), due partiti opposti tra loro, che temevano il popolo e anche l’impero, fecero i loro calcoli e complottarono per ucciderlo. So che molti di voi rischiano la vita. So – e lo voglio ricordare, e la voglio ricordare – che alcuni non sono qui oggi perché si sono giocati la vita… Per questo non c’è amore più grande che dare la vita. Questo ci insegna Gesù.

Le 3-T, il vostro grido che faccio mio, ha qualcosa di quella intelligenza umile ma al tempo stesso forte e risanatrice. Un progetto-ponte dei popoli di fronte al progetto-muro del denaro. Un progetto che mira allo sviluppo umano integrale. Alcuni sanno che il nostro amico il Cardinale Turkson presiede adesso il Dicastero che porta questo nome: Sviluppo Umano Integrale. Il contrario dello sviluppo, si potrebbe dire, è l’atrofia, la paralisi. Dobbiamo aiutare a guarire il mondo dalla sua atrofia morale. Questo sistema atrofizzato è in grado di fornire alcune “protesi” cosmetiche che non sono vero sviluppo: crescita economica, progressi tecnologici, maggiore “efficienza” per produrre cose che si comprano, si usano e si buttano inglobandoci tutti in una vertiginosa dinamica dello scarto… Ma questo mondo non consente lo sviluppo dell’essere umano nella sua integralità, lo sviluppo che non si riduce al consumo, che non si riduce al benessere di pochi, che include tutti i popoli e le persone nella pienezza della loro dignità, godendo fraternamente la meraviglia del creato. Questo è lo sviluppo di cui abbiamo bisogno: umano, integrale, rispettoso del creato, di questa casa comune.

Un altro punto è: Bancarotta e salvataggio.

Cari fratelli, voglio condividere con voi alcune riflessioni su altri due temi che, insieme alle “3-T” e all’ecologia integrale, sono stati al centro dei vostri dibattiti degli ultimi giorni e sono centrali in questo periodo storico.

So che avete dedicato una giornata al dramma dei migranti, dei rifugiati e degli sfollati. Cosa fare di fronte a questa tragedia? Nel Dicastero di cui è responsabile il Cardinale Turkson c’è una sezione che si occupa di queste situazioni. Ho deciso che, almeno per un certo tempo, quella sezione dipenda direttamente dal Pontefice, perché questa è una situazione obbrobriosa, che posso solo descrivere con una parola che mi venne fuori spontaneamente a Lampedusa: vergogna.

Lì, come anche a Lesbo, ho potuto ascoltare da vicino la sofferenza di tante famiglie espulse dalla loro terra per motivi economici o violenze di ogni genere, folle esiliate – l’ho detto di fronte alle autorità di tutto il mondo – a causa di un sistema socio-economico ingiusto e delle guerre che non hanno cercato, che non hanno creato coloro che oggi soffrono il doloroso sradicamento dalla loro patria, ma piuttosto molti di coloro che si rifiutano di riceverli.

Faccio mie le parole di mio fratello l’Arcivescovo Hieronymos di Grecia: «Chi vede gli occhi dei bambini che incontriamo nei campi profughi è in grado di riconoscere immediatamente, nella sua interezza, la “bancarotta” dell’umanità» (Discorso nel Campo profughi di Moria, Lesbos, 16 aprile 2016). Cosa succede al mondo di oggi che, quando avviene la bancarotta di una banca, immediatamente appaiono somme scandalose per salvarla, ma quando avviene questa bancarotta dell’umanità non c’è quasi una millesima parte per salvare quei fratelli che soffrono tanto? E così il Mediterraneo è diventato un cimitero, e non solo il Mediterraneo… molti cimiteri vicino ai muri, muri macchiati di sangue innocente. Nei giorni di questo incontro – lo dite nel video – quanti sono i morti nel Mediterraneo?

