Risultato della ricerca: Vanni Tola

Noi e Trump. Trump, l’Europa e il Resto del Mondo (?) Ci serve tempo per pensare, confronto delle analisi del voto per capire

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di Vanni Tola
Elezione di Trump. Ci serve tempo per pensare, confronto delle analisi del voto per capire.
Delusione e stupore per l’elezione di Trump, molti non credevano che potesse realizzarsi. Non soltanto i comuni mortali, ma anche i sondaggisti, i media internazionali, i grandi opinionisti conoscitori dell’America non credevano che lo “strano” personaggio, alla fine sarebbe riuscito a diventare Presidente degli Stati Uniti d’America. Non c’era molto entusiasmo per la candidatura della Clinton ma prevaleva la convinzione che, alla fine della lunga compagna elettorale, il popolo americano avrebbe sostenuto il candidato “meno peggio” fra i due. Ora ci serve tempo per pensare e capire. L’unica certezza è che non stiamo riuscendo a comprendere e interpretare adeguatamente la realtà, in particolare l’evolversi delle scelte delle masse che appaiono “strane e controtendenza” soltanto perché noi non riusciamo a leggerle e comprenderle secondo i nostri vecchi parametri di riferimento. Occorrono dei nuovi occhiali attraverso i quali osservare il mondo abbandonando la tendenza a trincerarsi dietro luoghi comuni banali e inconsistenti del tipo “gli americani sono strani e un po’ matti” e simili. E comprendere che sta succedendo nel nostro piccolo-grande mondo è fondamentale perché sta cambiando la scenografia, cambiano i personaggi, si riscrive la trama della storia del Mondo. Pensate soltanto ad alcuni macro problemi. L’America non ha più il ruolo di superpotenza nell’universo mondo né vuole continuare a difendere tale ruolo. In termini economici, per esempio, è fortemente contrastata dalla crescita della Cina e dell’India. Intanto che l’Europa si interroga timidamente sulla possibilità di intervenire in Africa per favorire lo sviluppo e contrastare il fenomeno migratorio verso il vecchio mondo, la Cina sta realizzando colossali investimenti in quel continente diventando, nei fatti, un paese leader per le popolazioni africane. L’America, se realizzerà il programma del neo presidente Trump, potrebbe rimettere in discussione la maggior parte dei trattati commerciali in atto e di quelli in discussione ( es. TTIP) per realizzare una politica protezionistica dei propri prodotti. Uno sconvolgimento epocale dei commerci internazionali. La stessa politica di difesa della Nato, o meglio, il ruolo che nella Nato svolge l’America, potrebbe subire radicali mutamenti ponendo l’Europa di fronte alla necessità di riorganizzare al più presto le politiche e le strategie per la difesa del vecchio continente. La disponibilità a realizzare un nuovo rapporto di confronto e collaborazione – tempestivamente manifestata da Putin dopo l’elezione di Trump – può far pensare a nuovi rapporti, questa volta non conflittuali, tra la Russia che cerca una nuova collocazione nello scacchiere mondiale e gli Stati Uniti. Paradossalmente potrebbe perfino accadere che la politica estera di Trump, almeno per quanto riguarda il rapporto con l’Unione Sovietica, possa caratterizzarsi come azione orientata allo sviluppo della pace e del confronto anziché al prolungamento della “guerra fredda”. Tutte ipotesi da verificare, naturalmente. Infine l’Europa. L’Unione viene fuori da questa vicenda molto ridimensionata. Si vanno affermando in tutti i paesi dell’Unione forti stimoli antieuropeiste e nazionalitarie, in parte innescate dall’uscita della Gran Bretagna, che riceveranno nuovo impulso dal grande trionfo del populismo di Trump. Mai come ora è indispensabile e urgente che l’Unione Europea riscriva e ridefinisca i principi fondamentali del progetto di costruzione di un’Europa politica, della realizzazione degli Stati Uniti d’Europa. L’alternativa sarebbe l’uscita di scena dell’Unione e la disperata ricerca dei paesi che ora la compongono per ridefinire un proprio ruolo nazionale nel più ampio panorama della globalizzazione e del confronto tra le superpotenze, quelle tradizionali e quelle emergenti. Ci serve tempo per pensare, confronto delle analisi del voto per capire.

La direzione di Francesco: non una involuzione restaurativa verso i tempi preconciliari come sotto il papa polacco e sotto quello tedesco, ma passaggi meditati, pianificati e ben mediati di una riforma in linea con il Concilio Vaticano II.

Papa Francesco: un paradosso? di Hans Küng.
Hans Kung Fond Sardinia
Queste pagine, parte dell’Epilogo della corposa autobiografia (Una battaglia lunga una vita, Rizzoli, Mi, 2014) del grande teologo cattolico svizzero Hans Küng, esprime la propria gioiosa sorpresa per i primi atti di papa Francesco in questo intervento che riprende la speranza per la riforma della Chiesa e consiglia i fedeli sui modi e gli atteggiamenti che la rendano operativamente possibile. Lo pubblichiamo mentre siamo alla lettura dei resoconti del viaggio di Francesco in Svezia per ricordare il Lutero riformatore della Chiesa e studioso obbediente delle Scritture (Salvatore Cubeddu su Fondazione Sardinia).
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«Per una riforma della Chiesa dal basso»
di Hans Küng

Il 14 aprile 2013, a Lucerna, col mio discorso di «politica interna», ho avuto occasione di parlare del nuovo pontificato e della situazione della Chiesa. Lo riporto qui parola per parola, come testimonianza e documento.

«Chi l’avrebbe detto? Quando, tempo fa, decisi di rinunciare alle mie cariche onorifiche al compimento del mio 85 anno, ero convinto che il sogno da me coltivato per decenni, cioè di assistere di nuovo nella mia vita a una svolta nella nostra Chiesa, come ai tempi di Giovanni XXIII, non si sarebbe più realizzato.

E invece guarda un po’: Joseph Ratzinger, che ha condiviso con me per qualche anno un tratto della sua vita – abbiamo entrambi ottanta­cinque anni -, improvvisamente ha abbandonato prima ancora di me la sua carica papale e proprio il 19 marzo, giorno del suo onomastico e del mio compleanno, gli è subentrato un nuovo papa, con il sorprendente nome di Francesco.

Jorge Mario Bergoglio si sarà chiesto perché finora nessun papa ha osa­to scegliere il nome Francesco? Comunque, l’argentino era ben consapevo­le di ricollegarsi, con questo nome, a Francesco di Assisi, il santo del XIII secolo celebre per la sua scelta di rinunciare a tutto, il figlio mondano e gaudente di un ricco mercante di tessuti di Assisi, che a ventiquattro anni rinuncia alla famiglia, alla ricchezza e alla carriera restituendo al padre i suoi lussuosi vestiti.

È sorprendente come papa Francesco abbia scelto fin dal primo mo­mento della sua entrata in carica uno stile nuovo: a differenza del suo pre­decessore, niente mitra trapunta d’oro e gemme, niente mozzetta pur­purea orlata di ermellino, niente scarpe e copricapo rossi appositamente confezionati, niente trono e tiara.

Sorprendente anche che il nuovo papa abbia di proposito rinunciato ai gesti solenni e alla retorica pretenziosa e parli la lingua della gente, come la possono praticare anche i predicatori laici, oggi come allora vietati dai papi.

Sorprendente, infine, come il nuovo papa sottolinei il suo essere uomo tra gli uomini: chiede la preghiera della gente prima di impartire la sua benedizione; paga come chiunque altro il conto dell’albergo; realizza la collegialità con i cardinali in autobus, nella residenza comune, nel con­gedo ufficiale, lava i piedi a giovani carcerati, anche a donne, perfino a un musulmano. Un papa che si presenta come una persona alla mano.

Tutto ciò avrebbe rallegrato Francesco di Assisi ed è il contrario di ciò che al suo tempo rappresentava papa Innocenzo III (1198-1216). Nel 1209 Francesco si era recato da lui a Roma con undici “frati minori” (fratres minores), per presentargli la sua breve regola, costituita esclusiva­mente da citazioni della Bibbia, e ottenere l’approvazione papale per la sua scelta di vivere in povertà e nella predicazione laicale, “in conformità al santo Vangelo”. Innocenzo III, conte di Segni, eletto papa a soli tren­tasette anni, era nato per comandare: erudito teologo, sottile giurista, oratore di talento, amministratore capace e diplomatico raffinato. Nes­sun suo predecessore o successore ebbe mai più potere di lui. Con lui, la rivoluzione dall’alto introdotta da Gregorio VII nell’XI secolo (la “Ri­forma gregoriana”) aveva raggiunto il suo obiettivo. Al titolo di “vicario di Pietro” preferì il titolo, impiegato fino al XII secolo per ogni vescovo o sacerdote, di “vicario di Cristo” (Innocenzo IV lo avrebbe cambiato addirittura in “vicario di Dio”). Da allora, diversamente da quanto era avvenuto nel primo millennio e pur senza mai essere riconosciuto dalle Chiese apostoliche orientali, il papa si è considerato un sovrano, legisla­tore e giudice assoluto della cristianità – fino a oggi.

Tuttavia, il trionfale pontificato di Innocenzo III fu non soltanto un apogeo, ma anche un punto di svolta. Già sotto di lui si manife­starono i segni di declino che in parte sono rimasti fino ai nostri gior­ni tratti caratteristici del sistema romano-curiale: nepotismo, avidità, corruzione e affari finanziari dubbi. Eppure già dagli anni Settanta e­Ottanta del XII secolo si formarono imponenti e anticonformisti mo­vimenti penitenziali e pauperisti (catari, valdesi). Ma papi e vescovi intervennero naturalmente contro queste correnti minacciose con di­vieti alla predicazione laicale, condanna degli “eretici”, Inquisizione- e­persino guerre contro gli “eretici”.

