Risultato della ricerca: povertà

Appello. Un patto di tutti i sardi per la Sardegna.

costituenteNon ci si salva da soli
di Franco Meloni, su il manifesto sardo.

Attraverso l’appello qui pubblicato, un gruppo di cattolici sardi preoccupati della situazione generale e, in particolare, della Sardegna, sollecitano un impegno corale dei cittadini sardi e delle Istituzioni per arrestare il declino della regione e lavorare uniti per un suo nuovo sviluppo, volgendo la terribile crisi dovuta all’epidemia covid-19 a nuove prospettive.

L’appello si collega idealmente alle esortazioni di Papa Francesco, significativamente al video-messaggio da lui fatto al termine delle giornate del The Economy of Francesco e al documento finale dello stesso evento denominato “Patto di Assisi”. Con questi intenti l’appello mira a creare un forte spirito unitario, ispirandosi alla proficua alleanza tra appartenenti a diverse impostazioni culturali (cattolica, marxista, liberale, azionista) che caratterizzò la ricostruzione dell’Italia dalle macerie della II guerra mondiale, superando le profonde devastazioni morali, culturali e materiali del nazifascismo. Proprio a quel “Patto politico-culturale” dobbiamo la magnifica Carta costituzionale della Repubblica e, per quanto ci riguarda, lo Statuto di autonomia della Sardegna. Ovviamente, nel nostro caso, il primo ambito di riferimento e terreno di azione è la Sardegna, tuttavia inserita nei più ampi contesti: italiano, mediterraneo, europeo, planetario. In conclusione, l’appello non si indirizza solo ai cattolici, singoli e associati, chiamati a un risveglio rispetto alla necessità imprescindibile di un loro maggior impegno politico (come precisamente indicato da Papa Francesco), ma a tutte le componenti organizzate della società e ai singoli cittadini, nel rispetto delle diversità di ogni tipo, che però devono trovare comuni percorsi per grandi finalità da perseguire, insieme. Ecco perchè in questa fase si chiede a tutte e tutti di sottoscriverlo, per poi far scaturire dallo stesso e dal dibattito che saprà suscitare coerenti iniziative culturali, sociali, politiche.
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“Non ci si salva da soli”. Per battere il Covid in Sardegna è urgente la “buona politica; non quella asservita alle ambizioni individuali o alla prepotenza di fazioni o centri di interessi”.

Appello di cattolici sardi

Premessa.

Noi cittadini sardi, cattolici ispirati dai valori del Vangelo, fedeli agli insegnamenti del Concilio Vaticano II e della dottrina sociale della Chiesa, convintamente riproposti dalle ultime illuminanti encicliche di Papa Francesco, ci dichiariamo preoccupati e angosciati per il precipitare della situazione economica della Sardegna, con il portato di sofferenze materiali e psicologiche per un numero crescente di persone appartenenti a tutti gli strati della società sarda, specie dei meno abbienti. Chiediamo pertanto a tutti, a partire da quanti hanno responsabilità pubbliche, nelle Istituzioni e nelle altre organizzazioni della Società, e a tutti gli uomini e a tutte le donne di buona volontà, un impegno corale che, nel rispetto delle differenze delle diverse appartenenze politiche e culturali, ci renda solidali e attivi per uscire dalla situazione di crisi e difficoltà antiche e attuali della nostra regione.

1. Il momento della Sardegna.

La Sardegna nel momento in cui ha bisogno della più grande ricostruzione morale sociale ed economica della sua storia contemporanea – che può iniziare proprio dalla lotta al Coronavirus e ai suoi devastanti effetti – risulta paralizzata da un insieme di contraddizioni che si scaricano soprattutto sui più deboli.

La pandemia da Coronavirus ha ulteriormente aggravato le già precarie condizioni economiche e sociali della Regione. L’aggiornamento congiunturale dell’economia della Sardegna del novembre 2020, pubblicato dalla Banca d’Italia, sottolinea la forte negatività di tutte le variabili ( molto peggio di quanto accaduto a livello nazionale) dal PIL ai consumi, dalle esportazioni all’occupazione, dal fatturato agli ordinativi di tutti i settori dall’agricoltura all’industria, dal commercio, all’edilizia dal turismo ai servizi. Gli effetti di questa crisi strutturale avranno pesanti conseguenze oltrechè sul piano sociale anche su specifiche situazioni come l’emigrazione dei giovani istruiti, l’ulteriore spopolamento dei piccoli comuni, l’incremento dei livelli di povertà.

2. Principali emergenze

In diversi settori fondamentali le situazioni di crisi si sono aggravate negli anni.

– Nella scuola, nella formazione, nell’Università e nella Ricerca, comparti in cui si ampliano i divari tra i partecipanti a tutti i livelli – con esclusioni dettate in grande misura dalle condizioni economiche di partenza delle famiglie – oggi anche acuiti dalla formazione a distanza.

