Risultato della ricerca: Pietro Greco

E’ online Rocca n.12 – Le anteprime

rocca-12-2020-15-giu-2020rocca-primo-piano E’ online Rocca n.12 del 15 giugno 2020 – Le anteprime
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Gli editoriali di Aladinpensiero.

acdf3030-809b-4f1f-935c-968a589b465aNUOVE POSSIBILI PANDEMIE
Che fare? Pietro Greco, su Rocca. Ripubblicato come Editoriale da Aladinpensiero online.
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La salute prima di tutto. Per l’umanità e per il Pianeta. Che fare in Italia, in Europa e nel Mondo. Per il contrasto efficace alle pandemie indispensabili gli Organismi internazionali di garanzia (come l’OMS).

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Che fare?

di Pietro Greco, su Rocca.

Due sono le cose da fare adesso che il lockdown è finito e qualcosa sembra tornare alla normalità (a una normalità, come sempre, variabile e dunque contingente). La prima è imparare a convivere con il virus. Anche con questo virus. La seconda è non farci trovare impreparati dalla prossima pandemia che, ci dicono gli scienziati, certamente ci sarà, anche se non sappiamo né quando né come si manifesterà
Ora non abbiamo più alibi, ammesso che li avessimo solo qualche mese fa. Ora sappiamo quanto male può fare una pandemia. Dobbiamo tenere sempre viva questa memoria. Ma non una memoria statica, in attesa degli eventi. Bensì una memoria attiva, che agisce con razionalità, rapidità e determinazione.
Non parliamo – non in questa sede, almeno – di tutto quanto dobbiamo attivamente fare per convivere nei prossimi mesi e forse anni con Covid-2019. Concentriamoci su come evitare o, almeno, contenere al massimo gli effetti della pandemia prossima ventura.

gli scienziati nuove Cassandre
Qualcuno ci darà della Cassandra. Ma quella donna preveggente non è una figura negativa della mitologia greca. Tutt’altro. Ricordiamone brevemente il profilo, perché può essere utile. Lei, Cassandra, era la figlia di Priamo, il re di Troia. Pare fosse capace di leggere il futuro. Così, quando nacque il fratellino Paride, la giovane principessa si lanciò in una previsione: il pargoletto appena venuto al mondo avrebbe causato la distruzione della città. Povera
Ebbene, da almeno cinquant’anni una nuova Cassandra – gli scienziati, che non hanno capacità profetiche, ma solidi dati scientifici – avverte noi concittadini dei pericoli che minacciano la moderna Troia. Ma da almeno cinquant’anni noi, cittadini della città minacciata (la Terra intera), non le diamo ascolto. E puntualmente spalanchiamo le porte al cavallo costruito dall’astuto e invisibile Ulisse di turno. Omero narra nell’Iliade che il cavallo nascondeva nella sua pancia un plotone di soldati. Oggi il cavallo porta ben evidente in groppa il Quarto cavaliere dell’Apocalisse: quello della peste, ovvero delle malattie infettive. Vestite, indegnamente, le vesti di Cassandra, torniamo dunque al futuro prossimo venturo e al nostro dovere di ascoltare gli scienziati e iniziare subito ad agire per gestire meglio il prossimo attacco di virus o batteri.

Che fare, dunque?
Ormai sappiamo che virus, batteri e altri agenti patogeni sono solo le cause prossime delle malattie infettive. Ci sono, poi, anche le cause remote: che coinvolgono tra le altre l’economia, il nostro rapporto con il resto della natura (eh, sì: perché noi siamo parte della natura), i nostri stili di vita. Ebbene, la risposta alla nostra domanda è abbastanza semplice: dobbiamo agire lungo direttrici che tengano conto sia delle cause prossime sia delle cause remote delle infezioni prossime venture.

prudenza ecologica
Queste direttrici sono abbastanza chiare. Iniziamo con quelle che devono tener conto delle cause remote. A determinare una transizione – una nuova transizione – nel rapporto dell’umanità coi microbi è una congerie di cause ecologiche: i cambiamenti del clima; l’erosione della biodiversità; l’invasione di nuovi ecosistemi selvaggi; l’ecologia degli allevamenti, l’urbanizzazione.
Cosicché la prevenzione non può che fondarsi su un radicale incremento della nostra prudenza ecologica. Rallentiamo il cambiamento del clima globale e l’erosione della biodiversità. Rendiamo più morbido e attento il nostro impatto con gli eco-sistemi regionali e locali. Rendiamo meno fitta la rete antropica che interconnette regioni ecologiche distinte e distanti. Cambiamo il nostro modello di sviluppo che genera pressioni insostenibili sull’ambiente. Cambiamo anche i nostri stili di vita, compresi quelli alimentari.
Non si può fare tutto in un giorno. È un’impresa titanica, ma ineludibile. La consapevolezza della portata della sfida, tuttavia, non può essere un alibi per non agire o ritardare l’azione. Quello cui abbiamo accennato non è solo retorica e non è mera astrazione. È quanto di più tangibile e pratico ci sia. Dobbiamo capire (agendo di conseguenza) che la lotta alle pandemie non può che avvenire nell’ambito di una visione globale e prudente – sostenibile, dicono alcuni – del nostro rapporto con il resto della natura.

nuovi farmaci
La prudenza ecologica, a sua volta, deve necessariamente far leva sulla conoscenza scientifica. Dobbiamo investire più ri- sorse economiche e umane nella conoscenza. Che è fondamentale anche per lo sviluppo della seconda direttrice, quella volta a minimizzare le cause prossime delle malattie infettive.
I sistemi d’arma per combattere da vicino i microbi patogeni e cercare di evitare la pandemia prossima futura sono tre: nuovi farmaci, nuove campagne di vaccinazione, nuovi sistemi di sorveglianza e di intervento.
Allestire e dispiegare l’arma difensiva dei farmaci contro una pandemia a lenta diffusione non è affatto semplice. Lo abbiamo visto col nuovo coronavirus: non abbiamo farmaci specifici (non al momento in cui scriviamo, almeno). La messa a punto di nuovi farmaci costa e il sistema sociale mondiale è attrezzato ormai per la diffusione dei farmaci di mercato, offerti a popolazioni di pazienti/consumatori. La storia dell’Aids come quella delle malattie diarroiche dimostra che il sistema non è attrezzato per una diffusione di farmaci presso popolazioni di pazienti che non sono consumatori. Detta in altri termini, l’accesso ai farmaci (quando ci sono) non è democratica.
Ancor più difficile è dispiegare l’arma dei farmaci contro una pandemia a rapida diffusione. Prendiamo il caso degli antivirali. Questi farmaci sono efficaci se somministrati appena dopo l’infezione. Ma alle industrie servono diversi mesi, anche un paio di anni, per produrre quantità adeguate di antivirali specifici. In caso di pandemie da virus che si diffondono con la rapidità della Spagnola e del coronavirus Sars-CoV-2 l’arma dei farmaci è, almeno all’inizio, spuntata, persino per i pazienti/consumatori, figuriamoci per le popolazioni più povere. A meno che… A meno che non intervengano i governi e agiscano in tre modi: allestendo, in largo anticipo, scorte adeguate di farmaci potenzialmente utili; finanziando la ricerca di questi farmaci; socializzando i costi.

vaccinazioni universali
I vaccini, con la stimolazione di difese immunitarie, sono un’ottima arma preventiva contro i microbi patogeni e le pandemie. Campagne di vaccinazioni universali contro i microbi noti sono, forse, il sistema migliore per cercare di evitare il ritorno del Quarto cavaliere. Ma anche queste campagne di vaccinazioni, per poter essere universali, devono essere gratuite. E, quindi, occorre che i governi intervengano ancora una volta, con norme e fondi, per campagne di vaccinazioni universali e gratuite. Di più, occorre che i governi intervengano anche per finanziare la ricerca di vaccini contro quelle malattie infettive che, come la malaria, colpiscono ormai solo i poveri e sono quasi del tutto dimenticate nei paesi ricchi. Oggi la gran parte della ricerca mondiale su farmaci e vaccini è realizzata da industrie private in un’ottica di mercato. Questo rende «orfane» di attenzione e di ricerca le malattie che aggrediscono persone povere, che non possono partecipare alla dialettica del mercato perché non hanno ricchezze da offrire. Ebbene, occorre che anche la ricerca dei rimedi contro le «malattie orfane» sia socializzata. Ovvero, sia realizzata da centri, pubblici o privati, finanziata con fondi pubblici.