Fu però proprio Innocenzo III a cercare di integrare nella Chiesa i movimenti pauperisti evangelico-apostolici, nonostante la sua politica di eliminazione degli “eretici” più ostinati (i catari). Anche Innocenzo era consapevole di quanto fossero necessarie e urgenti quelle riforme della Chiesa per le quali alla fine convocò lo sfarzoso Concilio Latera­nense IV. Perciò dopo lunghe raccomandazioni rilasciò a Francesco di Assisi il consenso alla predicazione quaresimale. Sull’ideale di assoluta povertà prescritto dalle regole egli si riservava di interpellare in preghiera la volontà di Dio. Si racconta che il pontefice alla fine approvò la regola dì Francesco di Assisi. In seguito a un sogno nel quale aveva visto un modesto fraticello salvare dal crollo la basilica papale del Laterano. Egli la rese nota al concistoro dei cardinali, ma non fissò nulla per iscritto.

In effetti, Francesco di Assisi rappresentò e rappresenta l’alternativa al sistema romano. Cosa sarebbe accaduto se già Innocenzo e i suoi avessero di nuovo preso sul serio il Vangelo? Le esortazioni in esso racchiuse anche se intese non alla lettera, ma nel loro contenuto spirituale, significavano e significano. una profonda messa in questione del sistema romano, di quella struttura di potere centralistica, giuridicizzata, politicizzata e clericalizzata, che a partire dall’XI secolo si è impossessata a Roma della causa di Cristo.

Innocenzo III sarebbe stato l’unico papa che in base a qualità eccezio­nali e all’autorità avrebbe potuto con un Concilio mostrare alla Chiesa una strada fondamentalmente diversa. Ciò avrebbe potuto risparmiare al papato nel XIV-XV secolo scissione ed esilio e alla Chiesa nel XVI secolo la Riforma protestante. Certamente questo avrebbe avuto per conseguenza per la Chiesa cattolica un cambio di paradigma già nel XIII secolo, peraltro uno che non avrebbe scisso la Chiesa, anzi avrebbe rinnovato e al contem­po riconciliato la Chiesa occidentale e la Chiesa orientale.

Così dunque le protocristiane richieste centrali di Francesco di Assisi restano fino a oggi domande alla Chiesa cattolica e ora a un papa che si chiama programmaticamente Francesco: paupertas (povertà), humilitas (umiltà), e simplicitas (semplicità). Ciò ben spiega come mai finora nes­sun papa abbia osato prendere il nome di Francesco: le pretese appariva­no troppo alte.

Si pone allora la seconda domanda: Cosa significa oggi per un papa adottare coraggiosamente il nome Francesco? Ovviamente anche la per­sona di Francesco di Assisi, che ha le sue unilateralità, esaltazioni e de­bolezze, non può essere idealizzata. Egli non è una norma assoluta. Ma le sue richieste protocristiane vanno prese sul serio, anche se non devono essere realizzate alla lettera ma dovrebbero essere tradotte dal papa e dalla Chiesa nell’epoca odierna:

1.paupertas, povertà? La Chiesa nello spirito di Innocenzo III è una Chiesa della ricchezza, della boria e del lusso, dell’avidità e degli scan­dali finanziari. Al contrario, una Chiesa nello spirito di Francesco vuol dire una Chiesa dalla politica finanziaria trasparente e dalla semplicità frugale. Una Chiesa che si prende cura soprattutto dei poveri, dei deboli, degli handicappati, dei bisognosi. Che non accumula ric­chezza e capitale ma combatte attivamente la povertà e offre condi­zioni di lavoro esemplari al proprio personale;

2. humilitas, umiltà? La Chiesa nello spirito di papa Innocenzo è una Chiesa del potere e del dominio, della burocrazia e della discriminazio­ne, della repressione e dell’Inquisizione. Al contrario, una Chiesa nello spirito di Francesco significa una Chiesa della filantropia, del dialogo, della fraternità, dell’ospitalità anche per gli anticonformisti, del servizio modesto dei suoi dirigenti e della solidarietà sociale, che non esclude dalla Chiesa nuove forze e idee religiose, bensì le rende feconde;

3. simplicitas, semplicità? La Chiesa nello spirito di papa Innocenzo è una Chiesa dell’immobilità dogmatica, della censura moralistica e della protezione giuridica, una Chiesa della canonistica onniregolan­te, della scolastica onnisciente e della paura. Al contrario, la Chiesa nello spirito di Francesco di Assisi vuol dire una Chiesa della lieta no­vella e della gioia, di una teologia orientata al semplice Vangelo, che ascolta gli uomini invece di limitarsi a indottrinare dall’alto verso il basso, una Chiesa non solo insegnante, ma sempre di nuovo discente.

Alla luce delle istanze e dei principi di Francesco di Assisi oggi si possono formulare opzioni di fondo anche per una Chiesa cattolica la cui faccia­ta risplende in occasione delle grandi manifestazioni romane, ma la cui struttura interna nella vita quotidiana delle comunità di molti Paesi si rivela ormai fragile e fatiscente, sicché molte persone se ne allontanano interiormente e spesso anche esteriormente.

Tuttavia, nessun individuo razionale può attendersi che tutte le rifor­me vengano realizzate da un solo uomo dall’oggi al domani. Nondimeno, un mutamento di paradigma sarebbe possibile in cinque anni, come dimostrò nell’XI secolo il papa lorenese Leone IX (1049-1054), che aveva preparato la riforma di Gregorio VII, e come avrebbe poi dimostrato nel xx secolo l’italiano Giovanni XXIII (1958-1963), convocando il Concilio Vaticano II. Oggi, soprattutto, dovrebbe essere chiara la direzione: non una involuzione restaurativa verso i tempi preconciliari come sotto il papa polacco e sotto quello tedesco, ma passaggi meditati, pianificati e ben mediati di una riforma in linea con il Concilio Vaticano II.

Oggi come allora si pone una terza questione: Una riforma della Chiesa sa non incontrerà una seria resistenza? Indubbiamente essa susciterà, soprattutto nell’apparato di potere della curia romana, potenti controforze alle quali sarà necessario far fronte. I potenti del Vaticano non rinunceranno spontaneamente a un potere accumulato fin dal Medioevo,

Quanto possa essere forte la pressione curiale lo dovette sperimen­tare anche Francesco di Assisi. Egli, che si voleva staccare da tutto in povertà, si attaccò sempre più alla “santa madre Chiesa”. Voleva vivere la conformità con Gesù non nel confronto con la gerarchia, ma nell’ ob­bedienza al papa e alla curia: in povertà vissuta e con la predicazione laicale. Lascia addirittura elevare se stesso e i suoi compagni allo stato clericale per mezza della tonsura. Questo invero facilita l’attività di pre­dicazione, però promuove la clericalizzazione della nuova comunità, la quale comprende sempre più sacerdoti. Non è quindi sorprendente che la comunità francescana venga sempre più integrata nel sistema romano. Gli ultimi anni di Francesco vennero incupiti dalla tensione tra l’ideale originario dell’imitazione di Gesù e l’adeguamento della sua comunità al tipo precedente di vita monastica.

Gloria a Francesco: il 3 ottobre 1226 egli muore povero come aveva vissuto, a soli quarantaquattro anni. Papa Innocenzo III era morto, in modo del tutto inaspettato, già dieci anni prima, un anno dopo il Con­cilio Lateranense IV, all’età di cinquantasei anni. Il 16 giugno 1216 il cadavere di colui che aveva saputo accrescere, come nessun altro prima, il potere, il dominio e la ricchezza della Santa Sede, fu trovato nella catte­drale di Perugia, abbandonato da tutti, completamente nudo e derubato dai suoi stessi servitori. Un segnale del rovesciamento della sovranità universale del papa nell’impotenza del papa: all’inizio del XIII secolo il glorioso pontificato di Innocenzo III; alla fine di quello stesso secolo il megalomane Bonifacio VIII (1294-1303), miseramente fatto prigionie­ro, al quale sarebbero seguiti l’esilio di Avignone, durato circa settant’an­ni, e lo scisma d’Occidente, con due e alla fine tre papi.

Nemmeno due decenni dopo la morte di Francesco, il movimento francescano rapidamente diffusosi in Italia sembra quasi completamente addomesticato dalla Chiesa romana, tanto da porsi ben presto al servizio della politica papale, come un normale ordine monastico, e da farsi ad­dirittura coinvolgere nell’Inquisizione.

Se dunque è stato possibile addomesticare Francesco di Assisi e i suoi compagni nel sistema romano, ovviamente non si può escludere che alla fine un papa Francesco venga catturato nel sistema romano che dovreb­be riformare. Papa Francesco: un paradosso? Potranno mai conciliarsi il papa e Francesco, un contrasto evidente? Solo con un papa delle riforme ispirato dal Vangelo. Non dobbiamo rinunciare troppo presto alla nostra speranza in un simile pastor angelicus!

