Risultato della ricerca: Unione Europea

Il MEIC per la Città di Cagliari

meic-conf-stampaAi Candidati/e Sindaci e Consiglieri
LL. SEDI
Lettera-aperta su impegni e programmi per Giustizia sociale, Cultura e partecipazione alla vita della città di Cagliari
Opportunamente i vostri programmi elettorali si caratterizzano per le “cose” che intendete realizzare nella gestione della città per trasformare sicuramente in meglio Cagliari: più pulita, sicura, ordinata nel traffico, vivibile, abitabile, turistica e molto altro ancora. Tutto questo è bello e onorevole per quanti intendono mettersi al servizio dei cittadini.
Il MEIC ( Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale) ha un particolare legame con Cagliari, dove è stato fondato nel 1932 ad opera di alcuni giovani cattolici della nostra città – Antonio Dessì, Aurelio Espis, Gigi Fantola, Enrico Carboni, Giovanni Dore, Angela Mari, solo per citarne alcuni – insieme con monsignor Giovanni Battista Montini (futuro papa Paolo VI). Anche in virtù di questo forte legame il Meic ritiene opportuno, anzi doveroso, proporre ai candidati sindaci e a tutti i candidati consiglieri alcune linee d’impegno che potranno dare più senso e significato alla loro “missione” di amministratori della città, nei compiti di governo come quelli di opposizione. Siamo consapevoli che in tanta parte i nostri punti programmatici ricalcano i vostri, ma ci piace ribadirli anche per avere la legittimazione di esercizio di un’attività di collaborazione/controllo sull’effettiva realizzazione degli stessi.

CEI: “Il rapporto con la cultura. Per non perdere vitalità e capacità comunicativa la Chiesa deve fare i conti con la cultura nel suo insieme, prendendo in considerazione tanto le élite intellettuali laiche che la dominante cultura di massa. Senza rapporti con il mondo della cultura, la Chiesa perde anche il contatto con il mondo sociale, oggi molto più estesamente scolarizzato e acculturato di quanto fosse nella prima metà del secolo scorso. Nonostante l’originalità e la determinazione di Papa Francesco, dobbiamo chiederci se non pecchiamo di “timidezza” e di mancanza di “fantasia creativa” in ambito culturale. In altri termini, una Chiesa che non sia militanza e immaginazione culturale soffre di una colpevole, grave mancanza e omissione: non rende vivo e attuale il messaggio cristiano. La Chiesa deve aiutare la discussione critica delle ideologie, dei miti, degli stili di vita, dell’etica e dell’estetica dominanti. Se è vero che la Chiesa ha bisogno di cultura, aggiungerei che è anche la cultura ad avere bisogno del punto di vista cristiano. Sono sicuro che, memori della storia che ha da sempre accompagnato la Chiesa in Italia nel con-venire dei Convegni Ecclesiali, coinvolti da quella compassione di Gesù verso le folle e la loro sofferenza, tradurremo questo vissuto in “comunione, partecipazione e missione” per sperimentare ancora oggi, in questo nostro tempo difficile, i prodigi che lo Spirito compiva nella prima generazione”.

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[Dal sito web della Cei] Pubblichiamo l’Introduzione del Card. Matteo Zuppi, Arcivescovo di Bologna e Presidente della CEI, ai lavori della 79ª Assemblea Generale della CEI che si svolge in Vaticano dal 20 al 23 maggio.

Cara Europa

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[Dal sito web della CEI] Pubbichiamo la Lettera all’Unione Europea del Card. Matteo Maria Zuppi, Presidente della CEI, e di Mons. Mariano Crociata, Presidente della COMECE, in occasione della Giornata dell’Europa 2024 [9 maggio 2024] e in vista delle prossime elezioni europee [8-9 giugno 2024] .
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Lettera all’Unione Europea del Card. Matteo Maria Zuppi, Presidente della CEI, e di Mons. Mariano Crociata, Presidente della COMECE, in occasione della Giornata dell’Europa 2024 e in vista delle prossime elezioni

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Lettera all’Unione Europea

[Dal sito web della CEI] Pubbichiamo la Lettera all’Unione Europea del Card. Matteo Maria Zuppi, Presidente della CEI, e di Mons. Mariano Crociata, Presidente della COMECE, in occasione della Giornata dell’Europa 2024 [9 maggio 2024] e in vista delle prossime elezioni europee [8-9 giugno 2024] .

Cara Unione Europea,

darti del tu è inusuale, ma ci viene naturale perché siamo cresciuti con te. Sei una, sei “l’Europa”, eppure abbracci ben 27 Paesi, con 450 milioni di abitanti, che hanno scelto liberamente di mettersi insieme per formare l’Unione che sei diventata. Che meraviglia! Invece di litigare o ignorarsi, conoscersi e andare d’accordo! Lo sappiamo: non sempre è facile, ma quanto è decisivo, invece di alzare barriere e difese, cancellarle e collaborare. Tu sei la nostra casa, prima casa comune. In questa impariamo a vivere da “Fratelli Tutti”, come ha scritto un tuo figlio i cui genitori andarono fino alla “fine del mondo” per cercare futuro.

Nel cuore un desiderio

Ti scriviamo perché abbiamo nel cuore un desiderio: che si rafforzi ciò che rappresenti e ciò che sei, che tutti impariamo a sentirti vicina, amica e non distante o sconosciuta. Ne hai bisogno perché spesso si parla male di te e tanti si scordano quante cose importanti fai! Durante il COVID lo abbiamo visto: solo insieme possiamo affrontare le pandemie. Purtroppo, lo capiamo solo quando siamo sopraffatti dalle necessità, per poi dimenticarlo facilmente! Così, quando pensiamo che possiamo farcela da soli finiamo tutti contro tutti.

Dagli inizi ad oggi

Non possiamo dimenticare come prima di te, per secoli, abbiamo combattuto guerre senza fine e milioni di persone sono state uccise. Tutti i sogni di pace si sono infranti sugli scogli di guerre, le ultime quelle mondiali, che hanno portato immense distruzioni e morte. Proprio dalla tragedia della Seconda guerra mondiale – che ha toccato il male assoluto con la Shoah e la minaccia alla sopravvivenza dell’umanità intera con la bomba atomica – è nato il germe della comunità di Paesi sovrani che oggi è l’Unione Europea. C’è stato chi ha creduto che le nazioni non fossero destinate a combattersi, che dopo tanto odio si potesse imparare a vivere assieme. Tra quelli che ti hanno pensata e voluta non possiamo dimenticare Robert Schuman, francese, Konrad Adenauer, tedesco, e Alcide De Gasperi, italiano: animati dalla fede cristiana, essi hanno sentito la chiamata a creare qualcosa che rendesse impossibile il ritorno della guerra sul suolo europeo. Hanno pensato con intelligenza, ambizione e coraggio. Non sono mancati momenti difficili, ma la forza che viene dall’unità ha mostrato il valore del cammino intrapreso e la possibilità di correggere, aggiustare, intendersi.
La Comunità Europea venne concepita nel 1951 attorno al carbone e all’acciaio, materie allora indispensabili per fare la guerra, per prevenire ogni velleità di farne uso ancora una volta l’uno contro l’altro. In realtà quei tre grandi uomini, e tanti altri con loro, hanno cercato di più, e cioè la riconciliazione tra i popoli e la cancellazione degli odi e delle vendette.
Trovare qualcosa su cui lavorare insieme, anche solo sul piano economico, come dimostrano i Trattati firmati a Roma nel 1957, è stato l’inizio di un cammino che ha visto poco alla volta nuovi popoli entrare nella Comunità e, dopo la caduta del muro di Berlino, nel 1989, il cambiamento del nome, nel 1992, in Unione Europea, e l’allargamento, nel 2004, ai Paesi dell’allora Patto di Varsavia, ben dieci in una volta. I problemi non sono mancati, ma quanto sono stati importanti la moneta unica e l’abbattimento delle barriere nazionali per la libera circolazione delle persone e delle merci! Ultimo, l’accordo sulla riforma con il Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel 2009.

Il senso dello stare insieme

Cara Unione Europea, sei un organismo vivo, perciò forse viene il momento per nuove riforme istituzionali che ti rendano sempre più all’altezza delle sfide di oggi. Ma non puoi essere solo una burocrazia, pur necessaria per far funzionare organizzazioni così complesse come quella che sei diventata. Direttive e regolamenti da soli non fanno crescere la coesione. Serve un’anima! In questi anni abbiamo visto compiere passi avanti significativi, quando per esempio hai accompagnato alcuni Paesi a superare le crisi economiche, ma abbiamo anche dovuto registrare fasi di stallo e difficoltà. E queste crescono quando smarriamo il senso dello stare insieme, la visione del nostro futuro condiviso, o facciamo resistenza a capire che il destino è comune e che bisogna continuare a costruire un’Europa unita.

Il ritorno della guerra

Perciò, qualche volta ci chiediamo: Europa, dove sei? Che direzione vuoi prendere? Sono questi anche gli interrogativi del Papa: «Guardando con accorato affetto all’Europa, nello spirito di dialogo che la caratterizza, verrebbe da chiederle: verso dove navighi, se non offri percorsi di pace, vie creative per porre fine alla guerra in Ucraina e ai tanti conflitti che insanguinano il mondo? E ancora, allargando il campo: quale rotta segui, Occidente?» (Discorso, Lisbona, 2 agosto 2023).
In tutti questi anni siamo molto cambiati e facciamo fatica a capire e a tenere vivo lo spirito degli inizi. Dopo un così lungo periodo di pace abbiamo pensato che una guerra su territorio europeo sarebbe stata ormai impossibile. E invece gli ultimi due anni ci dicono che ciò che sembrava impensabile è tornato. Abbiamo bisogno di riprendere in mano il progetto dei padri fondatori e di costruire nuovi patti di pace se vogliamo che la guerra contro l’Ucraina finisca, e che finisca anche la guerra in corso in Medio Oriente, scoppiata a seguito dell’attacco terroristico del 7 ottobre scorso contro Israele, e con essa l’antisemitismo, mai sconfitto e ora riemergente. Lo dice così bene anche la nostra Costituzione italiana: è necessario combattere la guerra e ripudiarla per davvero!
Se non si ha cura della pace, rischia sempre di tornare la guerra. Lo diceva Robert Schuman nella sua Dichiarazione del 9 maggio 1950, che ha dato avvio al processo di integrazione europea: «L’Europa non è stata fatta: abbiamo avuto la guerra». Egli si riferiva al passato, ma le sue parole valgono anche oggi. L’unità va cercata come un compito sempre nuovo e urgente. Non dobbiamo aspettare l’esplosione di un altro conflitto per capirlo!

