Risultato della ricerca: TTIP

Il CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement) è una positiva evoluzione dell’inaccettabile TTIP (Transatlantic Trade and Investiment Partnership). Ma per la Vallonia (Belgio) non fidarsi è meglio. Approfondiamo

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di Vanni Tola.
CRISI DEI TRATTATI INTERCONTINENTALI PER I COMMERCI.
LA VALLONIA BLOCCA LA FIRMA DELL’ACCORDO DI LIBERO SCAMBIO TRA UNIONE EUROPEA E CANADA.

La firma del Trattato doveva avvenite nella solenne cerimonia prevista per il giorno 27 Ottobre a Bruxelles con la presenza del primo ministro canadese Justin Trudeau.
Dopo la battuta di arresto delle trattative riguardanti il TTIP (Transatlantic Trade and Investiment Partnership) è la volta dell’accordo di libero scambio tra Unione Europea e Canada. Era tutto pronto per la cerimonia solenne del 27 Ottobre che avrebbe reso operativo il Trattato, quando la ferma opposizione della Vallonia ha mandato tutto all’aria. La Repubblica Federale Belga non potrà sottoscrivere l’accordo in assenza del consenso unanime delle regioni che ne fanno parte. Dal suo canto il parlamento della Vallonia, la regione francofona del Belgio, ha di fatto bloccato il trattato di libero scambio tra l’Unione Europea e il Canada, intralciando i lavori del summit di Bruxelles sul tema. A pochi giorni dalla conclusione delle trattative fra le parti, il capo del governo della regione, Paul Magnette, ha fatto sapere che il CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement) è stato sì migliorato con le diverse dichiarazioni interpretative che la Commissione Europea ha aggiunto all’accordo, ma che nonostante ciò “è insufficiente a rispondere alle preoccupazioni espresse dalla Vallonia”. Molto poche le speranze che nuove modifiche della bozza di trattato possano rilanciare l’accordo. Una prima considerazione è d’obbligo. Gli accordi intercontinentali e i grandi trattati tra le potenze economiche internazionali non sono più un tabù né un inevitabile destino da accettare con rassegnazione. Le grandi manifestazioni di massa contro il TTIP svoltesi nel mondo e l’opposizione di una piccola ma determinata regione del Belgio possono incidere pesantemente su tali importanti trattative. Sono in atto nel mondo complesse manovre di riposizionamento delle grandi potenze capitalistiche intercontinentali che hanno al centro la questione di una nuova regolamentazione dei commerci transnazionali, l’allargamento dei mercati, la ridefinizione di quelle che un tempo si chiamavano “aree di influenza” delle grandi nazioni. Il CETA si colloca in tale contesto.
L’accordo economico e commerciale globale (CETA) è un trattato tra l’UE e il Canada negoziato di recente che, nelle intenzioni dei proponenti, dovrebbe offrire alle imprese europee nuove e migliori opportunità commerciali in Canada e sostenere la creazione di posti di lavoro in Europa. Tra gli obiettivi specifici si rileva l’eliminazione dei dazi doganali, l’abolizione delle restrizioni nell’accesso agli appalti pubblici, l’apertura del mercato dei servizi, l’offerta di condizioni di investimento prevedibili e la prevenzione di copie illecite di innovazioni e prodotti tradizionali dell’UE. I negoziatori promettono esplicitamente che l’accordo rispetterà pienamente le norme europee in settori quali la sicurezza alimentare e i diritti dei lavoratori e fornirà le garanzie necessarie per far sì che i vantaggi economici ottenuti non vadano a scapito della democrazia, dell’ambiente o della salute e della sicurezza dei consumatori. Come tutti i trattati internazionale, anche il CETA è presentato come una lunga e articolata serie di buoni proponimenti e di vantaggi per le parti contraenti che naturalmente devono essere sottoposti, prima della accettazione, al vaglio critico della ragione, della logica e delle reali ricadute che il Trattato avrà nelle diverse realtà regionali. In sintesi il CETA, se approvato, avrebbe dovuto contribuire a stimolare la crescita e l’occupazione in Europa eliminando tutti i dazi sui prodotti industriali e facendo risparmiare agli esportatori europei circa 600 milioni di euro l’anno. Le imprese dell’UE avrebbero potuto presentare offerte per gli appalti pubblici in Canada a tutti i livelli di governo, includendo per la prima volta anche le amministrazioni provinciali che, in tale Paese, sono responsabili di una parte consistente della spesa pubblica. - SEGUE -

Impegnati per il NO

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di Vanni Tola
NO NO NOOOReferendum Costituzionale: Le ragioni del NO spiegate in un intervento di Raniero La Valle (pubblicato dalla rivista Micromega).

Raniero La Valle 3Un saggio di Raniero La Valle non può certamente essere riassunto o condensato, deve assolutamente essere letto integralmente e con la dovuta attenzione. Lo sforzo del lettore sarà però ampiamente ripagato dalla chiarezza espositiva e dallo spessore culturale del ragionamento che La Valle sviluppa in modo articolato e coerente, tale da far comprendere le reali motivazioni politiche che hanno portato alla necessità di questa riforma costituzionale.

Mi limiterò pertanto a elencare brevemente i punti cardine del saggio di Raniero La Valle che costituiscono l’asse portante dalla sua indicazione a favore del NO al referendum. A parere di Raniero La Valle la situazione attuale è caratterizzata da una serie di fenomeni di grande importanza. I movimenti di migranti nel mondo, sessantadue milioni tra profughi, perseguitati e fuggiaschi, in giro per il mondo alla ricerca di una nuova vita. Qualcuno dice che nel 2050 i trasmigranti saranno 250 milioni.
E’ in corso una terza guerra mondiale non dichiarata, ma che fa vittime in tutto il mondo. Aleppo, la Siria, l’Iraq, l’Afganistan, la Palestina, da cinquant’anni prigione di un popolo nella propria terra. Fallisce il G20 ad Hangzhou in Cina. I grandi della terra non riescono a indurre neppure un ragionevole cessate il fuoco in Siria, per soccorrere la popolazione civile bombardata dagli aerei dei belligeranti. I Grandi della Terra: “ Non sanno che fare per i profughi, non sanno che fare per le guerre, non sanno che fare per evitare la catastrofe ambientale, non sanno che fare per promuovere un’economia che tenga in vita sette miliardi e mezzo di abitanti della terra, e l’unica cosa che decidono è di disarmare la politica e di armare i mercati, di abbattere le residue restrizioni del commercio e delle speculazioni finanziarie, di legittimare la repressione politica e la reazione anticurda di Erdogan in Turchia e di commiserare la Merkel che ha perso le elezioni amministrative in Germania”. L’Europa vede messa in crisi la sua stessa esistenza e non soltanto per l’uscita della Gran Bretagna dal consesso UE ma anche, direi soprattutto, perché si sta rivelando inconsistente il progetto stesso di Europa unita che non è finora riuscita ad andare oltre una discutibile unione monetaria. Il referendum costituzionale, presentato dai sostenitori del Si come il rimedio universale per tutti i mali dell’Italia, nasconde una verità differente che ci porta a darne una lettura in un contesto più ampio di quello territoriale italiano, referendum come espressione di un processo geopolitico in atto, guidato da grandi centri di potere internazionale, all’interno dei quali l’Italia e Renzi hanno un ruolo di pedine da manovrare, di collaboratori ubbidienti e sottomessi che devono facilitare i processi in atto. Quella che c’è raccontata dal Governo sarebbe quindi una verità di facciata. Il Referendum non servirebbe per risparmiare sui costi della politica. Non servirebbe per risparmiare sui tempi della politica, non assicurerebbe maggiore stabilità politica. - segue -

Mostri

bayer-logoAGRICOLTURA: ACCORDO FRA BAYER E MONSANTO. NASCE IL COLOSSO DEL FARMING MONDIALE.