La paura indurisce il cuore e si trasforma in crudeltà cieca che si rifiuta di vedere il sangue, il dolore, il volto dell’altro. Lo ha detto il mio fratello il Patriarca Bartolomeo: «Chi ha paura di voi non vi ha guardato negli occhi. Chi ha paura di voi non ha visto i vostri volti. Chi ha paura non vede i vostri figli. Dimentica che la dignità e la libertà trascendono la paura e trascendono la divisione. Dimentica che la migrazione non è un problema del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale, dell’Europa e della Grecia. È un problema del mondo» (Discorso nel Campo profughi di Moria, Lesbos, 16 aprile 2016).

E’, veramente, un problema del mondo. Nessuno dovrebbe vedersi costretto a fuggire dalla propria patria. Ma il male è doppio quando, davanti a quelle terribili circostanze, il migrante si vede gettato nelle grinfie dei trafficanti di persone per attraversare le frontiere, ed è triplo se arrivando nella terra in cui si pensava di trovare un futuro migliore, si viene disprezzati, sfruttati, addirittura schiavizzati. Questo si può vedere in qualunque angolo di centinaia di città. O semplicemente non si lasciano entrare.

Chiedo a voi di fare tutto il possibile; di non dimenticare mai che anche Gesù, Maria e Giuseppe sperimentarono la condizione drammatica dei rifugiati. Vi chiedo di esercitare quella solidarietà così speciale che esiste tra coloro che hanno sofferto. Voi sapete recuperare fabbriche dai fallimenti, riciclare ciò che altri gettano, creare posti di lavoro, coltivare la terra, costruire abitazioni, integrare quartieri segregati e reclamare senza sosta come la vedova del Vangelo che chiede giustizia insistentemente (cfr Lc 18,1-8). Forse con il vostro esempio e la vostra insistenza, alcuni Stati e Organizzazioni internazionali apriranno gli occhi e adotteranno le misure adeguate per accogliere e integrare pienamente tutti coloro che, per un motivo o per un altro, cercano rifugio lontano da casa. E anche per affrontare le cause profonde per cui migliaia di uomini, donne e bambini vengono espulsi ogni giorno dalla loro terra natale.

Dare l’esempio e reclamare è un modo di fare politica, e questo mi porta al secondo tema che avete dibattuto nel vostro incontro: il rapporto tra popolo e democrazia. Un rapporto che dovrebbe essere naturale e fluido, ma che corre il pericolo di offuscarsi fino a diventare irriconoscibile. Il divario tra i popoli e le nostre attuali forme di democrazia si allarga sempre più come conseguenza dell’enorme potere dei gruppi economici e mediatici che sembrano dominarle. I movimenti popolari, lo so, non sono partiti politici e lasciate che vi dica che, in gran parte, qui sta la vostra ricchezza, perché esprimete una forma diversa, dinamica e vitale di partecipazione sociale alla vita pubblica. Ma non abbiate paura di entrare nelle grandi discussioni, nella Politica con la maiuscola, e cito di nuovo Paolo VI: «La politica è una maniera esigente – ma non è la sola – di vivere l’impegno cristiano al servizio degli altri» (Lett. ap. Octogesima adveniens, 14 maggio 1971, 46). O questa frase che ripeto tante volte, e sempre mi confondo, non so se è di Paolo VI o di Pio XII: “La politica è una delle forme più alte della carità, dell’amore”.

Vorrei sottolineare due rischi che ruotano attorno al rapporto tra i movimenti popolari e politica: il rischio di lasciarsi incasellare e il rischio di lasciarsi corrompere.

