Risultato della ricerca: chimica verde
Un nuovo Piano di Rinascita della Sardegna è possibile? Sì con la forza dell’impegno e della speranza dei Sardi, contro la rassegnazione e la disperazione
UN NUOVO PIANO DI RINASCITA PER LA SARDEGNA, ENDOGENO E AUTOCENTRATO
Parlare delle prospettive di lavoro e occupazione in Sardegna è possibile a condizione che si acquisiscano alcuni elementi fondamentali per rilevare la situazione attuale. Ne indicherei almeno due. Un’analisi puntuale delle caratteristiche del mancato sviluppo, dell’errata ipotesi di sviluppo che ha governato gli anni dei Piani di Rinascita. Una ricognizione accurata e non idealista delle reali potenzialità produttive e quindi occupazionali della nostra isola e in rapporto con il contesto economico e sociale della parte di mondo nella quale operiamo e con la quale dobbiamo confrontarci. Sintetizzando e rimandando, per brevità espositiva, ai numerosi e validi studi relativi agli anni della Rinascita mancata, direi che c’è un punto comune dal quale partire. Il modello di sviluppo prospettato dai Piani di Rinascita, per certi versi interno alle scelte per il contrasto del ritardo di sviluppo del meridione e quindi con elementi comuni rispetto ad altre aree geografiche dell’Italia, si è rivelato fallimentare per quanto concerneva l’incremento dell’occupazione e una migliore valorizzazione delle poche risorse isolane. Il sogno dell’industria di base (principalmente petrolchimica) concentrata nei “poli industriali”, che avrebbe dovuto generare intorno a se uno sviluppo industriale indotto e una complessiva crescita dell’economia regionale, non ha soddisfatto tali aspettative. Ha anzi concorso a drenare ingenti risorse finanziarie destinate alla Sardegna e a generare profitti che non sono stati reinvestiti nell’isola. Dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul banditismo in poi si è sviluppato un grande dibattito sulle cause del fallimento della politica della rinascita e sul fallimento dell’ipotesi di sviluppo industriale scelta dalla classe politica regionale e nazionale per la Sardegna. Tale riflessione deve costituire il punto di partenza di una nuova ipotesi di sviluppo che concentri l’attenzione e l’impiego delle risorse finanziarie nella direzione della valorizzazione delle risorse locali, prime fra tutte l’agro-pastorizia, l’industria alimentare e quella turistica. Ipotesi di sviluppo appunto, solo ipotesi, non sempre suffragate da validi studi di settore, spesso orientate a soddisfare i desideri di un immaginario collettivo piuttosto che rispondenti alle prospettive di sviluppo effettive che tali comparti produttivi sembravano indicare. Sono gli anni che mi piace definire “delle centralità ”. Una schiera infinita di analisti e tecnici di settore, per qualche decennio, non hanno fatto altro che indicare modelli di sviluppo che traessero origine dalla centralità del proprio comparto di appartenenza. E’ noto, mi si perdoni la battuta, che un cerchio, inteso come figura geometrica, ha un centro, uno solo, non si discute. In Sardegna invece si sono sprecati convegni, studi di settore, si sono scritti libri per dimostrare, di volta in volta, la centralità dell’agricoltura e della pastorizia, la centralità del turismo, la centralità della pesca, la centralità dei trasporti e via dicendo fino alla centralità della produzione di energia alternativa o della chimica verde. Tutte centralità descritte come potenzialmente in grado di innescare meccanismi di sviluppo dell’economia isolana con interessanti ricadute in termini di sviluppo, occupazione e benessere. Quando ci si è resi conto che è difficile immaginare un cerchio con molti centri si è passati alla fase degli abbinamenti tra comparti “centrali”. Sviluppare l’agricoltura per incrementare anche il turismo, sviluppare il comparto agro alimentare per creare una industria agro-alimentare in grado di trasformare i nostri prodotti e via dicendo. Va da se che ciascuna dichiarazione di centralità di un comparto celava la implicita richiesta di orientare i finanziamenti disponibili principalmente a quel comparto piuttosto che agli altri. Una triste e inconcludente lista di desideri. Nella realtà non si è andati oltre le corrette indicazioni per una ipotesi di sviluppo dell’isola che ponga al centro la valorizzazione delle risorse locali con riferimento ai nuovi contesti di politiche e scambi commerciali internazionali. Domandiamoci allora quali fattori, quali elementi hanno impedito lo sviluppo economico e socio culturale dell’isola. Cerchiamo di comprendere se la crisi occupazionale e dell’apparato industriale sardo debba essere esclusivamente attribuita a fattori congiunturali propri del contesto di crisi internazionale o alla oggettiva incapacità della politica regionale di orientare e gestire tali fantasiosi e mai realizzati proponimenti. C’è un’unica risposta da fare crescere la Sardegna e con essa l’occupazione dei Sardi, un nuovo Piano di Rinascita che un gruppo minoritario di intellettuali ha più volte indicato nei decenni passati proponendo e immaginando un Piano di sviluppo “endogeno e autocentrato”. Endogeno nel senso che deve trarre origine dalla valorizzazione delle risorse locali (quelle vere) e delle capacità di sviluppo del sistema Sardegna. Autocentrato nel senso che la sua realizzazione non dovrà rispondere a interessi di altri centri di potere che non siano quelli esistenti e operanti in Sardegna sotto un reale governo della Giunta Regionale. I vecchi Piani di Rinascita sono stati funzionali a una idea di sviluppo che ruotava intorno alla diffusione di un modello di crescita che poneva al centro lo sviluppo dei poli petrolchimici per la chimica di base, prospettando una miracolosa “discesa a valle” delle produzioni con la creazione di un indotto mai nato nell’isola.
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Povera Patria Sarda, così ridotta da sfruttatori e ascari
L’eterno ritorno della premiata ditta Chimica & affini
di Nicolò Migheli
By sardegnasoprattutto 9 febbraio 2017/Società & Politica/
Alla fine forse non se ne farà niente. La soluzione della vertenza Eurallumina ha tutto il sapore di una promessa elettorale. La Rusal ha chiesto un mese per integrare la documentazione. Si vedrà. Certo che la vicenda Eurallumina, dopo una chiusura di otto anni diventa l’epifenomeno di che cosa è diventata oggi la Sardegna. Da una parte le giuste rivendicazioni dei dipendenti che lottano per difendere il posto di lavoro, dall’altra una politica incapace di strategie di sviluppo che non siano la conferma dell’esistente.
Le dichiarazioni del senatore. Luciano Uras riportate dall’Unione Sarda: “Siamo vicini ai lavoratori Eurallumina, che hanno il diritto al lavoro in sicurezza ed a una prospettiva di sviluppo sostenibile ed armonico”, sono un compendio di arrampicamento sugli specchi. Il sofista e profeta del I secolo d.c. Apollonio di Tiana, ci suggerisce la chiave interpretativa: “Non vi stupite di questo, che io comprenda quello che dicono gli uomini, imperciocché io so perfino quello che essi non dicono” Ed è in quella prospettiva di sviluppo sostenibile ed armonico la contradictio che nol consente, quello che gli uomini non dicono ma nascondono con artifizi verbali.
Come una fabbrica di alluminio, responsabile di inquinamento vasto, di produzione di fanghi rossi sia sostenibile ed armonica ce lo dovrebbe dimostrare il senatore Uras. Secondo i piani industriali tale discarica dovrebbe essere allargata, dovrebbe esserci la costruzione di una nuova centrale a carbone e lo smaltimento delle ceneri in quei siti. Nelle scienze economiche e sociali la sostenibilità si ha quando la soddisfazione della generazione presente non compromette i diritti di quella futura.
A Portoscuso e in tutto il Sulcis siamo già ben oltre la soddisfazione della generazione presente, almeno che per questa non si intendano solo il lavoro e gli stipendi. Cosa importante per carità, ma i costi sono commisurati? Tempo addietro il sindaco di quella località a seguito di un rapporto circostanziato della ASL ha dovuto emanare una ordinanza per raccomandare alla popolazione il non uso di prodotti agricoli coltivati in quel territorio in quanto pericolosi per la salute umana; i molluschi e pesci sono contaminati da metalli pesanti.
Però l’assessora regionale all’ambiente non ha nulla da dire, anzi esprime soddisfazione per la ripresa di Eurallumina. Altri dati che sarebbe utile conoscere: quanti abitanti di quell’area sono stati colpiti da tumore? Quale è l’aspettativa di vita degli operai e dei pensionati di quegli stabilimenti? Quale quella dei loro familiari? Tutte informazioni che potrebbero confermare o smentire drammaticamente la sostenibilità di imprese simili. Un posto di lavoro val bene il cancro? L’avvelenamento dei luoghi, i probabili effetti sul Dna dei bambini sono compatibili con i diritti delle future generazioni?
Le osservazioni del Mibact, che per alcuni politici sarebbero solo consultive (sic!), sottolineano la contrarietà alla ripartenza della fabbrica perché in contrasto con il PPR Sardegna, con lo strumento principe che la Regione si è data per il governo del territorio e per il suo futuro che doveva essere appunto sostenibile. Preventivamente i senatori sardi del PD però si erano premuniti chiedendo al ministro Franceschini che i suoi uffici non ostacolassero con deliberazioni critiche la ripresa produttiva della fabbrica.
Tutti atti che denotano una totale mancanza di idee e di una strategia per la Sardegna. L’eterno ritorno della chimica e delle fabbriche inquinanti come paradigma dell’azione politica. Una classe dirigente che si nega nel suo essere politica, ridotta a gestire i cascami di iniziative industriali sbagliate che hanno avvelenato l’isola oggi e chissà per quanti decenni. Non bastano più le narrazioni su di un nuovo modello di sviluppo, su agricoltura, artigianato, turismo, conoscenza, tecnologia.
No, è questo presente che incatena tutta la Sardegna alla ripetizione coatta di scelte che si rivelano essere, ancora una volta il tubo di scappamento dell’Italia e delle multinazionali che intascano i profitti, e qui lasciano quattro stipendi e veleni in abbondanza. Dispiace dirlo ma è così. Un rapporto perverso tra interessi locali e quelli globali, dove la politica con le propaggini sindacali altro non sono che la riedizione dei rapporti ineguali che caratterizzano la Sardegna dal Settecento in poi.
Si preferisce l’accordo con lo sfruttatore di turno, oggi Rusal, che sviluppare una idea di sé e della propria modernità. Borghesia compradora, ieri ed oggi, classi dirigenti e politiche che lucrano sul disagio, che su quello costruiscono carriere personali, insensibili ad ogni avvertimento, prone sull’interesse immediato, incapaci di un futuro che non sia per i propri circoli familistici e clientelari. Questo è, piaccia o no.
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Quando i tiranni sabaudi rasero al suolo la Sardegna
di Francesco Casula
L’Isola del «grande verde», che fra il XIV e XII secolo avanti Cristo fonti egizie, accadiche e ittite dipingevano come patria dei Sardi shardana è sempre più solo un ricordo. La storia documenta che l’Isola verde, densa di vegetazione, foreste e boschi, nel giro di un paio di secoli fu drasticamente rasata, per fornire carbone alla industrie e traversine alle strade ferrate, specie del Nord d’Italia. Certo, il dissipamento era iniziato già con Fenici Cartaginesi e Romani, che abbatterono le foreste nelle pianure per rubare il legname e per dedicare il terreno alle piantagioni di grano e nei monti le bruciarono per stanare ribelli e fuggitivi, ma è con i Piemontesi che il ritmo distruttivo viene accelerato.
Iniziarono presto: 20 anni dopo avere preso possesso dell’Isola, nel 1740 il re Carlo Emanuele III di Savoia aveva concesso al nobile svedese Carlo Gustavo Mandell il diritto di sfruttare tutte le miniere di Parte d’Ispi (Villacidro) in cambio di un’esigua percentuale sul minerale raffinato; e gli aveva permesso di prelevare nelle circostanti foreste il carbone e la legna per le fonderie, costringendo i comuni a vere e proprie corvè e distruggendo così il patrimonio forestale della regione.
Lo scempio era continuato anche quando miniere e fonderie, scaduto il contratto trentennale di Mandell, furono gestite direttamente dal regio governo. Anzi da allora la situazione si era aggravata, perché le richieste di combustibile si erano fatte più pressanti e perentorie.
Furono bruciati persino i boschi della piana di Oristano per incenerire i covi dei banditi mentre i toscani li bruciarono per fare carbone e amici e parenti di Cavour, come quel tal conte Beltrami devastatore di boschi quale mai ebbe la Sardegna, mandò in fumo il patrimonio silvano di Fluminimaggiore e dell’Iglesiente.
Con l’Unità d’Italia infine si chiude la partita con una mostruosa accelerazione del ritmo delle distruzioni, specie con il regno di Umberto I a fine Ottocento.
Scriverà Eliseo Spiga: ”lo stato italiano promosse e autorizzò nel cinquantennio tra il 1863 e il 1910 la distruzione di splendide e primordiali foreste per l’estensione incredibile di ben 586.000 ettari, circa un quarto dell’intera superficie della Sardegna, città comprese”.
Mentre il poeta Peppino Mereu, a fine Ottocento, mette a nudo la “colonizzazione” operata dal regno piemontese e dai continentali, cui è sottoposta la Sardegna, proprio in merito alla deforestazione: Sos vandalos chi cun briga e cuntierra/benint dae lontanu a si partire/sos fruttos da chi si brujant sa terra (I vandali con liti e contese/ vengono da lontano/a spartirsi i frutti/dopo aver bruciato la terra). E ancora: Vile su chi sas jannas hat apertu/a s’istranzu pro benner cun sa serra/a fagher de custu logu unu desertu (Vile chi ha aperto la porta al forestiero /perché venisse con la sega/e facesse di questo posto un deserto).
E Giuseppe Dessì, nel suo romanzo Paese d’ombre scrive: “La salvaguardia delle foreste sarde non interessava ai governi piemontesi, la Sardegna continuava ad essere tenuta nel conto di una colonia da sfruttare, specialmente dopo l’unificazione del regno”.
Mentre Carlo Corbetta, (scrittore lombardo della seconda metà del secolo XIX), in seguito a un viaggio in Sardegna, (e in Corsica) scrisse un’opera in due volumi Sardegna e Corsica. E a proposito della distruzione dei boschi e della deforestazione, scrive che la si deve in massima parte agli speculatori e trafficanti di scorza che col loro coltello scorticatore ne denudano i tronchi e grossi rami delle elci e quercie marine e delle quercie comuni e la spediscono in continente ad estrarne tannino per la conceria delle pelli e per le tinture.
Si tratta di un’analisi gravemente deficitaria. E’ vero che le sugherete erano preda subito dopo l’Unità d’Italia (a partire soprattutto dal 1865) di gruppi di commercianti che cercavano il tannino e la potassa. Ma i veri responsabili che Corbetta non individua, sono ben altri: i re sabaudi e i loro governi. Probabilmente Corbetta non voleva nè poteva individuarli, essendo essi amici e contigui ai suoi sostenitori, Quintino Sella in primis. Il suo viaggio in Sardegna era stato possibile proprio grazie all’appoggio proprio di Quintino Sella. Questi, più volte Ministro delle Finanze nel 1869 soggiornerà due volte in Sardegna in qualità di componente della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulle condizioni dell’isola.
Ma è soprattutto Gramsci, in un articolo sull’Avanti (Edizione piemontese) del 23 ottobre 1918, censurato e riscoperto 60 anni dopo, a denunciare la devastazione ambientale e climatica, frutto della spoliazione e distruzione dei boschi. Nell’articolo – intitolato significativamente “Gli spogliatoi di cadaveri”, individua fra questi gli industriali del carbone. Essi scendono dalla Toscana e stavolta, il lascito perla Sardegna è la degradazione catastrofica del suo territorio. L’Isola è ancora tutta boschi. Gli industriali toscani ne ottengono lo sfruttamento per pochi soldi: a un popolo in ginocchio anche questi pochi soldi paiono la salvezza, scrive ancora Gramsci.
Così – continua l’intellettuale di Ales – L’Isola di Sardegna fu letteralmente rasa suolo come per un’invasione barbarica. Caddero le foreste. Che ne regolavano il clima e la media delle precipitazioni atmosferiche. La Sardegna d’oggi alternanza di lunghe stagioni aride e di rovesci alluvionanti, l’abbiamo ereditata allora, concluderà.
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Il Patto è servito
di Vito Biolchini, su vitobiolchini.it
Il Patto per la Sardegna firmato a Sassari da Matteo Renzi e Francesco Pigliaru non è né quell’atto “storico” evocato dal rettore dell’Università di Sassari Massimo Carpinelli né quell’”imbroglio” di cui parla l’ex presidente della Regione Ugo Cappellacci. Probabilmente è un buon risultato per l’isola, perché un miliardo e mezzo di risorse aggiuntive (il resto sono fondi ordinari che sarebbero arrivati comunque, a prescindere dai due presidenti) di questi tempi non sono da buttare via.
Dato atto a Pigliaru il merito di questo successo (uno dei pochi di questi suoi primi due anni e mezzo di governo) e preso e portato a casa questo miliardo e mezzo, si tratta di capire come verrà investito:
Lettera aperta del Segretario nazionale della Confederazione Sindacale Sarda Giacomo Meloni al Vescovo di Cagliari Arrigo Miglio, presidente della Conferenza dei Vescovi della Chiesa sarda
E SE L’IMPEGNO DI TUTTI FOSSE LA CREAZIONE E LA RICERCA DEL LAVORO DIGNITOSO, RISPETTOSO DELLA PERSONA, DEL CREATO, DEL TERRITORIO E DELL’AMBIENTE?