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di Vanni Tola

La notizia era nell’aria. Si sapeva da qualche tempo che la multinazionale farmaceutica tedesca Bayer pensava di acquisire la Monsanto, il colosso mondiale della produzione di sementi e pesticidi. L’annuncio ufficiale dell’avvenuta fusione è arrivato insieme ai primi dati sull’operazione. Intanto i costi. Per impadronirsi della multinazionale americana Monsanto la Bayer sosterrà un costo di circa 66 miliardi di dollari. Un’operazione di grandi proporzioni che unisce due attività produttive molto differenti ma anche complementari. La Monsanto metterà a disposizione la propria consolidata leadership nella produzione di sementi e pesticidi e la piattaforma Climate Corporation (società recentemente acquisita da Monsanto che si occupa del miglioramento delle produzioni agricole attraverso un più efficiente utilizzo dei dati). La Bayer, dal suo canto, renderà disponibile la propria linea produttiva di Bayer Crop Protection per colture in tutte le aree geografiche di maggiore rilevanza al mondo. Insieme, le aziende avranno capacità innovative di primo piano e piattaforme tecnologiche molto evolute che nei piani a medio e lungo termine della Bayer dovranno accelerare l’innovazione dell’agricoltura fornendo ai propri clienti soluzioni potenziate per i problemi della produzione agricola e prodotti ottimizzati basati progetti analitici agronomici innovativi da supportare con le applicazioni di Digital Farming. La fusione dei due colossi, da sempre oggetto di denunce e azioni di contrasto delle organizzazioni che difendono la tutela dell’ambiente, darà vita ad un gruppo industriale con un fatturato di 67 miliardi di dollari l’anno. In questo modo Bayer aumenterà il fatturato derivante dal comparto agricolo dall’attuale 22 al 40 per cento. Una questione importante che ci interessa direttamente. Come si è arrivati alla stipulazione di quest’accordo? Quali sono gli antefatti che lo hanno reso possibile? Quali i rischi per l’agricoltura mondiale? L’interesse della Bayer per la Monsanto si è manifestato in concomitanza con le indecisioni e le incertezze manifestate dall’Unione Europea riguardanti la questione del glifosato, uno degli erbicidi più diffusi al mondo, e conferma molti dei timori manifestati da più parti contro la stipulazione del trattato TTIP che vive adesso un momento di crisi, (molti parlano ormai apertamente di fallimento delle trattative in corso tra i paesi contraenti). L’Unione vive una fase di forte pressione relativamente appunto all’atteso rinnovo del permesso di consentire l’uso dell’erbicida glifosato, che poi altro non è che una delle tante questioni aperte nella più generale trattativa sul Parternariato transatlantico sul commercio e gli investimenti (ovvero il TTIP). Discussioni e decisioni non di poco conto che potrebbero decidere cosa coltiveremo e mangeremo nei prossimi decenni. E’ in discussione infatti la possibilità di abbassare gli standard di qualità e sicurezza che fino ad ora hanno protetto l’ambiente e la salute dei cittadini europei introducendo pratiche molto più funzionali alle politiche e alle pratiche delle multinazionali del comparto primario e della chimica. Il pericolo rappresentato dalla fusione tra la Bayer e la Monsanto deriva appunto dal fatto che attraverso tale unione si va creando un monopolio potenzialmente in grado di intervenire negativamente a favore della riduzione sugli standard di protezione ambientale, di salute pubblica e di qualità delle produzioni agricole certificate in Italia e in Europa. Tempi cupi anche per l’agricoltura mondiale. Attualmente il settore agrochimico mondiale vale circa 85 miliardi di euro ed è controllato da poche imprese internazionali che tendono, con altre concentrazioni che stanno per realizzarsi, a diventare sempre più un ristretto oligopolio. Si parla, infatti, anche di possibili fusioni tra Syngenta-Chemchina e Dow Chemical-DuPont. L’unione Bayer – Monsanto, che si completerà entro il 2017, creerà al gruppo numero uno al mondo, che da solo controllerà il 24 per cento del mercato dei pesticidi e il 29 per cento di quello delle sementi. Quali potrebbero essere le probabili conseguenze di questa gigantesca operazione di concentrazione dei grandi gruppi agro-farmaceutici, è facilmente intuibile. Una delle principali è, senza dubbio, l’aumento dei prezzi, sia per i produttori sia per i consumatori, al quale si accompagnerà il calo dell’offerta e quindi anche della biodiversità. Come pure è probabile un maggiore impegno della tedesca Bayer nel comparto delle produzioni Ogm puntando sulla scomparsa del logo Monsanto diventato ormai un punto di riferimento importante degli oppositori agli organismi geneticamente modificati. Sia ben chiaro che qualora ciò accadesse scomparirebbe o sarebbe ridimensionato soltanto il marchio Monsanto, ma non di certo gli Ogm che rimarrebbero con tutte le loro contraddizioni.
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Referendum costituzionale: le ragioni del NO

imageRenzi, referendum, Europa: parla Paolo Maddalena, Corte Costituzionale

Ad Affaritaliani il Vice Presidente Emerito della Corte Costituzionale

Che ne pensa del referendum costituzionale e di come è stato gestito dalle parti, in particolare da Palazzo Chigi?
Innanzitutto occorre dire che la revisione costituzionale non giova alla popolo italiano ma alla finanza, e cioè alle multinazionali ed alle banche. La campagna per il referendum confermativo è stata gestita in modo menzognero dai sostenitori del SI’. Basti pensare che non si tratta di una semplice revisione della Costituzione ma della trasformazione della forma di governo, da una forma parlamentare ad una forma cripticamente presidenziale; che è assolutamente falso che ci sia una riduzione dei costi, se si tiene presente che la ragioneria generale dello Stato ha parlato di 51 milioni, un risparmio risibile di fronte ad un debito pubblico di 2.300 miliardi ed oltre di Euro, e che comunque non si giustificherebbe mai a carico del più importante organo dell’ordinamento democratico, e cioè il Parlamento; infine è assolutamente falso che la revisione costituzionale produca un’abbreviazione per la procedura di approvazione delle leggi: per convincersene è sufficiente leggere le 17 pagine della revisione costituzionale pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale dalle quali si evince che tutte le leggi possono passare all’esame del Senato mentre lo stesso Senato ha l’obbligo di intervenire sulle leggi che hanno ad oggetto 12 materie diverse con 12 diverse procedure; e le lungaggini non finiscono qui poiché i prevedibilissimi contrasti tra Camera e Senato dovrebbero essere risolti dai presidenti delle due Camere ed in caso di disaccordo dalla Corte Costituzionale con un allungamento di almeno un anno e mezzo.
Quanto al comportamento dei sostenitori del NO occorre rilevare che è necessario scuotere la generale indifferenza per questi problemi con un argomento forte, esplicitando cioè il fatto che questa riforma, come tutte le leggi di Renzi, come il TTIP, come il CETA, e come molti regolamenti e direttive europee (vedi da ultimo il bail-in) sono tutte a favore della finanza e contro gli interessi del popolo.
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TTIP