– Nei trasporti perennemente incerti al punto di togliere ai sardi il diritto costituzionale alla mobilità. E’ dei giorni scorsi la dichiarazione relativa all’interruzione dal 1° dicembre di tutti i collegamenti navali in convenzione.

– Nella sanità, con i tagli sistematici agli organici, l’annuncio di riforme penalizzanti nei confronti dei territori, l’intasamento degli ospedali; il taglio delle borse di studio per le specializzazioni mediche. Questioni ben rappresentate in questo periodo dal malessere dei sindaci di fronte all’enormità dell’emergenza sanitaria disperatamente affrontata dai medici, dal personale sanitario, dagli operatori delle cooperative sociali e del volontariato a cui va la nostra solidarietà

– Nelle pubbliche amministrazioni, in tutte le diverse articolazioni, dove si aggrava la farraginosità burocratica al punto da compromettere i diritti dei cittadini, ma anche delle imprese, ostacolate anzichè sostenute nella funzione di creare lavoro per uno sviluppo economico eco-sostenibile.

Nella politica, segnata dal crollo della partecipazione dei cittadini sardi agli eventi elettorali e, spesso , da carenze programmatiche e attuative che rischiano di mettere a repentaglio i diritti della persona e perfino del rispetto della dignità umana. Nell’emergenza attuale, che riguarda tutti, ad essere maggiormente colpite sono, come sempre, le fasce sociali più deboli della popolazione: giovani, donne, anziani, poveri di ogni tipologia e, tra essi, ammalati, persone con basso livello culturale, analfabeti digitali, i residenti nei piccoli centri dell’interno, disoccupati.

Le famiglie che già vivevano in situazioni di disagio prima dell’inizio dell’emergenza sanitaria, versano oggi in situazioni di gravissima difficoltà, come testimoniano anche i recenti dati della Caritas sull’aumento della povertà assoluta e relativa.

La Sardegna ha bisogno, dunque, di interventi concreti sulle politiche per la famiglia, i giovani, il lavoro e le imprese, la questione ambientale, la sanità, la scuola, le infrastrutture, l’Università, la ricerca, le nuove tecnologie, la lotta alla corruzione.

3. La buona politica

Sulle orme di Papa Francesco chiediamo per la Sardegna “l’urgenza della buona politica; non di quella asservita alle ambizioni individuali o alla prepotenza di fazioni o centri di interessi. Una politica che non sia né serva né padrona, ma amica e collaboratrice; non paurosa o avventata, ma responsabile e quindi coraggiosa e prudente nello stesso tempo; che faccia crescere il coinvolgimento delle persone, la loro progressiva inclusione e partecipazione; che non lasci ai margini alcune categorie, che non saccheggi e inquini le risorse naturali […] che sappia armonizzare le legittime aspirazioni dei singoli e dei gruppi tenendo il timone ben saldo sull’interesse dell’intera cittadinanza”

L’obiettivo principale della Politica deve essere, in questo frangente, la salvezza della dignità delle persone, concentrando ogni sforzo sul lavoro, sulla ricerca del bene comune e non sull’assistenzialismo.

4. Piano straordinario e Piano per la Rinascita

Si metta perciò a punto un piano straordinario di investimenti da far partire al più presto, non oltre il 1° gennaio 2021. Quando la moratoria statale sui licenziamenti finirà e termineranno le risorse straordinarie per la cassa integrazione, gran parte dei lavoratori più deboli e meno qualificati perderà il lavoro col rischio più che concreto di rimanere intrappolata in una condizione di impoverimento per lungo tempo. Pertanto è necessario fin da ora intervenire con determinazione, anche con provvedimenti legislativi straordinari, sulle ben note emergenze create dalla pandemia.

Ma anche risulta indispensabile elaborare la fase della ricostruzione con un Piano per la Rinascita da costruire da parte delle Istituzioni con la collaborazione delle parti sociali – datoriali e sindacali – dei cittadini e delle loro organizzazioni, nella pratica della sussidiarietà, affinché si immaginino e si costruiscano percorsi di riqualificazione e affiancamento sociale condivisi e in grado di traghettare non solo le vittime del lockdown, ma l’intera Sardegna nella fase del post Covid. Questo piano indispensabile anche per utilizzare al meglio le ingenti risorse, che dovrebbero arrivare dal Recovery fund dell’Unione Europea. Si corre il rischio, infatti, che tali risorse vengano male utilizzate o sprecate se non si dovessero avere le idee chiare sulla loro destinazione e modalità d’impiego.

5. Unità per il bene della Sardegna

Come cattolici apprezziamo e sosteniamo il valore e l’importanza del pluralismo e della dialettica tra le forze politiche. Ma oggi, in questi tempi straordinari, le contrapposizioni devono mitigarsi lasciando posto al perseguimento di una grande unità tra le forze politiche e istituzionali. Il bene della Sardegna e della sua gente vale molto di più di piccoli vantaggi elettorali.