Infine, una quarta questione: Che fare se ci viene tolta dall’alto la spe­ranza nella riforma? I tempi in cui il papa e i vescovi potevano contare tranquillamente sull’ubbidienza dei fedeli sono comunque passati. Con

La Riforma gregoriana nell’XI secolo era stata introdotta nella Chiesa cattolica una certa mistica dell’obbedienza: obbedire a Dio significava obbedire alla Chiesa e questo a sua volta significava obbedire al papa e viceversa. Da quel momento l’obbedienza al papa come virtù centrale venne inculcata a tutti i cristiani; conseguire comando e obbedien­za – con qualsiasi mezzo! – divenne lo stile romano. Ma l’equazione medievale “obbedienza a Dio = obbedienza alla Chiesa = obbedienza al papa» contraddice già la parola dell’ apostolo davanti al sinedrio di Gerusalemme:’ «Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini”.

Dunque, non possiamo in alcun modo cedere alla rassegnazione, ma di fronte alla mancanza di impulsi riformatori “dall’alto”, dalla gerar­chia, dobbiamo intraprendere decisamente le riforme “dal basso’: a partire dalla gente. Se papa Francesco metterà mano alle riforme troverà un vasto consenso da parte della gente, ben al di là della Chiesa cattolica. Se però alla fine andasse avanti così e non sciogliesse il nodo delle riforme, il grido “Indignatevi! Indignez-vous!” risuonerebbe sempre più anche nella Chiesa cattolica e provocherebbe riforme dal basso che sarebbero realizzate lo stesso senza l’approvazione da parte della gerarchia e spesso addirittura contro i tentativi di impedirle della stessa gerarchia. Nel caso peggiore – l’ho scritto già prima dell’elezione di questo papa – la Chiesa cattolica vivrebbe, anziché una primavera, una nuova era glaciale e cor­rerebbe il pericolo di ridursi a una grande setta poco rilevante.

Ma come devono essere varate dunque le riforme “dal basso”? Non posso consigliare niente di meglio di quanto avevo già affidato non meno di quarant’anni fa – chi non pensa qui ai quarant’anni trascorsi da Israele nel deserto! – alla dichiarazione Contro la rassegnazione di 33 eminenti teologi nel 1972. Tra questi, di lingua tedesca, i teologi riformisti, in primo luogo il padre- della nostra Fondazione Herbert Haag, ma anche Alfons Auer, Franz Bockle, Norbert Greinacher, Otto Karrer, Walter Kasper e Johann Baptist Metz.
Ripeto le 5 parole d’ordine:

Parola d’ordine 1: Non tacere! Ognuno nella Chiesa, ministro o no, uomo o donna, ha il diritto e spesso il dovere di dire cosa pensa della Chiesa e della sua direzione, e cosa considera necessario fare, dunque apportare proposte per il miglioramento (cfr. CIC c. 212 § 3).

Abbiate fiducia nel potere della parola! Tre giovani donne coraggiose del gruppo Pussy Riot a Mosca hanno coperto di ridicolo davanti a tutto il mondo il regime autoritario del capo del Cremlino Putin. E l’artista cinese Ai Weiwei si è impegnato a Pechino, osservato in tutto il mondo, per diritti umani, democrazia e giustizia, sfidando così l’intero apparato totalitario del partito.

Parola d’ordine 2: Agire in prima persona! Non solo lamentarsi e inveire contro Roma e i vescovi, ma diventare attivi in prima persona.

Abbiamo fiducia nel potere dell’azione! Proprio nella società moderna i singoli come i gruppi hanno la possibilità di influenzare positivamente la vita ecclesiale, in modo particolare attraverso i nuovi media e internet. Che non possa forse una volta o l’altra giungere dopo quella araba una “primavera cattolica”?

Parola d’ordine 3: Camminare insieme! L’individuo deve, ove possi­bile, procedere col sostegno degli altri: degli amici, del Consiglio par­rocchiale, dei sacerdoti o pastorale e delle associazioni cattoliche laiche o anche di liberi raggruppamenti di laici, dei movimenti riformisti, dei gruppi sacerdotali e di solidarietà.

Abbiate fiducia nel potere della comunità! Quarant’anni fa ho formu­lato la frase che si è avverata solo nel 2011: “Un parroco nella diocesi non conta, cinque vengono notati, cinquanta sono invincibili”. La coraggiosa e persistente Iniziativa parroci in Austria, al vertice il nostro premiato Helmut Schiìller, conta ormai circa 500 firmatari e ha portato a cedere il cardinale viennese Christoph Schònborn, che dapprima minacciava la scomunica. E anche l’iniziativa parrocchiale avviata in Svizzera conta ormai quasi 550 firme di assistenti spirituali. Simili incoraggianti par­tenze e sviluppi alla base della Chiesa ci sono oggi ovunque nel mondo. Si spera che a questi movimenti si associno molti altri singoli, gruppi e soprattutto pastori.

Parola d’ordine 4: Perseguire soluzioni provvisorie! Le discussioni da sole non sono di aiuto. Spesso occorre mostrare di far sul serio. Una pres­sione sulle autorità ecclesiastiche nello spirito della fraternità cristiana può essere legittima là dove i titolari di un ministero non sono all’altezza del loro compito. Chi non vuole ascoltare deve sentire.

Abbiate fiducia nel potere della resistenza! La lingua nazionale nell’intera liturgia cattolica, il cambiamento delle norme relative ai matrimoni misti, l’affermazione della tolleranza, della democrazia, dei diritti umani e tante altre cose sono state raggiunte nella storia della Chiesa soltanto in virtù di una costante e leale pressione dal basso. La disobbedienza diffusa delle comunità parrocchiali tedesche di fronte al divieto romano alle donne di servir messa lo ha mostrato chiaramente. Là dove una disposizione dell’ au­torità ecclesiastica costituita manifestamente non corrisponde al Vangelo, la resistenza può essere lecita e persino doverosa. Proprio nella Chiesa si deve “obbedire a Dio invece che agli uomini” (At 5,29). E perché, mi chie­do, non si deve per esempio sostituire la legge sul celibato con un celibato volontario anche per la Chiesa tedesca come per le Chiese orientali unite a Roma, lasciando la legge a coloro i quali la vogliono mantenere?

Parola d’ordine 5: Non abbandonare! Nel rinnovamento della Chiesa la tentazione più grave o, spesso, anche un comodo alibi è rappresentato dall’idea che tutto sia privo di senso, che non si debba insistere, ma sia meglio andarsene: emigrazione all’esterno o all’interno. Ma proprio nell’at­tuale fase di restaurazione e stagnazione intraecclesiastica è necessario perse­verare tranquillamente in una fede fiduciosa e trattenere a lungo il respiro. Anche la “restaurazione politica” nel XIX secolo era finita dopo tre decenni.

Abbiamo fiducia nel potere della speranza! Molti ancora aspettano il ravvedimento dei responsabili. Ma il disbrigo dei casi di abuso ha len­tamente messo in moto anche in molti vescovi un cambiamento di co­scienza. E ora sono anche esposti a interrogativi più fondamentali: per esempio sul potere e il suo esercizio nella Chiesa, sul suo rigido dogma­tismo o sulla sessualità e la sua repressione.

Auguro a tutti voi di cuore: non lasciatevi scoraggiare dalle delusioni.

Continuate a combattere accanitamente, coraggiosamente e con perseveranza in una fede fiduciosa e mantenete di fronte a ogni indolenza, stoltezza e rassegnazione la speranza in una Chiesa che di nuovo vive e agisce di più sul Vangelo di Gesù Cristo. E in ogni ira, alterco e protesta non dimenticate l’amore!»
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Con questo appello avevo già chiuso nello stesso spirito il mio discorso «Per una riforma della Chiesa dal basso», il 18 ottobre 2012 nella chie­sa di San Paolo a Francoforte, dove gruppi riformisti provenienti da tutta l’area tedescofona insieme a ospiti internazionali erano convenuti per commemorare il 50° anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II e per partecipare a un «convegno conciliare» che si sarebbe protratto per più giorni. Gli oltre 1000 riformisti che affollavano quel luogo tanto significativo per la democrazia in Germania, durante la cerimonia di inaugurazione dei lavori, diedero anche nei giorni successivi della conferenza molteplice espressione alloro anelito a una maggior democrazia nella Chiesa.
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Küng LIBRO
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Altra fonte. Un articolo di Hans Kung apparso in spagnolo sul periodico latinoamericano
EL PAIS INTERNATIONAL 10 Maggio 2013
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papa
NON LASCIAMO SOLO FRANCESCO
di Franco Meloni su Aladinews del 22 settembre 2013.