TTIP-aladin-300x171 bissedia di VannitolaGrande vittoria del movimento internazionale contro il trattato intercontinentale TTIP. L’accordo salta, i potentati economici Usa e Europa non hanno raggiunto gli obiettivi previsti. Il premier Renzi, che si era dichiarato disponibile a sottoscrivere il Trattato dovrà farsene una ragione. Non credo tuttavia che la partita sia terminata, i sostenitori del TTIP torneranno alla carica. Chi volesse saperne di più troverà diversi articoli in www.aladinpensiero.it
- La Germania: “Fallito il negoziato tra Usa e Ue sul Ttip”
Il vice cancelliere Gabriel: «Non possiamo accettare supinamente le richiesta americane». Su La Stampa/Economia online.

Attacco ai beni comuni

imagePortone 1 via Nuoro
di Alex Zanotelli, su Il Dialogo
Il profeta dell’Apocalisse descrive la Roma Imperiale come la BESTIA dalle sette teste che rappresentano i sette imperatori. Anche il nostro Sistema economico-finanziario è una Bestia dalle sette teste che sono i sette importanti trattati internazionali (NAFTA, TPP,TTIP, CETA, TISA, CAFTA, ALCA), siglati per creare un mercato globale sempre più liberista sotto la spinta delle multinazionali e della finanza che vogliono entrare nei processi decisionali delle nazioni.
I trattati che ci interessano più direttamente ora sono il CETA(Accordo Commerciale tra Canada e Europa), il TTIP (Partenariato Transatlantico per il commercio e per gli investimenti) e il TISA (Accordo sul commercio dei servizi).Il CETA sta per essere ormai approvato , nonostante le tante contestazioni soprattutto per certe clausole pericolose che contiene. Abbiamo però ottenuto una vittoria: il Trattato dovrà passare al vaglio dei Parlamenti dei 28 paesi della UE, prima di entrare in funzione. E questo ci fa sperare che venga così sconfitto. – segue –

Brexit mette all’angolo il Ttip: gli Usa perdono il principale alleato. Intesa sempre più difficile

stop TTIP mano loghettoLondra era il principale sostenitore dell’accordo di libero scambio tra gli Stati Uniti e l’Unione europea. Parigi alza un muro: “Dobbiamo essere fermi, non è un buon trattato, perché non fa gli interessi dell’Europa”. Da sciogliere i nodi degli appalti e dell’agricoltura. Dopo tre anni di trattativa ancora non esiste alcun testo consolidato, ma solo scambi di offerte

di GIULIANO BALESTRERI su La Repubblica online

MILANO – Brexit, l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, potrebbe mettere la parola fine al Ttip, il trattato di libero scambio tra Usa e Ue a cui la Casa Bianca e Bruxelles stanno lavorando dal 2013. Gli inglesi erano i primi sostenitori dell’intesa anche nella loro ottica di trasformare l’Unione europea in un’enorme area di libero scambio senza vincoli politici. Con l’esito del referendum, Londra si è chiamata fuori lasciando il pallino dei negoziati con Washington a Parigi e Berlino che sul trattato hanno già sollevato diversi dubbi. “Gli americani stanno perdendo uno dei paesi più favorevoli all’accordo” dice Chad Bown, ex economista della Banca mondiale. Di certo il tema sarà sul tavolo al Consiglio europeo in programma fino a domani: il presidente della Commissione, Jean Claude Juncker, ha chiesto ai governi un rinnovo del mandato per chiudere l’intesa, ma il referendum inglese ha rapidamente cambiato le priorità europee.
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Brexit?

vicoGaribaldi
Regno Unito: meglio fuori?