Primo, non lasciarsi imbrigliare, perché alcuni dicono: la cooperativa, la mensa, l’orto agroecologico, le microimprese, il progetto dei piani assistenziali… fin qui tutto bene. Finché vi mantenete nella casella delle “politiche sociali”, finché non mettete in discussione la politica economica o la politica con la maiuscola, vi si tollera. Quell’idea delle politiche sociali concepite come una politica verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei i poveri e tanto meno inserita in un progetto che riunisca i popoli, mi sembra a volte una specie di carro mascherato per contenere gli scarti del sistema. Quando voi, dal vostro attaccamento al territorio, dalla vostra realtà quotidiana, dal quartiere, dal locale, dalla organizzazione del lavoro comunitario, dai rapporti da persona a persona, osate mettere in discussione le “macrorelazioni”, quando strillate, quando gridate, quando pretendete di indicare al potere una impostazione più integrale, allora non ci si tollera, non ci si tollera più tanto perché state uscendo dalla casella, vi state mettendo sul terreno delle grandi decisioni che alcuni pretendono di monopolizzare in piccole caste. Così la democrazia si atrofizza, diventa un nominalismo, una formalità, perde rappresentatività, va disincarnandosi perché lascia fuori il popolo nella sua lotta quotidiana per la dignità, nella costruzione del suo destino.

Voi, organizzazioni degli esclusi e tante organizzazioni di altri settori della società, siete chiamati a rivitalizzare, a rifondare le democrazie che stanno attraversando una vera crisi. Non cadete nella tentazione della casella che vi riduce ad attori secondari o, peggio, a meri amministratori della miseria esistente. In questi tempi di paralisi, disorientamento e proposte distruttive, la partecipazione da protagonisti dei popoli che cercano il bene comune può vincere, con l’aiuto di Dio, i falsi profeti che sfruttano la paura e la disperazione, che vendono formule magiche di odio e crudeltà o di un benessere egoistico e una sicurezza illusoria.

Sappiamo che «finché non si risolveranno radicalmente i problemi dei poveri, rinunciando all’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e aggredendo le cause strutturali della inequità, non si risolveranno i problemi del mondo e in definitiva nessun problema. L’inequità è la radice dei mali sociali» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 202). Per questo, l’ho detto e lo ripeto, «il futuro dell’umanità non è solo nelle mani dei grandi leader, delle grandi potenze e delle élite. E’ soprattutto nelle mani dei popoli; nella loro capacità di organizzarsi ed anche nelle loro mani che irrigano, con umiltà e convinzione, questo processo di cambiamento» (Discorso al II incontro mondiale dei movimenti popolari, Santa Cruz de la Sierra, 9 luglio 2015). Anche la Chiesa può e deve, senza pretendere di avere il monopolio della verità, pronunciarsi e agire specialmente davanti a «situazioni in cui si toccano le piaghe e le sofferenze drammatiche, e nelle quali sono coinvolti i valori, l’etica, le scienze sociali e la fede» (Intervento al vertice di giudici e magistrati contro il traffico di persone e il crimine organizzato, Vaticano, 3 giugno 2016). Questo è il primo rischio: il rischio di lasciarsi incasellare e l’invito a mettersi nella grande politica.

Il secondo rischio, vi dicevo, è lasciarsi corrompere. Come la politica non è una questione dei “politici”, la corruzione non è un vizio esclusivo della politica. C’è corruzione nella politica, c’è corruzione nelle imprese, c’è corruzione nei mezzi di comunicazione, c’è corruzione nelle chiese e c’è corruzione anche nelle organizzazioni sociali e nei movimenti popolari. E’ giusto dire che c’è una corruzione radicata in alcuni ambiti della vita economica, in particolare nell’attività finanziaria, e che fa meno notizia della corruzione direttamente legata all’ambito politico e sociale. E’ giusto dire che tante volte si utilizzano i casi corruzione con cattive intenzioni. Ma è anche giusto chiarire che quanti hanno scelto una vita di servizio hanno un obbligo ulteriore che si aggiunge all’onestà con cui qualunque persona deve agire nella vita. La misura è molto alta: bisogna vivere la vocazione di servire con un forte senso di austerità e di umiltà. Questo vale per i politici ma vale anche per i dirigenti sociali e per noi pastori. Ho detto “austerità” e vorrei chiarire a cosa mi riferisco con la parola austerità, perché può essere una parola equivoca. Intendo austerità morale, austerità nel modo di vivere, austerità nel modo in cui porto avanti la mia vita, la mia famiglia. Austerità morale e umana. Perché in campo più scientifico, scientifico-economico, se volete, o delle scienze del mercato, austerità è sinonimo di aggiustamento… Non mi riferisco a questo, non sto parlando di questo.