sorveglianza globale e intervento efficace
C’è, infine, l’ultimo sistema d’arma, quello della sorveglianza pronta e dell’intervento efficace. La pandemia è, per definizione, un problema globale che ha un’origine locale. Per prevenire, in modo efficace, una pandemia occorrono sia una rete di sorveglianza globale, con fitte ramificazioni locali, che un centro di decisione mondiale con il diritto all’intervento locale.
La vicenda del Sars-CoV-2 esattamente come della Sars del 2003, con le reticenze iniziali della Cina e le difficoltà a stabilire un’azione comune persino nell’Unione Europea, hanno dimostrato a tutti che occorre la rete di sorveglianza e di intervento che ha molti, pericolosi buchi, strappata com’è dalle legislazioni e dalle gelosie nazionali. All’inizio del secolo il pronto intuito del medico italiano Carlo Urbani impedì che la Sars divenisse una grande pandemia.
Dobbiamo organizzare in una rete mondiale capillare ed estesa e trasparente che renda sistematico il pronto allarme. Non sempre c’è un Carlo Urbani a salvarci, immolando se stesso.
Contro un nemico globale oggi abbiamo schierati solo i medici e gli esperti dell’Organizzazione mondiale di sanità. Questa agenzia delle Nazioni Unite ha molti meriti, ma ahimè anche molti limiti e soprattutto pochi poteri (e pochi soldi). Non c’è da illudersi, se vogliamo evitare il ritorno del Quarto cavaliere e almeno minimizzare gli effetti della prossima pandemia, abbiamo bisogno di qualcosa che si avvicini molto a un governo mondiale della sanità. Purtroppo in questo periodo la pratica delle intese multilaterali non è molto frequentata. E la vecchia idea di un centro mondiale per il governo dei problemi globali, proposta già due secoli fa da Immanuel Kant, non incontra davvero molte simpatie.

Italia: che fare
Ma veniamo all’Italia e a quello che dovremmo dare nel nostro paese. Potremmo avere a disposizione molti miliardi per agire. Per esempio i 37 miliardi di euro del MES. Non sono pochi. Ma neppure tantissimi. Per il nostro sistema sanitario spendiamo, ogni anno, 110 miliardi di euro. Si tratta più o meno di un terzo da aggiungere una tantum al nostro budget. Occupiamoci, in primo luogo, delle terapie intensive. La Germania, prima della pandemia, poteva contare su 350 terapie intensive ogni milione di abitanti. L’Italia solo 83. Nel pieno dell’epidemia le nostre sono raddoppiate, a 160 per milione di abitanti. Dobbiamo raddoppiarle ancora, portandole al livello tedesco.
Queste attrezzature (e altre ancora) devono essere distribuite omogeneamente sul territorio nazionale. Se la Lombardia dovrà avere 3.500 terapie intensive in virtù della sua popolazione di 10 milioni di abitanti, la Campania con i suoi 5,8 milioni di abitanti ne dovrà avere 2.030 e la Basilicata, che di abitanti ne conta 562.000, ne dovrà avere 196.
Ma le terapie intensive sono solo una parte del problema. Ci vuole molto di più. Per renderci in grado di rispondere al meglio a questa e alle prossime pandemie occorre migliorare le strutture ospedaliere. Aumentando il numero di ospedali specializzati, come lo Spallanzani di Roma, il Cutugno di Napoli o il Sacco di Milano. Ma anche attrezzando tutti gli altri ospedali – e, se del caso, costruendone di nuovi – per- ché siano in grado senza sforzo e in tempi rapidissimi di fronteggiare un’emergenza. Il che significa, anche e forse soprattutto, formare tutti gli operatori sanitari alla ge- stione di una pandemia.
Ma questa pandemia ci ha insegnato che affrontare il problema solo dal punto di vista ospedaliero è una strategia perdente. Quello che è ancor più decisivo sono i servizi territoriali, in grado di prevenire e comunque di minimizzare il ricorso all’ospedale. Occorre, dunque, un’imponente azione di tessitura di un capillare ordito sul territorio, che prevede anche la formazione e la responsabilizzazione dei medici di base.
Ma la risposta adatta a un’emergenza sanitaria non può essere un fiore, sia pure vistoso, nel deserto. Una quota parte importante, se non la principale, di quei 37 miliardi vanno impiegati per rafforzare il sistema sanitario nazionale fondato sul pubblico, mediante un’azione organica.
Che comprenda: la creazione di ospedali flessibili, in grado di adeguarsi alle diverse emergenze che eventualmente si presentano e la rete territoriale cui abbiamo già accennato. Ma che preveda anche un aumento degli organici nel pubblico: più medici, in particolare specializzati, e più personale sanitario. In entrambi i casi occorre che le università smettano la politica del numero chiuso per l’accesso alle specializzazioni o, quanto meno, la rivedano profondamente. Nello stesso tempo le università devono aumentare i corsi di formazione per infermieri e altro personale sanitario. Tutto questo potrebbe essere ottenuto anche con una politica di accesso gratuito e semi-gratuito alle università. Politica che potrebbe minimizzare l’attesa caduta delle iscrizioni ai nostri atenei. Non dimentichiamoci che l’Italia è ultima in Europa e penultima tra i paesi Ocse per numero di giovani laureati. E di questo paghiamo già salatissime conseguenze. Ma c’è di più. L’Italia vanta uno dei più efficienti sistemi sanitari al mondo. Ma questa nostra prerogativa è stata attaccata negli ultimi lustri sia dalla diminuzione costante degli investimenti nella sanità pubblica sia dalla scelta, perseguita da alcune regioni in particolare, di «privatizzazione» della sanità. La ricca Lombardia con una classe medica di valore assoluto ha pagato nelle scorse settimane un prezzo salatissimo, alla corsa al privato. La salute è un diritto universale dell’uomo che può essere efficacemente soddisfatto soprattutto dal pubblico.
Tra i punti deboli del nostro sistema sanitario c’è la profonda disuguaglianza dell’offerta tra il Nord, il Centro e il Sud. Questa crescente asimmetria non fa bene a nessuno. Utilizziamo, quindi, i 37 miliardi per diminuire le differenze. Per rendere tutti i cittadini italiani uguali difronte alla salute. Perché lei, la salute, non dimentichiamolo mai è un diritto universale dell’uomo.
Pietro Greco
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ROCCA n.11, 1 GIUGNO 2020
NUOVE POSSIBILI PANDEMIE. Che fare? Pietro Greco.
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Coronavirus. Pensare, analizzare, agire. Il contributo dei redattori della rivista Rocca, della Pro Civitate Christiana di Assisi su ANZIANI, DISUGUAGLIANZE, MIGRANTI, SCIENZA

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ANZIANI
gli scarti di un sistema

di Ritanna Armeni su Rocca.