“E pregate per me”. Con questa invocazione papa Francesco ha chiuso alcuni suoi discorsi di questa giornata. Come dire anche “Non lasciatemi solo”. Nel momento in cui tutti chiedono a lui conforto e sostegno e, quanti credono, preghiere, che lui generosamente assicura, chiede di essere ricambiato. Ne ha necessità Francesco per sostenere l’immane compito che gli è stato affidato – dallo Spirito o dagli uomini non fa differenza – di guidare la Chiesa e di dare al mondo intero prospettive di progresso in questa critica fase storica. Che richiederebbe scelte coraggiose, partendo dalla constatazione che occorre cambiare i modelli di sviluppo ormai inadeguati. Cosa che si può fare solo cambiando mentalità. I cinesi, ha ricordato il papa parlando al mondo della cultura, compongono la parola crisi con due caratteri, dei quali uno significa pericolo e l’altro opportunità. Dobbiamo superare la crisi utilizzandola per cambiare i sistemi, per farlo occorre un cambio culturale, che sa di rivoluzione! Ecco cosa precisamente sostiene il papa: “Vorrei condividere con voi tre punti semplici ma decisivi. Il primo: rimettere al centro la persona e il lavoro. La crisi economica ha una dimensione europea e globale; ma la crisi non è solo economica, è anche etica, spirituale e umana. Alla radice c’è un tradimento del bene comune, sia da parte di singoli che di gruppi di potere. È necessario quindi togliere centralità alla legge del profitto e della rendita e ricollocare al centro la persona e il bene comune”.
Mica facile. Eppure è la strada giusta, che richiede uno sforzo immane. I due terzi dell’umanità e in generale i poveri della terra non accetteranno per molto tempo ancora di essere vittime di un sistema economico globale e globalizzante sempre più ingiusto. Purtroppo non ci sono leader disposti a sostenere questo mutamento epocale con la necessaria credibilità. Papa Francesco invece sì: ha senza dubbio le caratteristiche e capacità necessarie, ma non può da solo assolvere a un compito che per grande parte appartiene ad altri, ai politici innanzitutto. La Chiesa indica strade da percorrere eticamente, ma non può e non deve sostituirsi (se non per brevi tratti) al potere politico, a cui compete la funzione di governo delle comunità.
Mentre emerge in maniera netta questa ineludibile necessità di forte cambiamento, di cui papa Francesco è credibile portatore, si evidenzia la crescente inadeguatezza dell’attuale classe politica a tutti i livelli e in tutte le latitudini. Eppure le energie per cambiare ci sono e risiedono proprio in quelle donne e in quegli uomini, appartenenti sopratutto alle giovani generazioni, oggi in grande misura esclusi dal potere di governo dell’economia e delle istituzioni.
Come ci esorta Francesco, non ci resta che credere e impegnarci nel cambiamento non lasciandoci rubare la speranza.
Riprenderemo questo discorso…
silvias dal papa

La classe politica favorisce o contrasta il declino della Sardegna?

Paolo Fadda

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Ho avuto sempre il dubbio che la saggezza dei vecchi non fosse altro che presunzione e che i loro consigli non fossero altro che utopia o, spesso, evidente rammarico per i loro sogni irrealizzati o per i loro progetti mancati. Ora che sono anch’io entrato, e non da poco, nella consorteria dei vecchi (e dei vegliardi) ne ripeto anch’io le manie, cercando di distribuire pillole di saggezza, incurante del fatto che siano frutto di presunzione o di delusioni. Con l’invito, quindi, “a perdonai”!
Cosi ho messo insieme delle riflessioni su quel che sta accadendo di questi tempi in Sardegna, con una politica che ha rimesso ad altri le sue responsabilità elettorali, ritenendo che il governo di una regione possa essere delegata ad altri, magari a dei bravi ed onesti signori, peraltro non titolari di alcun mandato popolare e quindi privi di quelle sensibilità politiche che solo una lunga militanza nelle istituzioni democratiche riesce a dare.
Con queste avvertenze vi invito a leggere quanto ha pubblicato “Sardinia Post” a mia firma.

Ma la classe politica, come oggi è rappresentata qui da noi, è in grado di impedire il continuo declino dell’isola e di riportarla verso la necessaria ed urgente ripresa? Si tratta di una domanda che da tempo circola fra i sardi ed a cui, purtroppo, sono molte di più le risposte decisamente negative di quelle positive, magari anche parzialmente, che si devono registrare.
C’è dunque molta diffidenza, se non proprio insofferenza, nei confronti di una classe politica a cui sembra mancare proprio quella che dovrebbe essere la sua capacità essenziale, cioè quello di dover essere di guida e sostegno per la comunità regionale che le si è affidata con il voto.
Cosa s’intende d’esserne innanzitutto la guida politica? Quello – chiariamo – d’avere un progetto politico su cui indirizzare il percorso di ripresa e di riscossa dell’isola, in modo da renderla libera dai triboli e dalle difficoltà del presente. Detto ancor più chiaramente: d’avere delle idee chiare su come e verso dove guidare la sua riscossa. Ed è proprio su questo concetto di guida – mancata od abortita, fate voi – che si appuntano quelle risposte negative di molti sardi, a cui si è fatto cenno più sopra.
Andrebbe chiarito inizialmente che non si è di fronte ad un fatto esclusivamente sardo (nei giorni sorsi un editoriale di Angelo Panebianco sul Corriere era titolato emblematicamente “il suicidio della politica”), ma non dovrebbe essere questo un alibi od una discolpa.
Qui in Sardegna, infatti, si è di fronte, se non proprio ad un suicidio della politica, ad una sua diserzione o, ancor meglio, ad una fuga dai propri compiti, anche quelli più impegnativi, trasferendoli a terzi, molto spesso però dimostratisi, con le loro decisioni, degli “impolitici”. Cioè, per essere ancora più chiari, a guidare le istituzioni pubbliche, a partire da quella di più alto grado della Regione, si è data delega a dei “supplenti”, seppure dai curricula autorevoli, non ritenendo quindi sufficienti ed adeguate le proprie capacità e competenze. Non a caso la Giunta di governo dell’isola s’è andata configurando in quest’ultimo tempo come una sorta di consiglio di facoltà, a cui peraltro non si è affidato alcun progetto politico da realizzare, al di là delle solite ed ovvie genericità: meno disoccupazione e più lavoro.
Tra l’altro non risulta certo che chiunque, anche d’alti meriti accademici, possa improvvisarsi bravo e capace politico. Perché governare, e governare bene, significa avere preparazione ed esperienza sufficienti per poter partecipare attivamente alle scelte e ad assumersi responsabilità nella guida politica d’una comunità.
C’è dunque, alla base, di tutto, un’insufficienza ed un’impreparazione della nostra attuale classe politica, a cui mancherebbe il coraggio della responsabilità nella buona gestione della cosa pubblica. Un tempo, quand’erano in auge i partiti, si arrivava ai vertici regionali e nazionali dopo una lunga gavetta politica, partendo dalle più piccole realtà da guidare, della sezione o del villaggio. Oggi, invece, chiunque pensa di potersi candidare autonomamente, non solo a consigliere o a deputato, ma anche a governatore od a sindaco della capitale della Regione, al di là d’ogni idonea selezione e preparazione.
Non è un segnale, questo, da trascurare, perché contiene un’amara e sconsolante verità: gli attuali politici non hanno più la capacità e la disponibilità culturali di conoscere ed interpretare i bisogni e le attese della gente.
Può essere anche quest’isolamento, questo tirarsi fuori dalle responsabilità dirette, unito ad un visibile deficit di esperienze e di capacità, la causa prima dell’avanzata sempre più preoccupante dell’antipolitica, cioè di quei movimenti d’opinione che non riconoscono più all’attuale classe politica, inquinata anche da troppi ed evidenti vizi, la facoltà di dover essere classe di governo. Perché governare, e governare bene, significa saper indicare gli obiettivi da perseguire, organizzare e realizzare il consenso, appianare e comporre interessi anche divergenti, ricercare interventi e soluzioni di spazio generale e mai particolare, siano essi di campanile o di potere. In sintesi saper dare all’intera comunità di tutti i sardi un buon governo, senza discrezionalità o parzialità.
Infine, proprio alcune recenti dichiarazioni di Pietrino Soddu, raccolte anche da questo giornale, hanno riportato chi scrive questa nota ad un’esperienza personale lontana (di oltre mezzo secolo fa), ma rimasta da allora per lui indimenticabile. Erano i giorni ed i mesi di preparazione di quel piano di rinascita che sarebbe risultato poi, checché se ne pensi, il punto d’avvio per la realizzazione della prima effettiva modernizzazione dell’isola. Le lunghe discussioni, i serrati confronti e gli scontri, talora molto aspri, attraverso cui venne varato quel piano, si dimostrarono una straordinaria palestra di idee e di conoscenze, con cui si andò formando, in indifferenza di partito e di schieramento, una classe dirigente politica regionale di ottimo livello, che oggi in molti rimpiangiamo (i nomi di Corrias, Laconi, Melis, Dettori, Cardia, Soddu, Cottoni, Pazzaglia, ecc. ne confermerebbero il giudizio).
Chi ha quindi la memoria lunga ricorderà ancora come quella politica virtuosa avesse sconfitto, proprio con il suo impegno positivo, l’antipolitica di allora che, sotto le insegne del movimento dell’Uomo Qualunque, aveva anticipato, anche nel gergo un po’ sboccato del loro leader Guglielmo Giannini, certi atteggiamenti d’oggi, tra il demagogico ed il populista, di Grillo e dei suoi seguaci.
Ed è un’antipolitica, quella ora di moda, che pur indirizzando il disprezzo dei cittadini verso la classe politica – si cita qui la tesi espressa dal professor Panebianco –, chiede e pretende che quella politica resti l’impicciona di sempre, sollecitando e pretendendo favoritismi, protezionismi od ostracismi secondo gli interessi particolari di qualche casta, camarilla, associazione o corporazione amica.
Resta da proporre, conclusivamente, una domanda finale che cerca di liberare dal pessimismo questa amara riflessione: ma la classe politica sarda può trovare in sé gli anticorpi capaci di sconfiggere gli attuali virus maligni ed è quindi in grado di autorigenerarsi, assumendo appieno il suo ruolo di guida, senza ricercare deleghe o supplenze?

PAOLO FADDA
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- Precedenti pertinenti interventi su Aladinews.
chiederò
Mentre l’Isola sprofonda nel malessere, la politica litiga sulle poltrone
di Paolo Fadda
su SardiniaPost 28 settembre 2016, Pronto intervento.