Il ruolo internazionale e la tentazione dei nazionalismi

Che ruolo giochi, Europa, nel mondo? Vogliamo che tu incida e porti la tua volontà di pace, gli strumenti della tua diplomazia, i tuoi valori. Risveglia la tua forza così da far sentire la tua voce, così da stabilire nuovi equilibri e relazioni internazionali. Le tue divisioni interne non ti permettono di assumere quel ruolo che dalla tua statura storica e culturale ci si aspetterebbe. Non vedi il rischio che le tue contrapposizioni intestine indeboliscano non solo il tuo peso internazionale ma anche la capacità di far fronte alle attese dei tuoi popoli?
Tanti pensano di potere usufruire dei benefici che tu hai indubbiamente portato, come se fossero scontati e niente possa comprometterli. La pandemia o le periodiche proteste, ultima quella degli agricoltori, ci procurano uno sgradevole risveglio. Capiamo che tanti vantaggi acquisiti potrebbero svanire. Il senso della necessità però non basta a spingere sempre e tutti a superare le divisioni. Alcuni vogliono far credere che isolandosi si starebbe meglio, quando invece qualunque dei tuoi Paesi, anche grande, si ridurrebbe fatalmente al proverbiale vaso di coccio tra vasi di ferro. Per stare insieme abbiamo bisogno di motivazioni condivise, di ideali comuni, di valori apprezzati e coltivati. Non bastano convenienze economiche, poiché alla lunga devono essere percepite le ragioni dello stare insieme, le uniche capaci di far superare tensioni e contrasti che proprio gli interessi economici portano con sé nel loro fisiologico confrontarsi.
Ha detto Papa Francesco: «In questo frangente storico l’Europa è fondamentale. Perché essa, grazie alla sua storia, rappresenta la memoria dell’umanità ed è perciò chiamata a interpretare il ruolo che le corrisponde: quello di unire i distanti, di accogliere al suo interno i popoli e di non lasciare nessuno per sempre nemico. È dunque essenziale ritrovare l’anima europea» (Discorso, Budapest, 28 aprile 2023).
Vorremmo che tutti sentissimo l’orgoglio di appartenerti, Europa. Oggi appare distante, a volte estraneo, tutto ciò che sta oltre i confini del proprio Paese. Eppure, le due appartenenze, quella nazionale e quella europea, si implicano a vicenda. La tua è stata fin dall’inizio l’Unione di Paesi liberi e sovrani che rinunciavano a parte della loro sovranità a favore di una, comune, più forte. Perciò non si tratta di sminuire l’identità e la libertà di alcuno, ma di conservare l’autonomia propria di ciascuno in un rapporto organico e leale con tutti gli altri.

Valori europei e fede cristiana

Le nostre idee e i nostri valori definiscono il tuo volto, cara Europa. Anche in questo la fede cristiana ha svolto un ruolo importante, tanto più che dal suo sentire è uscito il progetto e il disegno originario della tua Unione. Come cristiani continuiamo a sentirne viva responsabilità; e del resto troviamo in te tanta attenzione alla dignità della persona, che il Vangelo di Cristo ha seminato nei cuori e nella tua cultura. Soffriamo non poco, perciò, nel vedere che hai paura della vita, non la sai difendere e accogliere dal suo inizio alla sua fine, e non sempre incoraggi la crescita demografica.
«Penso – dice il Papa – a un’Europa che non sia ostaggio delle parti, diventando preda di populismi autoreferenziali, ma che nemmeno si trasformi in una realtà fluida, se non gassosa, in una sorta di sovranazionalismo astratto, dimentico della vita dei popoli. […] Che bello invece costruire un’Europa centrata sulla persona e sui popoli, dove vi siano politiche effettive per la natalità e la famiglia […], dove nazioni diverse siano una famiglia in cui si custodiscono la crescita e la singolarità di ciascuno» (Discorso, Budapest, 28 aprile 2023).

Il tema dei migranti e le sue implicazioni

Cara Europa, tu non puoi guardare solo al tuo interno. Non si può vivere solo per stare bene, ma stare bene per aiutare il mondo, combattere l’ingiustizia, lottare contro le povertà. Ormai da decenni sei il punto di arrivo, il sogno di tante persone migranti che da diversi continenti cercano entro i tuoi confini una vita migliore. Tanti vogliono raggiungerti perché sono alla ricerca disperata di un futuro. E molti, con il loro lavoro, non ti aiutano forse già a prepararne uno migliore? Non si tratta di accogliere tutti, ma che nessuno perda la vita nei “viaggi della speranza” e tanti possano trovare ospitalità. Chi accoglie genera vita! L’Italia è spesso lasciata sola, come se fosse un problema solo suo o di alcuni, ma non per questo deve chiudersi. Prima o poi impareremo che le responsabilità, comprese quelle verso i migranti, vanno condivise, per affrontare e risolvere problemi che in realtà sono di tutti.
Tu rappresenti un punto di riferimento per i Paesi mediterranei e africani, un bacino immenso di popoli e di risorse nella prospettiva di un partenariato tra uguali. Compito essenziale perché in realtà un soggetto sovranazionale come l’Unione non può sussistere al di fuori di una reciprocità di relazioni internazionali che ne dicano il riconoscimento e il compito storico, e che promuovano il comune progresso sociale ed economico nel segno dell’amicizia e della fraternità.

Compiti e sfide

Cara Europa, è tempo di un nuovo grande rilancio del tuo cammino di Unione verso una integrazione sempre più piena, che guardi a un fisco europeo che sia il più possibile equo; a una politica estera autorevole; a una difesa comune che ti permetta di esercitare la tua responsabilità internazionale; a un processo di allargamento ai Paesi che ancora non ne fanno parte, garanzia di una forza sempre più proporzionata all’unità che raccogli ed esprimi. Le esigenze di innovazione economica e tecnica (pensiamo all’Intelligenza Artificiale), di sicurezza, di cura dell’ambiente e di custodia della “casa comune”, di salvaguardia del welfare e dei diritti individuali e sociali, sono alcune delle sfide che solo insieme potremo affrontare e superare. Non mancano purtroppo i pericoli, come quelli che vengono dalla disinformazione, che minaccia l’ordinato svolgimento della vita democratica e la stessa possibilità di una memoria e di una storia non falsate.
Insieme alle riforme istituzionali democraticamente adottate, c’è bisogno di far crescere un sentire comune, un apprezzamento condiviso dei valori che stanno alla base della nostra convivenza nell’Unione Europea. Ci vuole un nuovo senso della cittadinanza, un senso civico di respiro europeo, la coscienza dei popoli del continente di essere un unico grande popolo. Ne siamo convinti: è innanzitutto questo senso di comunità di cittadini e di popoli che ci chiedi di fare nostro, cara Europa.

Le prossime elezioni

Le prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo e la nomina della Commissione Europea sono l’occasione propizia e irripetibile, da cogliere senza esitazione. Purtroppo, a farsi valere spesso sono le paure e il senso di insicurezza di fronte alle difficoltà. Anche questo andrebbe raccolto e ascoltato per mostrare come proprio tu sia lo strumento e il luogo per affrontare e vincere paure e minacce.
Facciamo appello, perciò, a tutti, candidati e cittadini, a cominciare dai sedicenni che per la prima volta in alcuni Paesi andranno a votare, perché sentano quanto sia importante compiere questo gesto civico di partecipazione alla vita e alla crescita dell’Unione. Non andare a votare non equivale a restare neutrali, ma assumersi una precisa responsabilità, quella di dare ad altri il potere di agire senza, se non addirittura contro, la nostra libertà. L’assenteismo ha l’effetto di accrescere la sfiducia, la diffidenza degli uni nei confronti degli altri, la perdita della possibilità di dare il proprio contributo alla vita sociale, e quindi la rinuncia ad avere capacità e titolo per rendere migliore lo stare insieme nell’Unione Europea.
L’augurio che ti facciamo, cara Unione Europea, è che questa tornata elettorale diventi davvero un’occasione di rilancio, un risveglio di entusiasmo per un cammino comune che contiene già, in sé e nella visione che proietta, un senso vivo di speranza e di impegno motivato e convinto da parte dei tuoi cittadini.

Un nuovo umanesimo europeo

Sogniamo perciò ancora con Papa Francesco: «Con la mente e con il cuore, con speranza e senza vane nostalgie, come un figlio che ritrova nella madre Europa le sue radici di vita e di fede, sogno un nuovo umanesimo europeo, “un costante cammino di umanizzazione”, cui servono “memoria, coraggio, sana e umana utopia”» (Discorso, Vaticano, 6 maggio 2016).

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Europa, Europa

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Europa, Europa: dove vai?
Alfonso Gianni
La costruzione di un sistema di guerra nella Ue

Ora se nel mondo c’è una cosa che conviene affrontare con esitazione – ma che dico, che bisogna in tutti i modi evitare, scongiurare, tenere lontana – di sicuro è la guerra: non c’è iniziativa più empia e dannosa, più largamente rovinosa, più persistente e tenace, più squallida e nell’insieme più indegna di un uomo, per non dire di un cristiano. Invece – chi lo crederebbe? – oggi si entra in guerra di qua, di là, dappertutto, con estrema leggerezza, per le ragioni più futili; e la condotta di guerra è caratterizzata da un’estrema crudeltà e barbarie.
Erasmo da Rotterdam