A qualsiasi persona che sia troppo attaccata alle cose materiali o allo specchio, a chi ama il denaro, i banchetti esuberanti, le case sontuose, gli abiti raffinati, le auto di lusso, consiglierei di capire che cosa sta succedendo nel suo cuore e di pregare Dio di liberarlo da questi lacci. Ma, parafrasando l’ex-presidente latinoamericano che si trova qui, colui che sia affezionato a tutte queste cose, per favore, che non si metta in politica, che non si metta in un’organizzazione sociale o in un movimento popolare, perché farebbe molto danno a sé stesso, al prossimo e sporcherebbe la nobile causa che ha intrapreso. E che neanche si metta nel seminario!

Davanti alla tentazione della corruzione, non c’è miglior rimedio dell’austerità, questa austerità morale, personale; e praticare l’austerità è, in più, predicare con l’esempio. Vi chiedo di non sottovalutare il valore dell’esempio perché ha più forza di mille parole, di mille volantini, di mille “mi piace”, di mille retweets, di mille video su youtube. L’esempio di una vita austera al servizio del prossimo è il modo migliore per promuovere il bene comune e il progetto-ponte delle “3-T”. Chiedo a voi dirigenti di non stancarvi di praticare questa austerità morale, personale, e chiedo a tutti di esigere dai dirigenti questa austerità, che – del resto – li farà essere molto felici.

Care sorelle e cari fratelli,

la corruzione, la superbia e l’esibizionismo dei dirigenti aumenta il discredito collettivo, la sensazione di abbandono e alimenta il meccanismo della paura che sostiene questo sistema iniquo.

Vorrei, per concludere, chiedervi di continuare a contrastare la paura con una vita di servizio, solidarietà e umiltà in favore dei popoli e specialmente di quelli che soffrono. Potrete sbagliare tante volte, tutti sbagliamo, ma se perseveriamo in questo cammino, presto o tardi, vedremo i frutti. E insisto: contro il terrore, il miglior rimedio è l’amore. L’amore guarisce tutto. Alcuni sanno che dopo il Sinodo sulla famiglia ho scritto un documento che ha per titolo “Amoris laetitia” – la “gioia dell’amore” – un documento sull’amore nelle singole famiglie, ma anche in quell’altra famiglia che è il quartiere, la comunità, il popolo, l’umanità. Uno di voi mi ha chiesto di distribuire un fascicolo che contiene un frammento del capitolo quarto di questo documento. Penso che ve lo consegneranno all’uscita. E quindi con la mia benedizione. Lì ci sono alcuni “consigli utili” per praticare il più importante dei comandamenti di Gesù.

In Amoris laetitia cito un compianto leader afroamericano, Martin Luther King, il quale sapeva sempre scegliere l’amore fraterno persino in mezzo alle peggiori persecuzioni e umiliazioni. Voglio ricordarlo oggi con voi; diceva: «Quando ti elevi al livello dell’amore, della sua grande bellezza e potere, l’unica cosa che cerchi di sconfiggere sono i sistemi maligni. Le persone che sono intrappolate da quel sistema le ami, però cerchi di sconfiggere quel sistema […] Odio per odio intensifica solo l’esistenza dell’odio e del male nell’universo. Se io ti colpisco e tu mi colpisci, e ti restituisco il colpo e tu mi restituisci il colpo, e così di seguito, è evidente che si continua all’infinito. Semplicemente non finisce mai. Da qualche parte, qualcuno deve avere un po’ di buon senso, e quella è la persona forte. La persona forte è la persona che è capace di spezzare la catena dell’odio, la catena del male» (n. 118; Sermone nella chiesa Battista di Dexter Avenue, Montgomery, Alabama, 17 novembre 1957). Questo lo ha detto nel 1957.