Stiamo vivendo in una Sardegna in grande sofferenza, attraversata da un persistente, ostinato e diffuso malessere. Come se un qualcosa – una sorta di nocivo ed implacabile virus – ne vada fiaccando e deteriorando la stessa composizione sociale. Determinando un degrado civile e morale che intristisce e spaventa e che rende sempre meno possibile il ritrovare la speranza e la volontà per avviare una riscossa.

Si tratta – e lo si rimarca con profonda tristezza – di un malessere, o di più malesseri che appaiono sempre più pericolosi e gravi, di cui ritroviamo le tracce negli attentati, sempre più frequenti, ai sindaci, quali sentinelle avanzate di uno Stato troppo assente; nell’ampliamento a dismisura delle aree di povertà e di insofferenza per via d’un lavoro divenuto sempre più precario, determinando pericolosi rigurgiti antisistema; nei ripetuti assalti ai furgoni portavalori ed ai bancomat delle banche come capitava nel Far West ottocentesco o nel riversarsi, con sempre più determinazione, nei commerci e negli affari illegali per impadronirsi di futili ma sostanziose ricchezze; nella ribellione dei piccoli centri che lo spopolamento vede privarsi di servizi civili essenziali, come la scuola e la posta; nell’accentuarsi sempre più dannoso delle contrapposizioni corporative, campanilistiche o di potere per la conquista di privilegi personali o di clan, in danno od in contrasto con l’interesse pubblico generale.

È uno stato di malessere generale che con il suo diffondersi a macchia d’olio richiama e determina la ricerca di responsabilità e di colpevolezze. Proprio perché ad esso non sembra che chi dovrebbe, cioè innanzitutto la politica, abbia la volontà o la capacità di creare e di mettere in campo degli antidoti.
Infatti proprio quel malessere (cioè quel virus maligno che deteriora e debilita) ha colpito anche la politica, e questo, purtroppo, in indifferenza di schieramento.
Per quel che si legge sui frequenti “bisticci” interni ai diversi schieramenti, rendono chiara la cruda ed intristente sintomatologia di quel malanno: perché non ci si contrappone se, per il risveglio dell’economia in sonno, occorra puntare sul risanamento dell’industria o sul rilancio dell’agricoltura, ma, al contrario, il nodo principale da dirimere debba essere la nomina di questo o quel personaggio alla guida di questo o di quel partito. Cioè per i propri interessi di parte, di clan o di corrente e non certo per l’interesse generale dei sardi.

Non sarà un caso, ma i problemi più importanti di un’isola afflitta da un’incombente recessione economica (e con tre giovani su cinque senza lavoro) sono apparsi, per il tempo dedicato a trovare la soluzione, i confronti – quasi sempre motivati da logiche di bottega elettorale – ove fosse meglio collocare la sede dell’ASL unica o se il suo direttore generale dovesse, o meno, essere sardo!

Ed ancora: di fronte alle tante e gravi pene di cui soffre la comunità isolana, fa ancor più tristezza (ed anche un po’ di sdegno) il fatto che non poche risorse pubbliche regionali vadano troppo spesso indirizzate ad aree improduttive (talvolta anche nello spettro del “loisir”), quasi che il vecchio detto del panem et circenses che Giovenale attribuì ai governanti dell’antica Roma, sia rimasto attuale anche per i nostri governanti.

Di fronte a tutto questo, occorrerebbe ritrovare la forza per avviare una decisa presa di coscienza, in modo da ritrovare le idealità e la carica morale che furono degli uomini migliori della Prima Regione, da Luigi Crespellani a Pietro Melis, da Efisio Corrias ad Umberto Cardia ed a Paolo Dettori.

Paolo_Dettori sc popol aladinewsProprio di quest’ultimo personaggio, s’intende qui riprendere un pensiero che, proprio di fronte alle difficoltà attuali, appare attualissimo: occorre – diceva negli anni del suo impegno nel Consiglio Regionale – che ci si unisca tutti insieme, senza divisioni di parte, per avviare e realizzare nell’Isola una profonda rinascita intellettuale e morale, per ritrovare ed applicare corrette regole di condotta civile e politica fondate su principi e valori di alta qualità etica, atte soprattutto a determinare, attraverso un impegno volto al servizio della gente e non su calcoli elettoralistici, un rinnovamento radicale ed un positivo rilancio delle condizioni sociali ed economiche di tutti i sardi: cioè, per dirlo più chiaramente, per instaurare in tutta l’Isola un clima di vera e convinta rinascita.

Paolo Fadda
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Quale classe dirigente per la Sardegna che vorremo

lampada aladin micromicrodi Aladin su Aladinews dell’8 maggio 2016.
Giovanni Maria Angioy Memoriale 2«Malgrado la cattiva amministrazione, l’insufficienza della popolazione e tutti gli intralci che ostacolano l’agricoltura, il commercio e l’industria, la Sardegna abbonda di tutto ciò che è necessario per il nutrimento e la sussistenza dei suoi abitanti. Se la Sardegna in uno stato di languore, senza governo, senza industria, dopo diversi secoli di disastri, possiede così grandi risorse, bisogna concludere che ben amministrata sarebbe uno degli stati più ricchi d’Europa, e che gli antichi non hanno avuto torto a rappresentarcela come un paese celebre per la sua grandezza, per la sua popolazione e per l’abbondanza della sua produzione.»
In un recente convegno sulle tematiche dello sviluppo della Sardegna, un relatore, al termine del suo intervento, ha proiettato una slide con la frase sopra riportata, chiedendo al pubblico (oltre duecento persone, età media intorno ai 40/50 anni, appartenente al modo delle professioni e dell’economia urbana) chi ne fosse l’autore, svelandone solo la qualificazione: “Si tratta di un personaggio politico”. Silenzio dei presenti, rotto solo da una voce: “Mario Melis?”. No, risponde il relatore. Ulteriore silenzio. Poi un’altra voce, forse della sola persona tra i presenti in grado di rispondere con esattezza: “Giovanni Maria Angioy”. Ebbene sì, proprio lui, il patriota sardo vissuto tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento, (morto esule e in miseria a Parigi, precisamente il 22 febbraio 1808), nella fase della sua vita in cui inutilmente chiese alla Francia di occupare militarmente la Sardegna, che, secondo i suoi auspici, avrebbe dovuto godere dell’indipendenza, sia pur sotto il protettorato francese (1).
Mario Melis 1E’ significativo che l’unico uomo politico contemporaneo individuato come possibile autore di una così bella frase, decisamente critica nei confronti della classe dirigente dell’Isola (e quindi autocritica) e tuttavia colma di sviluppi positivi nella misura in cui si potesse superare tale pesante criticità, sia stato Mario Melis,, leader politico sardista di lungo corso, il quale fu anche presidente della Regione a capo di una compagine di centro-sinistra nel 1982 e di nuovo dal 1984 al 1989. Evidentemente la sua figura di statista resiste positivamente nel ricordo di molti sardi. E questo è bene perché Mario Melis tuttora rappresenta un buon esempio per le caratteristiche che deve possedere un personaggio politico nei posti guida della nostra Regione: onestà, competenza (più politica che tecnica), senso delle Istituzioni, passione e impegno per i diritti del popolo sardo. Caratteristiche che deve possedere non solo il vertice politico, ma ciascuno dei rappresentanti del popolo nelle Istituzioni. Aggiungerei che tali caratteristiche dovrebbero essere comuni a tutti gli esponenti della classe dirigente nella sua accezione più ampia, che insieme con la classe politica comprende quella del mondo del lavoro e dell’impresa, così come della società civile e religiosa.
Oggi al riguardo non siamo messi proprio bene. Dobbiamo provvedere. Come? Procedendo al rinnovo dell’attuale classe dirigente in tutti i settori della vita sociale, dando spazio appunto all’onestà, alla capacità tecnica e politica, al senso delle organizzazioni che si rappresentano, alla passione e all’impegno rispetto alle missioni da compiere.
Compito arduo ma imprescindibile.

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(1) Sappiamo come andò a finire la storia: i francesi si guardarono bene dall’intervenire, perlomeno in Sardegna – contrariamente a quanto fecero in Piemonte – per la quale tennero fede all’Armistizio di Cherasco (28 aprile 1796) e al successivo Trattato di Parigi (15 maggio 1796) che, sia pure con termini pesantissimi per i sabaudi, consentì loro di mantenere costantemente e definitivamente il potere sull’Isola.
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Referendum costituzionale

chiederòNO SARDEGNACaro Pigliaru, che pasticcio!, tu e, forse, neanche Massimo potete essere eletti senatori di Renzi .

democraziaoggidi Andrea Pubusa su Democraziaoggi.