Speravamo tutti che questa pandemia da Covid-l9 cessasse e si potesse riprendere la vita nella sua normalità. Ma non è così. L’emergenza non sarà di breve durata e siamo certi che molto non sarà più come prima e che dobbiamo acquistare capacità politica di disegnare e realizzare nuovi e inediti scenari, come abbiamo cercato di argomentare in questo scritto.

Nell’esperienza drammatica che stiamo vivendo, e che ci ha fatto toccare con mano quanto siamo collegati e interdipendenti, ci è consegnata questa lezione: come il contagio avviene per contatto anche l’uscita dall’emergenza è possibile nel fare corpo unico. Non ci si salva da soli.

6. «Non sprechiamo la crisi!»

Rammentiamo in conclusione il recente messaggio della Conferenza Episcopale Italiana alle comunità cristiane in tempo di pandemia: “Viviamo una fase complessa della storia mondiale, che può anche essere letta come una rottura rispetto al passato, per avere un disegno nuovo, più umano, sul futuro. «Perché peggio di questa crisi, c’è solo il dramma di sprecarla, chiudendoci in noi stessi» (Papa Francesco, Omelia nella Solennità di Pentecoste, 31 maggio 2020)”.

Noi, cattolici sardi, raccogliamo queste esortazioni e chiamiamo tutte e tutti agli impegni che sinteticamente e sicuramente non esaurientemente abbiamo delineato in questo nostro appello.

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Per sottoscrivere l’appello – che fino alla pubblicazione di questo editoriale (1 dicembre 2020 ore 10) ha raggiunto 172 sottoscrizioni – inviare l’adesione (Nome, Cognome, paese/città) a una delle seguenti email: mario1946.girau@gmail.com o melonif@gmail.com. L’elenco aggiornato dei sottoscrittori è disponibile – in continuo aggiornamento – sul sito web di Aladinpensiero online, al seguente link:

Appello di cattolici sardi: un Patto di tutti i Sardi per la Sardegna

the-economy-of-francesco-logosardegna-dallo-spazio

lampada aladin micromicroPubblichiamo volentieri e diffondiamo un appello di cattolici sardi che preoccupati della situazione generale e, in particolare della Sardegna, sollecitano un impegno corale dei cittadini sardi e delle Istituzioni per arrestare il declino della regione e lavorare uniti per un suo nuovo sviluppo, volgendo la terribile crisi dovuta all’epidemia covi-19 a nuove prospettive. Torneremo sui contenuti dell’appello che abbiamo istantaneamente collegato alle esortazioni di Papa Francesco, significativamente all’appello da lui fatto al termine delle giornate del The Economy of Francesco e al documento finale dello stesso evento denominato “Patto di Assisi”. I cattolici in fondo delineano la proposta che insieme con tutti gli uomini di buona volontà si costruisca un “Patto di Assisi per la Sardegna”. (fm)
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“Non ci si salva da soli”. Per battere il Covid in Sardegna è urgente la “buona politica; non quella asservita alle ambizioni individuali o alla prepotenza di fazioni o centri di interessi”.
Appello di cattolici sardi

Premessa. Noi cittadini sardi, cattolici ispirati dai valori del Vangelo, fedeli agli insegnamenti del Concilio Vaticano II e della dottrina sociale della Chiesa, convintamente riproposti dalle ultime illuminanti encicliche di Papa Francesco, ci dichiariamo preoccupati e angosciati per il precipitare della situazione economica della Sardegna, con il portato di sofferenze materiali e psicologiche per un numero crescente di persone appartenenti a tutti gli strati della società sarda, specie dei meno abbienti. Chiediamo pertanto a tutti, a partire da quanti hanno responsabilità pubbliche, nelle  Istituzioni e nelle altre organizzazioni della Società, e a tutti gli uomini e a tutte le donne di buona volontà, un impegno corale che, nel rispetto delle differenze delle diverse appartenenze politiche e culturali, ci renda solidali e  attivi per uscire dalla situazione di crisi e difficoltà antiche e attuali della nostra regione. 

1. La Sardegna nel momento in cui ha bisogno della più grande ricostruzione morale sociale ed economica della sua storia contemporanea – che può iniziare proprio dalla lotta al Coronavirus e ai suoi devastanti effetti – risulta paralizzata da un insieme di contraddizioni che si scaricano soprattutto sui più deboli.
La pandemia da Coronavirus ha ulteriormente aggravato le già precarie condizioni economiche e sociali della Regione. L’aggiornamento congiunturale dell’economia della Sardegna del novembre 2020, pubblicato dalla Banca d’Italia, sottolinea la forte negatività di tutte le variabili ( molto peggio di quanto accaduto a livello nazionale) dal PIL ai consumi, dalle esportazioni all’occupazione, dal fatturato agli ordinativi di tutti i settori dall’agricoltura all’industria, dal commercio, all’edilizia dal turismo ai servizi. Gli effetti di questa crisi strutturale avranno pesanti conseguenze oltrechè sul piano sociale anche su specifiche situazioni come l’emigrazione dei giovani istruiti, l’ulteriore spopolamento dei piccoli comuni, l’incremento dei livelli di povertà.