Sono trascorsi cinque secoli abbondanti da quando le parole del grande intellettuale olandese, poste in esergo, uscirono a stampa dai torchi di Aldo Manuzio. Se può esserci ancora qualche dubbio sulla validità delle teorie sul progresso più o meno lineare della civiltà umana, la loro falsificazione trova conferma nei terribili avvenimenti di questi ultimi mesi. La guerra continua, si incancrenisce e si allarga. I vari pezzetti della guerra mondiale descritta da papa Francesco, si congiungono tra loro in un mostruoso puzzle. Da ultimo Israele conduce un attacco “mirato” contro il consolato iraniano a Damasco, uccidendo comandanti dei “guardiani della rivoluzione”; l’Iran riempie il cielo di droni e missili; aerei statunitensi, francesi e britannici, unitamente a quelli israeliani, si alzano in volo per abbatterli. Nel contempo la guerra “dimenticata” in Sudan assomma un bilancio di 12mila morti e oltre sette milioni di sfollati. Ogni appello alla moderazione, per non dire alla trattativa e alla pace, viene immediatamente travolto, per quanto sia alto lo scranno dal quale è stato rivolto.
L’anonima sentenza latina, Si vis pacem para bellum, che ingenuamente consideravamo ormai persino impensabile, esce con sempre maggiore frequenza dalla bocca dei leader europei. Fra questi non poteva mancare Giorgia Meloni che ha voluto fare sfoggio di cultura, pronunciandola nel febbraio del 2022, pochi giorni dopo l’invasione russa dell’Ucraina, davanti ad una platea di conservatori riuniti in Florida per l’annuale Conservative Political Action Conference (Cpac), per poi ripeterla in altre più recenti occasioni nella veste di Presidente del Consiglio. La stessa frase, per quanto abusata, è stata utilizzata dall’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrel, nel commentare il documento conclusivo emerso dal Consiglio europeo del 21-22 marzo. E non si può certo dire che si sia trattato di un uso improprio.
Per quanto trita e ritrita la vecchia sentenza è in grado di fare da sintesi di quanto si è detto e deciso in quella riunione, che può ben dirsi essere propria di un Consiglio di guerra. Una riunione, cui seguirà quella di metà aprile dedicata ai temi dell’economia, che è solo un passaggio dentro una escalation di decisioni e comportamenti che conducono l’Europa in un’unica direzione: la guerra. Il passaggio da una “guerra grande” – come l’ha denominata Limes -, da una guerra “allargata” – come l’ha definita Alberto Negri guardando al teatro mediorientale – dalla più volte citata guerra mondiale a pezzetti secondo la celebre definizione di papa Francesco, ad una guerra globale vera e propria, tale da non escludere l’uso di armi nucleari, non è più solo una distopia.

Le conclusioni del Consiglio europeo
Quanto deciso nel recente Consiglio europeo non basta. Lo ha detto con chiarezza il premier polacco Donald Tusk, uscito vincitore dalle elezioni dello scorso ottobre, che in una intervista rilasciata a diversi quotidiani europei, fra cui un quotidiano italiano, avverte che la guerra è “alle porte”, che per la prima volta dal 1945 non è più un concetto del passato ma è un fatto “reale”, che dunque “dobbiamo abituarci mentalmente all’arrivo di una nuova era. L’era prebellica.” Rispetto alla quale però la Ue non è ancora pronta e quindi bisognerebbe fare di più, anche rispetto alle decisioni del Consiglio europeo di marzo.
Eppure quelle decisioni non sono lievi. Basta scorrere il documento conclusivo per accorgersene, al di là di qualche espressione retorica o fumosa, che appare proprio per questo inquietante per quello che può nascondere e per quello che ci aspetta. Per quanto riguarda il fronte russo-ucraino il testo non fa il pur minimo accenno alla possibilità di cessare il fuoco, di aprire una trattativa, di muoversi in una direzione di pace. Quest’ultimo termine non compare mai, se non con un significato completamente stravolto, si potrebbe dire, con ironico cinismo. Infatti il Consiglio europeo chiede di lavorare all’ottavo pacchetto di sostegno per l’Ucraina nell’ambito dello strumento europeo per la pace. Invita a prendere in considerazione la possibilità di “destinare a beneficio dell’Ucraina, compresa la possibilità di finanziare il sostegno militare, le entrate straordinarie derivanti dai beni russi bloccati”, quindi superando i dubbi sollevati anche da commentatori mainstream sul rischio che un simile atto porti un indesiderato scompiglio nelle “regole” che tutelano il mercato e il movimento dei capitali. Spinge per un rafforzamento ed una piena attuazione delle sanzioni alla Russia, anche colpendo paesi terzi che ne facilitano l’elusione. Pur nella impossibilità di impedirlo totalmente – rendendosi conto della complessità e dell’intreccio degli interessi economici in gioco – il documento raccomanda di limitare “al massimo” l’accesso della Russia “a prodotti e tecnologie sensibili che hanno rilevanza nel campo di battaglia”. Ribadisce la richiesta agli Stati membri di aumentare la spesa militare. Prospetta apertamente l’utilizzo della Banca europea per gli investimenti per fornire risorse e strumentazione finanziaria al fine di supportare l’ingente aumento delle spese belliche.
Come si vede le previsioni e gli strumenti di intervento economico si concentrano sulle spese militari. Con un facile, quanto terribile, scambio di consonanti, i famosi Eurobond, di cui si era tanto parlato, si tramutano di colpo in Eurobomb. E’ l’intero sistema delle imprese europee che deve rispondere alle nuove esigenze belliche. Lo chiariscono in particolare tre punti importanti sottolineati dal documento conclusivo. Il primo riguarda l’incentivazione della “ulteriore integrazione del mercato europeo della difesa in tutta l’Unione, agevolando l’accesso alle catene di approvvigionamento della difesa, in particolare per le Pmi e le società a media capitalizzazione, riducendo la burocrazia”. Il secondo punto riguarda la necessità di “garantire che la regolamentazione dell’Ue non costituisca un ostacolo allo sviluppo dell’industria della difesa”. Il terzo invita a “investire nella manodopera qualificata per fare fronte alle prevalenti carenze di manodopera e di competenze nell’industria della difesa”. Quindi via tutti i rimanenti lacci e lacciuoli ed ogni regolamentazione d’impaccio al fare presto se non subito. Il tutto – si preoccupano di precisare gli estensori del documento – deve risultare “complementare alla Nato, che rimane il fondamento della difesa collettiva per i suoi membri”

Come era considerata nel mondo la Ue
La puntualizzazione è tutt’altro che rituale, anche perché la costruzione di un simile sistema di guerra europeo mal si acconcia con la definizione un po’ riduttiva di Wolfgang Streeck per cui l’Ue sarebbe semplicemente “un ausiliario economico della Nato”. Appare più convincente dal punto di vista dell’analisi dinamica delle forze in campo la conclusione cui perviene Lucio Caracciolo e cioè che il ruolo della Nato e quello della Ue tendono negli ultimi anni a sovrapporsi, come risulta ancora più evidente in relazione al conflitto russo-ucraino. L’una prepara il terreno per l’avanzata dell’altra e viceversa. Anche se lascia un po’ straniti l’idea che Caracciolo ha recentemente avanzato, quella di “un’intesa bilaterale speciale fra Italia e Stati Uniti” al fine di tenere il nostro paese “sopra la linea di galleggiamento durante la Guerra Grande e prefigurare equilibri meno instabili nell’immediato dopoguerra”. Una idea che lo stesso autorevole direttore di Limes definisce “controintuitiva” e rispetto alla quale sollecita egli stesso “critiche e controproposte”. Ma prima è forse opportuno fare qualche passo indietro.
Certamente la guerra russo-ucraina non ha solo risuscitato la Nato da una condizione che aveva autorizzato Macron a stilare un affrettato certificato di morte cerebrale, ma ha messo in moto un’accelerazione dell’armamento europeo ad ogni livello. Tuttavia sarebbe sbagliato cogliere solo la tempistica di quest’ultima vigorosa corsa alle armi e non vederne i passaggi precedenti, pur se più lenti nel loro svolgersi, nel corso dei quali l’Ue è riuscita persino ad abbattere l’immagine che si era fatta nel mondo. Anche se si trattava di un’immagine più dettata da un forte wishful thinking che da una rigorosa analisi del processo di costruzione dell’Unione europea.
Per un non breve periodo in America latina molti vedevano nell’Europa la proiezione dei propri desideri di costruire l’utopia bolivariana, dove contrasti e confini sarebbero stati superati da intese politiche ed economiche nel nome del Sud del mondo. Se ne ha prova leggendo, in un recente libro, le parole dell’ex presidente uruguayano José “Pepe” Mujica, che manifesta il suo stupore e il suo spavento per l’impotenza dell’Europa di fronte al conflitto russo-ucraino: “Quello che più mi spaventa è l’impotenza dell’Europa, che è diventata un polo senza alcun potere decisionale autonomo. È incredibile. Ovviamente, la pace in Europa avrebbe dovuto includere la Russia e non segregarla, e invece quello che hanno fatto è stato spingerla dall’altra parte, la stanno regalando alla Cina. Da un punto di vista geopolitico, sono dei salami [ride], dei salami… Sì. Sono sbalordito dal declino politico dell’Europa, al punto da guardare con «nostalgia», tra virgolette, ai vecchi conservatori europei, che almeno vedevano un po’ più lungo e avevano un po’ più di dignità. Proprio come De Gaulle, il quale pensava che l’Europa dovesse arrivare fino agli Urali e intuì che un processo di pace doveva inevitabilmente includere anche la Russia all’interno dell’Europa. La stupida rottura da parte della Nato del Patto di Varsavia fu un passo privo della benché minima lungimiranza politica. Penso anche che, dietro tutto questo, vi sia una sorta di duello in cui gli Stati Uniti temono di perdere la supremazia a favore della Cina.”