Vi ringrazio nuovamente per il vostro lavoro, per la vostra presenza. Desidero chiedere a Dio nostro Padre che vi accompagni e vi benedica, che vi riempia del suo amore e vi difenda nel cammino dandovi in abbondanza la forza che ci mantiene in piedi e ci dà il coraggio per rompere la catena dell’odio: quella forza è la speranza. Vi chiedo per favore di pregare per me, e quelli che non possono pregare, lo sapete, pensatemi bene e mandatemi una buona onda. Grazie.

© Copyright – Libreria Editrice Vaticana

DICHIARAZIONI PROGRAMMATICHE MANDATO AMMINISTRATIVO 2016/2021 SINDACO MASSIMO ZEDDA

Torri municipio Cagliarilampadadialadmicromicro13Il nostro amico consigliere comunale del Movimento 5 Stelle Pino Calledda ci ha fatto avere in anteprima il documento con le dichiarazioni programmatiche che il Sindaco Massimo Zedda esporrà nella prossima seduta del Consiglio comunale di Cagliari prevista martedì 11 ottobre. Le stesse dichiarazioni sono pervenute a tutti i consiglieri comunali su richiesta del presidente dell’assemblea civica Guido Portoghese ma allo stato non sono disponibili nel sito web del Comune. Nei prossimi giorni in spirito di servizio, come si diceva un tempo, formuleremo osservazioni critiche – in senso lato – cercando di mantenere comunque una serenità di giudizio. Ciò significa apprezzamento per quanto riteniamo positivo, critica per quanto riteniamo sbagliato, richiesta di spiegazioni per quanto viene omesso. Proprio a quest’ultimo riguardo lasciateci anticipare un interrogativo: perché nelle dichiarazioni non si parla degli immigrati e delle politiche di accoglienza? Ne vogliamo parlare? Ecco: in questo contesto e in questa direzione noi siamo impegnati, ma vorremmo essere in buona compagnia, cioè vorremmo che tutti coloro che hanno qualcosa da osservare o segnalare, per questioni di carattere generali o specifiche, intervenissero. Con tutto il rispetto che abbiamo dei nostri rappresentanti istituzionali che si esprimeranno nell’esercizio del loro mandato, crediamo che non debba mancare l’intervento dei semplici cittadini singoli o associati. A tal proposito gli spazi di ALADINEWS sono dunque a disposizione.
StemmaAraldico_ComuneCagliari_feb2015_d0

    DICHIARAZIONI PROGRAMMATICHE – MANDATO AMMINISTRATIVO 2016/2021
    SINDACO MASSIMO ZEDDA

- segue -

Il primo discorso della Sindaca Chiara Appendino al Consiglio comunale e alla città di Torino

appendinosindacoAbbiamo, tutti insieme, l’occasione di cambiare la Storia. Adriano Olivetti scriveva “Il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità, o coraggio di fare. Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia da qualche parte, solo allora diventa un proposito, cioè qualcosa di infinitamente più grande.”

Signore e Signori Consiglieri,
Vorrei anzitutto ringraziare gli uffici del Tribunale, tutte le autorità civili e militari presenti, le istituzioni locali e gli Uffici Comunali.

Prima di iniziare mi preme ricordare le vittime dell’attentato di Istanbul di pochi giorni fa: troppe volte in questo Consiglio ci è capitato di affrontare questi tristi momenti che sono purtroppo sempre più frequenti. La violenza non è mai giustificabile e non può essere tollerata in nessuna forma.

Ciascuno di noi è stato scelto dai torinesi per sedere in quest’aula e rappresentare la nostra amata Torino, custodendo, governando e migliorando l’eredità di coloro che ci hanno preceduto.
Non sono di rito i ringraziamenti agli amministratori che hanno ricoperto i ruoli e gli incarichi che ora sono affidati per i prossimi cinque anni a noi. Nella figura del mio predecessore, Piero Fassino, desidero riassumere un sentito grazie a ciascuno.