Si può in Sardegna essere contro il lavoro che inquina,che produce tumori e morte ?
PERCHE’ FESTEGGIARE UN LAVORO CHE DISTRUGGE L’AMBIENTE E CHE IN SARDEGNA PER ASSURDO COSTRUISCE BOMBE?
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Mons. Arrigo Miglio
Arcivescovo di Cagliari
< arcivescovado segreteria@diocesidi cagliari.it >
Carissimo mons. Miglio mio vescovo e pastore,
- segue –
Quale sviluppo per la Sardegna?
La sedia
di Vanni Tola
Chimica verde – Proviamo a parlarne senza pregiudizi?
Recentemente, mentre erano in corso a Roma incontri ad alto livello per esaminare il futuro della chimica italiana e dei progetti della chimica verde, due interventi sulla pagina “lettere e commenti “ del quotidiano La Nuova Sardegna ci consentono di ritornare sul tema della chimica verde del quale ci siamo ampiamente occupati nel nostro giornale. La probabile cessione della società Versalis da parte dell’Eni a una società d’affari poco interessata alla riconversione del petrolchimico di Porto Torres potrebbe rappresentare la fine del progetto Chimica Verde. Mobilitazione dei lavoratori chimici in tutta Italia e si riapre la discussione sul futuro della chimica. Parla Paola Pilisio del Comitato No Chimica Verde/No Inceneritore. “Bene abbiamo fatto a chiamarci No Chimica Verde/No Inceneritore e male fa ammetterlo ma avevamo ragione sia sulla chimica verde che sull’inceneritore. Che questo progetto fosse un’idea balzana, cancerogena e fallimentare, lo abbiamo detto all’indomani del protocollo d’intesa siglato a Roma nel Maggio 2011”. La farsa Matrìca e quello che conteneva è servita solo all’Eni per continuare a evitare le bonifiche. Il futuro di Portotorres non è nella chimica”. Ed ancora: “La chimica verde non è mai esistita nei programmi dell’Eni, cardi, mater-bio, tutta propaganda per i beoti, il vero progetto, di verde e di bio, non aveva neanche il nome. La centrale termoelettrica di Versalis è la stessa che avrebbe dovuto alimentare la centrale a biomasse di Matrìca, prima a Fok, derivato della lavorazione dell’etilene, residuo tossico e altamente cancerogeno contro il quale i nostri amministratori si sono battuti, ottenendo alla fine che fosse alimentato solo a Gpl. Gli stessi che alle nostre spalle e lo stesso giorno, il 17 gennaio del 2014 mentre obbligavano Matrìca all’uso esclusivo del Gpl per la centrale termoelettrica, rinominata in questo caso “caldaia di riserva”, davano parere favorevole al rilascio di un Aia ( Autorizzazione integrata ambientale) concessa dal Ministero dell’Ambiente che permette alla Versalis di bruciare 50.000 tonnellate di Fok e 90.000 di Btz l’anno per 7 anni, nella centrale termoelettrica. Ora, che la chiamino caldaia di riserva per Matrìca o centrale termoelettrica per Versalis, il punto non cambia perché l’impianto è lo stesso, cioè un inceneritore per rifiuti speciali tossico nocivi, che di verde non ha proprio niente. L’Eni sta facendo molti soldi bruciando a Portotorres, in maniera illegale, i residui altamente tossici della lavorazione dell’etilene”. Fin qui le posizioni del Comitato No Chimica Verde/No Inceneritore. A stretto giro di posta risponde, nella citata pagina della Nuova Sardegna, Marco Dettori, lavoratore chimico di Porto Torres, il quale entrando nel merito delle questione esposte dalla rappresentante del Comitato anti Chimica Verde afferma: “Il fatto più assurdo è che si confonda la centrale di riserva alla centrale a biomasse (che comunque non verrà costruita) con la centrale elettrica di Versalis, sostenendo che quest’ultima sia anche un inceneritore, il quale brucerebbe “residui speciali tossico nocivi”. Nel protocollo sulla chimica verde, la caldaia di riserva non equivale all’odierna centrale elettrica di Versalis; questo è riscontrabile dalle carte e dai progetti, depositati e resi pubblici. Le due centrali, a progetto, risultavano ben distinte ed avrebbero svolto compiti totalmente differenti, è utile precisare che la centrale a biomasse avrebbe dovuto bruciare solo ed esclusivamente gli scarti di produzione degli impianti di chimica verde (si parla di scarti vegetali). Il Fok, rispetto ai comuni oli combustibili, ha la caratteristica di non avere alcun contenuto di zolfo e di metalli pesanti, a differenza dei Btz ed Atz (basso e alto tenore di zolfo). Ora, considerando che il Fok sia il miglior olio combustibile in circolazione, che la centrale a biomasse non verrà costruita e di conseguenza neanche la caldaia di riserva, quel’è l’utilità di parlare di problemi che non esistono?” A parere dell’operaio chimico analisi quali quelle prodotte dal Comitato No Chimica Verde servono soltanto a gettare fango sulle politiche societarie che tendono alla dismissione di asset strategici della chimica nazionale. Si fa disinformazione e ci si comporta da incoerenti parlando di inquinamento e di tumori e ignorando o fingendo di ignorare che gran parte dei prodotti che oggi utilizziamo nella vita di tutti i giorni, nelle nostre auto ( olii, combustibili, parti meccaniche, componenti degli pneumatici, freni frizioni) vengono prodotti con la chimica tradizionale e i derivati del petrolio mentre potrebbero essere ottenuti con prodotti di origine vegetale, con residui biodegradabili e compostabili. “Noi lavoratori crediamo fermamente nel progetto della chimica verde e della chimica sostenibile. Siamo sicuri di possedere sul territorio un bagaglio di conoscenze tecniche e scientifiche invidiabili in tutto il mondo. Le produzioni di acido azelaico e pelargonico sono di eccelsa qualità e per questo motivo riteniamo indispensabile che vengano confermati gli investimenti sul progetto. La chimica verde è un’opportunità unica al mondo e sarebbe inaccettabile non proseguire su questo percorso di riconversione industriale”. Riusciremo mai in Sardegna ad analizzare problemi di fondamentale importanza per il futuro dell’isola evitando analisi fortemente condizionate da pregiudizi e posizioni estremizzate? O continueremo a rincorrere favole metropolitane. C’è ancora oggi chi pensa che qualcuno (brutto e cattivo) voglia seminare cardi da Macomer in su fino a Portotorres e canna comune da Portotorres a Cagliari per prodotti di bioraffineria. C’è chi pensa che la chimica e la biochimica, insieme alla bioingegneria rappresentino il male assoluto che l’Isola deve evitare a prescindere. C’è chi pensa che le energie alternative a quelle prodotte con petrolio e carbone siano sempre e comunque qualcosa di minaccioso e oscuro che produce soltanto operazioni di malaffare. Proviamo a riflettere sull’argomento senza pregiudizi, forse comprenderemo meglio ciò che ci accade intorno.
Chimica verde in Sardegna. Dal fallimento annunciato del progetto Matrìca l’ennesima “cattedrale nel deserto”? Le responsabilità di Eni
Grandi manovre intorno al piano per la chimica verde – Il disimpegno dell’Eni con la cessione di Versalis. Mobilitazione operaia per la difesa dell’occupazione a Portotorres. Sciopero nazionale di otto ore il 20 Gennaio.
L’impianto di Matrìca per la trasformazione del vecchio polo petrolchimico di Portotorres in un moderno impianto per la chimica verde è ancora fresco di vernice e di recente inaugurazione quando si apprende che l’Eni, capofila del progetto, sta per cedere il 70 % del capitale della società Versalis – uno dei pilastri portanti del progetto Matrìca – Chimica Verde – a un fondo di investimenti internazionale. Operazione che, se realizzata, potrebbe significare la fine del progetto Matrìca, l’annullamento dei finanziamenti programmati, il mancato completamento degli impianti, il licenziamento per gli operai attualmente impiegati nello stabilimento di Portotorres. Il progetto di riconversione industriale del vecchio polo petrolchimico concordato nel non lontano giugno del 2011 per il quale sono stati finora investiti e spesi 200 milioni di euro, diventerebbe l’ennesima incompiuta nell’area industriale del nord Sardegna. A monte ci sarebbe la scelta di Eni, comune a molte altre multinazionali del settore petrolifero, di svincolarsi dal comparto per destinare le proprie risorse alle attività energetiche, alla produzione e distribuzione di energia. Ad essere messi in discussione quindi sarebbero l’insieme dei progetti per la riconversione e il rilancio della chimica nazionale, dei quali il progetto Matrìca è una componente, e neppure quella più importante. Una questione nazionale quindi che sta determinando la mobilitazione operaia anche in altre regioni. Cosa possa aver indotto il colosso chimico e rivedere cosi drasticamente i propri progetti per la chimica e quello per la chimica verde in Sardegna non è facile comprenderlo, siamo soltanto nel campo delle ipotesi. Sicuramente c’entra la congiuntura internazionale relativa al crollo del prezzo del petrolio che sta rivoluzionando le politiche energetiche ed il mercato internazionale del greggio e orientando le multinazionali del petrolio a rivedere le proprie strategie di investimento. Nel caso specifico del progetto Matrìca potrebbe aver avuto un ruolo anche il sostanziale fallimento di quella parte del progetto relativa al reperimento della materia prima in loco. Si ipotizzava la messa a coltura con il cardo di qualche migliaio di Ha di terreni incolti (senza nulla togliere alle aree già destinate ad altro utilizzo agricolo). In realtà a tutt’oggi non si è andati oltre i 550 Ha di messa a coltura di cardo (fonte Coldiretti) ed é noto che l’approvvigionamento di materia prima in aree lontane dall’impianto o mediante importazione non sarebbe assolutamente conveniente. Un fallimento nella comunicazione e nell’informazione ai lavoratori delle campagne sui quali sarebbe necessaria una maggiore riflessione. Ha certamente inciso la campagna allarmistica sul “pericolo” della monocoltura del cardo in merito alla quale sono state dette poche verità e molte sciocchezze fondate sostanzialmente su pregiudizi di una parte della nostra società. Non si è riusciti a far comprendere ai coltivatori che nessuno chiedeva loro di abbandonare i lavori agricoli tradizionali per sostituirli con la coltivazione del cardo. Nessuno lo ha mai ipotizzato. Si trattava invece di praticare, in aggiunta alle coltivazioni ordinarie, degli interventi colturali nei terreni incolti e nelle aree abbandonate per favorirne il recupero produttivo o fornire materia prima per l’impianto della chimica verde. Neppure le garanzie e gli incentivi finanziari che stavano alla base dell’accordo tra Matrìca e le organizzazioni agricole hanno scalfito luoghi comuni e modalità produttive consolidate e poco inclini a confrontarsi con il nuovo, con i cambiamenti di mentalità e di organizzazione produttiva. Ma anche tale considerazione non ci illumina più di tanto sulle cause che hanno indotto Eni e la sua creatura Matrìca all’abbandono del progetto chimica verde. Non dimentichiamo che si trattava di realizzare, su quello che rimaneva del vecchio petrolchimico un polo di rilevanza internazionale nella produzione di materie plastiche di origine vegetale contemporaneamente all’avvio delle bonifiche dell’intera area industriale e la promozione di nuovi insediamenti industriali per le seconde lavorazioni della materia prima che Matrìca avrebbe dovuto fornire. Un progetto di ampio respiro che non può certo essere accantonato dall’oggi al domani. Per dovere di cronaca pensiamo di dover dare conto anche di una ipotesi particolare sul voltafaccia dell’Eni che circola tra i vecchi lavoratori del petrolchimico, quegli operai che hanno vissuto l’intera esperienza petrolchimica del polo industriale. E’ soltanto una ipotesi tutta da verificare, forse anche un po’ fantasiosa, probabilmente dettata da una certa abitudine a “pensare male” dei potentati economici quali l’Eni. La riferiamo, cosi come l’abbiamo appresa. L’insediamento petrolchimico della Sir e delle sue consociate nell’area industriale di Portotorres ha determinato un inquinamento ambientale e dei territori dell’insediamento di dimensioni quasi incalcolabili. Studi scientifici accreditati parlano di livelli di inquinamento superiori perfino a quelli raggiunti a Taranto. Evidentemente si rende necessario un piano di bonifiche di grandi dimensioni e con costi elevatissimi nella speranza di poter ripristinare, almeno in parte, le condizioni ambientali dell’intero polo industriale. La questione delle bonifiche, o meglio degli enormi costi che una seria bonifica dell’area del petrolchimico comporterebbe, diventa centrale quindi non solo per la salute della popolazione e il recupero dell’integrità ambientale perduta ma anche, e soprattutto dal punto di vista dell’Eni, per gli ingenti capitali da investire. Nelle aree industriali dismesse l’intervento di bonifica deve essere integrale e comporta, come dicevamo, costi molto elevati. Nell’area della vecchia Sir, nel cuore dell’impianto petrolchimico che fu di Rovelli, una delle aree più inquinate in assoluto, non si parla di area dismessa e abbandonata bensì, grazie alla genialata dell’impianto per la chimica verde, di intervento di ristrutturazione industriale. Gli obblighi e i vincoli di bonifica, in questo caso sono molto inferiori. In pratica, afferma la citata “voce di popolo”, costruendo un nuovo impianto (Matrìca) sulle rovine del vecchio petrolchimico, l’Eni avrebbe evitato le costosissime operazioni di bonifica che sarebbe stato necessario affrontare nell’area. Il nuovo e scintillante impianto petrolchimico verde appena inaugurato avrebbe di fatto seppellito l’inglorioso passato del vecchio polo petrolchimico e, con esso, l’inquinamento straordinario ed eccezionale che l’area nasconderebbe. Certo per farlo Matrìca ha speso ben 200 milioni di euro, ma quanto sarebbe costata la bonifica integrale del sito? La cessione di Versalis affermano gli esperti, sarebbe più che sufficiente a far recuperare le somme investite e alla Sardegna resterebbe l’ennesima “cattedrale nel deserto” da gestire. Fantasie? Forse! Ma a costo di apparire ripetitivi non ci stancheremo mai di citare la solita frase attribuita a Giulio Andreotti: “a pensare male si commette peccato, ma spesso ci si azzecca”.
Anno nuovo. Che nuovo anno sia!
Ecco l’anno nuovo. Bilanci e riflessioni.
Inizia un nuovo anno, tempo di bilanci e riflessioni, di programmi e di agende di lavoro per l’anno appena cominciato. Riflessioni solitamente standardizzate e scontate. Talvolta sembra di rileggere cose dette e ridette anche negli anni precedenti, programmi vecchi quanto inutili ai quali ormai pochi mostrano di credere. Proposte peraltro fortemente condizionate anche dalla perenne campagna elettorale in corso nel paese. C’è un argomento, tra i tanti sui quali di dovrebbe avviare una seria riflessione. Il mito della “naturalità”. Un tema abbastanza importante per individuare e comprendere i limiti dei programmi e delle forze politiche dell’area progressista che tanta influenza hanno, o meglio potrebbero avere, nell’attivare concreti processi di cambiamento della realtà socio economica del paese e della regione. Il mito della “naturalità” dei programmi e il peso che tale concetto sta avendo nella (non) definizione di azioni credibili e realizzabili è davvero consistente. Senza nulla concedere agli schematismi ideologici e partitici, talvolta devianti, penso si possa affermare con certezza che, dalla Rivoluzione Industriale in poi, la sinistra o, se preferite, l’area liberale e progressista dalla società, ha sempre perseguito il miglioramento delle condizioni di vita degli esseri umani contribuendo a diffondere i progressi scientifici e tecnologici che la scienza produceva e determinava. La conservazione, l’irrazionalità, la difesa aprioristica del conosciuto rispetto al nuovo che avanzava, erano tutti elementi del pensiero conservatore e di destra. Oggi l’area progressista percorre altre strade, sembra essersi rifugiata in un conservatorismo che si richiama a tradizione e natura, che è certamente molto rassicurante, ma altrettanto sicuramente non progressista. Oggi, l’atteggiamento di coloro che si definiscono di sinistra o comunque appartenenti all’area progressista, nei confronti di tutto ciò che è stato prodotto dalla ricerca scientifica e tecnologica, è fortemente condizionato da un pregiudiziale rifiuto in nome dalla “naturalità” dell’agire che raramente è accompagnato da considerazioni oggettive. Giusto per fare alcuni esempi basta pensare all’idea di chimica verde e alla biochimica viste con sospetto e ostilità ignorando che perseguono l’obiettivo (questo si naturalista) di sostituire produzioni derivanti da sostanze fossili (petrolio e carbone in primis) con altre prodotte con materie prime di origine vegetale, solitamente riciclabili biodegradabili e compostabili. Un indubbio vantaggio per l’ambiente e la natura. La bioingegneria, che tanta parte ha nella moderna produzione alimentare, farmacologica e in altri comparti produttivi, viene solitamente identificata con l’operato, certamente malavitoso, dei contraffattori e alteratori di prodotti piuttosto che con la ricerca di nuove e più organiche forme di produzione certamente riconducibili a un miglioramento della naturalità dei prodotti e delle condizioni di vita della gente. Per non parlare poi del rapporto con le nuove tecnologie relative alla produzione di energia utilizzando fonti energetiche alternative. Le centrali solari, ideate dal nobel per la fisica, l’italiano Carlo Rubbia, sono una realtà in molte parti del mondo, come le serre solari, gli impianti eolici, la geotermia, la produzione di energia dal riciclo di materiali di rifiuto, la ricerca di prodotti agricoli alternativi, (per esempio il cardo e la canna comune in Sardegna). Tutte attività considerate con sospetto e diffidenza per paure talvolta solo parzialmente fondate (operazioni puramente speculative della malavita, sfiducia nell’operato delle multinazionali della chimica) ma molto spesso per pregiudizi radicati verso tutto ciò che non si conosce o si conosce soltanto parzialmente. Non ne voglio fare una questione semantica ma è un dato oggettivo l’uso improprio che si fa di alcuni termini. Per esempio il termine “chimica” è solitamente e naturalmente associato a qualcosa di negativo dimenticando che grazie ai progressi della chimica e della bioingegneria oggi disponiamo di farmaci molto efficaci, di materiali più efficienti, di macchine migliori, di combustibili meno inquinanti che in passato. Per contro il termine “naturale”, al quale si riferisce gran parte degli appartenenti all’area cosiddetta progressista, non sempre è sinonimo di genuinità e buona qualità. Pensiamo ai prodotti di agricoltura biologica spesso dichiarati tali soltanto dallo stesso produttore ma non adeguatamente certificati, penso al vino o all’olio del contadino venduto nelle fiere con etichette approssimative e controlli igienico sanitari talvolta inesistenti, ai prodotti alimentari conservati e via dicendo. In Sardegna, in particolare, poi al mito della “naturalità”, si accompagna solitamente quello di “su connotu” , del noto, dell’agire come si faceva prima, nei tempi passati, con le modalità e le tecnologie povere dei nostri avi. Anche in questo caso ci troviamo di fronte fondamentalmente a un pregiudizio, romantico e poetico quanto i vuole, ma sempre un pregiudizio. Le condizioni di vita, nel passato, erano decisamente peggiori, si moriva di parto, c’era malnutrizione e elevata mortalità infantile, mancavano quasi totalmente medicine e vaccini che tanto hanno contribuito alla difesa della salute, i controlli sulla qualità degli alimenti erano pressoché inesistenti. Una condizione di vita non certo invidiabile. Il mito del ritorno al passato, alle buone pratiche di una volta è spesso diffuso soprattutto da chi gode oggi di una condizione sociale favorevole e consolidata e può permettersi di fare voli pindarici sulle ali della fantasia e del mito. Dovremmo rifletterci sopra. Il nostro giornale, da sempre aperto al confronto delle opinioni, certamente darà spazio alla discussione e all’approfondimento sul tema.