Le radici del processo di militarizzazione europeo
E’ bene quindi non dimenticare che l’attuale fase di intensa militarizzazione della Ue che stiamo attraversando in questo sciagurato presente, affonda le sue radici in alcune tappe fondamentali che hanno determinato la costituzione materiale dell’unità europea. Una buona e non trascurabile parte del prolisso Trattato di Maastricht del 1992 è costituita dalla cosiddetta nuova Politica estera di sicurezza comune (Pesc). Una manciata di anni dopo, il Trattato di Amsterdam istituì il ruolo di Alto rappresentante per la Pesc. Il primo a ricoprire tale carica fu Javier Solana, che la condusse per dieci anni fino al 2009, dopo essere stato Segretario generale della Nato tra il 1995 e il 1999, incarnando così la fluidità delle cariche apicali fra Ue e Nato.
Il vero banco di prova delle effettive capacità della Ue di intervenire sullo scenario internazionale per mettere in atto quei principi e quei valori di pace, libertà, giustizia e democrazia così enfaticamente richiamati nei suoi atti costitutivi e ancor più nelle dichiarazioni dei suoi massimi esponenti, furono senz’altro le tragiche vicende dei Balcani a cavallo del secolo. E fu un disastro. Le parole di Perry Anderson esprimono un giudizio tanto severo quanto giusto e inequivocabile: “Beneficiaria della Pax americana piuttosto che progenitrice della stessa, l’Unione ha affrontato la sua prima prova come vero e proprio custode della pace in Europa dopo la guerra fredda. Fallì miseramente, non impedendo ma alimentando la guerra nei Balcani, poiché la Germania appoggiò la secessione slovena dalla Jugoslavia, il colpo che innescò i successivi conflitti omicidi che la Ue, trascinata sulla scia di Helmut Kohl, si dimostrò incapace di moderare o di far cessare. Ancora una volta non è stata Bruxelles, ma Washington a decidere finalmente il destino della regione. Anche l’allargamento dell’Unione agli ex paesi del Patto di Varsavia, la sua grande conquista storica, ha seguito le orme degli Stati Uniti, la loro inclusione nella Nato prima del loro ingresso nella Ue”

I bombardamenti sulla Serbia
Infatti l’intervento aereo contro la Serbia costituì una rottura delle già fragili regole che in qualche modo caratterizzavano l’ordine mondiale di allora. A tal punto che un fine giurista come Luigi Ferrajoli poteva mettere in fila tutte le violazioni che venivano commesse nei confronti di Costituzioni, Trattati, Carte costitutive, Convenzioni, fino a profilare una sorta di colpo di stato internazionale: “Innanzitutto la violazione della Costituzione italiana che all’articolo 11 bandisce la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali e all’articolo 78 richiede che la guerra (di difesa) sia deliberata dalle Camere. In secondo luogo la violazione della Carta dell’Onu, che non solo vieta la guerra ma prescrive ‘mezzi pacifici’ volti ‘a conseguire la composizione e la soluzione delle controversie internazionali, a cominciare dal negoziato ad oltranza … In terzo luogo la violazione del trattato istitutivo della Nato, che configura l’alleanza come esclusivamente difensiva e vincolata alla carta dell’Onu … In quarto luogo [la violazione] dello statuto della Corte penale internazionale … Infine le violazioni delle convenzioni di Ginevra, in base alle quali sono crimini di guerra i bombardamenti delle popolazioni civili”.
Tutto ciò, è bene ribadirlo, non sarebbe potuto avvenire senza la direzione diretta, non solo supervisione, da parte degli Usa. Come ha giustamente sottolineato Domenico Gallo “Il retroterra dell’attacco dell’Alleanza atlantica alla Serbia, scattato il 24 marzo 1999, era costituito dal nuovo ruolo strategico militare che gli Stati Uniti avevano concepito per la Nato dopo la fine della Guerra fredda”.
Per quanto riguarda il nostro paese il via libera all’utilizzo delle basi italiane per il decollo dei bombardieri, venne offerto dal governo D’Alema. L’insieme dell’operazione venne guidata da Francesco Cossiga che riteneva che la sinistra, quella rappresentata allora dai Ds, avrebbe fatto cose che neppure la destra avrebbe potuto compiere senza provocare e attirarsi contro, se non una sollevazione popolare, certamente una lunga e forte contrapposizione nelle istituzioni e soprattutto nelle piazze. Lo dice esplicitamente Carlo Scognamiglio, allora ministro della Difesa, in una dichiarazione a un quotidiano, in polemica con James Rubin, ex portavoce di Madeleine Albright : “A Rubin sfugge che in Italia avevamo dovuto cambiare governo proprio per fronteggiare gli impegni politico-militari che si delineavano … Prodi ad ottobre aveva espresso una disponibilità di massima all’uso delle basi italiane, ma per la presenza di Rifondazione nella sua maggioranza non avrebbe potuto impegnarsi in azioni militari. Per questo il senatore Cossiga ed io ritenemmo che occorreva un accordo chiaro con l’on. D’Alema” e l’accordo in sintesi si articolava in due parti: “la prima era il rispetto dell’impegno per l’euro […] la seconda era il vincolo di lealtà alla Nato: l’Italia avrebbe dovuto fare esattamente ciò che la Nato avrebbe deciso di fare”. E così fu.
La guerra dei Balcani convinse le elite europee che era necessario imprimere una nuova svolta nel campo della difesa comune, naturalmente senza uscire dal quadro della sudditanza nei confronti della Nato e degli Usa. Così nel 2004 nasce L’Agenzia europea per la difesa (Aed), attualmente presieduta da Josep Borrel con sede a Bruxelles, il cui compito è quello di permettere ai 27 Stati membri dell’Ue di sviluppare le loro risorse militari, di stabilire accordi anche con paesi extra Ue (come è avvenuto per Norvegia, Serbia, Svizzera e Ucraina), avendo concluso un accordo amministrativo con il dipartimento della Difesa degli Stati Uniti che prevede una maggiore cooperazione transatlantica nel campo della difesa in settori specifici, compreso lo scambio di informazioni. [segue]

Verso il 25 aprile. L’Italia è una repubblica democratica antifascista

img_6801Ecco il testo integrale del monologo di Antonio Scurati sul 25 aprile che lo scrittore avrebbe dovuto portare a “Che sarà” e censurato dalla Rai.

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Da leggere, rileggere, studiare e, soprattutto, condividere in ogni modo e con ogni mezzo, fare arrivare lontano, alla faccia di questa destra miserabile e neofascista che crede di poter cancellare la Storia.
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“Giacomo Matteotti fu assassinato da sicari fascisti il 10 di giugno del 1924.
Lo attesero sotto casa in cinque, tutti squadristi venuti da Milano, professionisti della violenza assoldati dai più stretti collaboratori di Benito Mussolini. L’onorevole Matteotti, il segretario del Partito Socialista Unitario, l’ultimo che in Parlamento ancora si opponeva a viso aperto alla dittatura fascista, fu sequestrato in pieno centro di Roma, in pieno giorno, alla luce del sole. Si batté fino all’ultimo, come lottato aveva per tutta la vita. Lo pugnalarono a morte, poi ne scempiarono il cadavere. Lo piegarono su se stesso per poterlo ficcare dentro una fossa scavata malamente con una lima da fabbro.

Mussolini fu immediatamente informato. Oltre che del delitto, si macchiò dell’infamia di giurare alla vedova che avrebbe fatto tutto il possibile per riportarle il marito. Mentre giurava, il Duce del fascismo teneva i documenti insanguinati della vittima nel cassetto della sua scrivania.
In questa nostra falsa primavera, però, non si commemora soltanto l’omicidio politico di Matteotti; si commemorano anche le stragi nazifasciste perpetrate dalle SS tedesche, con la complicità e la collaborazione dei fascisti italiani, nel 1944.

Fosse Ardeatine, Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto. Sono soltanto alcuni dei luoghi nei quali i demoniaci alleati di Mussolini massacrarono a sangue freddo migliaia di inermi civili italiani. Tra di essi centinaia di bambini e perfino di infanti. Molti furono addirittura arsi vivi, alcuni decapitati.
Queste due concomitanti ricorrenze luttuose – primavera del ’24, primavera del ’44 – proclamano che il fascismo è stato lungo tutta la sua esistenza storica – non soltanto alla fine o occasionalmente – un irredimibile fenomeno di sistematica violenza politica omicida e stragista.

Lo riconosceranno, una buona volta, gli eredi di quella storia?
Tutto, purtroppo, lascia pensare che non sarà così. Il gruppo dirigente post-fascista, vinte le elezioni nell’ottobre del 2022, aveva davanti a sé due strade: ripudiare il suo passato neo-fascista oppure cercare di riscrivere la storia. Ha indubbiamente imboccato la seconda via.
Dopo aver evitato l’argomento in campagna elettorale, la Presidente del Consiglio, quando costretta ad affrontarlo dagli anniversari storici, si è pervicacemente attenuta alla linea ideologica della sua cultura neofascista di provenienza: ha preso le distanze dalle efferatezze indifendibili perpetrate dal regime (la persecuzione degli ebrei) senza mai ripudiare nel suo insieme l’esperienza fascista, ha scaricato sui soli nazisti le stragi compiute con la complicità dei fascisti repubblichini, infine ha disconosciuto il ruolo fondamentale della Resistenza nella rinascita italiana (fino al punto di non nominare mai la parola “antifascismo” in occasione del 25 aprile 2023).

Mentre vi parlo, siamo di nuovo alla vigilia dell’anniversario della Liberazione dal nazifascismo. La parola che la Presidente del Consiglio si rifiutò di pronunciare palpiterà ancora sulle labbra riconoscenti di tutti i sinceri democratici, siano essi di sinistra, di centro o di destra.
Finché quella parola, Antifascismo, non sarà pronunciata da chi ci governa, lo spettro del fascismo continuerà a infestare la casa della democrazia img_6803
Europa, Europa: dove vai?
Alfonso Gianni
La costruzione di un sistema di guerra nella Ue

Ora se nel mondo c’è una cosa che conviene affrontare con esitazione – ma che dico, che bisogna in tutti i modi evitare, scongiurare, tenere lontana – di sicuro è la guerra: non c’è iniziativa più empia e dannosa, più largamente rovinosa, più persistente e tenace, più squallida e nell’insieme più indegna di un uomo, per non dire di un cristiano. Invece – chi lo crederebbe? – oggi si entra in guerra di qua, di là, dappertutto, con estrema leggerezza, per le ragioni più futili; e la condotta di guerra è caratterizzata da un’estrema crudeltà e barbarie.
Erasmo da Rotterdam

Sono trascorsi cinque secoli abbondanti da quando le parole del grande intellettuale olandese, poste in esergo, uscirono a stampa dai torchi di Aldo Manuzio. Se può esserci ancora qualche dubbio sulla validità delle teorie sul progresso più o meno lineare della civiltà umana, la loro falsificazione trova conferma nei terribili avvenimenti di questi ultimi mesi. La guerra continua, si incancrenisce e si allarga. I vari pezzetti della guerra mondiale descritta da papa Francesco, si congiungono tra loro in un mostruoso puzzle. Da ultimo Israele conduce un attacco “mirato” contro il consolato iraniano a Damasco, uccidendo comandanti dei “guardiani della rivoluzione”; l’Iran riempie il cielo di droni e missili; aerei statunitensi, francesi e britannici, unitamente a quelli israeliani, si alzano in volo per abbatterli. Nel contempo la guerra “dimenticata” in Sudan assomma un bilancio di 12mila morti e oltre sette milioni di sfollati. Ogni appello alla moderazione, per non dire alla trattativa e alla pace, viene immediatamente travolto, per quanto sia alto lo scranno dal quale è stato rivolto.
L’anonima sentenza latina, Si vis pacem para bellum, che ingenuamente consideravamo ormai persino impensabile, esce con sempre maggiore frequenza dalla bocca dei leader europei. Fra questi non poteva mancare Giorgia Meloni che ha voluto fare sfoggio di cultura, pronunciandola nel febbraio del 2022, pochi giorni dopo l’invasione russa dell’Ucraina, davanti ad una platea di conservatori riuniti in Florida per l’annuale Conservative Political Action Conference (Cpac), per poi ripeterla in altre più recenti occasioni nella veste di Presidente del Consiglio. La stessa frase, per quanto abusata, è stata utilizzata dall’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrel, nel commentare il documento conclusivo emerso dal Consiglio europeo del 21-22 marzo. E non si può certo dire che si sia trattato di un uso improprio.
Per quanto trita e ritrita la vecchia sentenza è in grado di fare da sintesi di quanto si è detto e deciso in quella riunione, che può ben dirsi essere propria di un Consiglio di guerra. Una riunione, cui seguirà quella di metà aprile dedicata ai temi dell’economia, che è solo un passaggio dentro una escalation di decisioni e comportamenti che conducono l’Europa in un’unica direzione: la guerra. Il passaggio da una “guerra grande” – come l’ha denominata Limes -, da una guerra “allargata” – come l’ha definita Alberto Negri guardando al teatro mediorientale – dalla più volte citata guerra mondiale a pezzetti secondo la celebre definizione di papa Francesco, ad una guerra globale vera e propria, tale da non escludere l’uso di armi nucleari, non è più solo una distopia.