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sedia di VannitolaLa paura fa novanta. I sondaggi sfavorevoli, pure. Continuo a credere che Renzi un pensierino sullo spostamento del referendum ad altra data ce lo stia facendo. Lo potrebbero aiutare il ricorso di Onida al Tar e al Tribunale di Milano e la necessità di doversi occupare principalmente dell’emergenza terremoto. Penso anche che la tanto preannunciata “discesa in campo” di Berlusconi potrebbe avvenire sotto forma di un potente assist al Presidente del Consiglio. La proposta del rinvio del referendum potrebbe essere l’asso nella manica di Silvio, potrebbe essere proprio Lui a farsene promotore . Il seguito, naturalmente, non potrà che essere la materializzazione del partito della nazione. Considerate tra l’altro che c’è sempre in ballo la questione della grazia a Silvio che potrebbe essere un potente argomento di scambio di favori con il Premier. Staremo a vedere. (vt)
- Ipotesi di rinvio. Su Il fatto quotidiano.
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- segue

Ceta, la Vallonia ci ripensa

Vanni-Tola-22ott16 e 27 ott16sedia di VannitolaLa sedia
di Vanni Tola.
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Trattato CETA: Il premier belga dichiara che c’è l’accordo per la ratifica dell’intesa Ue-Canada.
Dopo una lunga trattativa, la regione belga della Vallonia ha dato oggi il suo benestare all’accordo commerciale con il Canada. Una notizia nella quale molti speravano e che, anche a noi, era parsa probabile perché l’accordo CETA presenta notevoli e caratterizzanti differenze rispetto ai contenuti e alla logica di altri trattati analoghi e principalmente a quelli del trattato di riferimento per eccellenza, il TTIP, ampiamente contestato da un vasto movimento di opposizione. Una vicenda – questa dei grandi Trattati internazionali per gli scambi e i commerci – con la quale i cittadini europei devono confrontarsi impiegando una buona dose di disincanto e di sano realismo per formare un punto di vista obiettivo. Il capitalismo internazionale si va riorganizzando: è in atto la globalizzazione dell’economia. Questo è un dato incontrovertibile. Gli scambi commerciali tra paesi e aree geografiche anche molto vaste ne costituiscono l’asse portante. L’esigenza di regolamentare al meglio gli scambi commerciali internazionali tra Paesi e aree geografiche importanti è una necessità ineludibile. Da ciò deriva le necessità di stipulare Trattati per regolare un sistema di scambi internazionali finora regolato esclusivamente dalle leggi del cosiddetto libero mercato, che sono, di fatto, rappresentate dallo strapotere delle multinazionali dei commerci e dei servizi e da centri di potere internazionali palesi e, talvolta, occulti. Che poi i Trattati debbano essere equi ed equilibrati, tenere conto delle esigenze delle parti contraenti, salvaguardare diritti inalienabili quali la difesa della democrazia, della salute e della libertà degli individui, la difesa dell’ambiente, la sicurezza internazionale e tanto altro ancora, mi pare sia indiscutibile. Il Trattato CETA, a mio avviso, ha colto e superato molte delle gravi limitazioni imposte ai Paesi contraenti da altri trattati in fase di contrattazione e in particolare dal TTIP e, per tale motivo e pur con le necessarie cautele, appare degno di maggiore attenzione, fatte salve le necessarie verifiche e richieste di garanzie per tutti i Paesi che lo sottoscriveranno. Naturalmente, occorre ribadirlo, non si può dimenticare quella che è la natura stessa di un Trattato. Un accordo rappresenta sempre una limitazione dei diritti e dei poteri di ciascun contraente in funzione di un superiore rapporto conveniente per le parti. Fuori metafora, la posizione critica della Vallonia e di molti contestatori dei Trattati internazionali, “a prescindere”, è insostenibile quando si basa sui timori di una riduzione dell’autonomia o, meglio, della sovranità delle singole parti contraenti. Ciò è implicito nella logica di qualunque Trattato che si concluda con un accordo. Su quale sia poi il miglior modo di stipulare i Trattati nell’interesse di tutte le parti è altrettanto evidente che l’analisi, la trattativa e l’accordo debba essere il più ampio possibile.

Il CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement) è una positiva evoluzione dell’inaccettabile TTIP (Transatlantic Trade and Investiment Partnership). Ma per la Vallonia (Belgio) non fidarsi è meglio. Approfondiamo

Vanni Tola 22ott16sedia di VannitolaLa sedia
di Vanni Tola.
CRISI DEI TRATTATI INTERCONTINENTALI PER I COMMERCI.
LA VALLONIA BLOCCA LA FIRMA DELL’ACCORDO DI LIBERO SCAMBIO TRA UNIONE EUROPEA E CANADA.

La firma del Trattato doveva avvenite nella solenne cerimonia prevista per il giorno 27 Ottobre a Bruxelles con la presenza del primo ministro canadese Justin Trudeau.
Dopo la battuta di arresto delle trattative riguardanti il TTIP (Transatlantic Trade and Investiment Partnership) è la volta dell’accordo di libero scambio tra Unione Europea e Canada. Era tutto pronto per la cerimonia solenne del 27 Ottobre che avrebbe reso operativo il Trattato, quando la ferma opposizione della Vallonia ha mandato tutto all’aria. La Repubblica Federale Belga non potrà sottoscrivere l’accordo in assenza del consenso unanime delle regioni che ne fanno parte. Dal suo canto il parlamento della Vallonia, la regione francofona del Belgio, ha di fatto bloccato il trattato di libero scambio tra l’Unione Europea e il Canada, intralciando i lavori del summit di Bruxelles sul tema. A pochi giorni dalla conclusione delle trattative fra le parti, il capo del governo della regione, Paul Magnette, ha fatto sapere che il CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement) è stato sì migliorato con le diverse dichiarazioni interpretative che la Commissione Europea ha aggiunto all’accordo, ma che nonostante ciò “è insufficiente a rispondere alle preoccupazioni espresse dalla Vallonia”. Molto poche le speranze che nuove modifiche della bozza di trattato possano rilanciare l’accordo. Una prima considerazione è d’obbligo. Gli accordi intercontinentali e i grandi trattati tra le potenze economiche internazionali non sono più un tabù né un inevitabile destino da accettare con rassegnazione. Le grandi manifestazioni di massa contro il TTIP svoltesi nel mondo e l’opposizione di una piccola ma determinata regione del Belgio possono incidere pesantemente su tali importanti trattative. Sono in atto nel mondo complesse manovre di riposizionamento delle grandi potenze capitalistiche intercontinentali che hanno al centro la questione di una nuova regolamentazione dei commerci transnazionali, l’allargamento dei mercati, la ridefinizione di quelle che un tempo si chiamavano “aree di influenza” delle grandi nazioni. Il CETA si colloca in tale contesto.
L’accordo economico e commerciale globale (CETA) è un trattato tra l’UE e il Canada negoziato di recente che, nelle intenzioni dei proponenti, dovrebbe offrire alle imprese europee nuove e migliori opportunità commerciali in Canada e sostenere la creazione di posti di lavoro in Europa. Tra gli obiettivi specifici si rileva l’eliminazione dei dazi doganali, l’abolizione delle restrizioni nell’accesso agli appalti pubblici, l’apertura del mercato dei servizi, l’offerta di condizioni di investimento prevedibili e la prevenzione di copie illecite di innovazioni e prodotti tradizionali dell’UE. I negoziatori promettono esplicitamente che l’accordo rispetterà pienamente le norme europee in settori quali la sicurezza alimentare e i diritti dei lavoratori e fornirà le garanzie necessarie per far sì che i vantaggi economici ottenuti non vadano a scapito della democrazia, dell’ambiente o della salute e della sicurezza dei consumatori. Come tutti i trattati internazionale, anche il CETA è presentato come una lunga e articolata serie di buoni proponimenti e di vantaggi per le parti contraenti che naturalmente devono essere sottoposti, prima della accettazione, al vaglio critico della ragione, della logica e delle reali ricadute che il Trattato avrà nelle diverse realtà regionali. In sintesi il CETA, se approvato, avrebbe dovuto contribuire a stimolare la crescita e l’occupazione in Europa eliminando tutti i dazi sui prodotti industriali e facendo risparmiare agli esportatori europei circa 600 milioni di euro l’anno. Le imprese dell’UE avrebbero potuto presentare offerte per gli appalti pubblici in Canada a tutti i livelli di governo, includendo per la prima volta anche le amministrazioni provinciali che, in tale Paese, sono responsabili di una parte consistente della spesa pubblica. - SEGUE -

Pace

Goya il-sonno-della-ragione 2sedia di Vannitola
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SCUSATE PER IL “DISTURBO”.

bandiera pace VTQuesta è la bandiera della Pace, l’avete certamente riconosciuta. Molti di noi ne hanno almeno una a casa. Non so se vi siete accorti che si parla sempre più del pericolo che abbia inizio la Terza Guerra Mondiale. Ne ha parlato perfino il Papa. In Unione Sovietica si riposizionano i missili intercontinentali contro l’Europa e si fanno esercitazioni di massa per preparare il popolo per un eventuale conflitto internazionale. L’Europa, o meglio la NATO, riposiziona le proprie truppe ai confini con l’Unione Sovietica. I rapporti diplomatici diventano difficili e le superpotenze non riescono neppure a negoziare un cessate il fuoco umanitario per evacuare i bambini e la popolazione inerme da Aleppo, in Siria. La Guerra Mondiale è una ipotesi talmente drammatica che preferiamo tutti non pensarci, credere che non ci sarà mai, che prevarrà la ragione. Ma ne siamo cosi sicuri? Crediamo cosi tanto nella capacità dei guerrafondai di tutto il mondo a limitarsi ad esercitare i loro interessi soltanto con “piccole” guerre locali? Niente panico, per carità, ma soltanto un briciolo di ragionevole prudenza direi di si. Tiriamo fuori le bandiere per la Pace, dichiariamo esplicitamente e sulle piazze la nostra contrarietà assoluta e incondizionata alla Guerra, a tutte le guerre. Riproponiamo le nostre ragioni a favore della Pace. Ora, subito, in tutte le sedi possibili. Dopo potrebbe essere troppo tardi. SCUSATE ANCORA PER IL “DISTURBO”

Impegnati per il NO. E se non ce lo facessero dire?