L’augurio che rivolgo alla Sardegna è che il nuovo anno induca i progressisti sardi a fare pace con la scienza, la ricerca e l’innovazione tecnologica. Auspico l’individuazione di linee guida per un programma di rinascita e sviluppo dell’isola realistico, che tenga conto delle reali potenzialità e risorse della regione e che individui interventi di adeguamento delle attività produttive alla realtà nella quale viviamo. Uno sviluppo e una crescita in sintonia con le caratteristiche del contesto economico e politico nel quale l’isola è collocata, in rapporto con i mercati internazionali, finalizzato a soddisfare le esigenze della popolazione, la conservazione dell’ambiente e la crescita socio-culturale del popolo sardo.
Auguri Sardegna!
di Franco Meloni*
By sardegnasoprattutto/ 9 gennaio 2016/ Culture/
E’ tempo di auguri. Quali per la nostra Sardegna? Come a Natale si finge naturale bontà, a Gennaio si deve fingere un naturale ottimismo nell’immaginare il futuro. Ma l’ottimismo ha un senso, secondo Gramsci, solo se è rivolto alla volontà, che significa impegno derivante da una chiara consapevolezza della realtà.
Quale è la visione generale della posizione della Sardegna in un’Italia frammentata in una Europa che vede crescere le fughe dall’idea di Comunità che aveva fatto sperare, alla fine della seconda guerra mondiale, ideali di concordia nella pace?
Quello che regna ovunque è un senso di precarietà giustificato dalla violenza delle idee che si contrappongono, come ai tempi delle Crociate, con proclami e non con accurate e impegnative discussioni. E il sangue scorre. Personalmente auguro ai Sardi di riacquistare la consapevolezza di sè. Della coscienza di mantenere e difendere il patrimonio del quale spesso dimentichiamo di essere responsabili. Della certezza che solo la competenza può farci stare al passo di nazioni che privilegiano l’istruzione e la cultura. Millenni di storia ci guardano dall’alto delle torri nuragiche.
Abbiamo fuso metalli e creato arte con antichi saperi. Eravamo al centro di miti e abbiamo danzato con moltissimi Odissei. Abbiamo inventato poesie per sconfiggere l’ignoto e intrecciato tappeti che facevano percorrere arditi viaggi nella fantasia. Sotto olivi secolari abbiamo dettato codici di comportamento che ponevano regole. Abbiamo accordato i tempi dell’agricoltura secondo lo studio degli astri, e la sacralità della natura era rispettata.
Ora dobbiamo rivendicare il nostro ruolo di ponte tra culture nel Mediterraneo, e per farlo dobbiamo richiamare i nostri figli emigrati, e sconfiggere il pessimismo della ragione con costruttivi progetti di accoglienza e di pace in un’etica che ispiri la sostenibilità delle scelte. L’identità si rafforza solo con il confronto con chi viene da fuori. La decisione è facile: fare il contrario dei regimi sempre più antistoricamente fascisti che la vecchia e stanca Europa sta rigurgitando.
L’alternativa ci relega al ruolo subalterno che permetterà di trattare la nostra Isola, che ha il diritto di essere felice, come contenitore di rifiuti, non solo materiali e magari smaltibili in migliaia di anni. La nostra terra, nella più infausta conclusione, potrà essere un efficiente campo per raffinati giocatori di golf o violenti simulatori di guerre, tra esclusivi centri benessere che vedrebbero i Sardi come silenziosi servi. E magari, capovolgendo la sfera che ci conterrà, potrà cadere la neve anche ad Agosto. Abbiamo il dovere di pretendere di più. Auguri Sardegna!
*Fisico e Narratore
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ITA DD’HAP’A NAI
di Fanny Cocco
Ita dd’hap’a nai a filla mia
Chi hat a teni bint’annus
In su Duamila.
Ita dd’hap’a nai
A pustis chi eus abbraxau
Padentis e cracchiris A pustis chi eus alluau
COSA LE DIRO’
Cosa dirò a mia figlia che avrà vent’anni nel Duemila.
Cosa le dirò
dopo che abbiamo bruciato
rovereti e boschi di ghiande
dopo che abbiamo avvelenato sorgenti e ruscelli
A filla mia dd’hap’a nai
A no si fai imboddicai Cument’a nos
Chi eus donau a fidu Su mundu nostru
A is luziferrus de sa chimica e de s’atomu. Nos si dd’eus donau Nos vittimas buginus e complicis.
A filla mia dd’hap’a
di non farsi lusingare come abbiamo fatto noi
che abbiamo venduto per niente
il nostro mondo
ai diavoli della chimica e dell’atomo Noi gliel’abbiamo dato
noi vittime carnefici e complici
Mizzas e arrius
A pustis chi eus accaddozzau Pranus e montis
A pustis chi eus struppiau
Costeras e marinas A pustis chi eus incravau
Matas e bestias.
dopo che abbiamo trasformato in letamai pianure e montagne dopo che abbiamo rovinato
coste e spiagge dopo che abbiamo messo in croce alberi e animali.
nai
Ca no est prus tempus De passienzia “Torrandi a pigai sa terra tua
E perdona a su tempus nostru
Chi t’hat lassau
In eredidari Muntronaxus e bombas”.
A mia figlia dirò
che non è più tempo di portare pazienza. “riprenditi la tua terra e perdona la nostra generazione
che ti ha lasciato
in eredità immondezzai e bombe”.
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* di Fanny Cocco, ITA DD’HAP’A NAI
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Arriva l’anno nuovo. Che nuovo anno sia!
Arriva l’anno nuovo. Bilanci e riflessioni.
Inizia un nuovo anno, tempo di bilanci e riflessioni, di programmi e di agende di lavoro per l’anno appena cominciato. Riflessioni solitamente standardizzate e scontate. Talvolta sembra di rileggere cose dette e ridette anche negli anni precedenti, programmi vecchi quanto inutili ai quali ormai pochi mostrano di credere. Proposte peraltro fortemente condizionate anche dalla perenne campagna elettorale in corso nel paese. C’è un argomento, tra i tanti sui quali di dovrebbe avviare una seria riflessione. Il mito della “naturalità”. Un tema abbastanza importante per individuare e comprendere i limiti dei programmi e delle forze politiche dell’area progressista che tanta influenza hanno, o meglio potrebbero avere, nell’attivare concreti processi di cambiamento della realtà socio economica del paese e della regione. Il mito della “naturalità” dei programmi e il peso che tale concetto sta avendo nella (non) definizione di azioni credibili e realizzabili è davvero consistente. Senza nulla concedere agli schematismi ideologici e partitici, talvolta devianti, penso si possa affermare con certezza che, dalla Rivoluzione Industriale in poi, la sinistra o, se preferite, l’area liberale e progressista dalla società, ha sempre perseguito il miglioramento delle condizioni di vita degli esseri umani contribuendo a diffondere i progressi scientifici e tecnologici che la scienza produceva e determinava. La conservazione, l’irrazionalità, la difesa aprioristica del conosciuto rispetto al nuovo che avanzava, erano tutti elementi del pensiero conservatore e di destra. Oggi l’area progressista percorre altre strade, sembra essersi rifugiata in un conservatorismo che si richiama a tradizione e natura, che è certamente molto rassicurante, ma altrettanto sicuramente non progressista. Oggi, l’atteggiamento di coloro che si definiscono di sinistra o comunque appartenenti all’area progressista, nei confronti di tutto ciò che è stato prodotto dalla ricerca scientifica e tecnologica, è fortemente condizionato da un pregiudiziale rifiuto in nome dalla “naturalità” dell’agire che raramente è accompagnato da considerazioni oggettive. Giusto per fare alcuni esempi basta pensare all’idea di chimica verde e alla biochimica viste con sospetto e ostilità ignorando che perseguono l’obiettivo (questo si naturalista) di sostituire produzioni derivanti da sostanze fossili (petrolio e carbone in primis) con altre prodotte con materie prime di origine vegetale, solitamente riciclabili biodegradabili e compostabili. Un indubbio vantaggio per l’ambiente e la natura. La bioingegneria, che tanta parte ha nella moderna produzione alimentare, farmacologica e in altri comparti produttivi, viene solitamente identificata con l’operato, certamente malavitoso, dei contraffattori e alteratori di prodotti piuttosto che con la ricerca di nuove e più organiche forme di produzione certamente riconducibili a un miglioramento della naturalità dei prodotti e delle condizioni di vita della gente. Per non parlare poi del rapporto con le nuove tecnologie relative alla produzione di energia utilizzando fonti energetiche alternative. Le centrali solari, ideate dal nobel per la fisica, l’italiano Carlo Rubbia, sono una realtà in molte parti del mondo, come le serre solari, gli impianti eolici, la geotermia, la produzione di energia dal riciclo di materiali di rifiuto, la ricerca di prodotti agricoli alternativi, (per esempio il cardo e la canna comune in Sardegna). Tutte attività considerate con sospetto e diffidenza per paure talvolta solo parzialmente fondate (operazioni puramente speculative della malavita, sfiducia nell’operato delle multinazionali della chimica) ma molto spesso per pregiudizi radicati verso tutto ciò che non si conosce o si conosce soltanto parzialmente. Non ne voglio fare una questione semantica ma è un dato oggettivo l’uso improprio che si fa di alcuni termini. Per esempio il termine “chimica” è solitamente e naturalmente associato a qualcosa di negativo dimenticando che grazie ai progressi della chimica e della bioingegneria oggi disponiamo di farmaci molto efficaci, di materiali più efficienti, di macchine migliori, di combustibili meno inquinanti che in passato. Per contro il termine “naturale”, al quale si riferisce gran parte degli appartenenti all’area cosiddetta progressista, non sempre è sinonimo di genuinità e buona qualità. Pensiamo ai prodotti di agricoltura biologica spesso dichiarati tali soltanto dallo stesso produttore ma non adeguatamente certificati, penso al vino o all’olio del contadino venduto nelle fiere con etichette approssimative e controlli igienico sanitari talvolta inesistenti, ai prodotti alimentari conservati e via dicendo. In Sardegna, in particolare, poi al mito della “naturalità”, si accompagna solitamente quello di “su connotu” , del noto, dell’agire come si faceva prima, nei tempi passati, con le modalità e le tecnologie povere dei nostri avi. Anche in questo caso ci troviamo di fronte fondamentalmente a un pregiudizio, romantico e poetico quanto i vuole, ma sempre un pregiudizio. Le condizioni di vita, nel passato, erano decisamente peggiori, si moriva di parto, c’era malnutrizione e elevata mortalità infantile, mancavano quasi totalmente medicine e vaccini che tanto hanno contribuito alla difesa della salute, i controlli sulla qualità degli alimenti erano pressoché inesistenti. Una condizione di vita non certo invidiabile. Il mito del ritorno al passato, alle buone pratiche di una volta è spesso diffuso soprattutto da chi gode oggi di una condizione sociale favorevole e consolidata e può permettersi di fare voli pindarici sulle ali della fantasia e del mito. Dovremmo rifletterci sopra. Il nostro giornale, da sempre aperto al confronto delle opinioni, certamente darà spazio alla discussione e all’approfondimento sul tema.
L’augurio che rivolgo alla Sardegna è che il nuovo anno induca i progressisti sardi a fare pace con la scienza, la ricerca e l’innovazione tecnologica. Auspico l’individuazione di linee guida per un programma di rinascita e sviluppo dell’isola realistico, che tenga conto delle reali potenzialità e risorse della regione e che individui interventi di adeguamento delle attività produttive alla realtà nella quale viviamo. Uno sviluppo e una crescita in sintonia con le caratteristiche del contesto economico e politico nel quale l’isola è collocata, in rapporto con i mercati internazionali, finalizzato a soddisfare le esigenze della popolazione, la conservazione dell’ambiente e la crescita socio-culturale del popolo sardo.
Vandana in Sardegna: un messaggio da ascoltare e attuare
LA SCIENZIATA E AMBIENTALISTA INDIANA VANDANA SHIVA IN SARDEGNA
di Federico Francioni*
Nei prossimi giorni, settimane, mesi, anni, potremo concretamente verificare se l’incontro con Vandana Shiva – avvenuto martedì 28 luglio presso il Nuraghe Losa di Abbasanta – potrà rappresentare per la Sardegna il momento e l’inizio di una svolta autentica sul piano socioculturale e politico. È davvero importante che sia così, che ognuno di noi si senta responsabilmente impegnato in questa direzione. L’iniziativa è stata promossa da Isde-Medici per l’ambiente ed in particolare dal medico radiologo Vincenzo Migaleddu, da anni in prima fila.
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Perchè il movimento 5 stelle ha avuto la fiducia dei cittadini? Approfondiamo….
Il programma dei cinquestelle per Porto Torres
Dopo il trionfo nelle elezioni amministrative di avant’ieri, 14 giugno 2015, potrà interessarci conoscere le proposte dei nuovi amministratori per la loro città.
Su FondazioneSardinia.
Il nuovo sindaco di Porto Torres, Christian Wheeler. Immagini da La Nuova Sardegna, edizione di Sassari.
Università della Sardegna. Si confrontano i candidati a Rettore Unica
L’Unione Sarda
Cronaca di Cagliari (Pagina 14 – Edizione CA)
Aspiranti rettori, ecco il confronto
Ieri mattina il forum dei cinque candidati con i cronisti nella sede de L’Unione Sarda
I cinque candidati alla carica di rettore dell’Università di Cagliari ieri mattina hanno partecipato a un forum nella sede de L’Unione Sarda. Maria del Zompo, Paola Piras, Giacomo Cao, Luigi Raffo e Giorgio Massacci hanno risposto alle domande di Maria Francesca Chiappe, Paolo Carta e Marco Noce.
Il primo turno di elezioni è fissato per il 9 marzo, venerdì 20 il secondo, eventuale ballottaggio il 25 marzo.
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Todos cabaleros, tutus programmadores!