Le conclusioni del Consiglio europeo
Quanto deciso nel recente Consiglio europeo non basta. Lo ha detto con chiarezza il premier polacco Donald Tusk, uscito vincitore dalle elezioni dello scorso ottobre, che in una intervista rilasciata a diversi quotidiani europei, fra cui un quotidiano italiano, avverte che la guerra è “alle porte”, che per la prima volta dal 1945 non è più un concetto del passato ma è un fatto “reale”, che dunque “dobbiamo abituarci mentalmente all’arrivo di una nuova era. L’era prebellica.” Rispetto alla quale però la Ue non è ancora pronta e quindi bisognerebbe fare di più, anche rispetto alle decisioni del Consiglio europeo di marzo.
Eppure quelle decisioni non sono lievi. Basta scorrere il documento conclusivo per accorgersene, al di là di qualche espressione retorica o fumosa, che appare proprio per questo inquietante per quello che può nascondere e per quello che ci aspetta. Per quanto riguarda il fronte russo-ucraino il testo non fa il pur minimo accenno alla possibilità di cessare il fuoco, di aprire una trattativa, di muoversi in una direzione di pace. Quest’ultimo termine non compare mai, se non con un significato completamente stravolto, si potrebbe dire, con ironico cinismo. Infatti il Consiglio europeo chiede di lavorare all’ottavo pacchetto di sostegno per l’Ucraina nell’ambito dello strumento europeo per la pace. Invita a prendere in considerazione la possibilità di “destinare a beneficio dell’Ucraina, compresa la possibilità di finanziare il sostegno militare, le entrate straordinarie derivanti dai beni russi bloccati”, quindi superando i dubbi sollevati anche da commentatori mainstream sul rischio che un simile atto porti un indesiderato scompiglio nelle “regole” che tutelano il mercato e il movimento dei capitali. Spinge per un rafforzamento ed una piena attuazione delle sanzioni alla Russia, anche colpendo paesi terzi che ne facilitano l’elusione. Pur nella impossibilità di impedirlo totalmente – rendendosi conto della complessità e dell’intreccio degli interessi economici in gioco – il documento raccomanda di limitare “al massimo” l’accesso della Russia “a prodotti e tecnologie sensibili che hanno rilevanza nel campo di battaglia”. Ribadisce la richiesta agli Stati membri di aumentare la spesa militare. Prospetta apertamente l’utilizzo della Banca europea per gli investimenti per fornire risorse e strumentazione finanziaria al fine di supportare l’ingente aumento delle spese belliche.
Come si vede le previsioni e gli strumenti di intervento economico si concentrano sulle spese militari. Con un facile, quanto terribile, scambio di consonanti, i famosi Eurobond, di cui si era tanto parlato, si tramutano di colpo in Eurobomb. E’ l’intero sistema delle imprese europee che deve rispondere alle nuove esigenze belliche. Lo chiariscono in particolare tre punti importanti sottolineati dal documento conclusivo. Il primo riguarda l’incentivazione della “ulteriore integrazione del mercato europeo della difesa in tutta l’Unione, agevolando l’accesso alle catene di approvvigionamento della difesa, in particolare per le Pmi e le società a media capitalizzazione, riducendo la burocrazia”. Il secondo punto riguarda la necessità di “garantire che la regolamentazione dell’Ue non costituisca un ostacolo allo sviluppo dell’industria della difesa”. Il terzo invita a “investire nella manodopera qualificata per fare fronte alle prevalenti carenze di manodopera e di competenze nell’industria della difesa”. Quindi via tutti i rimanenti lacci e lacciuoli ed ogni regolamentazione d’impaccio al fare presto se non subito. Il tutto – si preoccupano di precisare gli estensori del documento – deve risultare “complementare alla Nato, che rimane il fondamento della difesa collettiva per i suoi membri”

Come era considerata nel mondo la Ue
La puntualizzazione è tutt’altro che rituale, anche perché la costruzione di un simile sistema di guerra europeo mal si acconcia con la definizione un po’ riduttiva di Wolfgang Streeck per cui l’Ue sarebbe semplicemente “un ausiliario economico della Nato”. Appare più convincente dal punto di vista dell’analisi dinamica delle forze in campo la conclusione cui perviene Lucio Caracciolo e cioè che il ruolo della Nato e quello della Ue tendono negli ultimi anni a sovrapporsi, come risulta ancora più evidente in relazione al conflitto russo-ucraino. L’una prepara il terreno per l’avanzata dell’altra e viceversa. Anche se lascia un po’ straniti l’idea che Caracciolo ha recentemente avanzato, quella di “un’intesa bilaterale speciale fra Italia e Stati Uniti” al fine di tenere il nostro paese “sopra la linea di galleggiamento durante la Guerra Grande e prefigurare equilibri meno instabili nell’immediato dopoguerra”. Una idea che lo stesso autorevole direttore di Limes definisce “controintuitiva” e rispetto alla quale sollecita egli stesso “critiche e controproposte”. Ma prima è forse opportuno fare qualche passo indietro.
Certamente la guerra russo-ucraina non ha solo risuscitato la Nato da una condizione che aveva autorizzato Macron a stilare un affrettato certificato di morte cerebrale, ma ha messo in moto un’accelerazione dell’armamento europeo ad ogni livello. Tuttavia sarebbe sbagliato cogliere solo la tempistica di quest’ultima vigorosa corsa alle armi e non vederne i passaggi precedenti, pur se più lenti nel loro svolgersi, nel corso dei quali l’Ue è riuscita persino ad abbattere l’immagine che si era fatta nel mondo. Anche se si trattava di un’immagine più dettata da un forte wishful thinking che da una rigorosa analisi del processo di costruzione dell’Unione europea.
Per un non breve periodo in America latina molti vedevano nell’Europa la proiezione dei propri desideri di costruire l’utopia bolivariana, dove contrasti e confini sarebbero stati superati da intese politiche ed economiche nel nome del Sud del mondo. Se ne ha prova leggendo, in un recente libro, le parole dell’ex presidente uruguayano José “Pepe” Mujica, che manifesta il suo stupore e il suo spavento per l’impotenza dell’Europa di fronte al conflitto russo-ucraino: “Quello che più mi spaventa è l’impotenza dell’Europa, che è diventata un polo senza alcun potere decisionale autonomo. È incredibile. Ovviamente, la pace in Europa avrebbe dovuto includere la Russia e non segregarla, e invece quello che hanno fatto è stato spingerla dall’altra parte, la stanno regalando alla Cina. Da un punto di vista geopolitico, sono dei salami [ride], dei salami… Sì. Sono sbalordito dal declino politico dell’Europa, al punto da guardare con «nostalgia», tra virgolette, ai vecchi conservatori europei, che almeno vedevano un po’ più lungo e avevano un po’ più di dignità. Proprio come De Gaulle, il quale pensava che l’Europa dovesse arrivare fino agli Urali e intuì che un processo di pace doveva inevitabilmente includere anche la Russia all’interno dell’Europa. La stupida rottura da parte della Nato del Patto di Varsavia fu un passo privo della benché minima lungimiranza politica. Penso anche che, dietro tutto questo, vi sia una sorta di duello in cui gli Stati Uniti temono di perdere la supremazia a favore della Cina.”

Le radici del processo di militarizzazione europeo
E’ bene quindi non dimenticare che l’attuale fase di intensa militarizzazione della Ue che stiamo attraversando in questo sciagurato presente, affonda le sue radici in alcune tappe fondamentali che hanno determinato la costituzione materiale dell’unità europea. Una buona e non trascurabile parte del prolisso Trattato di Maastricht del 1992 è costituita dalla cosiddetta nuova Politica estera di sicurezza comune (Pesc). Una manciata di anni dopo, il Trattato di Amsterdam istituì il ruolo di Alto rappresentante per la Pesc. Il primo a ricoprire tale carica fu Javier Solana, che la condusse per dieci anni fino al 2009, dopo essere stato Segretario generale della Nato tra il 1995 e il 1999, incarnando così la fluidità delle cariche apicali fra Ue e Nato.
Il vero banco di prova delle effettive capacità della Ue di intervenire sullo scenario internazionale per mettere in atto quei principi e quei valori di pace, libertà, giustizia e democrazia così enfaticamente richiamati nei suoi atti costitutivi e ancor più nelle dichiarazioni dei suoi massimi esponenti, furono senz’altro le tragiche vicende dei Balcani a cavallo del secolo. E fu un disastro. Le parole di Perry Anderson esprimono un giudizio tanto severo quanto giusto e inequivocabile: “Beneficiaria della Pax americana piuttosto che progenitrice della stessa, l’Unione ha affrontato la sua prima prova come vero e proprio custode della pace in Europa dopo la guerra fredda. Fallì miseramente, non impedendo ma alimentando la guerra nei Balcani, poiché la Germania appoggiò la secessione slovena dalla Jugoslavia, il colpo che innescò i successivi conflitti omicidi che la Ue, trascinata sulla scia di Helmut Kohl, si dimostrò incapace di moderare o di far cessare. Ancora una volta non è stata Bruxelles, ma Washington a decidere finalmente il destino della regione. Anche l’allargamento dell’Unione agli ex paesi del Patto di Varsavia, la sua grande conquista storica, ha seguito le orme degli Stati Uniti, la loro inclusione nella Nato prima del loro ingresso nella Ue”