E’ stata la presidente della commissione europea Ursula Von der Lyen a lanciare per prima l’idea.
Per combattere efficacemente i coronavirus è bene che gli anziani rimangano in quarantena fino alla fine del 2020. Non è chiaro se per anziani si intende chi ha superato i sessantacinque o i settanta anni di età, ma l’idea è piaciuta anche in Italia. Sono due mesi che il paese è fermo, è necessario riprendere l’attività produttiva, allentare le prescrizioni, ma occorre farlo gradualmente e allora – si dice – restino a casa gli anziani, quelli che sono più deboli, più soggetti alla malattia e alla morte.
Parte consistente dell’opinione pubblica ha approvato. Sì, gli anziani a casa. Gli altri fuori a lavorare o a cercare un lavoro, a studiare, a viaggiare, i più vecchi possono farne a meno. In fondo che cosa costa un altro po’ di carcere domiciliare a chi non è produttivo?
C’è voluto poco e quella che sembrava un’ipotesi come tante si è trasformata in un dibattito aspro e cattivo.
L’ipotesi di tenere a casa ancora per qualche mese gli anziani è diventata in parte dell’opinione pubblica necessaria e utile; il motivo della scelta è pian piano cambiato: non più la protezione della loro debolezza, ma la loro inutilità, anzi il danno che possono procurare al già debole stato sociale del paese.
Soprattutto nei social che – piaccia o meno – sono in gran parte lo specchio del paese.
In essi si riflette la gente per quello che è, fuori da ogni mediazione culturale, quindi anche con le brutture, gli eccessi, le forme d’inciviltà. E nei social il dibattito si è sviluppato con virulenza, la verità si è trasformata nel suo contrario, la polemica è dilagata.
Gli anziani da soggetti da proteggere si sono trasformati in pericolosi portatori del contagio, da vittime di un sistema sanitario, evidentemente impreparato e non all’altezza, in pericoli per la salute degli altri, dei giovani, dei produttivi.
Se si ammalano – qualcuno ha detto – occupano un posto in terapia intensiva e lo tolgono ai giovani. Gli ospedali devono essere decongestionati, i vecchi devono lasciare il posto.
Il fatto che gli anziani aspirino, come tutti alla libertà di movimento, a godere di una primavera o di un estate, a frequentare librerie, è segno di egoismo.
Fatto il primo passo se ne sono fatti altri. I vecchi che vogliono uscire e che vorreb- bero, come dice la Costituzione, avere gli stessi diritti e doveri di tutti i cittadini, sono stati trasformati in facili bersagli. Hanno avuto già tutto, si è detto: il lavoro che oggi scarseggia, i diritti che sono stati quasi del tutto annullati, la pensione che i precari se la sognano.
E poi ancora. Hanno distrutto il paese portando il debito a livelli insopportabili. Sono state le cicale del benessere e ora sono diventati i parassiti della crisi.
Per un curioso cortocircuito che si verifica spesso nelle vicende italiane, i fautori de «gli anziani a casa» non hanno cercato l’obiettivo vero delle proprie difficoltà, frustrazioni e disperazioni, hanno individuato quello più a portata di mano. E anche se non è giusto pazienza.
È avvenuto altre volte, anzi avviene quasi sempre. Non siamo ancora usciti da anni in cui i danni e le tragedie prodotte da una globalizzazione senza controllo poli- tico e sociale sono stati attribuiti alla corruzione della politica e poi alla politica tout court. Le conseguenze le paghiamo ancora. Ci sono stati anni in cui un pensiero mainstream, anche di sinistra, ha contrap- posto i garantiti, anche quando erano lavoratori manuali con salari bassissimi ai non garantiti, i giovani disoccupati. E questo è bastato per renderci ciechi sulle vere cause della fine di tante importanti garan- zie sociali. Per non capire che la disoccupazione era fatto strutturale su cui inter- venire e non una contrapposizione fra salariati e disoccupati.
Poi è venuto il momento in cui si sono contrapposti gli onesti e laboriosi italiani agli immigrati parassiti pur di non affrontare e risolvere i problemi epocali dell’immigrazione. Potrei continuare. Oggi si tirano in ballo gli anziani per nascondere i fallimenti della lotta all’epidemia, le man- canze enormi del servizio sanitario nazionale, l’incapacità di reazione immediata al virus della comunità scientifica, la mediocrità della classe politica, i ritardi e soprattutto le difficoltà di una ripresa economica e sociale in un paese in ginocchio. Quando s’iniziano queste guerre il primo a morire è il buon senso. Si dimentica ad esempio che l’epidemia è dilagata proprio nelle zone produttive del paese, dove i contatti e quindi i contagi sono maggiori e gli anziani ne sono stati vittime anche se loro presumibilmente non frequentavano i luoghi di maggior contagio. Che sono morti perché più deboli in un paese che non ha saputo curarli. Sì, il buon senso sparisce e lascia posto alla ricerca del nemico chiunque esso sia, purché vicino e ci eviti lo sforzo di pensare un po’ di più, di acuire il nostro senso critico, di guardare alla realtà. È più facile essere cattivi che intelli- genti. Ed è facilissimo essere cattivi quando il terreno è stato ampiamente preparato. Sono anni che in Italia i politici al governo – tutti i governi – attaccano i cosiddetti privilegi degli anziani, che riducono le loro pensioni, che li indicano come i privilegiati di un sistema di garanzie, che contrappongono la loro vita «facile» e sicura a quella precaria e incerta dei giovani.
Sono anni. È stato comodo, molto comodo. Adesso un altro passo è stato fatto. Sono diventati pericolosi per la salute, scarti di un sistema che per andare avanti deve metterli da parte.
Non vi chiedete più per favore se da questa tragica epidemia usciremo migliori o peggiori. È evidente che siamo già peggiori.
Ritanna Armeni
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DISEGUAGLIANZE
il virus
non colpisce tutti in modo uguale

di Roberta Carlini su Rocca

Inizialmente si era pensato a un virus che agiva come «a livella» di Totò, e che eravamo tutti uguali davanti al nemico sconosciuto, senza differenza tra ricchi e poveri. Anzi, una prima mappa della geografia del virus «privilegiava» le regioni più economicamente interconnesse, dalla metropoli industriale di Wuhan al fitto tessuto produttivo del Nord Italia. E poi, metropoli internazionali come Milano, Londra, New York in ginocchio. Manager, grandi attori, registi, intellettuali, usi a viaggiare per eventi, conferenze, commerci. Ma questi erano solo i vettori della diffusione di un virus destinato a colpire, oltre che il cuore, i meccanismi stessi della globalizzazione, che già era in pericolo per l’ondata di sovranismi e protezionismi, e adesso è minata dalla rottura di quelle «catene mondiali del valore» che caratterizzano l’economia dei giorni nostri. La risposta all’interrogativo sull’impatto del virus sull’altra grande malattia del nostro tempo, ossia la diseguaglianza, sta altrove. E va data in tre parti, cercando di capire quanto le diseguaglianze influiscono sulla letalità del Covid 19; qual è l’effetto delle politiche di contenimento della pandemia (i «lockdown») sulla diseguaglianza; e cosa succederà con l’arrivo della recessione mondiale che ne consegue.

la diseguaglianza da virus
Dei malati di Covid 19 in Italia non sappiamo niente. È vero, ogni giorno sono stati forniti i dati ufficiali, nel rito della conferenza stampa della Protezione civile delle 18. Ma erano solo i numeri sui tamponi, i contagia- ti, i guariti, i morti. Altri dati sono forniti dal ministero della salute, e ci dicono qual è l’età media dei deceduti (79 anni), la loro distribuzione per sesso (i due terzi sono uomini), la presenza di patologie pregresse al momento del ricovero (il 61,3% aveva altre 3 malattie, e solo il 3,6% non aveva alcuna altra patologia), la distribuzione geografica. Delle condizioni socio-economiche non sappiamo nulla. In altri posti questi dati sono disponibili: per esempio a Londra si sa che i quartieri più poveri hanno il triplo dei contagiati di quelli più benestanti. Una mappa del contagio – oltre che delle morti – che desse conto anche del lavoro, del titolo di studio, del reddito, della proprietà di case, o almeno della area di residenza, sarebbe molto utile, sia a scopi epidemiologici che per capire se il virus ha colpito maggiormente i più poveri.
Qualcosa però si può dedurre, dalle poche informazioni che abbiamo. La concomitanza di malattie pregresse è una di queste: la presenza di malattie croniche sale, ovviamente, con l’età, ma è legata anche alla condizione sociale delle persone. Come hanno notato i sociologi Giuseppe Costa e Antonio Schizzerotto, per esempio, «a Torino nel 2018, a sesso ed età identici, le persone con diabete di tipo 2 (una delle malattie croniche fortemente predisponenti per un esito infausto del contagio) ammontavano al 4,5 per cento dei laureati e al 13 per cento dei soggetti con la scuola dell’obbligo». Il legame tra la speranza di vita, la salute e la condizione socio-economica – dimostrato da molta letteratura scientifica – è evidente anche nella media generale che qualche tempo fa ha fornito l’Istat, secondo la quale la speranza di vita «si allunga» di tre anni per gli uomini laureati. Non abbiamo dati neanche sulle condizioni economiche degli anziani contagiati e morti nelle case di riposo – uno degli epicentri della tragedia del coronavirus, in Lombardia ma anche in tanti altre parti del mondo –, ma sappiamo che, almeno per l’Italia, nella maggioranza dei casi gli anziani che possono permettersi di mantenere una casa e un/una badante di solito preferiscono questa soluzione a quella della casa di riposo. Molto probabilmente, quando avremo dati più chiari e certi scopriremo quello che dalle cronache si può intuire, ossia che l’arrivo e la diffusione del virus possono essere casuali, ma la capacità di difendersi dal virus non è uguale per tutti. In altre parole, i più poveri sono più vulnerabili. E solo grazie alle rigide misure di distanziamento sociale decise il 9 marzo non abbiamo assistito – per fortuna – all’azione di un altro tipo di diseguaglianze, quelle territoriali: poiché il virus non è «sbarcato» in massa al sud, dove le condizioni di salute degli anziani sono mediamente peggiori, e dove la capacità degli ospedali di reggere l’urto sarebbero state ancora inferiori.