2. Principali emergenze
In diversi settori fondamentali le situazioni di crisi si sono aggravate negli anni.
- Nella scuola, nella formazione, nell’Università e nella Ricerca, comparti in cui si ampliano i divari tra i partecipanti a tutti i livelli – con esclusioni dettate in grande misura dalle condizioni economiche di partenza delle famiglie – oggi anche acuiti dalla formazione a distanza.
- Nei trasporti perennemente incerti al punto di togliere ai sardi il diritto costituzionale alla mobilità. E’ dei giorni scorsi la dichiarazione relativa all’interruzione dal 1° dicembre di tutti i collegamenti navali in convenzione.
- Nella sanità, con i tagli sistematici agli organici, l’annuncio di riforme penalizzanti nei confronti dei territori, l’intasamento degli ospedali; il taglio delle borse di studio per le specializzazioni mediche. Questioni ben rappresentate in questo periodo dal malessere dei sindaci di fronte all’enormità dell’emergenza sanitaria disperatamente affrontata dai medici, dal personale sanitario, dagli operatori delle cooperative sociali e del volontariato a cui va la nostra solidarietà
- Nelle pubbliche amministrazioni, in tutte le diverse articolazioni, dove si aggrava la farraginosità burocratica al punto da compromettere i diritti dei cittadini, ma anche delle imprese, ostacolate anzichè sostenute nella funzione di creare lavoro per uno sviluppo economico eco-sostenibile.
Nella politica, segnata dal crollo della partecipazione dei cittadini sardi agli eventi elettorali e, spesso , da carenze programmatiche e attuative che rischiano di mettere a repentaglio i diritti della persona e perfino del rispetto della dignità umana. Nell’emergenza attuale, che riguarda tutti, ad essere maggiormente colpite sono, come sempre, le fasce sociali più deboli della popolazione: giovani, donne, anziani, poveri di ogni tipologia e, tra essi, ammalati, persone con basso livello culturale, analfabeti digitali, i residenti nei piccoli centri dell’interno, disoccupati.
Le famiglie che già vivevano in situazioni di disagio prima dell’inizio dell’emergenza sanitaria, versano oggi in situazioni di gravissima difficoltà, come testimoniano anche i recenti dati della Caritas sull’aumento della povertà assoluta e relativa.
La Sardegna ha bisogno, dunque, di interventi concreti sulle politiche per la famiglia, i giovani, il lavoro e le imprese, la questione ambientale, la sanità, la scuola, le infrastrutture, l’Università, la ricerca, le nuove tecnologie, la lotta alla corruzione.

3. La buona politica
Sulle orme di Papa Francesco chiediamo per la Sardegna “l’urgenza della buona politica; non di quella asservita alle ambizioni individuali o alla prepotenza di fazioni o centri di interessi. Una politica che non sia né serva né padrona, ma amica e collaboratrice; non paurosa o avventata, ma responsabile e quindi coraggiosa e prudente nello stesso tempo; che faccia crescere il coinvolgimento delle persone, la loro progressiva inclusione e partecipazione; che non lasci ai margini alcune categorie, che non saccheggi e inquini le risorse naturali […]  che sappia armonizzare le legittime aspirazioni dei singoli e dei gruppi tenendo il timone ben saldo sull’interesse dell’intera cittadinanza”
L’obiettivo principale della Politica deve essere, in questo frangente, la salvezza della la dignità delle persone, concentrando ogni sforzo sul lavoro, sulla ricerca del bene comune e non sull’assistenzialismo.

4. Piano straordinario e Piano per la Rinascita
Si metta perciò a punto un piano straordinario di investimenti da far partire al più presto, non oltre il 1° gennaio 2021. Quando la moratoria statale sui licenziamenti finirà e termineranno le risorse straordinarie per la cassa integrazione, gran parte dei lavoratori più deboli e meno qualificati perderà il lavoro col rischio più che concreto di rimanere intrappolata in una condizione di impoverimento per lungo tempo. Pertanto è necessario fin da ora intervenire con determinazione, anche con provvedimenti legislativi straordinari, sulle ben note emergenze create dalla pandemia.
Ma anche risulta indispensabile elaborare la fase della ricostruzione con un Piano per la Rinascita da costruire da parte delle Istituzioni con la collaborazione delle parti sociali – datoriali e sindacali – dei cittadini e delle loro organizzazioni, nella pratica della sussidiarietà, affinché si immaginino e si costruiscano percorsi di riqualificazione e affiancamento sociale condivisi e in grado di traghettare non solo le vittime del lockdown, ma l’intera Sardegna nella fase del post Covid. Questo piano indispensabile anche per utilizzare al meglio le ingenti risorse, che dovrebbero arrivare dal Recovery fund dell’Unione Europea. Si corre il rischio, infatti, che tali risorse vengano male utilizzate o sprecate se non si dovessero avere le idee chiare sulla loro destinazione e modalità d’impiego.