democraziaoggiGianfranco Sabattini su Democraziaoggi

Il 23 giugno i cittadini del Regno Unito dovranno esprimersi attraverso un referendum se continuare a fare parte dell’UE, oppure uscire. L’eventualità che il voto sia favorevole all’exit sembra preoccupare alcuni potenti della terra, per i danni che potrebbero derivare ai cittadini britannici, mentre scarsa o nulla è la valutazione del possibile exit dal punto di vista dell’interesse dell’Unione Europea.
A parere di Marco D’Eramo (”Una Brexit per il bene dell’Europa”, Micromega, 4/2016) e di alcuni economisti, l’exit è un bene, e l’”augurio di una separazione consensuale è tanto più sentito quanto più lo stato attuale dell’Unione è catatonico, in rotta accelerata verso l’implosione”; ciò perché, senza un’unanime determinazione di tutti Paesi membri dell’UE, il progetto dell’unione politica dell’Europa è destinato a sicuro fallimento. A parere di D’Eramo, è inevitabile che ciò accada, se non fra alcuni mesi, di certo fra alcuni anni, perché nessuno dei problemi considerati come le cause prime della crisi dell’Unione da tempo manca di essere in cima alle preoccupazioni delle classi politiche dei Pesi membri, in funzione di una possibile soluzione.
Non sono stati risolti i problemi posti dal governo dell’euro, nonostante siano tendenzialmente considerati l’ostacolo principale che impedisce agli Stati membri di procedere sulla via della completa unificazione politica dell’Unione; inoltre, non è stata risolta la questione delle frontiere e quella dei migranti, che stanno mettendo a dura prova soprattutto i Paesi mediterranei; non sono stati neppure affrontati i problemi nascenti dalla disparità delle politiche economiche, dei regimi fiscali, delle politiche monetarie e degli squilibri delle bilance commerciali e, per di più, neanche il problema dell’”assenza di legittimità democratica degli organi realmente decisionali dell’Europa”: Commissione, Consiglio e Banca Centrale Europea.
A parere di D’Eramo, perciò, la domanda che ci si dovrebbe porre, riguardo alla desiderabilità o meno della Brexit, dal punto di vista dell’interesse, posto che esista, dei rimanenti Paesi dell’Unione, è se la vittoria del “no” al referendum di giugno possa servire a risolvere i problemi dell’Europa appena elencati e se si desidera realmente superare lo status attuale dell’Unione, che la vede ridotta solo al ruolo di mercato comune.
Se si considera che, da sempre, la propensione britannica è stata quella di conservare lo status di mero mercato comune dell’Unione, esistono valide ragioni per star certi che la vittoria del “si” al referendum corrisponde, da parte dei popoli europei che ancora credono nella validità del progetto di un’Europa politicamente unita, all’augurio che il “si” possa realmente prevalere; ciò, perché la permanenza del Regno Unito all’interno dell’UE non servirà a risolvere nessuno dei problemi prima indicati, di vitale importanza per il futuro dell’Unione.
A far prevalere l’attenzione dei popoli europei nei confronti del Regno Unito è stato il fatto che, sin dall’inizio, la sua adesione, prima alla Comunità Europea, divenuta Unione col Trattato di Maastricht, è stata suggerita da motivazioni che hanno riguardato esclusivamente l’interesse britannico, costringendo, il resto dei Paesi membri ad accettare un’umiliante relazione asimmetrica, che è valsa a mettere su di un piedistallo più alto il Regno Unito rispetto agli altri Paesi. Al riguardo, non può essere dimenticato che la “Perfida Albione” ha sempre esercitato l’opzione di rinunciare, quando per sé conveniente, all’adozione delle regole votate dall’Unione per tutti i Pesi membri, negoziando, di volta i volta, a seconda degli interessi in gioco, numerosi “opt-out” dalla legislazione e dei Trattati europei.
Questa propensione trova conferma, per chi pensasse ancora conveniente la conservazione dell’adesione del Regno Unito all’UE, nelle parole pronunciate recentemente alla Camera dei Comuni da David Cameron: “Il nostro messaggio a tutti è che noi vogliamo un Regno Unito che abbia il meglio dei due mondi: tutti i vantaggi dei posti di lavoro e investimenti che derivano dall’essere nell’Unione Europea, senza gli svantaggi di essere nell’euro e delle frontiere aperte”. Nel 1979, il Regno Unito aveva rifiutato di entrare a fare parte del Sistema Monetario Europeo e, nello stesso anno, Margaret Thatcher ha preteso lo “sconto inglese” (British rebate), che ha consentito al suo Paese di pagare un contributo netto all’UE di gran lunga inferiore a quello degli altri Paesi (come, ad esempio, quello italiano, pari a 6,1 miliardi di euro, rispetto a quello inglese, di soli 3,8 miliardi).
Ogni volta, il motivo per cui il Regno Unito ha invocato l’”opt-out” per qualche deroga, è stata la convenienza a salvaguardare il suo ”eccezionalismo finanziario”, com’è accaduto con la decisione, nel 2012, di non aderire al patto di stabilità economica (fiscal compact). Il comportamento britannico di non aderire sinceramente al progetto europeo non ha avuto conseguenze negative solo sul piano economico-finanziario; esso è risultato deleterio anche con riferimento a materie non strettamente economiche, come nel caso in cui, tanto per citare il più grave, ha mancato di aderire all’accordo di Schengen e di concorrere alla soluzione del problema dei migranti.
Per tutte le ragioni sin qui esposte, un’uscita del Regno Unito sarebbe per l’Europa un vantaggio; essa varrebbe, infatti, ad impedire un ulteriore screditamento, agli occhi di buona parte dell’opinione pubblica europea, del progetto dell’unificazione politica del Vecchio Continente e ad evitare precedenti ai quali si ispirano nelle loro richieste di “opt-outing” molti altri Paesi, col rischio di trasformare l’Unione in una configurazione a “geometria variabile”, a seconda degli interessi di questo o di quel Paese giudicati meritevoli di una tutela unilaterale. Ma, a parere di D’Eramo, ci sarebbe un motivo più profondo a giustificazione della convenienza per l’Europa che il Regno Unito “se ne vada”.
A parte il problema del deficit di democrazia, che spinge i popoli europei ad essere governati da élite tecnocratiche, prive di ogni legittimazione politica, esponendo l’Europa al pericolo di una deriva autoritaria, sarebbe maturato il tempo in cui i popoli europei dovrebbero prendere coscienza – afferma D’Eramo – che “è proprio contro una sovranità popolare europea che ha sempre remato il Regno Unito”. L’ostilità più forte si sarebbe manifestata, non “contro la sopranazionalità dell’Europa, ma contro la democratizzazione”. Perché tutto questo? La risposta di D’Eramo, per quanto possa lasciare allibiti, per le sue implicazioni politiche, non è peregrina; ma, se per caso avesse un fondamento, e ciò che accade a livello globale sembra darne conferma, a tutti coloro che sono i più convinti europeisti non resterebbe che recitare un “de profundis” per la perdita di ogni possibilità che l’Europa possa fare un qualche passo avanti sulla via dell’integrazione politica, anche in un futuro remoto.
A parere di D’Eramo, se il Regno Unito è contro una maggiore integrazione europea, non è solo per via della necessità di salvaguardare l’eccezionalismo economico-finanziario della City londinese, ma anche per via del fatto che esso fa parte di un sistema di alleanze che configgono con le istanze europeiste. Intanto, come molti Stati dell’UE, il Regno Unito fa parte della NATO, l’alleanza atlantica il cui “dominus” è situato al di là dell’Atlantico; in secondo luogo, a differenza dei principali Stati europei aderenti alla NATO, come Francia, Germania o Italia e Spagna, il Regno Unito fa parte di un altro sistema di relazioni internazionali, indicato col nome di “Anglosfera”, che include, oltre al Regno Unito, gli USA, il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda e il “Nucleo Bianco dell’ex Commonwelth”; tutti questi Paesi agirebbero a tutela dei propri interessi come un’”unica potenza militare integrata”.
La contemporanea adesione alla Nato e all’Anglosfera, in presenza di una “relazione speciale” che lega Regno Unito e USA, definisce i limiti dell’adesione del Regno Unito all’Unione Europea, dettati dalla “ricerca del massimo equilibrio possibile tra tutti vincoli posti dalle diverse alleanze”. Se così stanno le cose, perché allora viene esercitata, paradossalmente anche da parte degli USA, una forte pressione perché il Regno Unito continui a rimanere nell’UE?
L’interpretazione della risposta è lasciata alla sensibilità politica di ogni soggetto autenticamente europeista: “Proprio per la sua appartenenza all’Unione, Londra – afferma D’Eramo – consente ai capitali, alle banche, alle istituzioni statunitensi [oltre che alle proprie] libero investimento e movimento in tutta Europa”; vantaggio che Regno Unito e USA perderebbero nel caso in cui al referendum prevalesse il “si” alla Brexit. Gli USA, infatti, hanno bisogno di un “cavallo di Troia” britannico dentro l’Europa, anche perché la docile sudditanza di questa agli interessi statunitensi è cambiata con la fine dell’URSS; se dopo il secondo conflitto mondiale erano gli USA ad avere interesse a che gli Stati europei si unissero in funzione antisovietica, dopo la fine della guerra fredda, essi hanno intravisto il pericolo che un’Europa unita possa divenire una loro concorrente ed che l’euro possa diventare una reale alternativa valutaria alla primazia del dollaro. Così, gli USA, al di là dell’apparente interesse a che l’Europa approfondisca il processo di integrazione politica, in realtà hanno il loro principale interesse nel tenere l’Europa in una posizione di stallo e di costante debolezza, perché tramite la testa di ponte del Regno Unito sul Vecchio Continente, essi possano continuare a massimizzare la soddisfazione dei propri interessi materiali; tale è, ad esempio, al momento, quello di fare accettare il Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti (TTIP: Transatlantic Trade and Investment Partnership), un accordo commerciale di libero scambio molto contestato, in corso di negoziato dal 2013 tra l’Unione europea e gli Stati Uniti d’America, con l’obiettivo dichiarato di integrare i mercati al di là e al di qua dell’Atlantico, riducendo i dazi doganali e rimuovendo, per una vasta gamma di settori, le barriere non tariffarie.
Ma di strabiliante non ci sarebbe solo l’apparente interesse degli USA a che il Regno Unito non abbandoni l’Europa; ironia della sorte, esisterebbe anche quello analogo della Germania e della Francia: la Germania, per l’interesse vitale a dotarsi di una dimensione finanziaria internazionale al servizio della propria crescita economica, come starebbe a dimostrare il perseguimento della fusione della Deutsche Börse di Francoforte con il London Stock Exchange; la Francia, per l’interesse a che il Regno Unito resti in Europa a bilanciare lo strapotere tedesco, che dilagherebbe senza limiti nell’ipotesi si verificasse la Brexit.
Giustamente, D’Eramo conclude che la ragioni che spingono tutti i Paesi apparentemente interessati a salvare il progetto politico, oltre che economico, di un’Europa unita non sono sostanzialmente credibili, in quanto si muovono a livello globale, secondo la “logica di potenza” di stampo ottocentesco, con strategie finalizzate a trovare, di momento in momento, l’equilibrio più conveniente per il loro sistema delle relazioni internazionali a geometria variabile, cambiando la valutazione dei loro esclusivi interessi in funzione dell’evoluzione della situazione contingente. Se l’intera analisi di D’Eramo corrisponde al vero, riguardo alla ripresa del processo di integrazione dell’Europa, e molti accadimenti di questi ultimi anni valgono a confermarla, c’è davvero di che essere preoccupati del fatto che della Brexit se ne parli solo in termini molto riduttivi.
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Sul medesimo tema
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Yes Minister
Perché direi “si” al Brexit? Un’opinione provocatoria a pochi giorni dal voto
di Nicola Ortu