la diseguaglianza da lockdown
Un altro misuratore della «diseguaglianza da Covid» è legato proprio al «lockdown», ossia alla chiusura di attività e produzioni, scuole e università. L’Istat ne ha quantificato la portata sull’economia: dal 9 marzo ha chiuso i battenti il 34% della produzione, per un totale di circa 8 milioni di occupati (un terzo degli occupati totali in Italia). La chiusura ha avuto un impatto diverso a seconda delle varie situazioni: c’è stato chi ha perso una parte delle sue entrate – perché rientrava nelle categorie protette dallo scudo della cassa integrazione o dell’indennità di disoccupazione, che il governo ha allargato –, chi ha perso tutte le sue entrate – perché aveva un contratto a termine non rinnovato, o forme di lavoro ancora più precarie fino al «nero» –, chi ha perso anche l’investimento che aveva fatto nell’attività chiusa. Il Forum Diseguaglianze e Diversità ha fatto una stima del lavoro «fragile», quello più colpito dal lockdown e non protetto abbastanza dalla sicurezza sociale: in totale, 9-10 milioni di persone. Si tratta di lavoratori a termine, in somministrazione, a partita Iva, piccoli imprenditori di settori «non resilienti», ossia non in grado di reggere l’urto delle mancate entrate per un periodo così lungo. La conclusione è nell’aumento delle diseguaglianze da lavoro, ossia quelle che già c’erano tra persone che comunque lavoravano, non erano nella fascia «tradizionale» della povertà.
Ma di questi aspetti economici del lockdown si è discusso molto, anche se non sempre con decisioni conseguenti: gli ammortizzatori sociali, pur debitamente aumentati, non sono riusciti a coprire tutti. Eppure quegli strumenti, lascito del welfare del secolo scorso, si sono rivelati utili e maneggevoli, anche se ovviamente molto costosi per le finanze pubbliche.
Si è pensato meno, e si hanno meno stru- menti a disposizione, per un altro tipo di diseguaglianza enormemente esasperata nelle settimane in cui siamo stati tutti chiusi in casa. Quella che passa per le stesse mura di casa, gli spazi, le dotazioni; e quella che ha colpito i più giovani e piccoli, i ragazzi e i bambini che non sono potuti andare a scuola. In questo caso il virus è stato tutt’altro che «la livella» di Totò, ha colpito proprio in basso. Le nostre case non sono tutte uguali, e non solo per bellezza, ariosi- tà, presenza di un giardino o un terrazzo: parliamo delle condizioni di base, dello spazio. Nella media, oltre un quarto delle famiglie italiane – dice l’Istat – vive in sovraffollamento abitativo. La quota sale al 41,1% per le famiglie nelle quali ci sono minori. Che non avevano «una cameretta tutta per sé», e a volte neanche da condividere solo con il fratello o la sorella, per collegarsi con la maestra e fare lezione. A proposito: la stessa indagine dell’Istat dice che il 14,3% delle famiglie con almeno un minore non ha a casa un computer o un tablet. La scuola a distanza, bellissimo esperimento nel quale molti hanno scoperto qualcosa di nuovo e che potrà tornare utile in futuro, per almeno un decimo dei nostri studenti è semplicemente impossibile. Per- ché non hanno computer, o rete, o spazio vitale. La chiusura delle scuole, misura sanitaria obbligata, è da questo punto di vista un’ingiustizia sociale prima ancora che un pericolo educativo: e colpisce il fatto che nei dibattiti sui pro e contro della riapertura pochissimi abbiano parlato di scuola, e anzi che sia stato accettato in assenza di un qualsiasi dibattito pubblico il fatto che le scuole riapriranno per ultime, a settembre.

la diseguaglianza da recessione
In passato, per precedenti epidemie o choc, si è parlato di un effetto inverso sulla diseguaglianza: eventi tragici come pandemie e guerre storicamente hanno ridotto le diseguaglianze poiché, causando una riduzione della forza lavoro, hanno fatto poi salire i salari al momento della ripresa. Molti economisti prevedono che stavolta non sarà così. Non solo per quanto detto finora – i primi effetti del virus e del lockdown – ma perché le previsioni sulle conseguenze economiche della pandemia contengono numeri senza precedenti. Quel che si teme è una recessione prolungata e profonda, che dunque lascerà senza lavoro molte persone e per molto tempo. Ridisegnerà interi settori economici, e – se le cose vanno bene – se ne uscirà con produzioni diverse o diversamente organizzate e lavori «nuovi», ma nella transizione molti potrebbero restare incastrati. La capacità e le risorse dei vari livelli di governo saranno determinanti, così come le capacità e le risorse individuali – che dipendono dal talento, ma anche e soprattutto dal «capitale familiare», dall’istruzione ricevuta, da quella che ci si potrà permettere di conquistare in tempi di crisi. Tutti motivi per ritenere che la recessione post-pandemia (o in corso di pandemia) può far deflagrare il problema della crescente diseguaglianza, a meno che non entrino in gioco potenti meccanismi di redistribuzione del peso e del rischio. Come ha scritto l’economista Maurizio Franzini, uno dei maggiori studiosi della diseguaglianza in Italia, «le politiche, a tutti i livelli, dovranno essere estremamente attente a frenare i rischi di aggravamento delle dinamiche che negli scorsi decenni hanno prodotto crescente disuguaglianza nei mercato e che possono trarre perverso alimento dalla pandemia, che di certo non produrrà un automatico miglioramento delle disuguaglianze. Se quelle politiche mancheranno il futuro per i ‘poveri’ potrebbe essere perfino peggiore del loro passato».
Roberta Carlini
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MIGRANTI
una risorsa fondamentale

di Fiorella Farinelli
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12 aprile 2020: è Domenica Pasqua di Risurrezione. Auguri!

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—————————Opinioni, Commenti e “Riflessioni, Appuntamenti——————————————–
rocca-7-8-2020- Gli Editoriali di Rocca ripubblicati su aladinpensiero online.
Ne usciremo migliori o peggiori?
di Ritanna Armeni.
CRISI ECONOMICA: ripartenza tra salute e lavoro-
di Roberta Carlini.
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Carbonia. Verso una nuova cultura del lavoro
12 Aprile 2020
Gianna Lai su Democraziaoggi.
buona_pasqa_poesia_gianni_rodari[Democraziaoggi con gli Auguri pasquali!] Si conclude qui il Primo Capitolo della storia di Carbonia, che abbiamo pubblicato con distinti post ogni domenica a partire dal 1° settembre 2019. Benché non riportati a fine ppagina, ciascun articolo è corredato da un apparato di note, che rimandano alle fonti consultate, documenti d’archivio, testimonianze, pubblicazioni, ecc. [...]
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PANDEMIA
il ritorno del Quarto cavaliere
di Pietro Greco, su Rocca.
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CORONAVIRUS pregi e limiti della scienza. Tre tipi di cofatori ci aiutano a capire: biologico, sociologico, politico.

rocca-04-febb-2020-mini_01CORONAVIRUS
di Pietro Greco su Rocca.
Come è successo anche altre volte in passato, nel caso di altre epidemie, anche il nuovo coronavirus ci dice molto del paese in cui probabilmente è nato e certamente si è diffuso: la Cina. [segue]

Referendum sul taglio del numero dei parlamentari

Si organizzano quelli del NO… Ci siamo anche noi!

Oggi domenica 22 dicembre 2019

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————————————–Opinioni,Commenti e Riflessioni,Appuntamenti—————————————
Carbonia: l’imperativo categorico per le imprese è l’uso del carbone italiano
22 Dicembre 2019
Gianna Lai su Democraziaoggi.
Per assicurare ‘l’autosufficienza economica della nazione’, necessaria ad affrontare ‘l’iniquo assedio che tenta di soffocare il popolo italiano’, quella ‘commedia delle sanzioni’, come così bene la definì Ernesto Rossi in Padroni del vapore e fascismo, l’imperativo categorico è, per le imprese italiane, usare combustibili nazionali.
Il carbone estero arriva nel nostro Paese prevalentemente dalla Germania, […]

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cop-25-coverCronaca di un fallimento annunciato
Pietro Greco
21 Dicembre 2019 | Sbilanciamoci. Sezione: Ambiente, Materiali
Inutile girarci intorno: alla COP 25 di Madrid si è consumato un fallimento. Che non è solo il mancato accordo sul double counting e sul loss and damage. Dalla rivista Micron.