5. Unità per il bene della Sardegna
Come cattolici apprezziamo e sosteniamo il valore e l’importanza del pluralismo e della dialettica tra le forze politiche. Ma oggi, in questi tempi straordinari, le contrapposizioni devono mitigarsi lasciando posto al perseguimento di una grande unità tra le forze politiche e istituzionali. Il bene della Sardegna e della sua gente vale molto di più di piccoli vantaggi elettorali.
Speravamo tutti che questa pandemia da Covid-l9 cessasse e si potesse riprendere la vita nella sua normalità. Ma non è così. L’emergenza non sarà di breve durata e siamo certi che molto non sarà più come prima e che dobbiamo acquistare capacità politica di disegnare e realizzare nuovi e inediti scenari, come abbiamo cercato di argomentare in questo scritto.
Nell’esperienza drammatica che stiamo vivendo, e che ci ha fatto toccare con mano quanto siamo collegati e interdipendenti, ci è consegnata questa lezione: come il contagio avviene per contatto anche l’uscita dall’emergenza è possibile nel fare corpo unico. Non ci si salva da soli.

6. «Non sprechiamo la crisi!»
Rammentiamo in conclusione il recente messaggio della Conferenza Episcopale Italiana alle comunità cristiane in tempo di pandemia: “Viviamo una fase complessa della storia mondiale, che può anche essere letta come una rottura rispetto al passato, per avere un disegno nuovo, più umano, sul futuro. «Perché peggio di questa crisi, c’è solo il dramma di sprecarla, chiudendoci in noi stessi» (Papa Francesco, Omelia nella Solennità di Pentecoste, 31 maggio 2020)”.
Noi, cattolici sardi, raccogliamo queste esortazioni e chiamiamo tutte e tutti agli impegni che sinteticamente e sicuramente non esaurientemente abbiamo delineato in questo nostro appello.

Cagliari, giovedì 26 novembre 2020
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Seguono le firme
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Daremo conto nella news delle diverse sottoscrizioni, aggiornandole man mano che pervengono, direttamente a noi o ad altri promotori.

The Economy of Francesco

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The Economy of Francesco, 21 novembre 2020
Noi giovani economisti, imprenditori, change makers del mondo, convocati ad Assisi da Papa Francesco, nell’anno della pandemia di COVID-19, vogliamo mandare un messaggio agli economisti, imprenditori, decisori politici, lavoratrici e lavoratori, cittadine e cittadini del mondo, per trasmettere la gioia, le esperienze, le speranze, le sfide che in questo periodo abbiamo maturato e raccolto ascoltando la nostra gente e il nostro cuore. Siamo convinti che non si costruisce un mondo migliore senza una economia migliore e che l’economia è troppo importante per la vita dei popoli e dei poveri per non occuparcene tutti. Per questo, a nome dei giovani e dei poveri della Terra, noi chiediamo che:
[segue]

The Economy of Francesco

the-economy-of-francesco-logoVideomessaggio del Santo Padre Francesco ai partecipanti all’Incontro internazionale “Economy of Francesco – Papa Francesco e i giovani da tutto il mondo per l’economia di domani” (Assisi, 19 – 21 novembre 2020), 21.11.2020

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Videomessaggio del Santo Padre

Pubblichiamo di seguito il testo del Videomessaggio che il Santo Padre Francesco ha inviato, a conclusione dei lavori, ai partecipanti all’Incontro internazionale “Economy of Francesco – Papa Francesco e i giovani da tutto il mondo per l’economia di domani”, in corso ad Assisi – in diretta streaming – dal 19 al 21 novembre 2020:

Cari giovani, buon pomeriggio!

Grazie per essere lì, per tutto il lavoro che avete fatto, per l’impegno di questi mesi, malgrado i cambi di programma. Non vi siete scoraggiati, anzi, ho conosciuto il livello di riflessione, la qualità, la serietà e la responsabilità con cui avete lavorato: non avete tralasciato nulla di ciò che vi dà gioia, vi preoccupa, vi indigna e vi spinge a cambiare.