I bombardamenti sulla Serbia
Infatti l’intervento aereo contro la Serbia costituì una rottura delle già fragili regole che in qualche modo caratterizzavano l’ordine mondiale di allora. A tal punto che un fine giurista come Luigi Ferrajoli poteva mettere in fila tutte le violazioni che venivano commesse nei confronti di Costituzioni, Trattati, Carte costitutive, Convenzioni, fino a profilare una sorta di colpo di stato internazionale: “Innanzitutto la violazione della Costituzione italiana che all’articolo 11 bandisce la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali e all’articolo 78 richiede che la guerra (di difesa) sia deliberata dalle Camere. In secondo luogo la violazione della Carta dell’Onu, che non solo vieta la guerra ma prescrive ‘mezzi pacifici’ volti ‘a conseguire la composizione e la soluzione delle controversie internazionali, a cominciare dal negoziato ad oltranza … In terzo luogo la violazione del trattato istitutivo della Nato, che configura l’alleanza come esclusivamente difensiva e vincolata alla carta dell’Onu … In quarto luogo [la violazione] dello statuto della Corte penale internazionale … Infine le violazioni delle convenzioni di Ginevra, in base alle quali sono crimini di guerra i bombardamenti delle popolazioni civili”.
Tutto ciò, è bene ribadirlo, non sarebbe potuto avvenire senza la direzione diretta, non solo supervisione, da parte degli Usa. Come ha giustamente sottolineato Domenico Gallo “Il retroterra dell’attacco dell’Alleanza atlantica alla Serbia, scattato il 24 marzo 1999, era costituito dal nuovo ruolo strategico militare che gli Stati Uniti avevano concepito per la Nato dopo la fine della Guerra fredda”.
Per quanto riguarda il nostro paese il via libera all’utilizzo delle basi italiane per il decollo dei bombardieri, venne offerto dal governo D’Alema. L’insieme dell’operazione venne guidata da Francesco Cossiga che riteneva che la sinistra, quella rappresentata allora dai Ds, avrebbe fatto cose che neppure la destra avrebbe potuto compiere senza provocare e attirarsi contro, se non una sollevazione popolare, certamente una lunga e forte contrapposizione nelle istituzioni e soprattutto nelle piazze. Lo dice esplicitamente Carlo Scognamiglio, allora ministro della Difesa, in una dichiarazione a un quotidiano, in polemica con James Rubin, ex portavoce di Madeleine Albright : “A Rubin sfugge che in Italia avevamo dovuto cambiare governo proprio per fronteggiare gli impegni politico-militari che si delineavano … Prodi ad ottobre aveva espresso una disponibilità di massima all’uso delle basi italiane, ma per la presenza di Rifondazione nella sua maggioranza non avrebbe potuto impegnarsi in azioni militari. Per questo il senatore Cossiga ed io ritenemmo che occorreva un accordo chiaro con l’on. D’Alema” e l’accordo in sintesi si articolava in due parti: “la prima era il rispetto dell’impegno per l’euro […] la seconda era il vincolo di lealtà alla Nato: l’Italia avrebbe dovuto fare esattamente ciò che la Nato avrebbe deciso di fare”. E così fu.
La guerra dei Balcani convinse le elite europee che era necessario imprimere una nuova svolta nel campo della difesa comune, naturalmente senza uscire dal quadro della sudditanza nei confronti della Nato e degli Usa. Così nel 2004 nasce L’Agenzia europea per la difesa (Aed), attualmente presieduta da Josep Borrel con sede a Bruxelles, il cui compito è quello di permettere ai 27 Stati membri dell’Ue di sviluppare le loro risorse militari, di stabilire accordi anche con paesi extra Ue (come è avvenuto per Norvegia, Serbia, Svizzera e Ucraina), avendo concluso un accordo amministrativo con il dipartimento della Difesa degli Stati Uniti che prevede una maggiore cooperazione transatlantica nel campo della difesa in settori specifici, compreso lo scambio di informazioni. [segue]

Elezioni Europee. SOS per la Lista Pace Terra Dignità

Guardate questi sondaggi aggiornati al 15 c.m. da La7:
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Soffermiamo l’attenzione sui dati riguardanti Pace Terra Dignità (1,8) e Verdi Sinistra (4,1), due liste a cui teniamo molto. La prima “Pace Terra Dignità”, proposta da Michele Santoro e Raniero La Valle si prevede decisamente sotto il risultato del 4%, quota minima necessaria per eleggere parlamentari europei; la seconda “Verdi Sinistra” di poco sopra tale quota.
Pur considerato che i sondaggi possono sbagliarsi e, ancora, che il Sondaggio proposto dà atto che il 38% degli intervistati non risponde, presumibilmente perché indeciso, con possibile propensione all’astensione, resta la preoccupazione che in questo settore della sinistra si verifichi una dispersione di voti, terribilmente probabile per la lista “Pace Terra Dignità”. Occorre scongiurare questo possibile esito. Per questo chiediamo che i responsabili delle due liste trovino un accordo tecnico per presentarsi uniti alle elezioni, con ragionevole ampia probabilità di centrare l’obbiettivo del quorum. E’ una proposta. Sarebbe davvero una sciagura che una o tutt’e due le liste non trovassero una tribuna per diffondere le ragioni della Pace nel futuro assetto istituzionale dell’Unione Europea, pericolosamente volto, purtroppo qualunque sia il risultato elettorale, a una politica guerrafondaia. E’ evidente che l’onere maggiore di un tale accordo tecnico ricadrebbe sul Partito dei Verdi/Sinistra, che ragionevolmente centrerebbe il quorum, seppure in una zona pericolosamente border line. Aspettiamo una generosa risposta da ambedue gli schieramenti.

Basta con la pazzia della guerra

img_6448L’Anpi contro la guerra, per la trattativa subito
16 Marzo 2024

Nota della Segreteria nazionale ANPI [su Democraziaoggi]

“Spira un mortale vento di follia. Non basta la strage di civili israeliani da parte di Hamas. Non basta l’eccidio ininterrotto di oltre 30mila civili palestinesi da parte di Netanyahu, di cui chiediamo con forza l’immediata cessazione. L’escalation delle reciproche minacce a partire dalla guerra in Ucraina, che prosegue con la […]
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Chiesadituttichiesadeipoveri News

logo76Newsletter n.331 del 28 febbraio 2024

DEPORRE I POTENTI DAI TRONI

Cari amici,
ieri mattina ci siamo svegliati e abbiamo trovato che il presidente Macron aveva riunito attorno a un grande tavolo più di venti capi di Stato e di governo dei Paesi europei (Germania, Spagna, Inghilterra in testa) e il nostro sottosegretario Ciriello, per chiedere a tali Stati di disporsi a partecipare con le loro Forze Armate alla guerra d’Ucraina per sconfiggere la Russia. Ha aggiunto che altrimenti molti di tali Paesi, seduti attorno a quel tavolo, prima o poi sarebbero stati invasi. Formulando tale minaccia il capo francese dà per scontato, all’insaputa di governi, Parlamenti e popoli, che l’Unione europea sia in guerra con la Russia e che questa guerra debba concludersi con la sua disfatta. Che dopo 79 anni di tregua, che non è mai riuscita a diventare vera pace, il popolo europeo si svegli una mattina scoprendo di essere di nuovo gettato in una guerra che come la precedente, cominciata con i patti e le nefaste dichiarazioni di guerra della Germania e dell’Italia, non potrebbe che tradursi in una guerra mondiale, è cosa che fino a ieri sarebbe stata considerata impensabile e inaudita. L’Ucraina ha tutto il diritto, anche se non il vanto, di decidere per legge di non voler uscire dalla guerra con un negoziato e una ricomposizione dei rapporti transfrontalieri con il suo inquietante vicino, ma una Potenza come la Francia, che nella sua storia ha soggiogato popoli interi, non può arrogarsi in un sussulto di onnipotenza il diritto di trascinare il mondo in una definitiva rovina; e ciò quando sono in corso già altre guerre e addirittura processi per genocidio.

Costituente Terra – Chiesa di Tutti Chiesa dei Poveri

b8d4f079-0a9d-4306-b131-9b630a570a4ecostituente-terra-logo Costituente Terra Newsletter n. 142 del 21 dicembre 2023 – Chiesadituttichiesadeipoveri Newsletter n.323 del 21 dicembre 2023

DURANTE GAZA
LA VIOLENZA DI DIO

Cari amici,

Spes contra Spem

img_5654Lettera, in extremis, a Gesù bambino.
di Gianni Loy
Non ho vaghezza di aprire il pacchetto contenente il regalo di Natale – ormai imminente, giorno più giorno meno –. Già immagino cosa mi aspetti, cosa ci aspetta!
Sembra fatale, inevitabile che, per una serie di ragioni – sulle quali non spenderò neppure una parola – l’auspicio che il prossimo governo della regione, della Nazione sarda, sia di segno progressista e di sinistra, non sia avvererà. I re magi porteranno i loro doni a governanti di altro segno. Subito dopo, mi sovvengono le parole di un Santo che andava predicando che la vera speranza è quella che si coltiva quando non c’è più alcuna speranza.
Non so se quel Santo avesse ragione, ma vorrà dire che, ad onta di ogni funesto presagio, mi rimane – voglio che mi rimanga – almeno un briciolo di speranza, la speranza che all’interno pacchetto che apriremo tra qualche giorno ci sia, seppure in extremis, una buona notizia.
L’idea di recarmi alle urne quando il nostro gesto avrebbe solo il significato di dare un voto in più o in meno a due contendenti di un’area contigua, che lo inseriranno nella loro contabilità solo per affermare di aver avuto ragione, non solo non mi esalta ma mi deprime, persino mi umilia.
Sia ben chiaro: avrei dato – darei – il mio voto ad entrambi o a ciascuno dei due che in questa vigilia di Natale se lo contendono – il voto mio e di altri – senza alcun tentennamento. L’uno lo conosco, ritengo che in ordine di tempo sia stato l’ultimo presidente di valore, di grande valore – al di là delle rappresentazioni e dei distinguo che lo accompagnano – e penso che un suo ritorno alla guida della regione sarebbe utile e auspicabile. L’altra non la conosco, nondimeno tutti gli amici e compagni (al maschile e femminile) che – con più attenzione – seguono le vicende della politica nostrana mi forniscono elementi che m’inducono a sostenere, senza tentennamenti, una sua candidatura.
Ma ciò che non desidero, ciò che non voglio, è che mi venga chiesto di scegliere tra i due.