Dritto&Rovescio.
di Vanni Tola
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Da un po’ di tempo, in modo particolare, ma direi da sempre, chiunque sappia scrivere due righe e abbia una sia pur minima conoscenza di cose di Sardegna, si cimenta nella difficile arte della programmazione dello sviluppo dell’isola. Ottime idee e vere e proprie idiozie sono presentate ai sardi come la soluzione vincente per uscire dalla crisi, per avviare un nuovo modello di sviluppo, per individuare il settore portante per una nuova rinascita, per conquistare dipendenza e autonomia dall’Italia, dall’Europa, dal mondo intero. Analogo impegno è esercitato nel confutare e contrastare qualunque progetto di sviluppo, qualunque proposta di investimento industriale e produttivo che non coincida con le opinioni personali degli occasionali “consigliori” dei Sardi. Unire le Università di Cagliari e Sassari in un’unica Università? Ed ecco che qualcuno propone di farlo in campo neutro, a Nuoro. Perché? Per garantire una forte ipotesi di sviluppo alla città del centro Sardegna. Sì ma perché no a Oristano o in altre parti della Sardegna? Rilanciare lo sviluppo dell’isola sviluppando la centralità dell’agro-pastorizia? Si va bene ma c’è chi parla anche della centralità del turismo come prioritaria su tutti gli altri comparti produttivi. Biochimica e biotecnologie (e non chimica verde che sembra una parolaccia impronunciabile)? Per carità, Dio ce ne scampi e liberi, niente chimica. C’è sempre qualcuno che reclama il diritto alla conservazione dell’ambiente sardo cosi com’è, immutato, bello come una cartolina. Pazienza se non da lavoro e risorse ai sardi, tanto i teorici dell’incontaminato assoluto spesso traggono la loro fonte di sostentamento da sorgenti certe, affidabili e perenni. Coltivare cardi e canne per produrre prodotti che utilizziamo tutti i giorni quali l’etanolo (nelle benzine) e le resine che fanno parte degli pneumatici delle nostre auto? Giammai, “ a fora” questi progetti. Poco importa se cosi facendo continueremo a ricavare tali sostanze dal buon vecchio petrolio. Le canne poi, come i cardi, presenti da sempre nel territorio, possono e devono essere utilizzate soltanto per dare titoli a opere letterarie (Canne al vento), per suggestioni poetiche e per costruire launeddas. Basta. Allora come ne veniamo fuori? Direi che un aiuto prezioso potremmo riceverlo dalla saggezza popolare, da sempre guida per i popoli. “ A donz’unu s’arte sua”. La programmazione dello sviluppo di un’area geografica deve essere demandata a esperti del settore di comprovata esperienza, magari attraverso un bando internazionale e un concorso di idee serio ed efficace. Le direttive di sviluppo dei diversi comparti produttivi della nostra modesta economia devono essere indicati da chi ha le competenze necessarie per farlo. Non può essere un comune cittadino o un rappresentante politico appena insediato nel consiglio regionale a poter stabilire quale deve essere lo sviluppo dell’agro-industria, della sanità, dei trasporti, del turismo per il solo fatto di aver ricevuto una investitura politica nelle ultime elezioni. Qualcuno potrebbe osservare che cosi facendo si corre il rischio di escludere il popolo sardo dalla possibilità di manifestare opinioni sulle scelte di sviluppo e sui destini dell’Isola. Timore comprensibile che non si esorcizza però con il libero esercizio della programmazione fai da te. Il modello di sviluppo deve anche essere (direi soprattutto essere) una proposta convincente e coinvolgente verso i Sardi. Forme di consultazione popolare e di coinvolgimento diretto delle amministrazioni locali, dei comitati dei cittadini, dovranno essere certamente garantite e precedute da serie e obiettive campagne di informazione che favoriscano scelte ragionate e orientamenti consapevoli dei singoli. Ma occorre, a mio parere, una scelta di obiettività e di consapevolezza. Creare un movimento per il “no” a qualcosa è facile, basta una assemblea e pochi militanti determinati per generare la convinzione che un’intera comunità, una vasta area sia effettivamente contraria a questo o quel progetto. Se poi si va a verificare il reale livello di informazione fra la gente si realizza che è generalmente molto basso. Il discorso sarebbe analogo anche per i comitati per il “si” a qualcosa che, e forse non è un caso, sono in realtà molto pochi. Intanto che l’opinione pubblica si divide in interminabili discussioni, si misura con convegni e analisi sul tutto e sul niente la Sardegna naviga a vista mancando di tutto, dal piano industriale al piano energetico, dalla programmazione di interventi per arginare lo spopolamento alla politica per l’occupazione e il lavoro. Capitano cercasi per questa sgangherata nave.
Università della Sardegna. Spazio ai candidati a Rettore dell’Università di Cagliari
L’UNIONE SARDA
Cronaca di Cagliari (Pagina 20 – Edizione CA)
Un professore alla conquista di Marte
È un ingegnere chimico, Giacomo Cao, docente di piazza D’Armi, ricercatore dal 1990 e professore ordinario di Principi di Ingegneria chimica dal 2001. Due anni di esperienza negli Usa all’“University of Notre Dame”, a Cagliari coordina un gruppo di ricerca all’avanguardia nello sviluppo di tecnologie per l’esplorazione robotica e umana dello spazio, oltre ad occuparsi di temi legati ai processi chimici, alla produzione di materiali innovativi e alla medicina rigenerativa. Dal 2013 è presidente del Distretto aerospaziale della Sardegna: «Le tecnologie per l’esplorazione umana dello spazio hanno ricadute importanti sulla terra», spiega Cao, convinto che «l’Università deve saper rappresentare al territorio visioni di futuro, come ad esempio l’aerospazio e la chimica verde, in grado di sostenere l’economia di questa terra».
Altri incarichi compaiono nel curriculum, tra cui quello di responsabile del programma di Bioingegneria del Crs4 e altri in strutture (come consorzi e società) non solo universitarie.
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C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico: io vivo altrove, e sento che sono intorno nate le viole
di Gino Strada,
dalla pagina fb.
«Forse ci siamo. Forse si riesce a sconfiggere questa epidemia. Il numero di nuovi casi sta diminuendo rapidamente ogni giorno, speriamo non si verifichino nuove impennate. Forse tra poco potremo dire che l’epidemia di Ebola è finita in Sierra Leone. Ma che fatica! E quanti miracoli ci sono voluti. Quando in agosto il Ministero della Sanità ci ha chiesto di aprire a Lakka un centro di isolamento per i casi sospetti, in sole tre settimane i nostri logisti hanno realizzato una struttura in tende per un totale di 22 letti, che presto si è trasformata anche in centro di trattamento: troppi pazienti, accasciati fuori dal cancello, prostrati dalla malattia e in attesa di un posto letto. Così è iniziata la corsa per metterci in condizione di curare i pazienti, non solo di isolarli e osservarli: assicurare acqua e energia elettrica, garantire procedure e percorsi di sicurezza, assicurare aria condizionata per diminuire la fatica fisica degli operatori rinchiusi in un caldissimo scafandro, e finalmente iniziare a curare i malati. Perché anche in assenza di una cura specifica per la malattia si possono salvare molte vite, se si riesce a capire qualcosa di questa grave malattia ancora in gran parte sconosciuta, se si hanno gli strumenti e i farmaci più adatti. Così un passo dopo l’altro, tra grandi difficoltà, abbiamo messo a punto un laboratorio di biochimica, poi uno di virologia, sono arrivati i monitor, le pompe per infusioni endovenose, un altro laboratorio per la virologia, i ventilatori per intubare i malati più critici, le macchine per la dialisi. In soli tre mesi siamo riusciti ad allestire una terapia intensiva come quelle che si trovano nei centri specializzati in Europa e in USA, che hanno trattato una trentina di pazienti con una mortalità inferiore al 30 per cento. Due pazienti su tre sono guariti nei paesi ricchi, due su tre sono morti nell’Africa povera. Per assenza di cure. Adesso le cose sono cambiate. Oggi siamo in grado, nel nuovo centro da 100 letti di Emergency a Goderich, di fornire qui in Sierra Leone quasi lo stesso livello di cure disponibili in Occidente. Abbiamo una terapia intensiva di alto livello, l’unica esistente nel Paese, che forse non servirà per molto tempo se l’epidemia di Ebola (come speriamo) si sta avviando alla conclusione. Ma servirà comunque, per la prossima volta, e per curare nel frattempo tanti malati gravi, fino a ieri incurabili. Ne siamo orgogliosi, perché abbiamo dimostrato che si può fare, anche qui in Africa. Perché abbiamo reso visibile, ancora una volta, che i pazienti non hanno colore, che sono persone con i nostri stessi diritti. Liberi e uguali, come noi tutti vorremo essere. Qualche mese fa dissi, un po’ frettolosamente, ”se mi ammalo di Ebola resto in Africa”. Oggi lo posso affermare con tranquillità e convinzione: mi farei curare nell’ ETC (Ebola Treatment Centre) di Emergency. Nel corso degli anni, dando vita a molti ospedali, ci siamo chiesti spesso “ma come deve essere un ospedale, in Iraq o in Centrafrica, in Sudan o in Afghanistan? Quali strutture, che equipaggiamento, quali terapie devono essere possibili?”. Abbiamo risposto nel modo più semplice, più umano: un ospedale è “di Emergency”, va bene per “loro”, se va bene anche per noi, per i nostri cari, per tutti noi. Perché l’eguaglianza è anche questo, condividere gli stessi diritti ed essere parte di un destino comune. Gino Freetown, Sierra Leone, 18 gennaio»”>dalla pagina fb di Gino Strada
«Forse ci siamo. Forse si riesce a sconfiggere questa epidemia. Il numero di nuovi casi sta diminuendo rapidamente ogni giorno, speriamo non si verifichino nuove impennate. Forse tra poco potremo dire che l’epidemia di Ebola è finita in Sierra Leone. Ma che fatica! E quanti miracoli ci sono voluti.
Quando in agosto il Ministero della Sanità ci ha chiesto di aprire a Lakka un centro di isolamento per i casi sospetti, in sole tre settimane i nostri logisti hanno realizzato una struttura in tende per un totale di 22 letti, che presto si è trasformata anche in centro di trattamento: troppi pazienti, accasciati fuori dal cancello, prostrati dalla malattia e in attesa di un posto letto. Così è iniziata la corsa per metterci in condizione di curare i pazienti, non solo di isolarli e osservarli: assicurare acqua e energia elettrica, garantire procedure e percorsi di sicurezza, assicurare aria condizionata per diminuire la fatica fisica degli operatori rinchiusi in un caldissimo scafandro, e finalmente iniziare a curare i malati. Perché anche in assenza di una cura specifica per la malattia si possono salvare molte vite, se si riesce a capire qualcosa di questa grave malattia ancora in gran parte sconosciuta, se si hanno gli strumenti e i farmaci più adatti. Così un passo dopo l’altro, tra grandi difficoltà, abbiamo messo a punto un laboratorio di biochimica, poi uno di virologia, sono arrivati i monitor, le pompe per infusioni endovenose, un altro laboratorio per la virologia, i ventilatori per intubare i malati più critici, le macchine per la dialisi. In soli tre mesi siamo riusciti ad allestire una terapia intensiva come quelle che si trovano nei centri specializzati in Europa e in USA, che hanno trattato una trentina di pazienti con una mortalità inferiore al 30 per cento. Due pazienti su tre sono guariti nei paesi ricchi, due su tre sono morti nell’Africa povera. Per assenza di cure.
Adesso le cose sono cambiate. Oggi siamo in grado, nel nuovo centro da 100 letti di Emergency a Goderich, di fornire qui in Sierra Leone quasi lo stesso livello di cure disponibili in Occidente. Abbiamo una terapia intensiva di alto livello, l’unica esistente nel Paese, che forse non servirà per molto tempo se l’epidemia di Ebola (come speriamo) si sta avviando alla conclusione. Ma servirà comunque, per la prossima volta, e per curare nel frattempo tanti malati gravi, fino a ieri incurabili.
Ne siamo orgogliosi, perché abbiamo dimostrato che si può fare, anche qui in Africa. Perché abbiamo reso visibile, ancora una volta, che i pazienti non hanno colore, che sono persone con i nostri stessi diritti. Liberi e uguali, come noi tutti vorremo essere. Qualche mese fa dissi, un po’ frettolosamente, ”se mi ammalo di Ebola resto in Africa”. Oggi lo posso affermare con tranquillità e convinzione: mi farei curare nell’ ETC (Ebola Treatment Centre) di Emergency.
Nel corso degli anni, dando vita a molti ospedali, ci siamo chiesti spesso “ma come deve essere un ospedale, in Iraq o in Centrafrica, in Sudan o in Afghanistan? Quali strutture, che equipaggiamento, quali terapie devono essere possibili?”. Abbiamo risposto nel modo più semplice, più umano: un ospedale è “di Emergency”, va bene per “loro”, se va bene anche per noi, per i nostri cari, per tutti noi. Perché l’eguaglianza è anche questo, condividere gli stessi diritti ed essere parte di un destino comune.
Gino
Freetown, Sierra Leone, 18 gennaio»
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- Il titolo è tratto dall’incipit della poesia L’Aquilone di Giovanni Pascoli
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Dacci oggi il nostro rancore quotidiano
di Nicolò Migheli *
Greta e Vanessa sono tornate a casa in lacrime. La magistratura scoprirà se è stata solo incoscienza o se alle due giovani cooperanti è stata tesa una trappola. Se è stato pagato un riscatto non lo si saprà mai. Stato e servizi proteggono bene questi segreti. È bastato però l’annuncio della liberazione perché i professionisti della paura e del risentimento si lanciassero in una campagna forsennata contro le due ragazze e contro chi ha agito per la loro liberazione.
In questo si sono distinti Libero, Salvini e il presidente della regione Veneto, il quale vorrebbe obbligare le due cooperanti a rendere, non si sa come, la cifra eventualmente pagata. Agli occhi di Zaia, le parole dei predoni del deserto hanno più autorevolezza di qualsiasi dichiarazione che venga dalle istituzioni. Così sono gli uomini di Stato di questa becera destra. Avrebbero preferito che le due giovani fossero state decapitate in Siria e il video postato nel web? Ogni soluzione possibile avrebbe innescato il rancore e l’odio. Coperti da tanta autorevolezza i lupi da tastiera si sono scatenati. Commenti che è impossibile riportare per decenza. Una deriva che non risparmia neanche i luoghi della cosiddetta borghesia riflessiva.
Mi è capitato di sentire in un caffè à la page i discorsi di un gruppo di persone – cachemire e filo di perle, borse di nota marca francese – ammicare a supposte virilità orientali e augurare infibulazioni per le due povere vittime. No, non basta invocare l’eterna crisi, la folla solitaria, la scomparsa dei corpi intermedi che riuscivano a canalizzare la rabbia verso un progetto, la crisi della politica. Non spiega il fenomeno neanche il fatto che l’Italia sia un luogo dove la maggior parte degli abitanti non legge neanche un libro all’anno, o che nelle classifiche europee risulti la più ignorante insieme alla Polonia.
C’è qualcosa di più profondo. Una crisi che è sempre più culturale ma che investe la psicologia di massa. Un Paese che è diventato il luogo di elezione di Gustave Le Bon il fondatore della Psicologia delle folle e padre della manipolazione del pubblico. Vent’anni di predicazioni orrende hanno avuto il potere di liberare i verminai dell’anima e dare loro legittimità. Era stato così, si potrebbe dire, quando durante la guerra in Iraq vennero liberate le due Simona e Giuliana Sgrena, in quest’ultimo caso anche con la morte dell’agente dei servizi Calipari.
È stato così, solo che ora le reazioni sono più virulente e toccano fasce di popolazione che allora ne erano state indenni. Da crassi e cinici, a poveri e risentiti con le indignazioni a comando. Je souis Charlie e affermare nel contempo che se la sono andata a cercare. Una incoerenza che dimostra fragilità emotive, sottomissione alle tendenze virali omologanti, un sentirsi parte del peggio piacendosi. Impossibilitati ad una riflessione razionale ed autonoma. Nessuno che si sia chiesto, cosa avrei fatto se quelle due ragazze fossero state mie figlie o sorelle? Tutti preda dell’economicismo dominante, vittime dei conti della serva che riducono prestazioni sanitarie, istruzione pubblica, salvo poi a lamentarsene quando tocca pagare.
Un Paese privo ormai di qualsiasi empatia, disposto a trovare responsabilità in chiunque fuorché in se stesso. Ecco cosa siamo diventati. Ha vinto il forza leghismo, come diceva il povero Edmondo Berselli. Ha vinto non come condizione politica, ma come condizione culturale. Anche in Sardegna, anche qui. Se è vero che vi siano movimenti che si candidano ad essere i terminali di Salvini nell’isola. Tutti pronti a raccogliere i peggiori istinti che agitano le coscienze impaurite di molti sardi. Greta e Vanessa sono solo l’ultimo tassello di un percorso culturale di lunga durata.
L’anomia spinta e il cinismo diffuso non aspettano altro, pregano che ogni giorno venga dato loro un rancore quotidiano, così ci si sente nel mondo. Odio dunque sono. La politica che rimesta nel letame raccoglie consensi. Tempi orrendi. Si spera sempre che giunti al fondo del pozzo non ci venga detto di scavare ancora. L’ottimismo della ragione ora non consola il pessimismo delle emozioni.
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* Dacci oggi il nostro rancore quotidiano [di Nicolò Migheli]
By sardegnasoprattutto / 17 gennaio 2015/ Culture/
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GLI EDITORIALI PIU’ RECENTI
APPELLO AGLI INTELLETTUALI SARDI
La probabile scelta della Sardegna come sito e deposito nazionale della scorie nucleari pone inquietanti e drammatici interrogativi e problemi
La nostra Isola, per decenni è stata utilizzata come stazione di servizio per industrie nere e inquinanti che hanno devastato il territorio, inquinato l’ambiente e sconvolto antropologicamente la popolazione sarda. Senza peraltro apprezzabili “ritorni” dal punto di vista occupazionale ed economico, perché “Issos si pigant su ranu e a nois lassant sa palla”.
Ancora oggi è base e servitù militare per operazioni che niente hanno a che spartire con gli interessi e i bisogni dei Sardi: anzi, la loro presenza – che sequestra cospicue porzioni del nostro territorio, sottraendolo a usi civili e produttivi – inquina e minaccia la nostra vita e la nostra salute.