PRENDERE PARTITO PER LA TERRA

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Le due salvezze
PRENDERE PARTITO PER LA TERRA

logo76Una scuola e una Costituzione della Terra: è questa la proposta per rispondere alla crisi globale che è stata preannunziata in un discorso tenuto nel Palazzo della Cultura di Messina il 9 dicembre. Se Dio non è geloso e non è causa di divisione tra gli uomini, un popolo della Terra si può costituire, come dicono oggi papa Francesco e le altre religioni. Ogni casa una scuola

di Raniero La Valle

Pubblichiamo un discorso tenuto a Messina nel Palazzo della Cultura il 9 dicembre 2019 da Raniero La Valle. La proposta che vi è contenuta era stata già illustrata il 30 novembre a Gioia del Colle (Bari), in un convegno promosso da “Cercasi un fine” sul tema “Una comunità che viene dal futuro”, in ricordo di Franco Ferrara.

Vogliamo oggi parlare del futuro a partire dalla svolta di papa Francesco.
Come si sa papa Francesco è un papa molto contestato, come non avveniva da molti decenni. Ancora ieri, 8 dicembre, a Piazza di Spagna a Roma, per la festa dell’Immacolata, si è visto quanto è amato dalle folle, sono quelle folle di cui sempre parlano i Vangeli, che si raccoglievano dove parlava Gesù. Sicché oggi le Chiese sono vuote, ma le piazze sono piene; e tuttavia i giornali sono pieni di questa contestazione al papa. Forse altrettanto contestato fu papa Giovanni XXIII, che si era permesso di convocare un Concilio, quando secondo i tradizionalisti, dopo la proclamazione dell’infallibilità pontificia, avvenuta al Concilio Vaticano I, di Concili non ce ne dovevano essere più. Però nessuno era arrivato ad accusare papa Giovanni di eresia come invece è accusato papa Francesco, perfino da alcuni cardinali. Perciò non si può parlare degli attacchi a papa Francesco senza dolore, e non si può non pregare per lui; e a mio parere la Chiesa, a cominciare dalla Chiesa italiana, dalla Chiesa di Messina, non lo fa, come se la controversia sul papa riguardasse solo il papa e la Curia, e non invece il destino dell’uomo sulla terra.
Perché una cosa dobbiamo dire. Quando Pietro, come si racconta negli Atti degli apostoli, fu incarcerato e tutta la Chiesa si mise a pregare per lui, ciò che era in gioco era l’esistenza e il futuro della Chiesa nascente. Ma oggi, con il pontificato di papa Francesco, non è in gioco il futuro della Chiesa, perché essa, bene o male, continuerà, potrà perfino sopportare un futuro papa reazionario come tanti ne ha avuti nella storia. Ma con il pontificato di papa Francesco, si gioca un’altra cosa, si gioca il futuro del mondo e della storia; non a caso l’unica Enciclica di papa Francesco, la “Laudato Sì”, è indirizzata “ad ogni persona che abita questo pianeta”: non solo ai buoni, ma anche ai cattivi, perché il destino è di tutti.
E allora bisogna cercare di capire che cosa c’è di veramente nuovo con papa Francesco, al di là delle cose più vistose, che tutti percepiscono, al di là dei luoghi comuni con cui viene rappresentato: che vive in albergo e non nel Palazzo, che porta le scarpe nere e non rosse, firmate Prada, che viaggia portandosi la borsa da sé, che alla Casa Bianca tra i macchinoni americani lui ci va con la Panda, che sotto il colonnato di San Pietro fa fare la barba e i capelli ai barboni, e poi li invita alle bellezze della Cappella Sistina, perché anche loro hanno diritto alla bellezza, e quando dà la luce non dà solo la luce della fede – “lumen Christi, lumen Ecclesiae, lumen Gentium” – ma anche la luce elettrica al palazzo occupato. Tutto questo si sa.
E nemmeno vogliamo qui ricordare tutte le eresie di cui è accusato: per esempio di voler dare la comunione ai divorziati risposati, contro il dogma dell’indissolubilità: ma questa non è un’eresia, semmai è un’eresia dimenticare che Gesù ha perdonato l’adultera e non ha istituito l’eucarestia previa esclusione delle coppie irregolari. Né vogliamo riferirci all’accusa di aver definito il proselitismo “una peste”, facendo cadere l’assioma dogmatico che aveva retto per secoli, cioè che “extra Ecclesiam nulla salus”, fuori della Chiesa non c’è salvezza: ossia fuori della Chiesa visibile, senza essere passati attraverso la porta della Chiesa costituita e organizzata come società in questo mondo, senza l’acqua del battesimo non ci sarebbe salvezza, come spiegava anche san Tommaso rispondendo alle “quaestiones” che gli venivano poste alla Sorbona; e si trattava in quel caso di un bambino nato e morto in un deserto, dove l’acqua non c’era. E questo licenziare il proselitismo, davvero per un’istituzione che rivendicava di avere il monopolio su Dio, può sembrare un’eresia.
Ma queste non sono novità e non sono eresie perché già si sapeva che Dio è per tutti. La vera novità che viene con papa Francesco è una novità che non si era mai prodotta prima nella storia del mondo ed è una novità da cui d’ora in poi dipende la storia del mondo. Io non dico che questa novità l’ha portata papa Francesco, perché al contrario è un segno dei tempi, che non è posto da noi. Però questa novità di certo papa Francesco la interpreta, la svela e la mette al mondo per noi.

La vera novità

La novità è che il mondo, il mondo fisico, il mondo profano, il mondo costruito da noi si trova dinanzi a un drammatico problema di salvezza; per la prima volta gli scienziati, i climatologi, e anche milioni di giovani e meno giovani in tutto il mondo parlano di salvezza, dicono che la terra può distruggersi, che può non esserci un futuro. All’orizzonte della politica, della cultura, della vita quotidiano, c’è un nuovo tema all’ordine del giorno: la salvezza della terra. [segue]

AMBIENTE i giovani in cattedra gli adulti dietro la lavagna

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di Pietro Greco su Rocca.

Erano in otto milioni, a fine settembre, i giovani e i giovanissimi che sono scesi in piazza in tutto il mondo per avanzare una richiesta semplice e radicale e concreta: abbattere fino ad azzerare le emissioni antropiche di gas serra perché sia loro concesso di avere un futuro climatico desiderabile.
Come sono cambiati, i giovani! O, almeno, come sono cambiate le loro richieste. Cinquant’anni fa i loro padri e nonni di tutto il mondo (o quasi) scendevano in piazza per chiedere qualcosa di molto meno
tangibile: la fantasia al potere, gridavano, per esempio, gli allora ragazzi francesi. L’aria con meno gas climalteranti (come li chiamano, con brutta locuzione, gli esperti) invece della fantasia. Come sono cambiati i giovani, in cinquant’anni!
No, non lasciatevi fuorviare dalle apparenze. I giovani non sono cambiati così tanto. Oggi come allora si sentono e agiscono come cittadini del mondo. Oggi come oggi li lega la voglia di cambiarlo, il mondo. E oggi come allora a riunirli è un moto spontaneo di solidarietà. Che questa volta si estende non solo alle generazioni presenti, ma anche a quelle future.
I giovani non sono affatto cambiati. Quello che chiedono oggi come allora è un mondo migliore. Con più libertà, nel 1969; con un ambiente più favorevole, oggi. Non è cambiata neppure la reazione degli adulti. Oggi come allora non capiscono. Non capivano nel 1969 le istanze di libertà, la voglia di abbattere ogni tipo di autoritarismo e di conformismo. Non capiscono oggi le istanze per un presente e un futuro sostenibile: più giustizia e un ambiente migliore. Oggi come allora, le reazioni degli adulti sono due. Da un lato chi li deride, li irride, li condanna. Dall’altro chi, semplicemente, non li ascolta. Finge di porgere l’orecchio ma non ne intende le parole.