Questo è il luogo del confronto e dell’incontro; questo è il luogo nel quale dialogheremo, portando nei dibattiti che ci saranno la nostra passione e le nostre idee e, insieme, decideremo per il bene di Torino. Il monito inscritto nella tela del soffitto di quest’aula ci ricorda che nessuno è detentore della verità assoluta, ma solo nel consiglio, inteso come metodo costante di confronto, si può ambire alla vera sapienza.

Viviamo un momento storico di forti tensioni sociali e politiche, assistendo ad un aumento della distanza tra governanti e governati, ma anche tra popoli che pensavamo ormai uniti. Quell’Unione Europea, che avrebbe dovuto essere un ponte tra differenti anime, per costituire un modello di unità nella diversità si interroga ora, a pochi giorni dal referendum del Regno Unito, su quale sia il proprio destino e quali le risposte rimaste inevase. Il trionfo delle democrazie occidentali al quale abbiamo assistito dopo la seconda guerra mondiale e, ancora di più, dopo il crollo dei regimi socialisti dell’89, sembra ora arenato, messo nell’incapacità di arginare crescenti estremismi ed una insofferenza fatta ormai cifra dell’azione politica.

Occorre una nuova concezione della Politica, come più volte ho affermato in questi mesi, nella quale le componenti del servizio, della partecipazione e dell’ascolto siano i pilastri di un rinnovato edificio sociale. Ciascuno di noi non può, infatti, considerarsi privo di responsabilità per ciò che accade anche a migliaia di chilometri di distanza dalla città nella quale viviamo. In un mondo globalizzato le idee e gli esempi viaggiano così veloci da diventare quasi istantaneamente motori del cambiamento, tanto positivo quanto negativo.

Noi tutti siamo chiamati a diventare Persone, uniche nella propria identità, responsabili nei confronti del Prossimo e attivi operatori di una solidarietà che prescinda dalle paure ataviche, iscritte nella millenaria storia della nostra evoluzione biologica. Sappiamo bene, infatti, che il mantenimento delle norme che ci siamo dati per garantire la convivenza civile è necessario e tutti coloro che partecipano al patto sociale sono portatori di diritti e soggetti ai doveri. Ma sappiamo anche che solo in una società armoniosa e strutturalmente solidale si può avere una reale sicurezza.

Le risorse naturali, sebbene finite, sono in grado di accogliere la vita di ogni essere vivente, consentendo loro nel breve spazio della propria esistenza di contribuire in modo unico ed irripetibile alla storia. Tutto ciò non è però possibile se si costruiscono muri di diffidenza e di paura, si abbattono ponti costruiti con difficoltà in tanti anni di lavoro e, soprattutto, si tradisce la fiducia che era stata riposta nell’Altro.

Come amministratori di una Città noi abbiamo il dovere di ripartire proprio dalla fiducia che i torinesi hanno avuto in noi e, con un lavoro che sarà collegiale con ciascuno di voi che sederà in quest’aula, al di la delle parti politiche, dimostrare che il Prossimo non è nostro nemico, che non siamo in pericolo se usciamo da noi stessi per andare ad incontrarlo. “Nessun uomo è un’isola”, scriveva John Donne e ora, in questo dilagare di egoismo e particolarismo, queste parole devono risuonare come un forte monito a ricordare la nostra profonda natura umana.

Siamo ripartiti dalle periferie di Torino e abbiamo annunciato che entro il mese di Ottobre presenteremo un protocollo per il rilancio e la riqualificazione di tutti i quartieri della nostra Città. E’ più complesso invece ripartire dalle periferie esistenziali, quelle nelle quali ciascuno di noi può scivolare o si può rifugiare nei momenti di smarrimento. Il nostro dovere di Amministratori sarà rimettere al centro ogni torinese, in particolare i più fragili, per far sentir loro che la Città, la loro Città, gli è vicino. Non abbiamo l’illusione di poter cambiare la realtà con un delibera, di risolvere una volta per sempre la povertà oppure la solitudine, ma abbiamo il dovere di dedicare ogni nostra energia affinché ciascuno si senta parte di questa Comunità Urbana.