Aggiungere alla Sardegna una ulteriore servitù con il deposito di scorie nucleari sarebbe un colpo definitivo e in ogni caso mortale alla possibilità che l’Isola imbocchi la rotta della prosperità e del benessere attraverso uno sviluppo ecocompatibile, endogeno e identitario, che rompa finalmente con la spirale del sottosviluppo e del malessere.
Per questo invito gli intellettuali, gli scrittori, i giornalisti, gli artisti sardi liberi, perché si oppongano a questo disegno insano e ingiusto del Governo italiano, mobilitandosi e partecipando attivamente alle iniziative del Comitato no scorie e a tutte le lotte in grado di bloccarlo.
Francesco Casula
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DISCORSO DELLA LUNA
di Antonio Dessì
Va bene. Sono laico (anche ateo, ma questo non c’entra: dipende soprattutto dal fatto che una volta morto non vorrei più rotture di palle in qualsivoglia Altromondo). Valuto la Chiesa cattolica secondo parametri storici e ne conosco i tanti errori, alcuni perduranti. Sono pacifista e nonviolento (questa seconda qualità l’ho acquisita, spero, definitivamente, anche se talvolta mi si mette fin troppo alla prova). JesuisCharlie quel tanto che basta per non apprezzare che Giuliano Ferrara apra dibattiti sull’Islam nella prima pagina di un quotidiano isolano. Ma quando Papa Bergoglio dice che se a uno gli cercano la madre è istintivo che reagisca quantomeno tirando un cazzotto in faccia a chi gliel’ha cercata, rilevo che ha tradotto perfettamente un tipico modo di pensare sardo. Forse glielo ha suggerito proprio la Madonna di Bonaria, patrona della Sardegna e madrina onomastica della capitale argentina. E mi è più simpatico lui dei saccentoni e dei teologi mediatici vari che stanno imperversando in queste ore. Almeno, che bisogna dichiarare guerra all’Islam, chiudere le moschee in Italia, cacciare gli immigrati dal Paese, lasciare che due imprudenti ragazze restino prigioniere di qualche predone fanatico, lui non lo ha detto e non lo pensa.
Anzi, mi è venuto da immaginare Papa Francesco affacciarsi alla finestra dell’Angelus e parafrasare il “Discorso della Luna” di Papa Giovanni XXIII: “Questa sera, quando tornate a casa vostra, date un cazzotto a Salvini. Ditegli che è il cazzotto del Papa!”.
Sulle restanti questioni politiche lascio il commento alle vignette. Parce sepultis.
Ad amiche e amici buon pomeriggio e fin d’ora buon week end.
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Prima e dopo Parigi. Siamo tutti chiamati in causa. Che fare?
di Vanni Tola
L’indignazione per gli atti terroristici compiuti a Parigi dall’estremismo islamico pone una serie di problemi e, tra questi la paura e la rabbia. Richiamano interrogativi inquietanti sul che fare da domani in poi per contrastare la violenza indiscriminata di coloro che, in nome di Dio, predicano e praticano l’eliminazione fisica di chi non la pensa come loro, degli infedeli. Ma è soprattutto la sfera privata di ciascuno di noi a essere chiamata in causa. Non basta indignarsi occorre agire, fare qualcosa, dare il nostro contributo di individui liberi, che vivono in regimi democratici, di componenti di Stati che direttamente o indirettamente hanno comunque grosse responsabilità nell’aver contribuito a generare le condizioni di ingiustizia, di diseguaglianza, di sottosviluppo economico e culturale che caratterizzano il nostro mondo. Torniamo alla sfera privata, personale. Che possiamo fare, qual è il nostro livello di conoscenza della realtà? Che cosa sappiamo dell’Iran e dell’Iraq? Quanti nomi di stati africani siamo in grado di ricordare senza l’aiuto di internet? A poche miglia dalle coste della Sicilia, in Libia, si sta materializzando uno stato islamico, un califfato, alle porte di casa nostra. Ma cos’è uno stato islamico? Esistono luoghi nei quali gli estremisti e integralisti mussulmani compiono azioni raccapriccianti e disumane. Anche l’occidente civilizzato ne ha compiute. Potremmo parlare a lungo dei bombardamenti al napalm in Vietnam, delle stragi in Palestina, dei bombardamenti in varie parti del mondo per “importare la democrazia”. Rimaniamo sull’attualità. Esistono luoghi geografici di quello che – in termini di comunicazione – McLuan definiva “villaggio globale”, del quale non sapremo indicare l’ubicazione neppure con una cartina geografica sotto il naso. Dov’è Maiduguri, capitale dello Stato di Borno? E Potiskum, principale centro economico dello Stato di Yobe, nella parte nord orientale della Nigeria? Cos’è Boko Haram, un profumo orientale, un piatto esotico o un gruppo fondamentalista sunnita che pratica il terrorismo per realizzare lo stato islamico in Africa con una strategia della tensione straordinariamente sanguinaria. Maiduguri e Posiskum sono le città nelle quali alcune giovanissime ragazze sono state costrette a diventare lo strumento di attentati tra la folla. Ragazze alle quali è stato collocato, sotto i vestiti, dell’esplosivo che doveva esplodere attivato da un telecomando. Bambina ridotte a brandelli umani insieme a tanti altri ignari passanti. Sono i luoghi nei quali oltre duecento studentesse vengono rapite in una scuola, colpevoli soltanto di frequentare appunto una scuola. Ragazze adolescenti costrette alla conversione all’Islam davanti ad una telecamera e destinate a essere vendute o donate ai miliziani combattenti come schiave sessuali o, peggio ancora, a essere utilizzate come “pacco bomba “ vivente per gli attentati. Sono ormai numerosi questi episodi, in Nigeria, quindi lontano dalle nostre case, secondo il nostro comune modo di intendere le vicende che non ci coinvolgono direttamente. Ma dopo le vicende di Parigi la prospettiva è cambiata. Nessuno potrà darci la certezza che episodi analoghi non possano accadere anche a casa nostra. Allora che possiamo fare? Non la guerra all’Islam predicata dalla “beata” Oriana Fallaci e prontamente sostenuta da inutili idioti di casa nostra. I nostri riferimenti ideologici, i nostri obiettivi devono essere l’istruzione, il confronto, l’integrazione, l’accoglienza, la lotta alla miseria e alle disuguaglianze che contrappongono a un mondo benestante e sprecone di beni e risorse l’indigenza di miliardi di persone. E quando parlo di istruzione, non mi riferisco soltanto all’istruzione degli altri, al diritto all’istruzione delle donne mussulmane. Parlo anche di noi, del nostro sistema di istruzione che attualmente non trasmette ai giovani le necessarie conoscenze per comprendere e interpretare l’attuale realtà geo-politica. Non sappiamo niente dell’Islam e della religione mussulmana, conosciamo poco delle vicende storiche che hanno condotto all’attuale divisione del mondo, ai conflitti in atto, alle contrapposizioni tra culture apparentemente diverse e lontane che magari hanno anche molti punti di vista comuni. Mandiamo le nostre truppe (e le nostre armi) in luoghi dei quali la maggior parti dei cittadini non conoscono neppure l’esistenza. “Siamo tutti Charlie”, bene. Ma non è soltanto una questione di vignette satiriche, non si tratta soltanto di difendere il sacrosanto diritto alla libertà di espressione e quindi anche di fare satira. Si tratta di cominciare a pensare a un nuovo mondo da costruire intorno ai valori del confronto, della tolleranza, della giustizia e della pace. Un compito immensamente difficile, certamente lungo e faticoso. Una scommessa affascinante per le giovani generazioni.
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Union sacrèe coi governi che attaccano i diritti?
di Andrea Pubusa, su Democraziaoggi
A Parigi domenica si sono riuniti quasi tutti i capi di governo responsabili dell’impoverimento generale dei popoli europei e insieme della insostenibile situazione delle masse del Medio Oriente e dell’Africa. Hanno capeggiato una grande manifestazione a difesa dei valori democratici dell’Occidente, mentre nei loro paesi e nell’UE, sotto la spinta del capitale finanziario, aggrediscono i diritti sociali, frutto delle Costituzioni nate dalla Resistenza al nazifascismo e delle lotte dei decenni successivi. Particolarmente visibile questo attacco sul fronte delle diseguagluanze, che prima si tendeva se non a colmare, almeno a temperare e da due decenni a questa parte hanno ripreso a crescere creando una forbice fra ricchi e poveri che ci riporta indietro più d’un secolo. Il punto di sfondamento è individuabile nel lavoro, il cui oggetto è ormai ridotto a mera merce, cancellando la soggettività, l’umanità di chi la produce, e dunque privando i lavoratori di qualsiasi diritto, anche di quello primario ad un salario che garantisca una vita libera e dignitosa, come dice la nostra Costituzione. Capeggiano questi signori la grande manifestazione in difesa delle libertà, ma disconosconoi la piena soggettività del lavoratore e riducono la massa a mera destinataria non solo dei poteri di governo, ma anche dell’informazione che dicono di voler difendere. Questa torna ad essere formalmente libera, ma nella sostanza è in mano a grandi potentati economici che formano un’opinione che distorce la realtà. Le leggi elettorali truffaldine, che limitano la rappresentanza fino a cancellarla, sono il risvolto di questa realtà a-democartica, dai Comuni al Parlamento. Capeggiano la manifestazione oceanica, ma calpestano la democrazia svuotandola di contenuto.
Quanto è accaduto in Afghanistan, in Irak e poi in Libia è il risvolto internazionale di questa politica. Invasioni violente, con massacri di massa, ammantate dalla missione impossibile di esportare la democrazia, in realtà espressione di una volontà aggressiva volta a far fuori governi, di cui spiace non tanto il carattere autocratico quanto la pretesa di gestione autonoma delle proprie risorse. Non è un caso che “il soccorso democratico” a suon di bombe è disposto solo in paesi ricchi di petrolio o in posizione strategica per il passaggio delle fonti energetiche. Le altre emergenze umanitarie sono dimenticate.
I capi di governo di Parigi sono dunque la faccia principale della dissoluzione dei valori democratici ch’essi hanno imposto a livello interno e internazionale.
La ricomposizione non può dunque passare cementando una union sacrée fra masse e questi capi di governo, così come non può nell’altro versante formarsi attorno a capi integralisti e fascistoidi, che sono specularmente l’altra faccia della medaglia. E’ nella convergenza fra la lotta per i diritti dei popoli europei e quella dei paesi dell’altra sponda mediterranea che può poggiare una ripresa di valori democratici e di civiltà. Ma chi organizza questo progetto? La scomparsa della sinistra in Europa, e, per quanto ci riguarda, in Italia, rende difficile persino pensare ad una lotta di questa portata. Ma da qui bisogna ripartire. Qualche indicazione positiva viene da Syriza in Grecia. Ma in giro di Tsipras non se ne vedono altri. C’è molto da lavorare.
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- Qualche spiegazione per la scelta dell’illustrazione nella pagina fb di Tonino Dessì, che ringraziamo per la riflessione e la ricerca che ci offre.
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Distrazioni di massa
di Omar Onnis, su SardegnaMondo
I fatti di Parigi del 7 gennaio scorso hanno scosso l’opinione pubblica anche in Sardegna, com’è inevitabile. Ed anche in Sardegna si è scatenato il delirio anti-islamico e anti-immigrazione. L’episodio sconcertante dell’assessore alla cultura di Bonorva, che lancia proclami di odio via FB, è solo un sintomo. È il sintomo della pessima selezione della nostra classe politica (caso mai avessimo bisogno di conferme) ed anche della facilità con cui è possibile manipolare la percezione delle cose e la stessa emotività di grandi masse di cittadini.
Davanti a fatti così tragici e così simbolici assumere un atteggiamento distaccato è difficile per chiunque. Nondimeno è indispensabile cercare di dipanare la matassa complessa del nostro presente per non farsene soffocare. E che il rischio sia di soffocare è evidente. Soprattutto in un luogo impoverito e indebolito come la Sardegna di oggi.
Nel nostro caso, infatti, la funzione distraente delle narrazioni tendenziose ha una forza e una portata amplificate. L’analfabetismo funzionale di massa, le aspettative decrescenti, la rabbia diffusa sono un materiale facilmente malleabile nelle mani di chi dispone di conoscenze, risorse e obiettivi solidi da perseguire. Sappiamo come va, è già successo. Ci hanno fatto accettare fatti, scelte, condizioni che nessuno, nel pieno possesso delle proprie facoltà, accetterebbe mai. Ma manipolare delle masse è più facile che persuadere una persona singola. Soprattutto quando mancano i riferimenti culturali, quando le formazioni intermedie non solo non fanno da filtro e da aggregatrici di interessi e obiettivi, ma sono sostanzialmente al servizio della nostra sottomissione.
Mentre molti sardi si lasciano trascinare nella ventata d’odio contro i musulmani o contro gli immigrati in generale, i sindacati rilanciano l’idea della chimica verde nel nord dell’isola e delle coltivazioni estensive di canne nel sud. La classe politica amplifica il ricatto occupazionale e, anziché mettersi di buona lena a cercare soluzioni, si mette a disposizione di avventurieri e affaristi per assecondarne i piani. La scuola muore, l’università è in declino (e non certo per colpa dello stato patrigno, o almeno non solo), l’emigrazione riprende a ritmi crescenti, l’inquinamento non diminuisce affatto, l’agricoltura è allo sbando, il mondo della cultura è completamente abbandonato a se stesso. Ammetto che a volte la reazione a tante lamentele si riduce a una domanda: ma voi chi avete votato fin qui? Ma chiaramente non la si può fare così semplice.
Occorre tenere ben desta l’attenzione sulle questioni cruciali, senza farsi distrarre dalle ombre proiettate per confondere le menti. Davanti all’intolleranza e alla violenza, servono maggiore inclusività e compresione. Non integrazionismo a tutti i costi, ma capacità di rispettare gli altri per quello che sono, fintanto che rimangono nei limiti della legalità e della convivenza pacifica al cui rispetto siamo tenuti tutti. Per combattere l’impoverimento culturale, la debolezza economica, la disoccupazione, non servono fughe in avanti fantasiose, ma proposte concrete, investimenti pubblici mirati e ben pianificati, servono maggior istruzione, maggiore conoscenza strutturata, maggior senso di responsabilità verso la sfera pubblica. Prima di tutto da parte della classe politica.
Chi grida contro i musulmani e nel mentre fa spartizioni di sottogoverno, o fa accordi con il Qatar, è un nemico molto più pericoloso di qualsiasi immigrato. In questa fase risultano dunque ancor più inutili, se non strumentali allo status quo, i discorsi di tipo etnocentrico, discriminatorio, nostalgico.
Non è l’immigrazione a costituire un rischio, specie in una terra lanciata verso un futuro prossimo di spopolamento. Non è nemmeno l’islam, in Sardegna largamente minoritario. Evocare a questo proposito la minaccia araba e saracena dei secoli passati è una sciocchezza dovuta non solo al razzismo ma anche all’ignoranza. Se è per quello, ci sono stati nella nostra storia momenti difficili in cui con l’islam i Sardi avevano raggiunto una tregua (e forse anche una alleanza), per esempio tra VIII e IX secolo. Sappiamo bene che qualsiasi problema creato nel corso del tempo dalle scorribande dei mori (spesso guidate da sardi, per altro) è niente in confronto ai guasti prodotti dalle classi dominanti di turno, compresa quella attuale.
La desertificazione culturale e l’ostinazione con cui la si persegue a livello politico non aiutano certo. Non è la cultura, a minacciarci, né la nostra né quella altrui. Caso mai la stupidità. Mi turba molto che in questi giorni in Sardegna vengano evocati maestri di pensiero equivoci come Oriana Fallaci o impresentabili cone Matteo Salvini. Abbiamo bisogno di questo? Di questo deve animarsi il nostro dibattito pubblico? Ricordiamoci che noi, prima di essere partecipi di un discorso razzista e di sopraffazione, ne siamo vittime. Questo dovrebbe esserci chiaro e dovrebbe anche insegnarci qualcosa.
Non c’è una sola ragione al mondo per cui la Sardegna debba essere una terra povera, spopolata e marginale. Se questa è la sua condizione, le cause sono storiche e storicamente determinabili. Se è vero che non esiste alcuna tara congenita, a spiegazione di questo stato di cose, non c’è però neanche una generica minaccia esterna ai nostri danni. Se pensassimo un po’ meno ai falsi bersagli additati da mass media e da gruppi di potere interessati e ci facessimo un bell’esame di coscienza quanto a ricerca di assistenzialismo, o di favori, quanto a noncuranza verso i nostri beni comuni, quanto a ignoranza di noi stessi, forse le cose per noi cambierebbero in meglio, senza bisogno di scomodare l’immigrazione, o l’islam, né Dio o chi per lui.