L’idea originaria era di incontrarci ad Assisi per ispirarci sulle orme di San Francesco. Dal Crocifisso di San Damiano e da tanti altri volti – come quello del lebbroso – il Signore gli è andato incontro, lo ha chiamato e gli ha affidato una missione; lo ha spogliato degli idoli che lo isolavano, delle perplessità che lo paralizzavano e lo chiudevano nella solita debolezza del “si è sempre fatto così” – questa è una debolezza! – o della tristezza dolciastra e insoddisfatta di quelli che vivono solo per sé stessi e gli ha regalato la capacità di intonare un canto di lode, espressione di gioia, libertà e dono di sé. Perciò, questo incontro virtuale ad Assisi per me non è un punto di arrivo ma la spinta iniziale di un processo che siamo invitati a vivere come vocazione, come cultura e come patto.

La vocazione di Assisi

“Francesco va’, ripara la mia casa che, come vedi, è in rovina”. Queste furono le parole che smossero il giovane Francesco e che diventano un appello speciale per ognuno di noi. Quando vi sentite chiamati, coinvolti e protagonisti della “normalità” da costruire, voi sapete dire “sì”, e questo dà speranza. So che avete accettato immediatamente questa convocazione, perché siete in grado di vedere, analizzare e sperimentare che non possiamo andare avanti in questo modo: lo ha mostrato chiaramente il livello di adesione, di iscrizione e di partecipazione a questo patto, che è andato oltre le capacità. Voi manifestate una sensibilità e una preoccupazione speciali per identificare le questioni cruciali che ci interpellano. L’avete fatto da una prospettiva particolare: l’economia, che è il vostro ambito di ricerca, di studio e di lavoro. Sapete che urge una diversa narrazione economica, urge prendere atto responsabilmente del fatto che «l’attuale sistema mondiale è insostenibile da diversi punti di vista»[1] e colpisce nostra sorella terra, tanto gravemente maltrattata e spogliata, e insieme i più poveri e gli esclusi. Vanno insieme: tu spogli la terra e ci sono tanti poveri esclusi. Essi sono i primi danneggiati… e anche i primi dimenticati.

Attenzione però a non lasciarsi convincere che questo sia solo un ricorrente luogo comune. Voi siete molto più di un “rumore” superficiale e passeggero che si può addormentare e narcotizzare con il tempo. Se non vogliamo che questo succeda, siete chiamati a incidere concretamente nelle vostre città e università, nel lavoro e nel sindacato, nelle imprese e nei movimenti, negli uffici pubblici e privati con intelligenza, impegno e convinzione, per arrivare al nucleo e al cuore dove si elaborano e si decidono i temi e i paradigmi.[2] Tutto ciò mi ha spinto a invitarvi a realizzare questo patto. La gravità della situazione attuale, che la pandemia del Covid ha fatto risaltare ancora di più, esige una responsabile presa di coscienza di tutti gli attori sociali, di tutti noi, tra i quali voi avete un ruolo primario: le conseguenze delle nostre azioni e decisioni vi toccheranno in prima persona, pertanto non potete rimanere fuori dai luoghi in cui si genera, non dico il vostro futuro, ma il vostro presente. Voi non potete restare fuori da dove si genera il presente e il futuro. O siete coinvolti o la storia vi passerà sopra.

Una nuova cultura

Abbiamo bisogno di un cambiamento, vogliamo un cambiamento, cerchiamo un cambiamento.[3] Il problema nasce quando ci accorgiamo che, per molte delle difficoltà che ci assillano, non possediamo risposte adeguate e inclusive; anzi, risentiamo di una frammentazione nelle analisi e nelle diagnosi che finisce per bloccare ogni possibile soluzione. In fondo, ci manca la cultura necessaria per consentire e stimolare l’apertura di visioni diverse, improntate a un tipo di pensiero, di politica, di programmi educativi, e anche di spiritualità che non si lasci rinchiudere da un’unica logica dominante.[4] Se è urgente trovare risposte, è indispensabile far crescere e sostenere gruppi dirigenti capaci di elaborare cultura, avviare processi – non dimenticatevi questa parola: avviare processi – tracciare percorsi, allargare orizzonti, creare appartenenze… Ogni sforzo per amministrare, curare e migliorare la nostra casa comune, se vuole essere significativo, richiede di cambiare «gli stili di vita, i modelli di produzione e di consumo, le strutture consolidate di potere che oggi reggono le società».[5] Senza fare questo, non farete nulla.

Abbiamo bisogno di gruppi dirigenti comunitari e istituzionali che possano farsi carico dei problemi senza restare prigionieri di essi e delle proprie insoddisfazioni, e così sfidare la sottomissione – spesso inconsapevole – a certe logiche (ideologiche) che finiscono per giustificare e paralizzare ogni azione di fronte alle ingiustizie. Ricordiamo, ad esempio, come bene osservò Benedetto XVI, che la fame «non dipende tanto da scarsità materiale, quanto piuttosto da scarsità di risorse sociali, la più importante delle quali è di natura istituzionale».[6] Se voi sarete capaci di risolvere questo, avrete la via aperta per il futuro. Ripeto il pensiero di Papa Benedetto: la fame non dipende tanto da scarsità materiale, quanto piuttosto da scarsità di risorse sociali, la più importante delle quali è di natura istituzionale.