È indispensabile coinvolgere in questo grande progetto tutte le istituzioni, quelle locali come le circoscrizioni, la Città Metropolitana e la Regione, e quelle nazionali ed Europee, l’Università e il Politecnico, ma anche tutti i soggetti della società torinese, come le realtà religiose, in primo luogo l’Arcidiocesi, ma anche le comunità Islamiche, le Chiese Ortodosse e i credenti di ogni fede. Le associazioni, di qualsivoglia tipologia, rappresentano inoltre i corpi intermedi che rendono una Città viva e dialogante, mediando le istanze e svolgendo un indispensabile ruolo di rappresentanza.
Le imprese, dalle micro alle grandi, passando per le medie e gli artigiani, che sono chiamate ad affrontare la sfida delle nuove tecnologie e dell’innovazione, costituiscono la struttura portante della nostra comunità urbana e Torino, ne siamo certi, dovrà rafforzare e proseguire la propria grande tradizione produttiva e manifatturiera che qui in più di un secolo ha messo solide radici.
La Città si offre come partner istituzionale per tutti coloro che favoriranno l’insediamento di imprese provenienti da paesi Europei o extra europei. La sfida sarà, infatti, fare sistema per rendere il nostro territorio più attrattivo ed ognuno dovrà contribuire per questo comune obiettivo.

Le città sono, inoltre, ormai fabbriche del sapere organizzato, nelle quali ogni parte concorre, come in un mosaico disegnato con cura, a dare supporto e energia a tutti coloro che interagiscono in modo armonioso. Torino ha anche un immenso patrimonio di cultura e di creatività, che abbiamo ereditato e che è dovere per tutti coloro che amano la nostra Città rafforzare e promuovere.
Il ridisegno del welfare, al quale cercheremo di dedicare ogni risorsa che riusciremo a reperire riorganizzando la struttura amministrativa della Città, dovrà ripartire proprio dalle persone, mettendo al centro i loro bisogni e cercando di dare a ciascuno la possibilità di realizzare i propri progetti e i propri sogni. Coloro che lavorano per la Città devono essere orgogliosi di ciò che ogni giorno fanno ed essere messi nelle condizioni di dare a tutti noi una Torino più efficiente e semplice.

Una delle prime delibere che questo Consiglio dovrà esaminare sarà, come di prassi, la delibera quadro sull’organizzazione degli Uffici. In quel testo si troverà chiaramente esposto il nostro progetto di tagliare almeno del 30% i costi degli staff della Giunta e dei Dirigenti fiduciari. Mi auguro che ci possa essere da parte di ogni consigliere comunale una piena partecipazione a questa scelta. Come abbiamo detto nei mesi passati queste risorse saranno immediatamente usate per un fondo per aiutare i giovani ad entrare nel mondo del lavoro. Non si tratta della soluzione di questo grande problema per la nostra città, ma di un segnale: nessuno di noi è insensibile alla tristezza e alla rassegnazione che si legge negli occhi di un giovane che non studia e non lavora, un pezzo di futuro abbandonato.

Avremo modo nelle prossime sedute del Consiglio di dibattere le linee di mandato per il governo di Torino fino al 2021, auspico che quello sia il primo banco di prova per inaugurare una stagione di dialogo franco e di confronto nell’interesse unico ed esclusivo di Torino.