gli antefatti
Chi volesse un esempio, plastico, di questa risposta degli adulti alla domanda di «diritto al futuro» dei giovani non ha che da scorrere il brogliaccio dell’incontro che si è tenuto al palazzo delle Nazioni Unite nel bel mezzo delle manifestazioni dei giovani, tra lunedì 23 e martedì 24 settembre. L’incontro è stato voluto dal segretario generale Antonio Guterres che ha chiesto a molti capi di stato e di governo di rispondere anche alle domande dei giovani e di rendere pubbliche quali intenzioni concrete hanno gli stati di contrastare i cambiamenti del clima, ovvero di contrastare quella che molti considerano la più grave minaccia che pende sul capo dell’umanità in questo secolo.
Antonio Guterres aveva chiesto la formulazione di dichiarazioni esplicite e chiare e concrete per un impegno concreto che rappresentasse un passo in avanti rispetto a quello assunto a Parigi nel 2015 e in previsione del negoziato sul clima che si terrà nel 2020, in sede da destinarsi, e che dovrebbe segnare un punto di svolta politico (l’ennesimo) sul tema.
Ricordiamo gli antefatti. La comunità scientifica in maniera pressoché unanime sostiene che sono in atto rapidi cambiamenti del clima indotti dall’uomo; che anche se gli accordi di Parigi del 2015 venissero rispettati, a fine secolo l’aumento della temperatura del pianeta sarà superiore di almeno 3 °C a quella dell’epoca pre-industriale; che per sopportare conseguenze non del tutto disastrose dovremmo contenere l’aumento entro gli 1,5 °C; che per raggiungere questo obiettivo abbiamo solo dieci anni, dopodiché saremo oltre quell’obiettivo e ne pagheremo (e le future generazioni ne pagheranno) salatissime con- seguenze.

come hanno risposto i rappresentanti dei vari Stati alle Nazioni Unite?
Beh, forse la riunione è stata organizzata in maniera un po’ troppo affrettata. Forse Guterres ha accelerato troppo i tempi. Forse i governi a quasi trent’anni dalla Convenzione sui cambiamenti climatici (proposta alla firma nel 1992 a Rio de Janeiro) non si sono sentiti ancora pronti. Ma sta di fatto che degli impegni chiari e concreti chiesti dal Segretario generale delle Nazioni Unite nel brogliaccio dell’incontro non c’è traccia. Ecco, in sintesi, qual è stata la risposta dei rappresentanti dei paesi che hanno più peso nelle emissioni antropiche di gas serra. Questi paesi sono responsabili dei tre quarti delle emissioni di anidride carbonica negli ultimi due se- coli.
Per meglio capirci, ecco i numeri. La concentrazione di anidride carbonica, rispetto all’epoca preindustriale, è passata da 280 a oltre 410 parti per milione: con un aumento quasi del 47%. Ebbene questo aumento è dovuto per il 25% agli Stati Uniti, per il 22% all’Unione Europea (dei 28 stati), per il 13% alla Cina, per il 7% alla Russia, per il 4% al Giappone, per il 3% all’India, per il 26% al resto del mondo. Queste, in quota parte per paese, le responsabilità storiche.

E queste sono state le risposte date tra il 23 e il 24 ottobre a New York.
Stati Uniti. Il presidente Donald Trump aveva annunciato che non avrebbe partecipato. Poi, a sorpresa, si è presentato al palco degli oratori e ha parlato di tutto, tranne che di clima. Letteralmente. Ha ostentatamente evitato di affrontare il tema. La sua posizione, peraltro, è nota. Nega che i cambiamenti del clima siano effetto delle attività umane e vuole semplicemente ritirare gli Stati Uniti dagli accordi (peraltro timidi e su base volontaria) di Parigi.
Cina. Xi Jinping, il presidente cinese, non si è presentato. Il suo rappresentante, Wang Yi, ha denunciato la latitanza di altri paesi (in primis degli Usa); ha confermato che la Cina rispetterà gli accordi di Parigi e, dunque, l’intenzione di Pechino di raggiungere un massimo delle emissioni entro il 2030 per poi iniziare ad abbatterle. Ma non ha annunciato nessun passo in avanti. Fosse uno studente, potremmo dire che la Cina ha buone intenzioni e possibilità, ma non si impegna abbastanza.
Unione Europea. Molti i leader europei presenti, compreso il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte in rappresentanza dell’Italia. Molta l’attenzione riservata al grido disperato dei giovani. I governi dell’Unione (molti, non tutti) prestano l’orecchio ma non intendono bene le parole dei giovani. Fuor di metafora: gli annunci di nuovi passi concreti da parte degli europei sono stati pochi e poco incisivi. Unica eccezione di rilievo, la Germania di Angela Merkel che, invece, ha annunciato un investimento di 54 miliardi di euro nei prossimi anni per una politica concreta di abbattimento dei gas serra. Peccato, però, che anche la Germania si riserva di chiudere le centrali a carbone – massima fonte di inquinamento – solo entro il 2030. I Verdi tedeschi chiedono che vengano chiuse subito. Quanto all’Italia, si attende il decreto che il governo varerà prossimamente.
India. Le emissioni dell’altro gigante asiatico sono relativamente poche, ma in rapida crescita. L’uso della fonte più inquinante, il carbone, ancora intenso. A New York, il premier Narendra Modi ha annunciato un’accelerazione nello sviluppo di fonti rinnovabili e carbon free di energia entro il 2022. Ma ha annunciato i tempi, non i modi e le quantità in gioco. Insomma, nulla di concreto.
Russia. Di nuovo, c’è solo l’annuncio che la Russia di Putin non denuncerà gli accordi di Parigi. Ma è evidente che, fondando la sua economia sulle esportazioni di ingenti quantità di petrolio e gas naturale, Mosca cercherà quanto meno di ritardare i tempi dell’azione.
Brasile. Il nuovo e controverso presidente Jair Bolsonaro ha inteso ribadire che l’Amazzonia appartiene al Brasile e non è un patrimonio dell’umanità. Come a dire, l’integrità della maggiore foresta tropicale del mondo non è garantita e, in ogni caso, le decisioni verranno prese a Brasilia non in sede di nazioni Unite.
Alla luce di questi annunci risulta fin troppo facile constatare che i ruoli generazionali si sono in parte invertiti. I giovani hanno smesso di chiedere l’avvento al potere della fantasia e ci chiedono azioni tangibili. Spiegano agli adulti, molti reduci del ’68 e del ’69, che stanno vestendo loro addosso un futuro climatico indesiderabile. Che glielo stanno rubando, il futuro. Così impartiscono ai più grandi di età una lezio forte e chiara. Loro, gli adulti, dimostrano di non ascoltare e comunque di non intendere.
Sì, i giovani sono in parte cambiati rispetto a cinquant’anni fa. Gli adulti, invece, commettono gli stessi errori.
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CAMBIAMENTI CLIMATICI: ecologia dei grandi incendi

ffe611f4-b071-424c-aab0-e0f5f353da38di Pietro Greco, Rocca.
Tre grandi incendi – tre grandi insiemi di incendi – hanno caratterizzato questa estate, mandando in fumo milioni di ettari di foreste. Due di questi fuochi enormi hanno avuto l’onore delle cronache: quello che ha interessato la foresta boreale in Siberia e quello che ha interessato la foresta tropicale in Amazzonia. Il terzo di cui si è parlato poco o nulla e che ha dimensioni, almeno come numero di incendi che l’hanno caratterizzato, riguarda la foresta tropicale nell’Africa centro-occidentale.
Questi grandi fuochi hanno un filo rosso in comune: sono favoriti dal gran caldo e dai cambiamenti del clima globale. Ma hanno cause e, forse, effetti diversi. Le une e gli altri ci interessano direttamente.
[segue]

Luna e non solo

f8fb1569-deeb-4e6a-b768-2043d0c0d438di Pietro Greco, su Rocca.

E ora, quando si torna? Dopo aver celebrato il cinquantesimo anniversario dello sbarco sulla Luna e rivisto, con la medesima emozione di allora, Neil Armostrong effettuare il primo piccolo passo per un uomo ma un grande passo per l’umanità, la domanda viene spontanea: quando rifaremo il viaggio? E di che nazionalità sarà il primo astronauta a tornare sulla Luna? Gli aspiranti sono molti. Hanno progetti che riguardano la Luna il Giappone, Israele, l’Europa con l’Esa, l’India. Quest’ultima il 16 luglio, a cinquant’anni dal lancio di quell’Apollo 11, che consentirà al Lem di toccare il suolo lunare il 20 luglio 1969, stava per lanciare una sonda con l’obiettivo di posare sul satellite naturale della Terra un robot con finalità di ricerca scientifica, ma ha dovuto rimandare la missione per problemi tecnici. A riprova che andare sulla Luna, anche cinquant’anni dopo la storica prima volta, non è una passeggiata. Persino quando la missione non prevede la presenza dell’uomo.