By sardegnasoprattutto/ 15 giugno 2016/ Società & Politica/

Premetto da subito di essere un europeista convinto: ho preso parte a numerose iniziative europee, non ultima un periodo di volontariato per la campagna anti Brexit, a Londra. Durante questi mesi ho ascoltato entrambi gli schieramenti, ed ho sviluppato un’opinione che, per quanto radicale, potrebbe portare benefici ad entrambe le parti.

In una serie britannica di satira politica risalente agli anni ottanta, “Yes, Minister”, un particolare episodio fa ancora scalpore per la sua attualità. In una conversazione fra un ministro del governo di Sua Maestà ed un alto funzionario britannico, si dice che il Regno Unito ha avuto gli stessi obiettivi di politica estera per almeno gli ultimi cinquecento anni: creare una “Europa disunita”. Fra ironia e realtà, i pilastri della politica comunitaria britannica sono stati ben delineati da Richard G. Whitman nell’ultimo numero della rivista International Affairs:

1) mantenere ed ampliare il mercato unico

2) aumentare il numero di stati membri presenti all’interno dell’Unione

3) fermare o quantomeno rallentare il più possibile la formazione di un’unione politica

4) fare in modo che Londra mantenga un ruolo decisionale nelle decisioni comunitarie a discapito dell’asse Parigi – Berlino.

Recentemente ho avuto modo di presenziare a numerosi eventi di ricerca e propaganda politica che si rifanno all’altra sponda ideologica del Brexit, ossia, le motivazioni degli euroscettici, sempre più numerosi in Inghilterra. Proprio nei giorni scorsi, mi ha scosso un evento organizzato dal Bruges Group – si definiscono un Think Tank neoliberista che si batte contro il federalismo europeo e la partecipazione britannica in un singolo stato europeo. Oratori della serata, due membri del parlamento britannico e Lord David Owen, ex segretario di stato e socialdemocratico peculiarmente a favore dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea.

In un’atmosfera da ideologia risalente più ai tempi della guerra fredda che al ventunesimo secolo, vengo accolto in una sala dopo aver pagato dieci sterline per entrare. Mi accomodo nelle prime file, pronto ad ascoltare. Mi guardo intorno: sono circondato da una gremita platea di anziani euroscettici e pochi giovanotti perbene in giacca e cravatta che hanno l’aria di non saper bene dove e perché si trovino lì, accompagnati dalle loro madri, e tutti facenti orgogliosamente vanto di grandi spille di latta che recitano la scritta “vote leave” (vota per uscire).

Di fronte a me, sul podio, quasi come una divinità da venerare, una fotografia in bianco e nero autografata di Margaret Thatcher, la lady di ferro, da cui il Think Thank trae ispirazione. In questa atmosfera surreale, sento parlare per un’ora di disegni europeisti volti a rubare la sovranità britannica, di burocrati che in quel di Bruxelles non farebbero altro che inculcare una narrativa deviata nelle menti dei funzionari britannici (il Community Method) e di un’Europa come nemico della gloriosa storia britannica. Lascio la sala per le otto, e mi infilo in un pub, gioca la Nazionale italiana agli europei di Francia.

Trasudano paura, i nazionalisti britannici, ma forse non sanno nemmeno loro per quale motivo. Non contano che, cercando di distruggere l’Unione Europea, potrebbero distruggere l’unione nazionale, con gli indipendentisti scozzesi già pronti a scendere per le strade in caso si esca dall’UE, e richiedere un nuovo referendum.

Attacchi ideologici di un gran disegno federalista aspettano chiunque abbia solo per un attimo intenzione di votare “remain” il 23 giugno, conditi da inneggi alla paura di un collasso economico dell’Eurozona, fra cui, quasi profeticamente, dicono che l’Italia potrebbe collassare sotto il peso del suo debito nel giro dei prossimi tre anni.

La platea è molto influenzabile, la classica espressione di un corpo sociale non informato: da un lato cupa, pensierosa, dall’altro euforica, quando si inneggia alla libertà dagli oppressori europei. Sembra di essere tornati a settanta anni fa, quando in Europa si combatteva tutti contro tutti, in cui si, era lecito definire i nostri vicini i nostri nemici, e la paura aveva ragione di penetrare le menti di giovani e vecchi.

Vorrei tanto che le paure di questi signori, attaccati alla grande storia e alla sovranità della loro patria come fanciulli alle loro madri durante un forte temporale, fossero almeno in parte fondate. Nessun disegno federalista è dietro l’angolo, almeno per ora. Hanno però ragione a dire che l’UE va cambiata, e lo dico anch’io, da convinto europeista.

L’Europa si nutre di integrazione, e non possiamo più aspettare i tempi di Londra. Comunque vada il 23 giugno, bisognerà rispettare il volere dei cittadini britannici come scelta democratica sovrana. Potessi, voterei leave, non tanto perché al Bruges Group siano riusciti a discostarmi dalle mie posizioni europeiste, ma proprio perché ho ancora a cuore il futuro dell’Europa.

Un’ulteriore integrazione su modello federalista, tanto ostacolata dal Regno Unito, allenterebbe non di poco alcuni dei grandi problemi di oggi, dai problemi di bilancio degli stati membri al fenomeno della duplicazione delle istituzioni comunitarie rispetto a quelle nazionali. Uniti nella diversità, recita il motto dell’Unione, con o senza Londra.