17_bellezia_2Nel passati cinque anni ero seduta nei banchi dell’opposizione poco sotto il quadro che raffigura Gianfrancesco Bellezia, grande sindaco di Torino dell’inizio del XVII secolo. Durante la pestilenza del 1630, a soli 28 anni, sentì su di sé la responsabilità di una città e rimase a Torino, a rischio della propria stessa vita, per coordinare quel poco di struttura sanitaria che in quell’epoca esisteva e soprattutto dimostrare che le Istituzioni sono più grandi della nostra natura umana. A quel modello di servizio cercherò di ispirare il mio mandato, garantendovi fin d’ora che ogni mia energia sarà spesa per Torino.

Abbiamo, tutti insieme, l’occasione di cambiare la Storia. Adriano Olivetti scriveva “Il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità, o coraggio di fare. Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia da qualche parte, solo allora diventa un proposito, cioè qualcosa di infinitamente più grande.”

A tutti noi un augurio di buon lavoro. Grazie.
———————————————-

JohnDonnePer chi suona la campana
Il titolo è ricavato da un famoso sermone di John Donne; in relazione al concetto secondo il quale nessun uomo è un’”isola”, cioè può considerarsi indipendente dal resto dell’umanità, egli disse:

“…And therefore never send to know for whom the bell tolls. It tolls for thee”.
(“E allora, non chiedere mai per chi suoni la campana. Essa suona per te”.)
-

La Manifattura promessa… Il dibattito

Manifattura logo MS- La delibera della Giunta regionale.
- “Per l’ex Manifattura di Cagliari un futuro da ex Fabbrica della Creatività”: un intervento di Carlo A. Borghi. Sul sito di Vito Biolchini.

La Manifattura promessa

Manifattura da vio XX sett 12 4 16 Ecco la delibera. Più avanti daremo conto del dibattito in corso…
————
RAS loghettoDELIBERAZIONE N. 19/2 DEL 8.4.2016
—————
Oggetto: Manifattura Tabacchi di Cagliari. Indirizzi per l’avvio della gestione.
Il Presidente ricorda che la Regione è pienamente impegnata nella Programmazione comunitaria 2014-2020, al fine di attuare le priorità definite dalla Commissione Europea con la strategia “Europa 2020”, il cui scopo è promuovere una crescita intelligente, sostenibile ed inclusiva. Questi principi sono declinati a partire dal Programma Regionale di Sviluppo 2014-2019, con la Strategia 2 – Creare opportunità di lavoro favorendo la competitività delle imprese, attuata nell’ambito della Programmazione Unitaria 2014-2020. L’obiettivo è quello di garantire un approccio strategico e unitario sul territorio regionale, sia in ordine alle azioni, per ottimizzare gli impatti ed evitare sovrapposizioni e duplicazioni, sia per quanto concerne la necessaria concentrazione delle risorse derivanti da fonte comunitaria, nazionale e regionale.
- segue –

E del padiglione Nervi che si fa?

Per ora un pro memoriapadiglione Nervi foto fmeloni
Europa creativa- Per correlazione: come già segnalato da Aladin la Regione Sardegna ci informa che il Comune di Granollers (Catalogna) nell’ambito del Programma Europa Creativa sta cercando partner per un’attività di recupero di una grande fabbrica dismessa come centro di creatività. Forse qualcun altro ha già fatto la proposta per avviare tale collaborazione (Sardegna-Catalogna). Noi comunque la proponiamo. C’è tempo fino al primo ottobre per segnalare la propria disponibilità. Ecco i dettagli.

Riparliamo della fabbrica delle creatività nell’ex manifattura tabacchi?

Per ora un pro memoriaMANIFATTURATABACCHI CA novecento
- Alcuni precedenti su Aladinpensiero
Europa creativa-
Per correlazione: come già segnalato da Aladin la Regione Sardegna ci informa che il Comune di Granollers (Catalogna) nell’ambito del Programma Europa Creativa sta cercando partner per un’attività di recupero di una grande fabbrica dismessa come centro di creatività. Forse qualcun altro ha già fatto la proposta per avviare tale collaborazione (Sardegna-Catalogna). Noi comunque la proponiamo. C’è tempo fino al primo ottobre per segnalare la propria disponibilità. Ecco i dettagli.