La crisi sociale ed economica, che molti patiscono nella propria carne e che sta ipotecando il presente e il futuro nell’abbandono e nell’esclusione di tanti bambini e adolescenti e di intere famiglie, non tollera che privilegiamo gli interessi settoriali a scapito del bene comune. Dobbiamo ritornare un po’ alla mistica [allo spirito] del bene comune. In questo senso, permettetemi di rilevare un esercizio che avete sperimentato come metodologia per una sana e rivoluzionaria risoluzione dei conflitti. Durante questi mesi avete condiviso varie riflessioni e importanti quadri teorici. Siete stati capaci di incontrarvi su 12 tematiche (i “villaggi”, voi li avete chiamati): 12 tematiche per dibattere, discutere e individuare vie praticabili. Avete vissuto la tanto necessaria cultura dell’incontro, che è l’opposto della cultura dello scarto, che è alla moda. E questa cultura dell’incontro permette a molte voci di stare intorno a uno stesso tavolo per dialogare, pensare, discutere e creare, secondo una prospettiva poliedrica, le diverse dimensioni e risposte ai problemi globali che riguardano i nostri popoli e le nostre democrazie.[7] Com’è difficile progredire verso soluzioni reali quando si è screditato, calunniato e decontestualizzato l’interlocutore che non la pensa come noi! Questo screditare, calunniare o decontestualizzare l’interlocutore che non la pensa come noi è un modo di difendersi codardamente dalle decisioni che io dovrei assumere per risolvere tanti problemi. Non dimentichiamo mai che «il tutto è più delle parti, ed è anche più della loro semplice somma»[8], e che «la mera somma degli interessi individuali non è in grado di generare un mondo migliore per tutta l’umanità».[9]

Questo esercizio di incontrarsi al di là di tutte le legittime differenze è il passo fondamentale per qualsiasi trasformazione che aiuti a dar vita a una nuova mentalità culturale e, quindi, economica, politica e sociale; perché non sarà possibile impegnarsi in grandi cose solo secondo una prospettiva teorica o individuale senza uno spirito che vi animi, senza alcune motivazioni interiori che diano senso, senza un’appartenenza e un radicamento che diano respiro all’azione personale e comunitaria.[10]

Così il futuro sarà un tempo speciale, in cui ci sentiamo chiamati a riconoscere l’urgenza e la bellezza della sfida che ci si presenta. Un tempo che ci ricorda che non siamo condannati a modelli economici che concentrino il loro interesse immediato sui profitti come unità di misura e sulla ricerca di politiche pubbliche simili che ignorano il proprio costo umano, sociale e ambientale.[11] Come se potessimo contare su una disponibilità assoluta, illimitata o neutra delle risorse. No, non siamo costretti a continuare ad ammettere e tollerare in silenzio nei nostri comportamenti «che alcuni si sentano più umani di altri, come se fossero nati con maggiori diritti»[12] o privilegi per il godimento garantito di determinati beni o servizi essenziali.[13] Non basta neppure puntare sulla ricerca di palliativi nel terzo settore o in modelli filantropici. Benché la loro opera sia cruciale, non sempre sono capaci di affrontare strutturalmente gli attuali squilibri che colpiscono i più esclusi e, senza volerlo, perpetuano le ingiustizie che intendono contrastare. Infatti, non si tratta solo o esclusivamente di sovvenire alle necessità più essenziali dei nostri fratelli. Occorre accettare strutturalmente che i poveri hanno la dignità sufficiente per sedersi ai nostri incontri, partecipare alle nostre discussioni e portare il pane alle loro case. E questo è molto più che assistenzialismo: stiamo parlando di una conversione e trasformazione delle nostre priorità e del posto dell’altro nelle nostre politiche e nell’ordine sociale.

In pieno secolo XXI, «non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori».[14] State attenti a questo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. È la cultura dello scarto, che non solamente scarta, bensì obbliga a vivere nel proprio scarto, resi invisibili al di là del muro dell’indifferenza e del confort.

Io ricordo la prima volta che ho visto un quartiere chiuso: non sapevo che esistessero. È stato nel 1970. Sono dovuto andare a visitare dei noviziati della Compagnia, e sono arrivato in un Paese, e poi, andando per la città, mi hanno detto: “No, da quella parte non si può andare, perché quello è un quartiere chiuso”. Dentro c’erano dei muri, e dentro c’erano le case, le strade, ma chiuso: cioè un quartiere che viveva nell’indifferenza. A me colpì tanto vedere questo. Ma poi questo è cresciuto, cresciuto, cresciuto…, ed era dappertutto. Ma io ti domando: il tuo cuore è come un quartiere chiuso?