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di Vanni Tola.
Dormire di notte è una sana e buona abitudine, non sempre però. Talvolta lo staccare la spina con il mondo reale rivela al risveglio sorprese inquietanti. Un senso di smarrimento profondo che fa pensare di essersi svegliato in un altro mondo, in un’altra epoca, in un altro contesto. Sembra di aver perduto, in quelle poche ore di sonno, qualche passaggio fondamentale della vita che scorre e il timore di non riuscire a recuperare le conoscenze è fondato. NO NO NOOORicordate il referendum costituzionale per il quale si vota il 4 Dicembre? Siete impegnati con amici, parenti e conoscenti nella battaglia per il NO? Bene. Sapete che sorpresa ci svela il nuovo giorno? Che il referendum potrebbe essere sospeso, rinviato o addirittura annullato. Scrive il giornale “Il fatto quotidiano”: “Il decreto che indice la consultazione impugnato dall’ex giudice costituzionale al Tar del Lazio e al tribunale civile di Milano: In una stessa scheda oggetti eterogenei, così il voto non è libero”. F.Q. 11 ottobre 2016. Per i particolari vi rimando all’articolo completo, lo trovate qui: http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/10/11/referendum-costituzionale-lex-presidente-della-consulta-onida-fa-ricorso-contro-il-quesito-troppi-argomenti-insieme/3090041/. Che cosa è successo? Un signore, Valerio Onida, ex giudice costituzionale ed ex presidente della Corte, – uno dei saggi di Napolitano nel 2013 – ha impugnato il decreto del presidente della Repubblica per l’indizione del referendum, davanti al Tar del Lazio e al tribunale civile di Milano. Lo ha fatto con un ricorso d’urgenza con il quale l’alto magistrato chiede la sospensione dell’avvio della consultazione. Con Onida ha firmato il ricorso anche Barbara Randazzo, docente di Diritto costituzionale all’università di Milano (dove Onida ha insegnato per quasi trenta anni). In pratica Onida ritiene che il quesito referendario sia “mal proposto” perché chiede una singola risposta complessiva (il SI o il NO) a una serie eterogenea di quesiti che meriterebbero invece una risposta specifica per ciascuno. Questo rappresenterebbe una violazione grave della libertà di voto dei cittadini. Tutto qui. Vi pare poco a qualche settimana dal voto? Direi di no. - segue -

Impegnati per il NO

sedia di VannitolaLa sedia
di Vanni Tola
NO NO NOOOReferendum Costituzionale: Le ragioni del NO spiegate in un intervento di Raniero La Valle (pubblicato dalla rivista Micromega).

Raniero La Valle 3Un saggio di Raniero La Valle non può certamente essere riassunto o condensato, deve assolutamente essere letto integralmente e con la dovuta attenzione. Lo sforzo del lettore sarà però ampiamente ripagato dalla chiarezza espositiva e dallo spessore culturale del ragionamento che La Valle sviluppa in modo articolato e coerente, tale da far comprendere le reali motivazioni politiche che hanno portato alla necessità di questa riforma costituzionale.

Mi limiterò pertanto a elencare brevemente i punti cardine del saggio di Raniero La Valle che costituiscono l’asse portante dalla sua indicazione a favore del NO al referendum. A parere di Raniero La Valle la situazione attuale è caratterizzata da una serie di fenomeni di grande importanza. I movimenti di migranti nel mondo, sessantadue milioni tra profughi, perseguitati e fuggiaschi, in giro per il mondo alla ricerca di una nuova vita. Qualcuno dice che nel 2050 i trasmigranti saranno 250 milioni.
E’ in corso una terza guerra mondiale non dichiarata, ma che fa vittime in tutto il mondo. Aleppo, la Siria, l’Iraq, l’Afganistan, la Palestina, da cinquant’anni prigione di un popolo nella propria terra. Fallisce il G20 ad Hangzhou in Cina. I grandi della terra non riescono a indurre neppure un ragionevole cessate il fuoco in Siria, per soccorrere la popolazione civile bombardata dagli aerei dei belligeranti. I Grandi della Terra: “ Non sanno che fare per i profughi, non sanno che fare per le guerre, non sanno che fare per evitare la catastrofe ambientale, non sanno che fare per promuovere un’economia che tenga in vita sette miliardi e mezzo di abitanti della terra, e l’unica cosa che decidono è di disarmare la politica e di armare i mercati, di abbattere le residue restrizioni del commercio e delle speculazioni finanziarie, di legittimare la repressione politica e la reazione anticurda di Erdogan in Turchia e di commiserare la Merkel che ha perso le elezioni amministrative in Germania”. L’Europa vede messa in crisi la sua stessa esistenza e non soltanto per l’uscita della Gran Bretagna dal consesso UE ma anche, direi soprattutto, perché si sta rivelando inconsistente il progetto stesso di Europa unita che non è finora riuscita ad andare oltre una discutibile unione monetaria. Il referendum costituzionale, presentato dai sostenitori del Si come il rimedio universale per tutti i mali dell’Italia, nasconde una verità differente che ci porta a darne una lettura in un contesto più ampio di quello territoriale italiano, referendum come espressione di un processo geopolitico in atto, guidato da grandi centri di potere internazionale, all’interno dei quali l’Italia e Renzi hanno un ruolo di pedine da manovrare, di collaboratori ubbidienti e sottomessi che devono facilitare i processi in atto. Quella che c’è raccontata dal Governo sarebbe quindi una verità di facciata. Il Referendum non servirebbe per risparmiare sui costi della politica. Non servirebbe per risparmiare sui tempi della politica, non assicurerebbe maggiore stabilità politica. - segue -

Truffe. Olio d’oliva (?) a 3€. Non compratelo!

sedia di Vannitolaolio?Olio d’oliva, uno dei tanti problemi che dei politici appena capaci potrebbero risolvere facilmente. Occorre mettere in etichetta la reale tracciabilità del prodotto eliminando giochini e furberie che ingannano il consumatore (tipo olio italiano con olive… di provenienza comunitaria). A quel punto, con una etichetta veramente valida e veritiera, che arrivi pure l’olio dagli altri paesi, l’importante che non ce lo vendano come olio extravergine italiano. Naturalmente il consumatore deve a sua volta fare un piccolo sforzo per comprendere che la qualità e la genuinità hanno necessariamente un costo più elevato. Non si può pretendere che un olio d’oliva di buona qualità abbia un prezzo da outlet. (V.T.)
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“Non Comprate L’Olio d’Oliva a 3€!” Non è Olio. Ecco Il Video Shock che sta facendo indignare l’Italia.

I “grandi”

G2o china 2016 ft 2sedia di VannitolaLi chiamano “i grandi della terra”, le nazioni che per la loro potenza economica e militare dovrebbero e potrebbero regolare pacificamente i conflitti nel mondo, dire la loro e agire sui principali problemi del pianeta, fame immigrazione, sottosviluppo, malattie. Ma sono davvero “grandi”? Recentemente hanno dato prova della loro grandezza bombardando e distruggendo vaste zone della Siria, continuando a bombardare perfino dove ormai non c’è più niente altro da distruggere, uccidendo civili (bambini compresi). Poi hanno tentato di approvare una tregua, con fatica ci sono riusciti. La tregua è durata, si e no, una decina di giorni, neanche il tempo di portare e distribuire viveri di prima necessità. Poi, sempre loro, i “grandi”, hanno deciso che era necessario riprendere i bombardamenti sulle case già distrutte e su quel che resta della popolazione civile con le più svariate e assurde motivazioni (difendere o ristabilire il diritto, l’ordine, la democrazia). Ma non vi viene il dubbio che forse questi paesi siano tutt’altro che grandi? A me si.

Turismo

sedia di VannitolaVorrei chiudere, per quanto mi riguarda, la polemica col geometra Briatore relativa al tipo di turismo che i sardi dovrebbero realizzare. Mi sono ricordato di un episodio del bellissimo film di Salvatore Mureu “Ballo a tre passi”. Vi invito a rivedere l’episodio di Massimo, il “sardo” che accoglie i turisti in spiaggia e offre loro i propri servigi (offre l’anguria, noleggia le tavole da surf, offre da bere e si esibisce, parlando un improbabile italiano frammisto a parole sudamericane, come una scimmia ammaestrata del circo, in altrettanto improbabili azioni di animazione (balla su un palco improvvisato) tra l’indifferenza e la derisione dei turisti “continentali”. Nel frattempo la moglie è impegnata in cucina a preparare le “cose buone” per i turisti loro ospiti, che lei neppure vede. Penso sia una delle scene più importanti del film, il degrado, l’abbrutimento, la perdita di identità e di dignità del sardo sottomesso alle esigenze del turismo dei padroni. E’ questo il turismo che alcuni operatori turistici immaginano per la Sardegna e i Sardi. Un pò come accade per gli indigeni delle isole del pacifico ormai relegati al ruolo di danzatori e distributori di collanine per i turisti in arrivo negli aeroporti. Andatevelo a rivedere questo episodio (io consiglierei tutto il film), un’opera alla quale la critica cinematografica ha destinato minore attenzione di quella che avrebbe meritato (V.T.)
http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=34700
Ballo atre passiIl film intero in streaming lo trovate su youtube

Mostri

bayer-logoAGRICOLTURA: ACCORDO FRA BAYER E MONSANTO. NASCE IL COLOSSO DEL FARMING MONDIALE.