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L’importanza della luce quando siamo al buio
di Vanni Tola
“Se questo è un uomo”, già, se questo è un uomo. Come avrebbe commentato la strage di Parigi lo scrittore Primo Levi? Quali considerazioni avrebbe sviluppato sugli uomini che, in nome di Dio, hanno realizzato una strage di esseri umani per vendicare le offese al loro Profeta, realizzate con vignette satiriche? Se questo è un uomo. Come avrebbe descritto Primo Levi la barbarie di quei combattenti che, in nome della grandezza del loro Dio, hanno ripetutamente violato l’innocenza e l’integrità fisica di una bambina collocandole addosso un ordigno esplosivo per poi mandarla tra persone, anche esse innocenti, e farla esplodere come un pacco bomba, usando un telecomando? Che avranno pensato mentre, lontani dalla scena dell’attentato, la osservavano camminare verso i “nemici”? Che cosa le avranno raccontato per convincerla o indurla a recitare fino in fondo il terribile compito che le era stato assegnato? Che sensazioni avranno provato un attimo prima di attivare il comando elettronico che l’avrebbe ridotta in mille pezzi insieme a tante altre persone? E dopo, dopo, che sensazioni avranno provato? Si saranno sentiti eroi appagati per il loro eroico gesto o si saranno sentiti oppressi dal dubbio di aver compiuto una azione vigliacca quanto inutile e crudele? Non lo sapremo mai Primo Levi non c’è più. Nel cielo volano uccelli scuri, avvoltoi rapaci pronti a raccogliere brandelli di corpi innocenti per dare fiato ai loro propositi di guerre contro i diversi, guerre di “religione”, “guerre di civiltà”. Noi, i buoni, contro gli islamici, i cattivi. Niente di buono all’orizzonte. Dice una diciottenne Pakistana, il premio Nobel per la pace Malala Yousafzai, essa stessa vittima di un vile attentato degli estremisti islamici.
“Tutti ci rendiamo conto dell’importanza della luce quando ci troviamo al buio e tutti ci rendiamo conto dell’importanza della voce quando c`e il silenzio. Non odio neppure il Taliban che mi ha sparato. Anche se avessi una pistola in mano ed egli mi stesse davanti e stesse per spararmi, io non sparerei. Questa è la compassione che ho appreso da Mohamed, il profeta misericordioso, da Gesù Cristo e dal Buddha. Questo è il lascito che ho ricevuto da Martin Luther King, Nelson Mandela e Muhammed Ali Jinnah. Questa è la filosofia della non-violenza che ho appreso da Gandhi, Bacha Khan e Madre Teresa. E questo è il perdono che la mia anima mi dice: siate in pace e amatevi l’un l’altro. Un bambino, un maestro, una penna e un libro possono fare la differenza e cambiare il mondo. L’istruzione è la sola soluzione ai mali del mondo. L’istruzione potrà salvare il mondo. I libri e le matite sono la nostra arma più formidabile, quella che potrà farci vincere la miseria e conquistare la pace”.
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“In Europa, per non dire dell’Italia, in questo momento c’è una deficienza paurosa di personale politico in grado di affrontare il problema. Qui non c’è un’Europa in guerra, ci sono conflitti da disinnescare anche con le armi dell’intelligenza. E con la consapevolezza che si tratta di un processo lungo, difficile, faticoso. Ma non c’è alternativa, altrimenti si va dritti verso quello scontro di civiltà a cui puntano proprio i terroristi” (Massimo Cacciari)
L’ambiguità delle piazze francesi
di Rossana Rossanda, su Sbilanciamoci.it
Non si possono portare avanti due politiche opposte – l’accarezzare vecchie e ingiustificabili tendenze coloniali e la difesa dei valori repubblicani – come ha fatto il governo socialista francese, nel tentativo di mettere in campo un diversivo allo scontento popolare in tema di diritti dei lavoratori e di politica economica
Le sole parole equilibrate nel diluvio di dichiarazioni di orrore e di angoscia anche della stampa italiana per l’assassinio dei disegnatori e del direttore di “Charlie Hebdo” le ha scritte Massimo Cacciari, riportando la questione alla sua dimensione temporale e politica. La grande emozione e protesta che ha subito riempito in modo spontaneo le piazze francesi non è mancata infatti di qualche ambiguità. Si è potuto manifestare legittimamente, e quasi accogliendo l’invito del presidente Holland, il rifiuto del fondamentalismo e la difesa della repubblica e il “no” ai problemi posti dalla grande immigrazione musulmana in Europa.
Facilitata in Francia dal troppo coltivato richiamo alla colonizzazione francese in Africa del Nord e nel Medio Oriente. Da molti decenni si è dimenticato che un accordo fra un alto funzionario inglese, Sykes, e uno francese, Picot, disegnò la spartizione dell’impero ottomano fra Francia e Gran Bretagna. La Gran Bretagna poi ha prevalso e ancora più recentemente hanno prevalso le politiche degli Stati Uniti. Ma le recenti scelte di Holland di intervento nel corno d’Africa e nell’Africa centrale hanno, senza volerlo, ripristinato l’immagine di una gloria coloniale che dà fiato a Marine Le Pen. Ugualmente le parole del presidente Holland subito dopo l’attentato, richiamando tutto il paese all’unità contro il terrorismo, sono parse legittimare la richiesta del Fronte nazionale di partecipare alla grande manifestazione ufficiale antifondamentalista di domenica prossima, che lo ha messo non poco in imbarazzo davanti allo slancio con il quale Marine Le Pen ha annunciato la sua partecipazione. Non si possono infatti portare avanti due politiche opposte – l’accarezzare vecchie e ingiustificabili tendenze coloniali e la difesa dei valori repubblicani – come ha fatto il governo socialista, nel tentativo di mettere in campo un diversivo allo scontento popolare in tema di diritti dei lavoratori e di politica economica.
Lo slogan “Je suis Charlie” manifestava efficacemente un appoggio a un giornale niente affatto di grandissima diffusione, che in generale non fa complimenti al Fronte Nazionale. Si può del resto discutere di un tema già volgarizzato in Italia come l’immunità politica della satira, oggi difesa apparentemente da tutti. Le famose vignette danesi contro Maometto sono state amplificate da Charlie Hebdo in un’accentuazione dell’ateismo fin troppo augurabile ma da non identificare col disprezzo di tutti i credenti: “Nel cesso tutte le religioni”, aveva scritto e pubblicato in prima pagina quel giornale. Alla incapacità della sinistra di portare argomenti laici alla ribalta dell’opinione pubblica, e di rispondere al richiamo oggi esercitato specie da alcuni monoteismi e dal buddismo, sia pure assai diversi, ha corrisposto l’indulgenza a forme facili di caricatura, che sicuramente hanno offeso i milioni di musulmani in Europa. Basti pensare a quale accoglienza avrebbero avuto se quelle vignette si fossero nominativamente applicate a Gesù Cristo. Non penso che sia utile lasciare ai caricaturisti un compito che per loro natura, volendo irridere a tutte le fedi, non possono esercitare: è come se gettassero un fiammifero in un barile di benzina. È proprio la debolezza della sinistra del dopo il 1989 a produrre questa rinascita in forza delle religioni.
Per quanto riguarda quella musulmana, come non chiedersi perché il suo fondamentalismo – che pareva essere escluso da una organizzazione non piramidale delle sue chiese – sia scoppiato in queste forme mortifere, particolarmente oggi. Maometto esiste dal Settimo secolo e da allora in poi l’atteggiamento dell’impero ottomano, per esempio nei confronti degli ebrei, è stato di gran lunga più tollerante e tendente all’assimilazione di quello della chiesa cattolica, che ha voluto le crociate e lo ha investito di maledizioni e improperi, senza che questi portassero a nessuna Jihad, anzi, il famoso “feroce Saladino” era un interessante pacifista. L’estremismo dell’ammazzare tutti i non fedeli al profeta appartiene ai nostri giorni, ed è molto più serio cercarne le origini nelle forme coloniali e non coloniali adottate dall’Occidente che in un passo o l’altro del Corano.
Un fenomeno non meno importante riguarda il fascino che forme estreme di milizia, che arrivano fino al mettere in conto la propria morte per “martirio”, abbiano sui giovanissimi occidentali che raggiungono la Siria o altri luoghi dove possono arruolarsi con i maestri del fondamentalismo. La tanto conclamata fine delle ideologie sembra aver lasciato in piedi soltanto l’assolutismo di alcune minoranze musulmane, come appunto la Jihad e in modo particolare il recente Daesh, cioè lo Stato islamico rappresentato dal cosiddetto Califfato di al Baghdadi.
Da noi già appare la voglia di condannare i rappers che sembrano ispirarsene: errore dal quale bisognerà guardarsi. Insomma, il fascino dell’islamismo radicale corrisponde alla stupidità con la quale la cultura predominante in Occidente sembra trattare il bisogno di un “senso” non riducibile ai soldi che gli aspetti ideologici della globalizzazione hanno tentato di offuscare dalle parti nostre. Grande problema del nostro tempo che è inutile esorcizzare.
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- www.sbilanciamoci.it
- Leggi i commenti; qui ne riportiamo solo uno (di Salvatore Annunziata)
Io vivo in Francia e mi occupo di disagio giovanile ad Avignone. L’articolo di Rossana Rossanda lo considero come il frutto di una persona colta, molto sensibile che legge quanto sta accadendo in Francia da mercoledi scorso con lenti inadeguate. In effetti è verissimo che chi ha decimato la redazione di Charlie Hebdo (che qui è vissuto come il residuo più autentico del maggio ’68) e assalito il supermarcato kascher è il frutto del passato coloniale della Francia e del fatto che la Francia, in quanto sistema paese, non ha acora fatto i conti col proprio passato di potenza coloniale. Potremmo dire che la Francia rapresenta, dal almeno due secoli e forse più, il paradosso già incarnato dalla civilissima ed europeissima Atene di Pericle, vale a dire paladina delle libertà e della democrazia per quelli civilizzati e l’esclusione, la schiavitù, la carità, la messa sotto curatela per quanti (e quante) considerati barbari (i popoli colonizzati) o inferiori (le donne e i minori). Allo stesso tempo però mi sembra che la Rossanda dimentichi un piccolo particolare e cioè che qui in Francia la gente “normale”, come me e qualche milione di persone, rischia di ritrovarsi stretta tra dei fascisti barbuti che non mangiano prodotti derivati da carne di maiale, che abbinano ostracismo verso la musica ma utilizzano internet e i GPS e che si dicono veri seguaci del Profeta e degli altri fascisti per lo più bianchi, che loro invece lo mangiano e lo amano il maiale (al punto di portare in piazza delle teste – vere o finte poco importa – alle manifestazioni), che negano la shoah, che gridano “la France aux français”, che si battono contro l’islamisazione dell’Europa. In breve, se vogliamo utilizzare come paragone quello che è successo nelle terre della morta Federazione Yugoslavia, potremmo dire che qui rischaimo di ritrovarci circondati tra Ustacha e Cetnici.
La grossa sfida che ci attende tutti e tutte, non solo in Francia ma in tutti i paesi europei, è di dare nuova linfa alla democrazia, all’accolgienza, al rispetto dell’alterità propria e altrui. Insomma, ci tocca fare la messa a punto del nostro referenziale culturale avendo come bussola non delle ideologie scollegate dalla vita, dalla storia di ognuno di noi, bensi la dichiarazione universale dei diritti umani secondo cui, art.1, ogni essere umano nasce uguale in diginità e diritti. Ecco i valori che dobbiano, con qualunque mezzo coerente a quest’obiettivo, promuovere e difendere.
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Strage Charlie Hebdo, Cacciari: “Politica di accoglienza o avremo il conflitto in Europa”
di Rodolfo Sala su Repubblica.it
MILANO – “I fatti orrendi di Parigi dovrebbero imporre a tutti noi di ragionare alla grande, ma in questo clima sono in pochi a ragionare, soprattutto in Italia. Il livello del dibattito è deprimente”. Lo dice il filosofo Massimo Cacciari.
E quale sarebbe, professore, la prima riflessione da fare?
“Negli ultimi venti-trent’anni abbiamo vissuto tutti nell’illusione che la storia potesse in qualche modo cancellare la propria dimensione tragica. Che la nostra Penisola potesse restare fuori dalle trasformazioni epocali che hanno rivoluzionato la geopolitica e prodotto una serie di conflitti (Afghanistan, Iraq, la questione irrisolta dei rapporti tra Israele e palestinesi) che anche per colpa dell’Occidente restano pesantemente irrisolti”.
Risultato?
“Vedo un rischio terribile e concreto. Il rischio di una guerra civile in Europa. Mi spiego: dobbiamo tenere presente che nel 2050 la metà della popolazione del nostro continente sarà di origine extracomunitaria, quindi è impensabile ritenerci in guerra, noi europei, con l’altra parte, con il mondo islamico. Per questo dico che bisogna ragionare alla grande. Il problema è con chi”.
A che cosa allude?
“In Europa, per non dire dell’Italia, in questo momento c’è una deficienza paurosa di personale politico in grado di affrontare il problema. Qui non c’è un’Europa in guerra, ci sono conflitti da disinnescare anche con le armi dell’intelligenza. E con la consapevolezza che si tratta di un processo lungo, difficile, faticoso. Ma non c’è alternativa, altrimenti si va dritti verso quello scontro di civiltà a cui puntano proprio i terroristi”.
Le armi dell’intelligenza, lei dice…
“Certo. Se durante il secondo conflitto mondiale ci fosse stato solo il generale Patton, e non anche la lungimiranza di leader come Churchill e Roosevelt, avrebbe vinto Hitler. Affontare il problema solo dal lato della semplice repressione non basta, non può bastare. Anche se questi islamisti hanno compiuto un indiscutibile salto di qualità”.
In che senso?
“Non siamo in presenza del kamikaze solitario, della bomba anonima. Le azioni come quella di Parigi sono programmate con una logica militare che punta, voglio ripeterlo, allo scontro di civiltà”.
Quindi?
“Fino a quando la nostra democrazia non dimostrerà di essere accogliente, e continuerà con le disuguaglianze, questo tipo di terrorismo troverà sempre terreno favorevole. Sullo scenario europeo, ora si pensa di far fuori la Grecia, mentre si allargano i confini dell’Unione alla Lituania: è pazzesco”.
Ma i toni salgono, Salvini dice che siamo in guerra…
“Una battuta che si commenta da sé, sotto il profilo culturale. Sarebbe un errore madornale additare nell’Islam il nemico, il modo per moltiplicare gli jihadisti”.
Aggiunge che il Papa non deve dialogare con l’Islam…
“Figuriamoci che cosa importa al Pontefice delle parole di Salvini. Che insieme alla Le Pen sta facendo di tutto per ostacolare il dialogo. Se si votasse domani la Lega e il Front national prenderebbero una valanga di voti. Sarebbe pericolosissimo, allora sì che saremmo in guerra. Certo, poi occorre realismo “.
E cioè?
“Riconoscere che fino a quando non sarà abbattuto lo Stato islamico dobbiamo aspettarci il peggio. Ma lo si abbatte solo se non si invoca il conflitto di civiltà. Purtroppo quando la storia appare tragica si fa molto fatica a ragionare. È del tutto logico, e porta anche voti: ma è anche pericolosissimo. Bisognerebbe fare un grande sforzo a partire da noi italiani, non credo sia inutile. In fin dei conti, con la storia che abbiamo, dovremmo essere vaccinati. Anche se adesso non pare così”.
Dacci oggi il nostro rancore quotidiano
Greta e Vanessa sono tornate a casa in lacrime. La magistratura scoprirà se è stata solo incoscienza o se alle due giovani cooperanti è stata tesa una trappola. Se è stato pagato un riscatto non lo si saprà mai. Stato e servizi proteggono bene questi segreti. È bastato però l’annuncio della liberazione perché i professionisti della paura e del risentimento si lanciassero in una campagna forsennata contro le due ragazze e contro chi ha agito per la loro liberazione.
In questo si sono distinti Libero, Salvini e il presidente della regione Veneto, il quale vorrebbe obbligare le due cooperanti a rendere, non si sa come, la cifra eventualmente pagata. Agli occhi di Zaia, le parole dei predoni del deserto hanno più autorevolezza di qualsiasi dichiarazione che venga dalle istituzioni. Così sono gli uomini di Stato di questa becera destra. Avrebbero preferito che le due giovani fossero state decapitate in Siria e il video postato nel web? Ogni soluzione possibile avrebbe innescato il rancore e l’odio. Coperti da tanta autorevolezza i lupi da tastiera si sono scatenati. Commenti che è impossibile riportare per decenza. Una deriva che non risparmia neanche i luoghi della cosiddetta borghesia riflessiva.
Mi è capitato di sentire in un caffè à la page i discorsi di un gruppo di persone – cachemire e filo di perle, borse di nota marca francese – ammicare a supposte virilità orientali e augurare infibulazioni per le due povere vittime. No, non basta invocare l’eterna crisi, la folla solitaria, la scomparsa dei corpi intermedi che riuscivano a canalizzare la rabbia verso un progetto, la crisi della politica. Non spiega il fenomeno neanche il fatto che l’Italia sia un luogo dove la maggior parte degli abitanti non legge neanche un libro all’anno, o che nelle classifiche europee risulti la più ignorante insieme alla Polonia.
C’è qualcosa di più profondo. Una crisi che è sempre più culturale ma che investe la psicologia di massa. Un Paese che è diventato il luogo di elezione di Gustave Le Bon il fondatore della Psicologia delle folle e padre della manipolazione del pubblico. Vent’anni di predicazioni orrende hanno avuto il potere di liberare i verminai dell’anima e dare loro legittimità. Era stato così, si potrebbe dire, quando durante la guerra in Iraq vennero liberate le due Simona e Giuliana Sgrena, in quest’ultimo caso anche con la morte dell’agente dei servizi Calipari.