* Studente del Department of War Studies – King’s College London
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Brexit: l’uscita di Londra sarebbe un vantaggio per Berlino
18/06/2016 Luca De Biase sul suo blog

Gli stati contano sempre meno nella definizione delle scelte fondamentali? Le organizzazioni sovranazionali sono necessariamente incomprensibili e tecnocratiche, sicché finiscono per essere poco amate? Di certo le città si capiscono meglio. E dal punto di vista dell’emergente dimensione delle città, che cosa significa la Brexit?

Per esempio, significa che Berlino punterebbe ad attrarre gli investimenti in aziende tecnologiche che per adesso vanno a Londra. Queste contribuiscono con 180 miliardi di sterline all’economia britannica (BCG), oggi, ma Berlino è attraente: una startup ogni venti minuti, dice Gründen. La concorrenza tra le due città si giocherebbe anche sul piano del posizionamento rispetto al grande mercato europeo: dopo una Brexit, Berlino sarebbe migliore di Londra da questo punto di vista (Politico).

Le città sono una dimensione già abbastanza complessa ma relativamente comprensibile nel contesto della grande trasformazione economica, sociale, ecologica, culturale e politica. Possono diventare il vero centro propulsivo dell’adattamento innovativo della società umana. Ma non hanno ancora tutta la consapevolezza e il potere. Londra si trova a rischiare di subire la volontà della Britannia poco connessa e piuttosto retrograda che si trova fuori città. È più vicina ai mercati globali che a quelli locali della provincia inglese. Affronta le sue contraddizioni etniche prima di subirne la paralizzante paura come avviene in provincia. Ed evidentemente restituisce troppo poco localmente: chi vota per uscire non vede un vantaggio per sé nei vantaggi che Londra otterrebbe restando nella Ue.

Oggi si vota. Votate per chi si batte per “il popolo forte”

Ferula per 5 6 16lampadadialadmicromicro1Franco Meloni, direttore

Oggi si vota a Cagliari e in molte altre città e in molti paesi della Sardegna e dell’Italia. Sono elezioni amministrative, per eleggere sindaci e consiglieri comunali, ma, come sempre, hanno valore politico. E’ giusto così. Perché l’amministrazione di una città o di un paese non può prescindere dalla gestione più generale della cosa pubblica ai diversi livelli istituzionali. Per questo, per fare un esempio, è importante sapere cosa pensano i diversi candidati della riforma costituzionale Renzi-Boschi-Verdini e certo non ci piace chi si schiera a favore di tale nefasta riforma e neppure chi ambiguamente non si schiera subito per il NO. Per diverse ragioni. Una di queste è che se le modifiche passassero al vaglio referendario si verificherebbe un sostanziale mutamento nei rapporti tra le autonomie locali e lo Stato. Nel senso che si tornerebbe ad un accentramento di poteri in mano allo Stato, nella catena di progressiva spoliazione dei poteri dalle periferie verso un centro sempre più lontano, anche dallo Stato e dall’Unione Europea (si veda il progetto di Trattato del commercio internazionale che ci consegna alle Multinazionali). Le riforme istituzionali anche ai nostri livelli ridimensionano i principi di sussidiarietà, cioè della partecipazione dei cittadini al governo della cosa pubblica a partire dai livelli a loro più vicini, come l’amministrazione del proprio paese o della propria città. Occorre allora contrastare questo disegno, purtroppo pesantemente in attuazione. Lo dobbiamo fare e già lo facciamo, difendendo gli spazi di democrazia e di libertà, che in grande parte coincidono con la partecipazione popolare. Noi che siamo contro “l’uomo (o la donna) forte al comando” e avversi a ogni deriva autoritaria dell’“uomo (o della donna) della provvidenza”, siamo invece a favore del “popolo forte”, che attraverso gli strumenti della democrazia partecipa alla vita e ai destini della propria comunità. Questo principio della “democrazia partecipativa” è il vero discrimine tra le diverse proposte politiche presentateci. Per quanto riguarda Cagliari, la più convincente ci è sembrata quella di “Cagliari Città Capitale” che ha come candidato Sindaco Enrico Lobina. Crediamo (e auspichiamo) in un successo elettorale di questa Coalizione non solo per i programmi scritti nei siti web e nelle diverse pubblicazioni distribuite in questi giorni, ma per avere, personalmente e come Aladinews, seguito le molte iniziative in cui sono stati illustrati i contenuti delle proposte politiche (servizi sociali, abitazioni, immigrazioni, cultura, identità, strumenti di partecipazione, economia della città e della regione…), praticando l’ascolto della gente (una bocca per parlare e due orecchie per ascoltare). Ovviamente non essendo Aladinews una formazione politica, ma solo un piccolo giornale di opinione, votate chi volete, anche delle altre formazioni politiche, nelle quali sono presenti donne e uomini di valore, ma il nostro consiglio è di scegliere quanti attendibilmente continueranno a esserci dopo le elezioni e continueranno ad ascoltarvi/ci perché convinti che la sovranità appartiene al popolo, come recita in modo bello e chiaro la nostra (attuale) Costituzione repubblicana. Non deleghiamo a nessuno per quanto possibile il nostro futuro. In conclusione, pensando alla nostra Sardegna, ci piace riportare ancora una volta il pensiero di un grande patriota sardo, Giovanni Maria Angioy, che ci proietta in un possibile futuro migliore, a condizione di disporre di una classe dirigente (a tutti i Giovanni Maria Angioy Memoriale 2livelli) adeguata. Ed è quanto dobbiamo impegnarci a ricercare nella scelta delle persone migliori anche nell’odierna scadenza elettorale.
«Malgrado la cattiva amministrazione, l’insufficienza della popolazione e tutti gli intralci che ostacolano l’agricoltura, il commercio e l’industria, la Sardegna abbonda di tutto ciò che è necessario per il nutrimento e la sussistenza dei suoi abitanti. Se la Sardegna in uno stato di languore, senza governo, senza industria, dopo diversi secoli di disastri, possiede così grandi risorse, bisogna concludere che ben amministrata sarebbe uno degli stati più ricchi d’Europa, e che gli antichi non hanno avuto torto a rappresentarcela come un paese celebre per la sua grandezza, per la sua popolazione e per l’abbondanza della sua produzione.»
In calce riportiamo anche le linee programmatiche essenziali (4 grandi temi) che hanno caratterizzato la nostra presenza nella campagna elettorale, rammaricandoci di non aver conseguito l’obbiettivo di raggruppare in un’unica Coalizione le diverse liste al di fuori dei blocchi di potere del centro destra e del centro sinistra. Sarà per altre occasioni, che pur a breve si presenteranno. Almeno speriamo. (Franco Meloni, direttore di Aladinews)
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L’Italia si mobilita contro il trattato TTIP

TTIP dal Fatto quotidianosedia di VannitolaLa sedia
di Vanni Tola
Anche l’Italia si mobilita contro il trattato TTIP, una minaccia per la democrazia.

Una grande manifestazione di associazioni e sindacati ha segnato la presa di coscienza dell’Italia sulla minaccia rappresentata da trattati internazionali ratificati ed in attesa di ratifica, che rappresentano una minaccia per la democrazia, la salute, l’ambiente, i lavoratori, la qualità dei prodotti made in Italy, la proprietà intellettuale. Con ritardo rispetto alle principale capitali europee anche Roma si mobilita. Aladinnews si è occupata più volte dell’argomento con articoli di Vanni Tola che riproponiamo per chi volesse conoscere meglio i termini della vicenda.
- https://www.aladinpensiero.it/?p=40855.
- https://www.aladinpensiero.it/?p=47847.