gorilla bayer cqsedia di Vannitola
di Vanni Tola

La notizia era nell’aria. Si sapeva da qualche tempo che la multinazionale farmaceutica tedesca Bayer pensava di acquisire la Monsanto, il colosso mondiale della produzione di sementi e pesticidi. L’annuncio ufficiale dell’avvenuta fusione è arrivato insieme ai primi dati sull’operazione. Intanto i costi. Per impadronirsi della multinazionale americana Monsanto la Bayer sosterrà un costo di circa 66 miliardi di dollari. Un’operazione di grandi proporzioni che unisce due attività produttive molto differenti ma anche complementari. La Monsanto metterà a disposizione la propria consolidata leadership nella produzione di sementi e pesticidi e la piattaforma Climate Corporation (società recentemente acquisita da Monsanto che si occupa del miglioramento delle produzioni agricole attraverso un più efficiente utilizzo dei dati). La Bayer, dal suo canto, renderà disponibile la propria linea produttiva di Bayer Crop Protection per colture in tutte le aree geografiche di maggiore rilevanza al mondo. Insieme, le aziende avranno capacità innovative di primo piano e piattaforme tecnologiche molto evolute che nei piani a medio e lungo termine della Bayer dovranno accelerare l’innovazione dell’agricoltura fornendo ai propri clienti soluzioni potenziate per i problemi della produzione agricola e prodotti ottimizzati basati progetti analitici agronomici innovativi da supportare con le applicazioni di Digital Farming. La fusione dei due colossi, da sempre oggetto di denunce e azioni di contrasto delle organizzazioni che difendono la tutela dell’ambiente, darà vita ad un gruppo industriale con un fatturato di 67 miliardi di dollari l’anno. In questo modo Bayer aumenterà il fatturato derivante dal comparto agricolo dall’attuale 22 al 40 per cento. Una questione importante che ci interessa direttamente. Come si è arrivati alla stipulazione di quest’accordo? Quali sono gli antefatti che lo hanno reso possibile? Quali i rischi per l’agricoltura mondiale? L’interesse della Bayer per la Monsanto si è manifestato in concomitanza con le indecisioni e le incertezze manifestate dall’Unione Europea riguardanti la questione del glifosato, uno degli erbicidi più diffusi al mondo, e conferma molti dei timori manifestati da più parti contro la stipulazione del trattato TTIP che vive adesso un momento di crisi, (molti parlano ormai apertamente di fallimento delle trattative in corso tra i paesi contraenti). L’Unione vive una fase di forte pressione relativamente appunto all’atteso rinnovo del permesso di consentire l’uso dell’erbicida glifosato, che poi altro non è che una delle tante questioni aperte nella più generale trattativa sul Parternariato transatlantico sul commercio e gli investimenti (ovvero il TTIP). Discussioni e decisioni non di poco conto che potrebbero decidere cosa coltiveremo e mangeremo nei prossimi decenni. E’ in discussione infatti la possibilità di abbassare gli standard di qualità e sicurezza che fino ad ora hanno protetto l’ambiente e la salute dei cittadini europei introducendo pratiche molto più funzionali alle politiche e alle pratiche delle multinazionali del comparto primario e della chimica. Il pericolo rappresentato dalla fusione tra la Bayer e la Monsanto deriva appunto dal fatto che attraverso tale unione si va creando un monopolio potenzialmente in grado di intervenire negativamente a favore della riduzione sugli standard di protezione ambientale, di salute pubblica e di qualità delle produzioni agricole certificate in Italia e in Europa. Tempi cupi anche per l’agricoltura mondiale. Attualmente il settore agrochimico mondiale vale circa 85 miliardi di euro ed è controllato da poche imprese internazionali che tendono, con altre concentrazioni che stanno per realizzarsi, a diventare sempre più un ristretto oligopolio. Si parla, infatti, anche di possibili fusioni tra Syngenta-Chemchina e Dow Chemical-DuPont. L’unione Bayer – Monsanto, che si completerà entro il 2017, creerà al gruppo numero uno al mondo, che da solo controllerà il 24 per cento del mercato dei pesticidi e il 29 per cento di quello delle sementi. Quali potrebbero essere le probabili conseguenze di questa gigantesca operazione di concentrazione dei grandi gruppi agro-farmaceutici, è facilmente intuibile. Una delle principali è, senza dubbio, l’aumento dei prezzi, sia per i produttori sia per i consumatori, al quale si accompagnerà il calo dell’offerta e quindi anche della biodiversità. Come pure è probabile un maggiore impegno della tedesca Bayer nel comparto delle produzioni Ogm puntando sulla scomparsa del logo Monsanto diventato ormai un punto di riferimento importante degli oppositori agli organismi geneticamente modificati. Sia ben chiaro che qualora ciò accadesse scomparirebbe o sarebbe ridimensionato soltanto il marchio Monsanto, ma non di certo gli Ogm che rimarrebbero con tutte le loro contraddizioni.
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Americani

NO NO NOOOsedia di VannitolaUn paese nel quale è in vigore la pena di morte, un paese che vende armi nei supermarket e consente ai cittadini di girare armati, un paese che non ha superato la discriminazione razziale e che non garantisce le cure mediche gratuite non può dare lezioni o interferire nelle scelte di altri popoli. Ciò che preoccupa non sono le balle che Renzi racconta ma il fatto che molti altri paesi credano a ciò che Renzi dice. Molto interessanti gli editoriali dei quotidiani sull’argomento. Diversi redattori auspicano che il Presidente (quello in carica, non l’Emerito) si facciano sentire. Particolarmente interessante l’editoriale di Norma Rangeri ( “Il Manifesto”) dal titolo “Ambasciator porta pena” e l’articolo di Marco Travaglio (Il Fatto Quotidiano).
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Ambasciatore porta pena
di Norma Rangeri
su “il manifesto” EDIZIONE DEL 14.09.2016

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Carissimo Omran

bambino siriano VT sedia di VannitolaLa sedia
di Vanni Tola.

Lettera a Omran Daqneesh, bambino siriano di cinque anni.
Carissimo Omran, probabilmente ad Aleppo non arrivano i giornali internazionali né le notizie di agenzia. Come saprai, si è appena concluso in Cina il G20: il vertice dei Grandi della Terra. Tra lo sventolio delle bandiere, gli inni nazionali e le conferenze stampa, l’incontro è terminato con alcune considerazioni e qualche accordo tanto che, nei primi dispacci di agenzia, è definito un confronto positivo e importante. I Grandi della Terra hanno preso atto che la crescita economica mondiale è ancora debole e potrebbe avere ripercussioni negative sui mercati. Pare che la regolamentazione dei commerci internazionali stia creando non poche divergenze tra Europa e Cina. Si registrano pure divisioni concernenti la produzione internazionale dell’acciaio e le contraffazioni dei prodotti. Si è parlato inoltre dell’emergenza migranti (perché chiamare emergenza un fenomeno mondiale strutturale in atto da qualche tempo non l’hanno spiegato). La soluzione o meglio la non soluzione proposta dai Grandi nel merito, è stata quella di lanciare un appello al Mondo intero affinché tutti i paesi si facciano carico del problema migranti. A margine del G20 si è pure registrato un importante accordo tra Cina e Usa sulla riduzione dell’emissione di CO2 (d’altronde sono loro i maggiori produttori mondiali di tali emissioni). Carissimo Omran, è tutto qui. Forse ti saresti aspettato un qualche barlume di soluzione per la guerra in Siria, niente. Avrebbero potuto parlare della tregua umanitaria per interrompere il martirio dei Siriani, la strage dei bambini sotto i bombardamenti (tu hai perduto anche un fratellino e i parenti) invece i Grandi della Terra non hanno avuto tempo per farlo. Magari ne avranno parlato ma non sono riusciti a trovare il ben che minimo accordo, neppure per delle tregue umanitarie che permettessero di favorire l’arrivo dei soccorsi alla popolazione, l’invio di aiuti, l’evacuazione dei civili esposti ai bombardamenti. Usa e Russia non escludono certo la necessità di una tregua e l’urgenza di porre fine al conflitto ma, entrambe le parti, pensano di dover bombardare ancora un po’ prima di smettere. Sono lontani purtroppo i giorni della tua estrazione dalle macerie, la tua espressione di panico riportata dai media di tutto il mondo, il tuo viso da bambino di cinque anni coperto di fango e sangue, la tua mano che tocca il sangue che esce dal capo, lo sguardo che osserva quel sangue sulle mani quasi senza rendersi conto dell’accaduto. Quell’immagine ha colpito le coscienze di tutti nel mondo. Unanimamente ci si è espressi, in quei giorni, a favore della sospensione del conflitto. Tutti i paesi hanno auspicato una tregua umanitaria per consentire almeno l’arrivo dei soccorsi. Poi più nulla è accaduto. Spenti i riflettori, asciugate le lacrime, tutto è tornato come prima. I bombardamenti continuano, il Tuo paese è ormai un cumulo di macerie, la popolazione vive lo strazio della guerra e le conseguenze che tutto ciò comporta. Tu, la tua toccante immagine di bambino di Aleppo ferito dai bombardamenti, tutto dimenticato come in passato è accaduto per tante altre vittime delle guerre, per il bambino migrante trovato cadavere sulla riva del mare. Per quelli come Te il Mondo, i Grandi della Terra, non sanno dare risposte. Ti auguro di conoscere la Pace e di poter vivere un giorno in un paese normale. Quanto ai Grandi della Terra penso si sia capito che l’ho affermato con molta triste ironia, grandi non sono e, probabilmente, non lo diventeranno mai.