Usa e Cina principali candidati al gran ritorno
I candidati principali al gran ritorno restano tre: la Russia, gli Stati Uniti e la Cina. Ma per tornare sulla Luna occorrono molti soldi. Almeno 150 miliardi di dollari o forse più. E questo vincolo induce a scartare subito la Russia, malgrado la grande tradizione spaziale che ha ereditato dall’Unione Sovietica e che, tutto sommato, è riuscita a rinnovare. I russi sono gli unici, per fare un esempio, che hanno navicelle che regolarmente frequentano la Stazione Spaziale Internazionale e in questo «servizio navetta» ospitano astronauti di tutti gli altri paesi, americani compresi. Mosca avrebbe le possibilità tecniche per raggiungere la Luna in un ragionevole lasso di tempo. Ma non ha i quattrini. E, dunque, scartiamo anche lei.
I candidati possibili restano due. Gli Stati Uniti d’America e la Cina. In uno scenario che, come vedremo, non è troppo diverso da quello che, nel 1961, spinse John Kennedy a lanciare il cuore oltre l’ostacolo e ad affermare, con un certo azzardo: gli americani pianteranno la bandiera a stelle e strisce sulla Luna prima che il decennio finisca.
La Nasa, l’agenzia che fu protagonista del progetto vincente cinquant’anni fa, non ne ha in questo momento uno nuovo. Tuttavia il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, cercando di imitare John Kennedy, si è dato e ha dato all’agenzia spaziale del suo paese un obiettivo a brevissimo tempo: un altro americano deve sbarcare sulla Luna entro il 2024. La data non è stata scelta a caso. Se Trump verrà eletto di nuovo alla presidenza Usa, il suo secondo mandato scadrà proprio nel 2024. E lui vuole legare il suo nome alla nuova avventura. Ma se la data proposta riguarda l’immagine del presidente, la motivazione a tornare ha altre concause più profonde. E anche più allarmanti. Ma su questo ritorneremo tra poco. Chiediamoci, per ora, quante possibilità ha Artemis – così si chiama il progetto caldeggiato da Trump – di diventare realtà? I problemi da affrontare sono tre. Uno tecnico, uno economico e infine uno politico.
Da un punto di vista tecnico non c’è dubbio: gli americani hanno la possibilità di ritornare sulla Luna anche in tempi così brevi, pur ripartendo praticamente da zero perché non hanno un progetto operativo in atto. Le cose sarebbero più facili se gli Usa si ponessero alla testa di una collabo- razione internazionale. Ma non sembra essere questa la prospettiva di Donald Trump.
Quello economico è un ostacolo serio. Finanziare la nuova missione lunare non è uno scherzo. Prevederebbe, probabilmente, di decuplicare l’attuale budget della Nasa. Ma con una decisione politica forte, un simile investimento non sarebbe fuori dalla portata degli States.
Eccoci, dunque, allo scoglio politico. Il repubblicano Donald Trump ha poche possibilità che la sua proposta passi. Lo scorso 25 giugno, per esempio, la Camera dei Rappresentanti, dove la maggioranza è democratica, ha approvato una proposta di budget per la Nasa da «tempi normali» e non ha neppure preso in considerazione il progetto di Trump. Al Senato, dove la maggioranza è repubblicana, la discussione (nel momento in cui scriviamo) è ancora in corso, ma non pare che lì in Campidoglio ci sia grande entusiasmo per Artemis.

il programma Cina
Difficilmente, dunque, un americano tornerà entro il 2024 sulla Luna. A meno che…
Che il lettore pazienti. Parleremo fra poco dell’opzione alternativa. Conviene ora riferirsi alla Cina, che ha al momento un programma più lento ma più affidabile. La Cina è stata costretta a lavorare in proprio nello spazio, anche a causa del veto americano a farla entrare nella «casa comune» della Stazione Spaziale Internazionale. Questo ha finito per favorire più che rallentare i progetti di Pechino. La Cina avrà presto una sua stazione spaziale orbitante ed è molto attiva sulla Luna. Lo scorso dicembre ha fatto sbarcare per la prima volta sulla faccia nascosta del satellite naturale della Terra una sonda, la Chang’e-4, dimostrando di aver acquisito capacità tecnologiche molto raffinate. Il prossimo dicembre lancerà la sonda Chang’e-5, cui sono affidati due compiti: raccogliere e mandare a Terra rocce lunari e creare le premesse per una base cinese sulla Luna. Perché quando il primo cinese sbarcherà sulla Luna – non oltre la metà degli anni ’30 – lo farà per restarci. O meglio, per mettere il primo tassello di una vera e propria colonia stabile. Riassumendo: il progetto di Donald Trump è a breve termine, ma non particolarmente solido. Il progetto di Xi Jinping è a medio termine ed è (o almeno, sembra) molto più solido. Quindi possiamo essere relativamente certi che al massimo nel giro di 15 anni un umano (maschio, perché no?, femmina) sbarcherà sulla Luna.

perché tornare sulla Luna?
Ma perché tornarci? Ci sono interessi (scientifici e non) così stringenti da giustificare enormi investimenti per ritornare sulla Luna? Qualcuno sostiene che saranno i privati a battere tutti per interessi economici. Lo scorso mese di dicembre Elon Musk – l’imprenditore che ha fondato e dirige, tra l’altro, la Space Exploration Technologies Corporation – ha persino presentato il primo passeggero, il giapponese Yusaku Maezawa, e la data (entro il 2023), ma non ha indicato il prezzo, comunque elevatissimo, del biglietto. Ma, fino a prova contraria, né Musk né alcun altro privato hanno presentato finora progetti di «ritorno alla Luna» credibili.
Ci sono altri interessi, magari indiretti ma più solidi. Quelli militari e geopolitici. C’è una competizione in atto tra gli Stati Uniti e la Cina che somiglia abbastanza a quella degli anni ’60 tra Usa e Urss. Washington e Pechino si confrontano non tanto sul piano ideologico, ma su quello economico, tecnologico e sempre più militare. E in questo confronto lo spazio sta acquisendo, a torto o a ragione, un valore strategico. Tanto che Donald Trump ha deciso di creare una nuova forza armata – dopo Esercito, Marina e Aviazione – che dovrà presidiare lo spazio. Le ragioni sono molte e quelle strettamente militari esulano dagli scopi di questo articolo. Difficilmente questa scelta resterà senza risposta da parte di Pechino. Stiamo andando, dunque, verso una nuova corsa alla militarizzazione dello spazio. Non è una bella notizia. Anzi, è una pessima notizia.
Ma, proprio come successe negli anni ’60 del secolo scorso, questa pessima notizia può avere effetti tangibili sul rilancio dell’esplorazione dello spazio, compreso il ritorno dell’uomo sulla Luna. Se, infatti, lo spazio assume un valore strategico, allora la possibilità di trovare risorse per affermare la propria supremazia militare e/o la propria immagine muscolare diventerà estremamente concreta.
La Luna potrebbe rientrare nel gioco di questo scontro, speriamo freddo. Ritorneremo, dunque, a un passato, anche spaziale, già visto? E assisteremo a un’autentica guerra dei due mondi?

Pietro Greco
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ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2019
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Salvare la Terra e quanti la abitano – Incontro dibattito lunedì 16 settembre 2019

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Berta Isabel Cáceres Flores
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190af61b-0aa7-4bc6-ba17-6f14c3657452Le ragioni scientifiche di Greta.
di Pietro Greco su Rocca.
Lasciamo perdere i costi, che ammonteranno ad (appena) lo 0,15% del Prodotto interno lordo dell’Unione europea. Ma gli obiettivi vincolanti di riconversione energetica per contrastare i cambiamenti del clima che, nero su bianco, si sono dati i 27+1 paesi del Vecchio Continente che si riconoscono nella Commissione di Bruxelles sono piuttosto ambiziosi. Anzi, [segue] ***La pagina fb dell’evento di lunedì 16 settembre 2019***

LUNA E NON SOLO.

f8fb1569-deeb-4e6a-b768-2043d0c0d438di Pietro Greco, su Rocca.