La buona Politica per le attese dei sardi*

7112f1f9-6901-45b5-b7eb-73a966715b72di Franco Meloni
Il tema: “Sulla base di una seria analisi della situazione socio-economica della Sardegna, quali provvedimenti dovremo assumere per un suo futuro migliore?”. Svolgimento per noi arduo, per spazio non disponibile e carenza di competenze. E allora? Facciamo così: risolviamo subito la questione dell’analisi della situazione sarda condividendo quella del Rapporto Crenos 2023 [1], a cui rinviamo.

La sussidiarietà: un tema importante per la campagna elettorale

img_3442Un contributo.
Sul concetto di sussidiarietà ci sembra utile fornire sintetici elementi di chiarificazione.

Il sonno della ragione. Siamo contro Hamas e contro il Governo israeliano di Netanyahu espressione della destra e di religiosi fanatici. Siamo per la convivenza pacifica tra israeliani e palestinesi. Chiediamo il cessate il fuoco e la fine dei massacri.

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Palestina: «Un caso di genocidio da manuale e il fallimento dell’Onu». Un’Utopia che dobbiamo percorrere comunque: “Uno Stato unico basato sui diritti umani”.

di Craig Mokhiber
A distanza di tre settimane dall’attacco terroristico di Hamas e mentre si susseguono i bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza, il direttore dell’Ufficio di New York dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani dell’Onu, Craig Mokhiber, ha comunicato all’Alto Commissario le sue dimissioni, dopo oltre trent’anni di servizio. La lettera di dimissioni è un duro atto di accusa contro le politiche dello Stato di Israele («Questo è un caso di genocidio da manuale. Il progetto coloniale europeo, etno-nazionalista e colonizzatore, in Palestina è entrato nella sua fase finale, verso la distruzione accelerata degli ultimi resti della vita indigena palestinese in Palestina»), la copertura ad esse assicurata dagli Stati Uniti, dal Regno Unito e dall’Unione Europea, la resa e il fallimento dell’Onu. È un documento che occorre conoscere anche per l’autorevolezza del suo autore. (la redazione di Volerelaluna 2 novembre 2023)
Caro Alto Commissario,

Il sonno della ragione. Siamo contro Hamas e contro il Governo israeliano di Netanyahu espressione della destra e di religiosi fanatici. Siamo per la convivenza pacifica tra israeliani e palestinesi. Chiediamo il cessate il fuoco e la fine dei massacri.

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Palestina: «Un caso di genocidio da manuale e il fallimento dell’Onu»
di Craig Mokhiber

A distanza di tre settimane dall’attacco terroristico di Hamas e mentre si susseguono i bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza, il direttore dell’Ufficio di New York dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani dell’Onu, Craig Mokhiber, ha comunicato all’Alto Commissario le sue dimissioni, dopo oltre trent’anni di servizio. La lettera di dimissioni è un duro atto di accusa contro le politiche dello Stato di Israele («Questo è un caso di genocidio da manuale. Il progetto coloniale europeo, etno-nazionalista e colonizzatore, in Palestina è entrato nella sua fase finale, verso la distruzione accelerata degli ultimi resti della vita indigena palestinese in Palestina»), la copertura ad esse assicurata dagli Stati Uniti, dal Regno Unito e dall’Unione Europea, la resa e il fallimento dell’Onu. È un documento che occorre conoscere anche per l’autorevolezza del suo autore. (la redazione di Volerelaluna 2 novembre 2023)

Caro Alto Commissario,

questa sarà la mia ultima comunicazione ufficiale a Lei in qualità di Direttore dell’Ufficio dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani di New York.

Scrivo in un momento di grande angoscia per il mondo, anche per molti dei nostri colleghi. Ancora una volta, stiamo assistendo a un genocidio che si sta svolgendo sotto i nostri occhi e l’Organizzazione che serviamo sembra impotente a fermarlo. Come persona che ha indagato sui diritti umani in Palestina fin dagli anni ’80, che ha vissuto a Gaza come consulente delle Nazioni Unite per i diritti umani negli anni ’90 e che ha svolto diverse missioni per i diritti umani nel Paese prima e dopo, questo mi coinvolge molto personalmente. Ho lavorato in questo Ufficio anche durante i genocidi contro i Tutsi, i musulmani bosniaci, gli Yazidi e i Rohingya. In ogni caso, quando la polvere si è posata sugli orrori perpetrati contro popolazioni civili indifese, è apparso dolorosamente chiaro che avevamo fallito nel nostro dovere di soddisfare gli imperativi di prevenzione delle atrocità di massa, di protezione dei vulnerabili e di denuncia delle responsabilità. E così è stato per le successive ondate di omicidi e persecuzioni contro i palestinesi durante l’intera vita delle Nazioni Unite.
Alto Commissario, stiamo fallendo di nuovo.

Come avvocato specializzato in diritti umani con oltre tre decenni di esperienza sul campo, so bene che il concetto di genocidio è stato spesso utilizzato abusivamente per scopi politici. Ma l’attuale massacro su larga scala del popolo palestinese, radicato in un’ideologia coloniale etno-nazionalista, in continuità con decenni di persecuzione ed epurazione sistematica, basata interamente sul loro status di arabi, e accompagnato da esplicite dichiarazioni d’intenti da parte dei leader del governo e dell’esercito israeliano, non lascia spazio a dubbi o discussioni. A Gaza, le case, le scuole, le chiese, le moschee e le istituzioni mediche dei civili sono state attaccate senza pietà, mentre migliaia di civili sono stati massacrati. In Cisgiordania, compresa Gerusalemme occupata, le case vengono confiscate e riassegnate in base alla razza e violenti pogrom dei coloni sono appoggiati da unità militari israeliane. In tutto il territorio regna l’apartheid.

Questo è un caso di genocidio da manuale. Il progetto coloniale europeo, etno-nazionalista e colonizzatore, in Palestina è entrato nella sua fase finale, verso la distruzione accelerata degli ultimi resti della vita indigena palestinese in Palestina. Inoltre, i governi degli Stati Uniti, del Regno Unito e di gran parte dell’Europa sono totalmente complici di questo orribile assalto. Non solo questi governi si rifiutano di adempiere ai loro obblighi di “garantire il rispetto” delle Convenzioni di Ginevra, ma di fatto stanno attivamente armando l’assalto, fornendo sostegno economico e di intelligence e dando copertura politica e diplomatica alle atrocità di Israele.

Allo stesso tempo, i media occidentali, sempre più succubi e filo-governativi violano apertamente l’articolo 20 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, disumanizzando continuamente i palestinesi per facilitare il genocidio, e trasmettendo propaganda di guerra e odio nazionale, razziale o religioso, di fatto incitando alla discriminazione, all’ostilità e alla violenza. Le società di social media con sede negli Stati Uniti sopprimono le voci dei difensori dei diritti umani e amplificano la propaganda pro-Israele. Le lobby israeliane e le GONGOS [pseudo ONG create o sponsorizzate dai governi per promuovere i loro interessi, ndt] molestano e diffamano i difensori dei diritti umani, e le università e i datori di lavoro occidentali collaborano con loro per punire chi osa alzare la propria voce contro le atrocità. Per questo genocidio, è necessario chiedere conto anche a loro, proprio come per radio Milles Collines in Ruanda.

In queste circostanze, la richiesta alla nostra organizzazione di un’azione giusta ed efficace è più grande che mai. Ma non abbiamo raccolto la sfida. Il potere protettivo del Consiglio di Sicurezza è stato nuovamente bloccato dall’intransigenza degli Stati Uniti, il Segretario Generale è sotto attacco per le proteste più blande e il nostro impegno per la difesa dei diritti umani è oggetto di un continuo attacco diffamatorio da parte di una rete organizzata di impunità online.

Le promesse illusorie e in gran parte insincere di Oslo hanno distolto per decenni l’Organizzazione dal suo dovere fondamentale di difendere il diritto internazionale, i diritti umani internazionali e la stessa Carta. Il mantra della “soluzione a due Stati” è diventato una barzelletta nei corridoi delle Nazioni Unite, sia per la sua assoluta impossibilità di fatto, sia per il suo totale fallimento nel rendere conto dei diritti umani inalienabili del popolo palestinese. Il cosiddetto “Quartetto” [gruppo creato nel 2002 a Madrid per favorire una soluzione pacifica al conflitto israelo-palestinese; comprende le Nazioni Unite, gli Stati Uniti, l’Unione europea e la Russia, ndt] non è diventato altro che una foglia di fico per l’inazione e per l’asservimento a uno status quo brutale. Il riferimento (scritto dagli Stati Uniti) agli “accordi tra le parti stesse” (al posto del diritto internazionale) è sempre stato un trasparente gioco di prestigio, progettato per rafforzare il potere di Israele sui diritti dei palestinesi occupati e diseredati.

Negli anni ’80 mi sono avvicinato a questa Organizzazione perché vi ho trovato un’istituzione basata su principi e norme, che si schierava decisamente dalla parte dei diritti umani, anche nei casi in cui i potenti Stati Uniti, Regno Unito ed Europa non erano dalla nostra parte. Mentre il mio governo, le sue istituzioni e gran parte dei media statunitensi continuavano a sostenere o giustificare l’apartheid sudafricana, l’oppressione israeliana e gli squadroni della morte centroamericani, l’ONU si schierava a favore dei popoli oppressi di quelle terre. Avevamo il diritto internazionale dalla nostra parte. Avevamo i diritti umani dalla nostra parte. Avevamo i principi dalla nostra parte. La nostra autorità era radicata nella nostra integrità. Ma ora non più.