È stato così, solo che ora le reazioni sono più virulente e toccano fasce di popolazione che allora ne erano state indenni. Da crassi e cinici, a poveri e risentiti con le indignazioni a comando. Je souis Charlie e affermare nel contempo che se la sono andata a cercare. Una incoerenza che dimostra fragilità emotive, sottomissione alle tendenze virali omologanti, un sentirsi parte del peggio piacendosi. Impossibilitati ad una riflessione razionale ed autonoma. Nessuno che si sia chiesto, cosa avrei fatto se quelle due ragazze fossero state mie figlie o sorelle? Tutti preda dell’economicismo dominante, vittime dei conti della serva che riducono prestazioni sanitarie, istruzione pubblica, salvo poi a lamentarsene quando tocca pagare.
Un Paese privo ormai di qualsiasi empatia, disposto a trovare responsabilità in chiunque fuorché in se stesso. Ecco cosa siamo diventati. Ha vinto il forza leghismo, come diceva il povero Edmondo Berselli. Ha vinto non come condizione politica, ma come condizione culturale. Anche in Sardegna, anche qui. Se è vero che vi siano movimenti che si candidano ad essere i terminali di Salvini nell’isola. Tutti pronti a raccogliere i peggiori istinti che agitano le coscienze impaurite di molti sardi. Greta e Vanessa sono solo l’ultimo tassello di un percorso culturale di lunga durata.
L’anomia spinta e il cinismo diffuso non aspettano altro, pregano che ogni giorno venga dato loro un rancore quotidiano, così ci si sente nel mondo. Odio dunque sono. La politica che rimesta nel letame raccoglie consensi. Tempi orrendi. Si spera sempre che giunti al fondo del pozzo non ci venga detto di scavare ancora. L’ottimismo della ragione ora non consola il pessimismo delle emozioni.
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* Dacci oggi il nostro rancore quotidiano [di Nicolò Migheli]
By sardegnasoprattutto / 17 gennaio 2015/ Culture/
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GLI EDITORIALI PIU’ RECENTI
APPELLO AGLI INTELLETTUALI SARDI
La probabile scelta della Sardegna come sito e deposito nazionale della scorie nucleari pone inquietanti e drammatici interrogativi e problemi
La nostra Isola, per decenni è stata utilizzata come stazione di servizio per industrie nere e inquinanti che hanno devastato il territorio, inquinato l’ambiente e sconvolto antropologicamente la popolazione sarda. Senza peraltro apprezzabili “ritorni” dal punto di vista occupazionale ed economico, perché “Issos si pigant su ranu e a nois lassant sa palla”.
Ancora oggi è base e servitù militare per operazioni che niente hanno a che spartire con gli interessi e i bisogni dei Sardi: anzi, la loro presenza – che sequestra cospicue porzioni del nostro territorio, sottraendolo a usi civili e produttivi – inquina e minaccia la nostra vita e la nostra salute.
Aggiungere alla Sardegna una ulteriore servitù con il deposito di scorie nucleari sarebbe un colpo definitivo e in ogni caso mortale alla possibilità che l’Isola imbocchi la rotta della prosperità e del benessere attraverso uno sviluppo ecocompatibile, endogeno e identitario, che rompa finalmente con la spirale del sottosviluppo e del malessere.
Per questo invito gli intellettuali, gli scrittori, i giornalisti, gli artisti sardi liberi, perché si oppongano a questo disegno insano e ingiusto del Governo italiano, mobilitandosi e partecipando attivamente alle iniziative del Comitato no scorie e a tutte le lotte in grado di bloccarlo.
Francesco Casula
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DISCORSO DELLA LUNA
di Antonio Dessì
Va bene. Sono laico (anche ateo, ma questo non c’entra: dipende soprattutto dal fatto che una volta morto non vorrei più rotture di palle in qualsivoglia Altromondo). Valuto la Chiesa cattolica secondo parametri storici e ne conosco i tanti errori, alcuni perduranti. Sono pacifista e nonviolento (questa seconda qualità l’ho acquisita, spero, definitivamente, anche se talvolta mi si mette fin troppo alla prova). JesuisCharlie quel tanto che basta per non apprezzare che Giuliano Ferrara apra dibattiti sull’Islam nella prima pagina di un quotidiano isolano. Ma quando Papa Bergoglio dice che se a uno gli cercano la madre è istintivo che reagisca quantomeno tirando un cazzotto in faccia a chi gliel’ha cercata, rilevo che ha tradotto perfettamente un tipico modo di pensare sardo. Forse glielo ha suggerito proprio la Madonna di Bonaria, patrona della Sardegna e madrina onomastica della capitale argentina. E mi è più simpatico lui dei saccentoni e dei teologi mediatici vari che stanno imperversando in queste ore. Almeno, che bisogna dichiarare guerra all’Islam, chiudere le moschee in Italia, cacciare gli immigrati dal Paese, lasciare che due imprudenti ragazze restino prigioniere di qualche predone fanatico, lui non lo ha detto e non lo pensa.
Anzi, mi è venuto da immaginare Papa Francesco affacciarsi alla finestra dell’Angelus e parafrasare il “Discorso della Luna” di Papa Giovanni XXIII: “Questa sera, quando tornate a casa vostra, date un cazzotto a Salvini. Ditegli che è il cazzotto del Papa!”.
Sulle restanti questioni politiche lascio il commento alle vignette. Parce sepultis.
Ad amiche e amici buon pomeriggio e fin d’ora buon week end.
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Prima e dopo Parigi. Siamo tutti chiamati in causa. Che fare?
di Vanni Tola
L’indignazione per gli atti terroristici compiuti a Parigi dall’estremismo islamico pone una serie di problemi e, tra questi la paura e la rabbia. Richiamano interrogativi inquietanti sul che fare da domani in poi per contrastare la violenza indiscriminata di coloro che, in nome di Dio, predicano e praticano l’eliminazione fisica di chi non la pensa come loro, degli infedeli. Ma è soprattutto la sfera privata di ciascuno di noi a essere chiamata in causa. Non basta indignarsi occorre agire, fare qualcosa, dare il nostro contributo di individui liberi, che vivono in regimi democratici, di componenti di Stati che direttamente o indirettamente hanno comunque grosse responsabilità nell’aver contribuito a generare le condizioni di ingiustizia, di diseguaglianza, di sottosviluppo economico e culturale che caratterizzano il nostro mondo. Torniamo alla sfera privata, personale. Che possiamo fare, qual è il nostro livello di conoscenza della realtà? Che cosa sappiamo dell’Iran e dell’Iraq? Quanti nomi di stati africani siamo in grado di ricordare senza l’aiuto di internet? A poche miglia dalle coste della Sicilia, in Libia, si sta materializzando uno stato islamico, un califfato, alle porte di casa nostra. Ma cos’è uno stato islamico? Esistono luoghi nei quali gli estremisti e integralisti mussulmani compiono azioni raccapriccianti e disumane. Anche l’occidente civilizzato ne ha compiute. Potremmo parlare a lungo dei bombardamenti al napalm in Vietnam, delle stragi in Palestina, dei bombardamenti in varie parti del mondo per “importare la democrazia”. Rimaniamo sull’attualità. Esistono luoghi geografici di quello che – in termini di comunicazione – McLuan definiva “villaggio globale”, del quale non sapremo indicare l’ubicazione neppure con una cartina geografica sotto il naso. Dov’è Maiduguri, capitale dello Stato di Borno? E Potiskum, principale centro economico dello Stato di Yobe, nella parte nord orientale della Nigeria? Cos’è Boko Haram, un profumo orientale, un piatto esotico o un gruppo fondamentalista sunnita che pratica il terrorismo per realizzare lo stato islamico in Africa con una strategia della tensione straordinariamente sanguinaria. Maiduguri e Posiskum sono le città nelle quali alcune giovanissime ragazze sono state costrette a diventare lo strumento di attentati tra la folla. Ragazze alle quali è stato collocato, sotto i vestiti, dell’esplosivo che doveva esplodere attivato da un telecomando. Bambina ridotte a brandelli umani insieme a tanti altri ignari passanti. Sono i luoghi nei quali oltre duecento studentesse vengono rapite in una scuola, colpevoli soltanto di frequentare appunto una scuola. Ragazze adolescenti costrette alla conversione all’Islam davanti ad una telecamera e destinate a essere vendute o donate ai miliziani combattenti come schiave sessuali o, peggio ancora, a essere utilizzate come “pacco bomba “ vivente per gli attentati. Sono ormai numerosi questi episodi, in Nigeria, quindi lontano dalle nostre case, secondo il nostro comune modo di intendere le vicende che non ci coinvolgono direttamente. Ma dopo le vicende di Parigi la prospettiva è cambiata. Nessuno potrà darci la certezza che episodi analoghi non possano accadere anche a casa nostra. Allora che possiamo fare? Non la guerra all’Islam predicata dalla “beata” Oriana Fallaci e prontamente sostenuta da inutili idioti di casa nostra. I nostri riferimenti ideologici, i nostri obiettivi devono essere l’istruzione, il confronto, l’integrazione, l’accoglienza, la lotta alla miseria e alle disuguaglianze che contrappongono a un mondo benestante e sprecone di beni e risorse l’indigenza di miliardi di persone. E quando parlo di istruzione, non mi riferisco soltanto all’istruzione degli altri, al diritto all’istruzione delle donne mussulmane. Parlo anche di noi, del nostro sistema di istruzione che attualmente non trasmette ai giovani le necessarie conoscenze per comprendere e interpretare l’attuale realtà geo-politica. Non sappiamo niente dell’Islam e della religione mussulmana, conosciamo poco delle vicende storiche che hanno condotto all’attuale divisione del mondo, ai conflitti in atto, alle contrapposizioni tra culture apparentemente diverse e lontane che magari hanno anche molti punti di vista comuni. Mandiamo le nostre truppe (e le nostre armi) in luoghi dei quali la maggior parti dei cittadini non conoscono neppure l’esistenza. “Siamo tutti Charlie”, bene. Ma non è soltanto una questione di vignette satiriche, non si tratta soltanto di difendere il sacrosanto diritto alla libertà di espressione e quindi anche di fare satira. Si tratta di cominciare a pensare a un nuovo mondo da costruire intorno ai valori del confronto, della tolleranza, della giustizia e della pace. Un compito immensamente difficile, certamente lungo e faticoso. Una scommessa affascinante per le giovani generazioni.
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Union sacrèe coi governi che attaccano i diritti?
di Andrea Pubusa, su Democraziaoggi
A Parigi domenica si sono riuniti quasi tutti i capi di governo responsabili dell’impoverimento generale dei popoli europei e insieme della insostenibile situazione delle masse del Medio Oriente e dell’Africa. Hanno capeggiato una grande manifestazione a difesa dei valori democratici dell’Occidente, mentre nei loro paesi e nell’UE, sotto la spinta del capitale finanziario, aggrediscono i diritti sociali, frutto delle Costituzioni nate dalla Resistenza al nazifascismo e delle lotte dei decenni successivi. Particolarmente visibile questo attacco sul fronte delle diseguagluanze, che prima si tendeva se non a colmare, almeno a temperare e da due decenni a questa parte hanno ripreso a crescere creando una forbice fra ricchi e poveri che ci riporta indietro più d’un secolo. Il punto di sfondamento è individuabile nel lavoro, il cui oggetto è ormai ridotto a mera merce, cancellando la soggettività, l’umanità di chi la produce, e dunque privando i lavoratori di qualsiasi diritto, anche di quello primario ad un salario che garantisca una vita libera e dignitosa, come dice la nostra Costituzione. Capeggiano questi signori la grande manifestazione in difesa delle libertà, ma disconosconoi la piena soggettività del lavoratore e riducono la massa a mera destinataria non solo dei poteri di governo, ma anche dell’informazione che dicono di voler difendere. Questa torna ad essere formalmente libera, ma nella sostanza è in mano a grandi potentati economici che formano un’opinione che distorce la realtà. Le leggi elettorali truffaldine, che limitano la rappresentanza fino a cancellarla, sono il risvolto di questa realtà a-democartica, dai Comuni al Parlamento. Capeggiano la manifestazione oceanica, ma calpestano la democrazia svuotandola di contenuto.
Quanto è accaduto in Afghanistan, in Irak e poi in Libia è il risvolto internazionale di questa politica. Invasioni violente, con massacri di massa, ammantate dalla missione impossibile di esportare la democrazia, in realtà espressione di una volontà aggressiva volta a far fuori governi, di cui spiace non tanto il carattere autocratico quanto la pretesa di gestione autonoma delle proprie risorse. Non è un caso che “il soccorso democratico” a suon di bombe è disposto solo in paesi ricchi di petrolio o in posizione strategica per il passaggio delle fonti energetiche. Le altre emergenze umanitarie sono dimenticate.
I capi di governo di Parigi sono dunque la faccia principale della dissoluzione dei valori democratici ch’essi hanno imposto a livello interno e internazionale.
La ricomposizione non può dunque passare cementando una union sacrée fra masse e questi capi di governo, così come non può nell’altro versante formarsi attorno a capi integralisti e fascistoidi, che sono specularmente l’altra faccia della medaglia. E’ nella convergenza fra la lotta per i diritti dei popoli europei e quella dei paesi dell’altra sponda mediterranea che può poggiare una ripresa di valori democratici e di civiltà. Ma chi organizza questo progetto? La scomparsa della sinistra in Europa, e, per quanto ci riguarda, in Italia, rende difficile persino pensare ad una lotta di questa portata. Ma da qui bisogna ripartire. Qualche indicazione positiva viene da Syriza in Grecia. Ma in giro di Tsipras non se ne vedono altri. C’è molto da lavorare.
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- Qualche spiegazione per la scelta dell’illustrazione nella pagina fb di Tonino Dessì, che ringraziamo per la riflessione e la ricerca che ci offre.
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Distrazioni di massa
di Omar Onnis, su SardegnaMondo
I fatti di Parigi del 7 gennaio scorso hanno scosso l’opinione pubblica anche in Sardegna, com’è inevitabile. Ed anche in Sardegna si è scatenato il delirio anti-islamico e anti-immigrazione. L’episodio sconcertante dell’assessore alla cultura di Bonorva, che lancia proclami di odio via FB, è solo un sintomo. È il sintomo della pessima selezione della nostra classe politica (caso mai avessimo bisogno di conferme) ed anche della facilità con cui è possibile manipolare la percezione delle cose e la stessa emotività di grandi masse di cittadini.
Davanti a fatti così tragici e così simbolici assumere un atteggiamento distaccato è difficile per chiunque. Nondimeno è indispensabile cercare di dipanare la matassa complessa del nostro presente per non farsene soffocare. E che il rischio sia di soffocare è evidente. Soprattutto in un luogo impoverito e indebolito come la Sardegna di oggi.
Nel nostro caso, infatti, la funzione distraente delle narrazioni tendenziose ha una forza e una portata amplificate. L’analfabetismo funzionale di massa, le aspettative decrescenti, la rabbia diffusa sono un materiale facilmente malleabile nelle mani di chi dispone di conoscenze, risorse e obiettivi solidi da perseguire. Sappiamo come va, è già successo. Ci hanno fatto accettare fatti, scelte, condizioni che nessuno, nel pieno possesso delle proprie facoltà, accetterebbe mai. Ma manipolare delle masse è più facile che persuadere una persona singola. Soprattutto quando mancano i riferimenti culturali, quando le formazioni intermedie non solo non fanno da filtro e da aggregatrici di interessi e obiettivi, ma sono sostanzialmente al servizio della nostra sottomissione.
Mentre molti sardi si lasciano trascinare nella ventata d’odio contro i musulmani o contro gli immigrati in generale, i sindacati rilanciano l’idea della chimica verde nel nord dell’isola e delle coltivazioni estensive di canne nel sud. La classe politica amplifica il ricatto occupazionale e, anziché mettersi di buona lena a cercare soluzioni, si mette a disposizione di avventurieri e affaristi per assecondarne i piani. La scuola muore, l’università è in declino (e non certo per colpa dello stato patrigno, o almeno non solo), l’emigrazione riprende a ritmi crescenti, l’inquinamento non diminuisce affatto, l’agricoltura è allo sbando, il mondo della cultura è completamente abbandonato a se stesso. Ammetto che a volte la reazione a tante lamentele si riduce a una domanda: ma voi chi avete votato fin qui? Ma chiaramente non la si può fare così semplice.
Occorre tenere ben desta l’attenzione sulle questioni cruciali, senza farsi distrarre dalle ombre proiettate per confondere le menti. Davanti all’intolleranza e alla violenza, servono maggiore inclusività e compresione. Non integrazionismo a tutti i costi, ma capacità di rispettare gli altri per quello che sono, fintanto che rimangono nei limiti della legalità e della convivenza pacifica al cui rispetto siamo tenuti tutti. Per combattere l’impoverimento culturale, la debolezza economica, la disoccupazione, non servono fughe in avanti fantasiose, ma proposte concrete, investimenti pubblici mirati e ben pianificati, servono maggior istruzione, maggiore conoscenza strutturata, maggior senso di responsabilità verso la sfera pubblica. Prima di tutto da parte della classe politica.
Chi grida contro i musulmani e nel mentre fa spartizioni di sottogoverno, o fa accordi con il Qatar, è un nemico molto più pericoloso di qualsiasi immigrato. In questa fase risultano dunque ancor più inutili, se non strumentali allo status quo, i discorsi di tipo etnocentrico, discriminatorio, nostalgico.