E ora, quando si torna? Dopo aver celebrato il cinquantesimo anniversario dello sbarco sulla Luna e rivisto, con la medesima emozione di allora, Neil Armostrong effettuare il primo piccolo passo per un uomo ma un grande passo per l’umanità, la domanda viene spontanea: quando rifaremo il viaggio? E di che nazionalità sarà il primo astronauta a tornare sulla Luna? Gli aspiranti sono molti. Hanno progetti che riguardano la Luna il Giappone, Israele, l’Europa con l’Esa, l’India. Quest’ultima il 16 luglio, a cinquant’anni dal lancio di quell’Apollo 11, che consentirà al Lem di toccare il suolo lunare il 20 luglio 1969, stava per lanciare una sonda con l’obiettivo di posare sul satellite naturale della Terra un robot con finalità di ricerca scientifica, ma ha dovuto rimandare la missione per problemi tecnici. A riprova che andare sulla Luna, anche cinquant’anni dopo la storica prima volta, non è una passeggiata. Persino quando la missione non prevede la presenza dell’uomo.

Usa e Cina principali candidati al gran ritorno
I candidati principali al gran ritorno restano tre: la Russia, gli Stati Uniti e la Cina. Ma per tornare sulla Luna occorrono molti soldi. Almeno 150 miliardi di dollari o forse più. E questo vincolo induce a scartare subito la Russia, malgrado la grande tradizione spaziale che ha ereditato dall’Unione Sovietica e che, tutto sommato, è riuscita a rinnovare. I russi sono gli unici, per fare un esempio, che hanno navicelle che regolarmente frequentano la Stazione Spaziale Internazionale e in questo «servizio navetta» ospitano astronauti di tutti gli altri paesi, americani compresi. Mosca avrebbe le possibilità tecniche per raggiungere la Luna in un ragionevole lasso di tempo. Ma non ha i quattrini. E, dunque, scartiamo anche lei.
I candidati possibili restano due. Gli Stati Uniti d’America e la Cina. In uno scenario che, come vedremo, non è troppo diverso da quello che, nel 1961, spinse John Kennedy a lanciare il cuore oltre l’ostacolo e ad affermare, con un certo azzardo: gli americani pianteranno la bandiera a stelle e strisce sulla Luna prima che il decennio finisca.
La Nasa, l’agenzia che fu protagonista del progetto vincente cinquant’anni fa, non ne ha in questo momento uno nuovo. Tuttavia il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, cercando di imitare John Kennedy, si è dato e ha dato all’agenzia spaziale del suo paese un obiettivo a brevissimo tempo: un altro americano deve sbarcare sulla Luna entro il 2024. La data non è stata scelta a caso. Se Trump verrà eletto di nuovo alla presidenza Usa, il suo secondo mandato scadrà proprio nel 2024. E lui vuole legare il suo nome alla nuova avventura. Ma se la data proposta riguarda l’immagine del presidente, la motivazione a tornare ha altre concause più profonde. E anche più allarmanti. Ma su questo ritorneremo tra poco. Chiediamoci, per ora, quante possibilità ha Artemis – così si chiama il progetto caldeggiato da Trump – di diventare realtà? I problemi da affrontare sono tre. Uno tecnico, uno economico e infine uno politico.
Da un punto di vista tecnico non c’è dubbio: gli americani hanno la possibilità di ritornare sulla Luna anche in tempi così brevi, pur ripartendo praticamente da zero perché non hanno un progetto operativo in atto. Le cose sarebbero più facili se gli Usa si ponessero alla testa di una collabo- razione internazionale. Ma non sembra essere questa la prospettiva di Donald Trump.
Quello economico è un ostacolo serio. Finanziare la nuova missione lunare non è uno scherzo. Prevederebbe, probabilmente, di decuplicare l’attuale budget della Nasa. Ma con una decisione politica forte, un simile investimento non sarebbe fuori dalla portata degli States.
Eccoci, dunque, allo scoglio politico. Il repubblicano Donald Trump ha poche possibilità che la sua proposta passi. Lo scorso 25 giugno, per esempio, la Camera dei Rappresentanti, dove la maggioranza è democratica, ha approvato una proposta di budget per la Nasa da «tempi normali» e non ha neppure preso in considerazione il progetto di Trump. Al Senato, dove la maggioranza è repubblicana, la discussione (nel momento in cui scriviamo) è ancora in corso, ma non pare che lì in Campidoglio ci sia grande entusiasmo per Artemis.

il programma Cina
Difficilmente, dunque, un americano tornerà entro il 2024 sulla Luna. A meno che…
Che il lettore pazienti. Parleremo fra poco dell’opzione alternativa. Conviene ora riferirsi alla Cina, che ha al momento un programma più lento ma più affidabile. La Cina è stata costretta a lavorare in proprio nello spazio, anche a causa del veto americano a farla entrare nella «casa comune» della Stazione Spaziale Internazionale. Questo ha finito per favorire più che rallentare i progetti di Pechino. La Cina avrà presto una sua stazione spaziale orbitante ed è molto attiva sulla Luna. Lo scorso dicembre ha fatto sbarcare per la prima volta sulla faccia nascosta del satellite naturale della Terra una sonda, la Chang’e-4, dimostrando di aver acquisito capacità tecnologiche molto raffinate. Il prossimo dicembre lancerà la sonda Chang’e-5, cui sono affidati due compiti: raccogliere e mandare a Terra rocce lunari e creare le premesse per una base cinese sulla Luna. Perché quando il primo cinese sbarcherà sulla Luna – non oltre la metà degli anni ’30 – lo farà per restarci. O meglio, per mettere il primo tassello di una vera e propria colonia stabile. Riassumendo: il progetto di Donald Trump è a breve termine, ma non particolarmente solido. Il progetto di Xi Jinping è a medio termine ed è (o almeno, sembra) molto più solido. Quindi possiamo essere relativamente certi che al massimo nel giro di 15 anni un umano (maschio, perché no?, femmina) sbarcherà sulla Luna.

perché tornare sulla Luna?
Ma perché tornarci? Ci sono interessi (scientifici e non) così stringenti da giustificare enormi investimenti per ritornare sulla Luna? Qualcuno sostiene che saranno i privati a battere tutti per interessi economici. Lo scorso mese di dicembre Elon Musk – l’imprenditore che ha fondato e dirige, tra l’altro, la Space Exploration Technologies Corporation – ha persino presentato il primo passeggero, il giapponese Yusaku Maezawa, e la data (entro il 2023), ma non ha indicato il prezzo, comunque elevatissimo, del biglietto. Ma, fino a prova contraria, né Musk né alcun altro privato hanno presentato finora progetti di «ritorno alla Luna» credibili.
Ci sono altri interessi, magari indiretti ma più solidi. Quelli militari e geopolitici. C’è una competizione in atto tra gli Stati Uniti e la Cina che somiglia abbastanza a quella degli anni ’60 tra Usa e Urss. Washington e Pechino si confrontano non tanto sul piano ideologico, ma su quello economico, tecnologico e sempre più militare. E in questo confronto lo spazio sta acquisendo, a torto o a ragione, un valore strategico. Tanto che Donald Trump ha deciso di creare una nuova forza armata – dopo Esercito, Marina e Aviazione – che dovrà presidiare lo spazio. Le ragioni sono molte e quelle strettamente militari esulano dagli scopi di questo articolo. Difficilmente questa scelta resterà senza risposta da parte di Pechino. Stiamo andando, dunque, verso una nuova corsa alla militarizzazione dello spazio. Non è una bella notizia. Anzi, è una pessima notizia.
Ma, proprio come successe negli anni ’60 del secolo scorso, questa pessima notizia può avere effetti tangibili sul rilancio dell’esplorazione dello spazio, compreso il ritorno dell’uomo sulla Luna. Se, infatti, lo spazio assume un valore strategico, allora la possibilità di trovare risorse per affermare la propria supremazia militare e/o la propria immagine muscolare diventerà estremamente concreta.
La Luna potrebbe rientrare nel gioco di questo scontro, speriamo freddo. Ritorneremo, dunque, a un passato, anche spaziale, già visto? E assisteremo a un’autentica guerra dei due mondi?

Pietro Greco
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ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2019
rocca-16-17-2019

Su Aladinpensiero da Rocca

75° ACCORDI DI BRETTON WOODS
accordi-di-bwcooperazione da reinventare di Roberta Carlini su Rocca. Ripubblicazione su Editoriale Aladinpensiero.
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f8fb1569-deeb-4e6a-b768-2043d0c0d438di Pietro Greco, su Rocca. Ripubblicazione su Editoriale Aladinpensiero.
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