Negli ultimi decenni, parti importanti delle Nazioni Unite si sono arrese al potere degli Stati Uniti e alla paura della lobby di Israele, abbandonando questi principi e ritirandosi dal diritto internazionale stesso. Abbiamo perso molto in questo abbandono, non da ultimo la nostra credibilità globale. Ma è il popolo palestinese ad aver subito le perdite maggiori a causa dei nostri fallimenti. È un’incredibile ironia storica che la Dichiarazione universale dei diritti umani sia stata adottata nello stesso anno in cui è stata perpetrata contro il popolo palestinese la Nakba [esodo forzato, ndt]. Mentre commemoriamo il 75° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, faremmo bene ad abbandonare il vecchio cliché secondo cui la Dichiarazione sarebbe nata dalle atrocità che l’hanno preceduta, e ad ammettere che è nata accanto a uno dei più atroci genocidi del XX secolo, quello della distruzione della Palestina. In un certo senso, i redattori promisero i diritti umani a tutti, tranne che al popolo palestinese. E ricordiamoci anche che le stesse Nazioni Unite hanno il peccato originale di aver contribuito a facilitare l’espropriazione del popolo palestinese, ratificando il progetto coloniale europeo che ha sequestrato la terra palestinese e l’ha consegnata ai coloni. Abbiamo molto da espiare.

Ma la via dell’espiazione è chiara. Abbiamo molto da imparare dalle posizioni di principio assunte nelle città di tutto il mondo negli ultimi giorni, quando masse di persone si sono schierate contro il genocidio, anche a rischio di percosse e arresti. I palestinesi e i loro alleati, i difensori dei diritti umani di ogni genere, le organizzazioni cristiane e musulmane e le voci ebraiche progressiste che dicono “non in nostro nome”, sono tutti in prima linea. Tutto ciò che dobbiamo fare è seguirli. Ieri, a pochi isolati da qui, la Grand Central Station di New York è stata completamente occupata da migliaia di ebrei, difensori dei diritti umani, che si sono schierati in solidarietà con il popolo palestinese e hanno chiesto la fine della tirannia israeliana (molti rischiando l’arresto). Così facendo, hanno eliminato in un attimo il punto di vista della propaganda hasbara israeliana (e vecchio tropo antisemita) secondo cui Israele rappresenta in qualche modo il popolo ebraico. Non è così. E, in quanto tale, Israele è l’unico responsabile dei suoi crimini. A questo proposito, è bene ribadire, nonostante le calunnie della lobby israeliana, che le critiche alle violazioni dei diritti umani di Israele non sono antisemite, così come le critiche alle violazioni saudite non sono islamofobe, le critiche alle violazioni del Myanmar non sono anti-buddiste, o le critiche alle violazioni indiane non sono anti-induiste. Quando cercano di metterci a tacere con le calunnie, dobbiamo alzare la voce, non abbassarla. Sono certo che converrà con me, Alto Commissario, che questo è il senso di dire la verità al potere.

Ma trovo anche speranza in quelle parti dell’ONU che si sono rifiutate di compromettere i principi dei diritti umani dell’Organizzazione, nonostante le enormi pressioni in tal senso. I nostri relatori speciali indipendenti, le commissioni d’inchiesta e gli esperti degli organi dei trattati, insieme alla maggior parte del nostro personale, hanno continuato a difendere i diritti umani del popolo palestinese, anche quando altre parti delle Nazioni Unite (anche ai livelli più alti) hanno vergognosamente chinato la testa al potere. In quanto custode delle norme e degli standard sui diritti umani, l’Alto Commissariato ha il particolare dovere di difenderli. Il nostro compito, a mio avviso, è quello di far sentire la nostra voce, dal Segretario generale all’ultima recluta delle Nazioni Unite, e orizzontalmente in tutto il sistema ONU, insistendo sul fatto che i diritti umani del popolo palestinese non sono oggetto di discussione, negoziazione o compromesso in nessun luogo sotto la bandiera blu.

Come dovrebbe essere, allora, una posizione basata sulle norme delle Nazioni Unite? Per cosa dovremmo lavorare se fossimo fedeli ai nostri ammonimenti retorici sui diritti umani e sull’uguaglianza per tutti, sulla responsabilità per i colpevoli, sulla riparazione per le vittime, sulla protezione dei vulnerabili e sulla responsabilizzazione dei titolari dei diritti, il tutto nell’ambito dello Stato di diritto? La risposta, a mio avviso, è semplice – se solo avremo la lucidità di vedere al di là delle cortine propagandistiche che distorcono la visione della giustizia a cui abbiamo prestato giuramento, il coraggio di abbandonare la paura e la deferenza nei confronti degli Stati potenti, e la volontà di alzare veramente la bandiera dei diritti umani e della pace. Certo, si tratta di un progetto a lungo termine e di una salita ripida. Ma dobbiamo iniziare ora o arrenderci a un orrore indicibile. Vedo dieci punti essenziali:

Azione legittima: in primo luogo, noi delle Nazioni Unite dobbiamo abbandonare il fallimentare (e in gran parte falso) paradigma di Oslo, la sua illusoria soluzione a due Stati, il suo impotente e complice Quartetto e la sua sottomissione del diritto internazionale ai dettami di una presunta convenienza politica. Le nostre posizioni devono basarsi in modo inequivocabile sui diritti umani e sul diritto internazionale.

Chiarezza di visione: dobbiamo smettere di fingere che si tratti semplicemente di un conflitto per la terra o la religione tra due parti in guerra e ammettere la realtà della situazione in cui uno Stato dal potere sproporzionato sta colonizzando, perseguitando ed espropriando una popolazione indigena sulla base della sua etnia.

Uno Stato unico basato sui diritti umani: dobbiamo sostenere l’istituzione di uno Stato unico, democratico e laico in tutta la Palestina storica, con pari diritti per cristiani, musulmani ed ebrei e, quindi, lo smantellamento del progetto coloniale profondamente razzista e la fine dell’apartheid in tutta la terra.

Lotta all’apartheid: dobbiamo reindirizzare tutti gli sforzi e le risorse delle Nazioni Unite alla lotta contro l’apartheid, proprio come abbiamo fatto per il Sudafrica negli anni ’70, ’80 e primi anni ’90.

Ritorno e risarcimento: dobbiamo riaffermare e insistere sul diritto al ritorno e al pieno risarcimento per tutti i palestinesi e le loro famiglie che attualmente vivono nei territori occupati, in Libano, Giordania, Siria e nella diaspora in tutto il mondo.

Verità e giustizia: dobbiamo chiedere un processo di giustizia transitoria, facendo pieno uso di decenni di indagini, inchieste e rapporti delle Nazioni Unite, per documentare la verità e garantire la responsabilità di tutti i colpevoli, il risarcimento di tutte le vittime e i rimedi per le ingiustizie documentate.

Protezione: dobbiamo fare pressioni per il dispiegamento di una forza di protezione delle Nazioni Unite dotata di risorse adeguate e di un forte mandato per proteggere i civili dal fiume al mare [dal fiume Giordano alla costa del Mediterraneo, ndt].

Disarmo: dobbiamo sostenere la rimozione e la distruzione delle massicce scorte di armi nucleari, chimiche e biologiche di Israele, per evitare che il conflitto porti alla distruzione totale della regione e, forse, anche oltre.

Mediazione: dobbiamo riconoscere che gli Stati Uniti e le altre potenze occidentali non sono in realtà mediatori credibili, ma piuttosto parti effettive del conflitto, che sono complici di Israele nella violazione dei diritti dei palestinesi, e dobbiamo affrontarli come tali.

Solidarietà: dobbiamo spalancare le nostre porte (e le porte del Segretario Generale) alle legioni di difensori dei diritti umani palestinesi, israeliani, ebrei, musulmani e cristiani che sono solidali con il popolo palestinese e con i suoi diritti umani e fermare il flusso incontrollato di lobbisti israeliani negli uffici dei leader delle Nazioni Unite, dove sostengono la continuazione della guerra, della persecuzione, dell’apartheid e dell’impunità e diffamano i nostri difensori dei diritti umani per la loro difesa di principio dei diritti dei palestinesi.

Ci vorranno anni per raggiungere questi obiettivi, e le potenze occidentali ci combatteranno ad ogni passo, quindi dobbiamo essere saldi. Ora, anzitutto, dobbiamo lavorare per un cessate il fuoco immediato e la fine del lungo assedio su Gaza, opporci alla pulizia etnica di Gaza, Gerusalemme e Cisgiordania (e altrove), documentare l’assalto genocida a Gaza, contribuire a portare massicci aiuti umanitari e per la ricostruzione ai palestinesi, prenderci cura dei nostri colleghi traumatizzati e delle loro famiglie e lottare con tutte le forze per un approccio attento ai principi negli uffici politici delle Nazioni Unite.

Il fallimento dell’ONU in Palestina non è un motivo per ritirarsi. Piuttosto, dovrebbe darci il coraggio di abbandonare il paradigma fallimentare del passato e di abbracciare pienamente un percorso più basato sui principi. Come Alto Commissariato, uniamoci con coraggio e orgoglio al movimento anti-apartheid che sta crescendo in tutto il mondo, aggiungendo il nostro logo alla bandiera dell’uguaglianza e dei diritti umani per il popolo palestinese. Il mondo ci guarda. Tutti noi dovremo rendere conto della nostra posizione in questo momento cruciale della storia. Schieriamoci dalla parte della giustizia.

La ringrazio, Alto Commissario Volker, per aver ascoltato questo ultimo appello dalla mia scrivania. Tra pochi giorni lascerò l’Ufficio per l’ultima volta, dopo oltre tre decenni di servizio. Ma non esitate a contattarmi se potrò esservi utile in futuro.

28 ottobre 2023

Cordialmente

Craig Mokhiber

L’originale della lettera può leggersi al link https://volerelaluna.it/wp-content/uploads/2023/11/Lettera-Craig-Mokhiber-a-Alto-commissario-ONU-diritti-umani.pdf. La traduzione è opera della redazione .

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craig-mokhiberCraig Mokhiber è direttore dell’ufficio di New York dell’Alto Commissario per i diritti umani (OHCHR). Avvocato e specialista in diritto internazionale, politica e metodologia sui diritti umani, presta servizio alle Nazioni Unite dal 1992. In qualità di capo del gruppo per i diritti umani e lo sviluppo negli anni ’90, ha guidato lo sviluppo del lavoro originale dell’OHCHR sugli approcci basati sui diritti umani alla definizioni di povertà sensibili allo sviluppo e ai diritti umani. Ha anche ricoperto il ruolo di consulente senior per i diritti umani delle Nazioni Unite sia in Palestina che in Afghanistan, ha guidato il team di specialisti dei diritti umani assegnato alla missione ad alto livello in Darfur, ha guidato l’Unità per lo stato di diritto e la democrazia e ha servito come capo dell’Ufficio economico e delle questioni sociali e capo della sezione per lo sviluppo e le questioni economiche e sociali presso la sede dell’OHCHR.
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