Non è l’immigrazione a costituire un rischio, specie in una terra lanciata verso un futuro prossimo di spopolamento. Non è nemmeno l’islam, in Sardegna largamente minoritario. Evocare a questo proposito la minaccia araba e saracena dei secoli passati è una sciocchezza dovuta non solo al razzismo ma anche all’ignoranza. Se è per quello, ci sono stati nella nostra storia momenti difficili in cui con l’islam i Sardi avevano raggiunto una tregua (e forse anche una alleanza), per esempio tra VIII e IX secolo. Sappiamo bene che qualsiasi problema creato nel corso del tempo dalle scorribande dei mori (spesso guidate da sardi, per altro) è niente in confronto ai guasti prodotti dalle classi dominanti di turno, compresa quella attuale.
La desertificazione culturale e l’ostinazione con cui la si persegue a livello politico non aiutano certo. Non è la cultura, a minacciarci, né la nostra né quella altrui. Caso mai la stupidità. Mi turba molto che in questi giorni in Sardegna vengano evocati maestri di pensiero equivoci come Oriana Fallaci o impresentabili cone Matteo Salvini. Abbiamo bisogno di questo? Di questo deve animarsi il nostro dibattito pubblico? Ricordiamoci che noi, prima di essere partecipi di un discorso razzista e di sopraffazione, ne siamo vittime. Questo dovrebbe esserci chiaro e dovrebbe anche insegnarci qualcosa.
Non c’è una sola ragione al mondo per cui la Sardegna debba essere una terra povera, spopolata e marginale. Se questa è la sua condizione, le cause sono storiche e storicamente determinabili. Se è vero che non esiste alcuna tara congenita, a spiegazione di questo stato di cose, non c’è però neanche una generica minaccia esterna ai nostri danni. Se pensassimo un po’ meno ai falsi bersagli additati da mass media e da gruppi di potere interessati e ci facessimo un bell’esame di coscienza quanto a ricerca di assistenzialismo, o di favori, quanto a noncuranza verso i nostri beni comuni, quanto a ignoranza di noi stessi, forse le cose per noi cambierebbero in meglio, senza bisogno di scomodare l’immigrazione, o l’islam, né Dio o chi per lui.
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L’importanza della luce quando siamo al buio
di Vanni Tola
“Se questo è un uomo”, già, se questo è un uomo. Come avrebbe commentato la strage di Parigi lo scrittore Primo Levi? Quali considerazioni avrebbe sviluppato sugli uomini che, in nome di Dio, hanno realizzato una strage di esseri umani per vendicare le offese al loro Profeta, realizzate con vignette satiriche? Se questo è un uomo. Come avrebbe descritto Primo Levi la barbarie di quei combattenti che, in nome della grandezza del loro Dio, hanno ripetutamente violato l’innocenza e l’integrità fisica di una bambina collocandole addosso un ordigno esplosivo per poi mandarla tra persone, anche esse innocenti, e farla esplodere come un pacco bomba, usando un telecomando? Che avranno pensato mentre, lontani dalla scena dell’attentato, la osservavano camminare verso i “nemici”? Che cosa le avranno raccontato per convincerla o indurla a recitare fino in fondo il terribile compito che le era stato assegnato? Che sensazioni avranno provato un attimo prima di attivare il comando elettronico che l’avrebbe ridotta in mille pezzi insieme a tante altre persone? E dopo, dopo, che sensazioni avranno provato? Si saranno sentiti eroi appagati per il loro eroico gesto o si saranno sentiti oppressi dal dubbio di aver compiuto una azione vigliacca quanto inutile e crudele? Non lo sapremo mai Primo Levi non c’è più. Nel cielo volano uccelli scuri, avvoltoi rapaci pronti a raccogliere brandelli di corpi innocenti per dare fiato ai loro propositi di guerre contro i diversi, guerre di “religione”, “guerre di civiltà”. Noi, i buoni, contro gli islamici, i cattivi. Niente di buono all’orizzonte. Dice una diciottenne Pakistana, il premio Nobel per la pace Malala Yousafzai, essa stessa vittima di un vile attentato degli estremisti islamici.
“Tutti ci rendiamo conto dell’importanza della luce quando ci troviamo al buio e tutti ci rendiamo conto dell’importanza della voce quando c`e il silenzio. Non odio neppure il Taliban che mi ha sparato. Anche se avessi una pistola in mano ed egli mi stesse davanti e stesse per spararmi, io non sparerei. Questa è la compassione che ho appreso da Mohamed, il profeta misericordioso, da Gesù Cristo e dal Buddha. Questo è il lascito che ho ricevuto da Martin Luther King, Nelson Mandela e Muhammed Ali Jinnah. Questa è la filosofia della non-violenza che ho appreso da Gandhi, Bacha Khan e Madre Teresa. E questo è il perdono che la mia anima mi dice: siate in pace e amatevi l’un l’altro. Un bambino, un maestro, una penna e un libro possono fare la differenza e cambiare il mondo. L’istruzione è la sola soluzione ai mali del mondo. L’istruzione potrà salvare il mondo. I libri e le matite sono la nostra arma più formidabile, quella che potrà farci vincere la miseria e conquistare la pace”.
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“In Europa, per non dire dell’Italia, in questo momento c’è una deficienza paurosa di personale politico in grado di affrontare il problema. Qui non c’è un’Europa in guerra, ci sono conflitti da disinnescare anche con le armi dell’intelligenza. E con la consapevolezza che si tratta di un processo lungo, difficile, faticoso. Ma non c’è alternativa, altrimenti si va dritti verso quello scontro di civiltà a cui puntano proprio i terroristi” (Massimo Cacciari)
L’ambiguità delle piazze francesi
di Rossana Rossanda, su Sbilanciamoci.it
Non si possono portare avanti due politiche opposte – l’accarezzare vecchie e ingiustificabili tendenze coloniali e la difesa dei valori repubblicani – come ha fatto il governo socialista francese, nel tentativo di mettere in campo un diversivo allo scontento popolare in tema di diritti dei lavoratori e di politica economica
Le sole parole equilibrate nel diluvio di dichiarazioni di orrore e di angoscia anche della stampa italiana per l’assassinio dei disegnatori e del direttore di “Charlie Hebdo” le ha scritte Massimo Cacciari, riportando la questione alla sua dimensione temporale e politica. La grande emozione e protesta che ha subito riempito in modo spontaneo le piazze francesi non è mancata infatti di qualche ambiguità. Si è potuto manifestare legittimamente, e quasi accogliendo l’invito del presidente Holland, il rifiuto del fondamentalismo e la difesa della repubblica e il “no” ai problemi posti dalla grande immigrazione musulmana in Europa.
Facilitata in Francia dal troppo coltivato richiamo alla colonizzazione francese in Africa del Nord e nel Medio Oriente. Da molti decenni si è dimenticato che un accordo fra un alto funzionario inglese, Sykes, e uno francese, Picot, disegnò la spartizione dell’impero ottomano fra Francia e Gran Bretagna. La Gran Bretagna poi ha prevalso e ancora più recentemente hanno prevalso le politiche degli Stati Uniti. Ma le recenti scelte di Holland di intervento nel corno d’Africa e nell’Africa centrale hanno, senza volerlo, ripristinato l’immagine di una gloria coloniale che dà fiato a Marine Le Pen. Ugualmente le parole del presidente Holland subito dopo l’attentato, richiamando tutto il paese all’unità contro il terrorismo, sono parse legittimare la richiesta del Fronte nazionale di partecipare alla grande manifestazione ufficiale antifondamentalista di domenica prossima, che lo ha messo non poco in imbarazzo davanti allo slancio con il quale Marine Le Pen ha annunciato la sua partecipazione. Non si possono infatti portare avanti due politiche opposte – l’accarezzare vecchie e ingiustificabili tendenze coloniali e la difesa dei valori repubblicani – come ha fatto il governo socialista, nel tentativo di mettere in campo un diversivo allo scontento popolare in tema di diritti dei lavoratori e di politica economica.
Lo slogan “Je suis Charlie” manifestava efficacemente un appoggio a un giornale niente affatto di grandissima diffusione, che in generale non fa complimenti al Fronte Nazionale. Si può del resto discutere di un tema già volgarizzato in Italia come l’immunità politica della satira, oggi difesa apparentemente da tutti. Le famose vignette danesi contro Maometto sono state amplificate da Charlie Hebdo in un’accentuazione dell’ateismo fin troppo augurabile ma da non identificare col disprezzo di tutti i credenti: “Nel cesso tutte le religioni”, aveva scritto e pubblicato in prima pagina quel giornale. Alla incapacità della sinistra di portare argomenti laici alla ribalta dell’opinione pubblica, e di rispondere al richiamo oggi esercitato specie da alcuni monoteismi e dal buddismo, sia pure assai diversi, ha corrisposto l’indulgenza a forme facili di caricatura, che sicuramente hanno offeso i milioni di musulmani in Europa. Basti pensare a quale accoglienza avrebbero avuto se quelle vignette si fossero nominativamente applicate a Gesù Cristo. Non penso che sia utile lasciare ai caricaturisti un compito che per loro natura, volendo irridere a tutte le fedi, non possono esercitare: è come se gettassero un fiammifero in un barile di benzina. È proprio la debolezza della sinistra del dopo il 1989 a produrre questa rinascita in forza delle religioni.
Per quanto riguarda quella musulmana, come non chiedersi perché il suo fondamentalismo – che pareva essere escluso da una organizzazione non piramidale delle sue chiese – sia scoppiato in queste forme mortifere, particolarmente oggi. Maometto esiste dal Settimo secolo e da allora in poi l’atteggiamento dell’impero ottomano, per esempio nei confronti degli ebrei, è stato di gran lunga più tollerante e tendente all’assimilazione di quello della chiesa cattolica, che ha voluto le crociate e lo ha investito di maledizioni e improperi, senza che questi portassero a nessuna Jihad, anzi, il famoso “feroce Saladino” era un interessante pacifista. L’estremismo dell’ammazzare tutti i non fedeli al profeta appartiene ai nostri giorni, ed è molto più serio cercarne le origini nelle forme coloniali e non coloniali adottate dall’Occidente che in un passo o l’altro del Corano.
Un fenomeno non meno importante riguarda il fascino che forme estreme di milizia, che arrivano fino al mettere in conto la propria morte per “martirio”, abbiano sui giovanissimi occidentali che raggiungono la Siria o altri luoghi dove possono arruolarsi con i maestri del fondamentalismo. La tanto conclamata fine delle ideologie sembra aver lasciato in piedi soltanto l’assolutismo di alcune minoranze musulmane, come appunto la Jihad e in modo particolare il recente Daesh, cioè lo Stato islamico rappresentato dal cosiddetto Califfato di al Baghdadi.
Da noi già appare la voglia di condannare i rappers che sembrano ispirarsene: errore dal quale bisognerà guardarsi. Insomma, il fascino dell’islamismo radicale corrisponde alla stupidità con la quale la cultura predominante in Occidente sembra trattare il bisogno di un “senso” non riducibile ai soldi che gli aspetti ideologici della globalizzazione hanno tentato di offuscare dalle parti nostre. Grande problema del nostro tempo che è inutile esorcizzare.
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- Leggi i commenti; qui ne riportiamo solo uno (di Salvatore Annunziata)
Io vivo in Francia e mi occupo di disagio giovanile ad Avignone. L’articolo di Rossana Rossanda lo considero come il frutto di una persona colta, molto sensibile che legge quanto sta accadendo in Francia da mercoledi scorso con lenti inadeguate. In effetti è verissimo che chi ha decimato la redazione di Charlie Hebdo (che qui è vissuto come il residuo più autentico del maggio ’68) e assalito il supermarcato kascher è il frutto del passato coloniale della Francia e del fatto che la Francia, in quanto sistema paese, non ha acora fatto i conti col proprio passato di potenza coloniale. Potremmo dire che la Francia rapresenta, dal almeno due secoli e forse più, il paradosso già incarnato dalla civilissima ed europeissima Atene di Pericle, vale a dire paladina delle libertà e della democrazia per quelli civilizzati e l’esclusione, la schiavitù, la carità, la messa sotto curatela per quanti (e quante) considerati barbari (i popoli colonizzati) o inferiori (le donne e i minori). Allo stesso tempo però mi sembra che la Rossanda dimentichi un piccolo particolare e cioè che qui in Francia la gente “normale”, come me e qualche milione di persone, rischia di ritrovarsi stretta tra dei fascisti barbuti che non mangiano prodotti derivati da carne di maiale, che abbinano ostracismo verso la musica ma utilizzano internet e i GPS e che si dicono veri seguaci del Profeta e degli altri fascisti per lo più bianchi, che loro invece lo mangiano e lo amano il maiale (al punto di portare in piazza delle teste – vere o finte poco importa – alle manifestazioni), che negano la shoah, che gridano “la France aux français”, che si battono contro l’islamisazione dell’Europa. In breve, se vogliamo utilizzare come paragone quello che è successo nelle terre della morta Federazione Yugoslavia, potremmo dire che qui rischaimo di ritrovarci circondati tra Ustacha e Cetnici.
La grossa sfida che ci attende tutti e tutte, non solo in Francia ma in tutti i paesi europei, è di dare nuova linfa alla democrazia, all’accolgienza, al rispetto dell’alterità propria e altrui. Insomma, ci tocca fare la messa a punto del nostro referenziale culturale avendo come bussola non delle ideologie scollegate dalla vita, dalla storia di ognuno di noi, bensi la dichiarazione universale dei diritti umani secondo cui, art.1, ogni essere umano nasce uguale in diginità e diritti. Ecco i valori che dobbiano, con qualunque mezzo coerente a quest’obiettivo, promuovere e difendere.
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Strage Charlie Hebdo, Cacciari: “Politica di accoglienza o avremo il conflitto in Europa”
di Rodolfo Sala su Repubblica.it
MILANO – “I fatti orrendi di Parigi dovrebbero imporre a tutti noi di ragionare alla grande, ma in questo clima sono in pochi a ragionare, soprattutto in Italia. Il livello del dibattito è deprimente”. Lo dice il filosofo Massimo Cacciari.
E quale sarebbe, professore, la prima riflessione da fare?
“Negli ultimi venti-trent’anni abbiamo vissuto tutti nell’illusione che la storia potesse in qualche modo cancellare la propria dimensione tragica. Che la nostra Penisola potesse restare fuori dalle trasformazioni epocali che hanno rivoluzionato la geopolitica e prodotto una serie di conflitti (Afghanistan, Iraq, la questione irrisolta dei rapporti tra Israele e palestinesi) che anche per colpa dell’Occidente restano pesantemente irrisolti”.
Risultato?
“Vedo un rischio terribile e concreto. Il rischio di una guerra civile in Europa. Mi spiego: dobbiamo tenere presente che nel 2050 la metà della popolazione del nostro continente sarà di origine extracomunitaria, quindi è impensabile ritenerci in guerra, noi europei, con l’altra parte, con il mondo islamico. Per questo dico che bisogna ragionare alla grande. Il problema è con chi”.
A che cosa allude?
“In Europa, per non dire dell’Italia, in questo momento c’è una deficienza paurosa di personale politico in grado di affrontare il problema. Qui non c’è un’Europa in guerra, ci sono conflitti da disinnescare anche con le armi dell’intelligenza. E con la consapevolezza che si tratta di un processo lungo, difficile, faticoso. Ma non c’è alternativa, altrimenti si va dritti verso quello scontro di civiltà a cui puntano proprio i terroristi”.
Le armi dell’intelligenza, lei dice…
“Certo. Se durante il secondo conflitto mondiale ci fosse stato solo il generale Patton, e non anche la lungimiranza di leader come Churchill e Roosevelt, avrebbe vinto Hitler. Affontare il problema solo dal lato della semplice repressione non basta, non può bastare. Anche se questi islamisti hanno compiuto un indiscutibile salto di qualità”.
In che senso?
“Non siamo in presenza del kamikaze solitario, della bomba anonima. Le azioni come quella di Parigi sono programmate con una logica militare che punta, voglio ripeterlo, allo scontro di civiltà”.
Quindi?
“Fino a quando la nostra democrazia non dimostrerà di essere accogliente, e continuerà con le disuguaglianze, questo tipo di terrorismo troverà sempre terreno favorevole. Sullo scenario europeo, ora si pensa di far fuori la Grecia, mentre si allargano i confini dell’Unione alla Lituania: è pazzesco”.
Ma i toni salgono, Salvini dice che siamo in guerra…
“Una battuta che si commenta da sé, sotto il profilo culturale. Sarebbe un errore madornale additare nell’Islam il nemico, il modo per moltiplicare gli jihadisti”.
Aggiunge che il Papa non deve dialogare con l’Islam…
“Figuriamoci che cosa importa al Pontefice delle parole di Salvini. Che insieme alla Le Pen sta facendo di tutto per ostacolare il dialogo. Se si votasse domani la Lega e il Front national prenderebbero una valanga di voti. Sarebbe pericolosissimo, allora sì che saremmo in guerra. Certo, poi occorre realismo “.
E cioè?
“Riconoscere che fino a quando non sarà abbattuto lo Stato islamico dobbiamo aspettarci il peggio. Ma lo si abbatte solo se non si invoca il conflitto di civiltà. Purtroppo quando la storia appare tragica si fa molto fatica a ragionare. È del tutto logico, e porta anche voti: ma è anche pericolosissimo. Bisognerebbe fare un grande sforzo a partire da noi italiani, non credo sia inutile. In fin dei conti, con la storia che abbiamo, dovremmo essere vaccinati. Anche se adesso non pare così”.