Oggi si vota. Votate per chi credibilmente si batte per il “popolo forte”

Ferula per 5 6 16lampadadialadmicromicro1Oggi si vota a Cagliari e in molte altre città e in molti paesi della Sardegna e dell’Italia. Sono elezioni amministrative, per eleggere sindaci e consiglieri comunali, ma, come sempre, hanno valore politico. Perché l’amministrazione di una città o di un paese non può prescindere dalla gestione più generale della cosa pubblica ai diversi livelli istituzionali. Per questo, per fare un esempio, è importante sapere cosa pensano i diversi candidati della nefasta riforma costituzionale Renzi-Boschi-Verdini e certo non ci piace chi si schiera a favore della riforma e neppure chi ambiguamente non si schiera subito per il NO, perché tale modifica importante della nostra Costituzione se passasse al vaglio referendario comporterebbe un sostanziale mutamento nei rapporti tra le autonomie locali e lo Stato. Nel senso che si tornerebbe ad un accentramento di poteri in mano allo Stato, nella catena di progressiva spoliazione dei poteri dalle periferie verso un centro sempre più lontano, anche dallo Stato e dall’Unione Europea (si veda il progetto di Trattato del commercio internazionale che ci consegna alle Multinazionali). Le riforme istituzionali anche ai nostri livelli ridimensionano i principi di sussidiarietà, cioè della partecipazione dei cittadini al governo della cosa pubblica a partire dai livelli a loro più vicini, come l’amministrazione del proprio paese o della propria città. Occorre contrastare questo disegno, purtroppo pesantemente in attuazione. Lo dobbiamo fare e già lo facciamo, difendendo gli spazi di democrazia e di libertà, che in grande parte coincidono con la partecipazione popolare. Noi che siamo contro “l’uomo (o la donna) forte al comando” e avversi a ogni deriva autoritaria dell’ “uomo (o della donna) della provvidenza”, siamo invece a favore del “popolo forte”, che attraverso gli strumenti della democrazia partecipa alla vita e ai destini della propria comunità. Questo principio della “democrazia partecipativa” è il vero discrimine tra le diverse proposte politiche presentateci. Al riguardo, per quanto riguarda Cagliari, la più convincente ci è sembrata quella di “Cagliari Città Capitale” che ha come candidato Sindaco Enrico Lobina. Crediamo in un successo elettorale di questa Coalizione non solo per i programmi scritti nei siti web e nelle diverse pubblicazioni distribuite in questi giorni, ma per avere seguito le molte iniziative in cui sono stati illustrati i contenuti delle proposte politiche (servizi sociali, abitazioni, immigrazioni, cultura, identità, strumenti di partecipazione, economia della città e della regione…), praticando l’ascolto della gente (una bocca per parlare e due orecchie per ascoltare). Ovviamente non essendo Aladinews una formazione politica, ma solo un piccolo giornale di opinione, votate chi volete, anche delle altre formazioni politiche, nelle quali sono presenti donne e uomini di valore, ma il nostro consiglio è di scegliere quanti attendibilmente continueranno a esserci dopo le elezioni e continueranno ad ascoltarvi/ci perché convinti che la sovranità appartiene al popolo, come recita in modo bello e chiaro la nostra (attuale) Costituzione repubblicana. Non deleghiamo a nessuno per quanto possibile il nostro futuro. In conclusione, pensando alla nostra Sardegna, ci piace riportare ancora una volta il pensiero di un grande patriota sardo, Giovanni Maria Angioy, che ci proietta in un possibile futuro migliore, a condizione di disporre di una classe dirigente (a tutti i livelli) adeguata. Ed è quanto dobbiamo impegnarci a ricercare nella scelta delle persone migliori anche nell’odierna scadenza elettorale.
«Malgrado la cattiva amministrazione, l’insufficienza della popolazione e tutti gli intralci che ostacolano l’agricoltura, il commercio e l’industria, la Sardegna abbonda di tutto ciò che è necessario per il nutrimento e la sussistenza dei suoi abitanti. Se la Sardegna in uno stato di languore, senza governo, senza industria, dopo diversi secoli di disastri, possiede così grandi risorse, bisogna concludere che ben amministrata sarebbe uno degli stati più ricchi d’Europa, e che gli antichi non hanno avuto torto a rappresentarcela come un paese celebre per la sua grandezza, per la sua popolazione e per l’abbondanza della sua produzione.»
In calce riportiamo anche le linee programmatiche essenziali (4 grandi temi) che hanno caratterizzato la nostra presenza nella campagna elettorale, rammaricandoci di non aver conseguito l’obbiettivo di raggruppare in un’unica Coalizione le diverse liste al di fuori dei blocchi di potere del centro destra e del centro sinistra. Sarà per altre occasioni, che pur a breve si presenteranno. Almeno speriamo. (Franco Meloni, direttore di Aladinews)
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I 4 grandi temi.

LA DIGNITA’
Finalità della politica è prima di tutto il rispetto della dignità della persona umana. Ogni persona è portatrice di una inalienabile dignità che si manifesta nei diversi cicli di vita, a seconda della età, del sesso e delle condizioni personali di ciascuno.
La dignità non è retorica affermazione ideale, bensì fondamento di specifici diritti della persona ad aver garantite condizioni di vita adeguata, significa il diritto al lavoro, ad un ambiente salubre, all’assistenza in caso di necessità …
L’amministrazione pubblica è debitrice del rispetto di tali diritti e deve informare la propria azione al loro soddisfacimento.
Ciò comporta, tra l’altro, che la erogazione dei servizi fondamentali della persona, come la salute, l’acqua, i trasporti, l’istruzione …. non può essere delegata al mercato ed ai suoi movimenti speculativi, bensì garantita direttamente dall’Amministrazione pubblica.

LA PARTECIPAZIONE
Le attuali regole democratiche prevedono l’istituto della delega dei poteri, che originariamente appartiene al popolo, alle istituzioni che rappresentato i cittadini. Ciò tuttavia, non può e non deve significare cessione definitiva del diritto dei cittadini a partecipare della cosa pubblica. Partecipare significa, prima di tutto riaffermare il diritto all’autodeterminazione. I cittadini, anche, ma non solo, attraverso le istituzioni alle quali affidano l’amministrazione, conservano il diritto di decidere della propria appartenenza. Nonostante l’Amministrazione comunale non sia una sede deliberativa per molti dei diversi assetti istituzionali, tuttavia, con la sua sua azione, partecipa ad un processo di affermazione dell’autonomia. La partecipazione implica il diritto dei cittadini ad essere consultati nel momento delle scelte fondamentali che riguardano la vita della città. Implica il diritto alla creazione di organismi intermedi che consentano l’espressione della volontà popolare e, in taluni casi a realizzare forme di autogoverno compatibili con l’interesse collettivo che riguardino specifiche collettività territoriali o fondate su interessi comuni. Implica pertanto la disponibilità di strumenti (anche attraverso normazioni e pratiche innovative della sperimentata “democrazia partecipativa”), e strutture/spazi partecipativi, promossi e tutelati dall’amministrazione pubblica, che contribuiscono a renderla effettiva.

L’APPARTENENZA. SALVAGUARDIA DELLE PROPRIE CULTURE
La città, il suo territorio, la sua cultura, la sua aria, il suo mare, le sue strade, i suoi commerci appartengono ai suoi cittadini. La città evolve e si modifica, per un verso, per incontrollabili fenomeni esterni, di carattere economico, sociale, istituzionale, ma, per altro verso, come conseguenza delle scelte operate dai suoi amministratori.
Queste scelte, in grado di modificare le sembianze materiali ed immateriali della città, sono operate dai suoi amministratori. L’azione di governo della città deve essere effettuata in nome e per rispondere agli interessi dei propri cittadini e di chi la abita.
Poiché la città appartiene ai suoi cittadini, dovrà essere governata per rispondere al meglio alle loro aspirazioni collettive. Una città dove siano garantiti prima di tutto gli elementi fondamentali del vivere civile, a partire dalla qualità dell’aria, dell’igiene, della mobilità, l’istruzione, la salvaguardia della propria cultura, intese anche come volano per la creazione di opportunità che favoriscano l’attività economica ed il lavoro. Dovrà sempre essere chiaro che le politiche dell’Amministrazione dovranno sempre essere finalizzate alla edificazione non di una città da “vendere”, ma di una città da abitare.

LA SOLIDARIETA’
La città potrà vivere e svilupparsi solo se avrà capacità di aprirsi e di mostrare segni di solidarietà. Solidarietà interna, con i soggetti più deboli che richiedono maggiori attenzione e maggiori risorse nelle politiche sociali. Solidarietà territoriale, perché la città si apre all’area vasta e con essa condivide l’esigenza di fornire servizi adeguati che, non di rado, non possono essere forniti senza una forte collaborazione. Solidarietà con i nuovi cittadini, sia che arrivino dai paesi vicini che da altri Paesi, il cui contributo alla crescita, economica e culturale, della comunità è talora misconosciuto eppure essenziale e ricco di potenzialità, se ben governato e non lasciato a uno spontaneismo irresponsabile.

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contro il Trattato TTIP

L’accordo sbagliato
internazionale2In edicola – Il periodico “Internazionale” pubblica un reportage di “Der Spiegel” sulle mobilitazioni nel mondo contro il Trattato TTIP.
Ne abbiamo parlato in Aladinpensiero.
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TTIP semplice
Il TTIP spiegato bene in 8 righe. Foto di Sinistra Ecologia Libertà.
(via Maurizio Ricci su la Repubblica)

L’appello del premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz al Parlamento Italiano: non firmate l’accordo TTIP !

Columbia University Professor Stiglitz attends a session at the World Economic Forum in Davos- L’appello del premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz al Parlamento Italiano: Non firmate l’accordo TTIP, NON IMMAGINATE NEANCHE COSA STATE PER FIRMARE!

Consegnate alla Commissione europea 3,2 milioni di firme Stop TTIP

- CAMPAGNA STOP TTIP.
stopttip

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TTIP e TTP. La grande partita a scacchi del capitalismo internazionale

TTIP-aladin-300x171La Sedia
sedia di Vannitoladi Vanni Tola

La grande partita a scacchi del capitalismo internazionale.

In questi drammatici momenti caratterizzati da processi di migrazione che stanno rivoluzionando la composizione demografica di vaste aree del mondo, da riprese di focolai di guerra che minacciano di estendersi dalla dimensione locale a quella internazionale, il capitalismo internazionale tesse le proprie trame e si riposiziona nello scenario mondiale. Per molti di noi gli acronimi TTIP e TPP non hanno alcun significato in realtà rappresentano qualcosa che ci riguarda e riguarderà in futuro del pianeta. Cominciamo a fare un po’ di chiarezza sulle sigle. Il TTIP (Transatlantic Trade Investiment Partnership) è un negoziato internazionale i cui contenuti sono in gran parte coperti da riserbo. Interessa 50 paesi e mira a realizzare un accordo commerciale mondiale che sia al di sopra dei regolamenti e delle normative dei singoli Stati. Per i detrattori una radicale rivoluzione degli accordi internazionali ad esclusivo beneficio delle società multinazionali, per i sostenitori una grande rivoluzione degli scambi commerciali tra i paesi che, superando i limiti e i vincoli di una miriade di leggi e regolamenti nazionali, darebbe nuova linfa ai commerci, agli scambi di materie prime e prodotti, generando nuove opportunità di crescita e sviluppo nel mondo. Le trattative per la definizione Trattato sono in dirittura di arrivo. Un vasto movimento di opposizione è da tempo mobilitato per chiedere trasparenza sui contenuti del Trattato, molti per chiederne l’abolizione o una sua radicale trasformazione. Il mese di Ottobre sarà ricco di grandi azioni di protesta in America e in molti paesi europei. E’ in corso in Europa una grande raccolta di firme a sostegno di una petizione internazionale che invita i parlamentari europei a non approvare il TTIP. Ne abbiamo parlato sul nostro giornale fornendo anche le indicazioni per aderire alla petizione con articoli pubblicati nel mese di Aprile. Ecco i riferimenti:
https://www.aladinpensiero.it/?p=40855 https://www.aladinpensiero.it/?p=41186 https://www.aladinpensiero.it/?p=46403 (firma petizione)
LA SCHEDA ———————————————————
Vanni per TTP 2Vanni per TTIP 1
Il Trattato TPP (Trans Pacific Partnership) è una sorta di “cugino” del TTIP. I contraenti sono gli Stati Uniti, il Giappone e altri 10 paesi che si affacciano sull’oceano Pacifico. Attualmente sono coinvolti nel TPP Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Stati Uniti e Vietnam. Ma sono già pronte all’adesione anche alcune economie dell’Asia, come Corea del Sud, Taiwan e Filippine, o dell’America latina, come la Colombia. La stessa Cina, che il Trattato mirava a condizionare, comincia a manifestare interesse e desiderio di partecipazione alla nuova area dei commerci. La Cina infatti ha affermato che sta osservando con attenzione lo sviluppo del Tpp nonostante sia a sua volta impegnata in altri negoziati commerciali concorrenti. Nel mondo degli affari statunitense molti ritengono che la grande speranza del trattato stia proprio nell’apertura ad altri paesi, in particolare alla Cina. Lunedì 5 ottobre i ministri del commercio dei dodici paesi promotori dell’accordo, hanno raggiunto un’intesa che di fatto rappresenta l’atto di nascita del TPP, il più grande trattato commerciale internazionale firmato negli ultimi due decenni. In Trattato riguarderà infatti una quantità di scambi pari al 40 per cento dell’economia mondiale e si occuperà anche della ridefinizione delle regole dell’economia del ventunesimo secolo, per tutto quanto va dai flussi internazionali di dati al modo in cui alle aziende di proprietà statale verrà permesso di competere su scala internazionale. E’ quindi evidente che il TPP ha una importante valenza geopolitica oltre che commerciale. Per una descrizione più analitica del Trattato rimandiamo alla scheda realizzata dal periodico Internazionale pubblicata recentemente nel nostro giornale.