Il patto di Assisi

Non possiamo permetterci di continuare a rimandare alcune questioni. Questo enorme e improrogabile compito richiede un impegno generoso nell’ambito culturale, nella formazione accademica e nella ricerca scientifica, senza perdersi in mode intellettuali o pose ideologiche – che sono isole –, che ci isolino dalla vita e dalla sofferenza concreta della gente.[15] È tempo, cari giovani economisti, imprenditori, lavoratori e dirigenti d’azienda, è tempo di osare il rischio di favorire e stimolare modelli di sviluppo, di progresso e di sostenibilità in cui le persone, e specialmente gli esclusi (e tra questi anche sorella terra), cessino di essere – nel migliore dei casi – una presenza meramente nominale, tecnica o funzionale per diventare protagonisti della loro vita come dell’intero tessuto sociale.
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Cambiare si può, cambiare si deve

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lampadadialadmicromicro1Impegnati nella divulgazione (e nel dibattito relativo) delle due encicliche di Papa Francesco, facciamo seguito ai numerosi interventi già ospitati dalla nostra News e, in particolare, all’ultimo editoriale del direttore, per dare spazio all’importante contributo di Mario Agostinelli, che sotto riportiamo integralmente dalla rivista online Sbilanciamoci!.
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Da Laudato Si’ a Fratelli Tutti: lavoro e conflitto sociale oltre lo sviluppo
di Mario Agostinelli
sbilanciamoci-20 Sbilanciamoci! 11 Novembre 2020 | Sezione: Alter, Lavoro, primo piano.
Papa Francesco a cinque anni di distanza dalla Laudato Si’ ci propone con Fratelli Tutti un nuovo cambio di paradigma che dall’emergenza climatica mette al centro questa in rapporto al lavoro. Una riflessione sul cambiamento antropologico che serve all’umanità.

Dopo cinque anni di esperienza a contatto di una Associazione che ha preso ispirazione dall’Enciclica Laudato Si’, traggo la convinzione che le resistenze politico-culturali, oltre che ad un irresponsabile rigetto del monito di Francesco, siano dovute principalmente al rifiuto di separarsi definitivamente dall’idea dello “sviluppo”. Un rifiuto che continua ad alimentare un’illusione rivelatasi al fondo un disastro: che cioè l’aumento della torta da spartire in base alla crescita non avrebbe trovato limiti nelle risorse della biosfera e non avrebbe fatto i conti con la rapacità del sistema capitalista nell’appropriarsi delle ricchezze provenienti dal lavoro e dalla natura. Occorre riconoscere che anche tra le maglie del progressismo lo sviluppo è stato insignito di un favore largo, nella convinzione che le nazioni “avanzate” potessero indicare ai paesi ritardatari la strada da intraprendere per allinearsi e misurare il miglioramento della loro prestazione economica misurata dal PIL. Dopo aver preso in custodia la loro economia, la sbalorditiva varietà dei popoli si sarebbe ridotta ad una classifica basata sul debito contratto e preteso e sulla ricchezza prodotta e immancabilmente depredata. Almeno dal secondo dopoguerra fino al suo declino con l’inizio del nuovo secolo, questa riduzione delle differenze culturali, sociali, naturali, che fanno dell’umanità un punto di osservazione plurale e cosciente della biosfera entro cui convive, ha tenuto banco, contaminando la gran parte delle culture politiche. Le merci e il loro consumo si son eretti a mezzo di comunicazione quando non a scopo dell’esistenza e si è creato uno spazio sociale transnazionale nel quale il tempo veniva ad essere in continua accelerazione. Rompere uno schema così potenzialmente inclusivo, eppure distruttivo, è il compito che Francesco si è dato ed è la misura dell’ostilità incontrata da un autentico capovolgimento di valori.

Le élite mondiali ed i media transnazionali si sforzano di dare credibilità ad una loro rappresentazione della civiltà industriale che garantisca in prospettiva il livello minimo dei diritti umani e delle condizioni ambientali, assicurando comunque per l’impresa la massimizzazione dei profitti. Ma non esiste misura per trovare un equilibrio tra i tre contendenti, se non la pratica di un conflitto in cui lavoro e natura stanno dalla stessa parte. Un conflitto giunto ad un punto di rottura che riguarda la messa in discussione radicale del sistema. Sono i fatti a dimostrare che il ricorso senza limiti al consumo di natura ed i danni provocati dallo sfruttamento del lavoro tramutano quello che viene spacciato per sviluppo – un termine ormai privo di significati positivi – nel lento declino della vita vegetale e animale. Di fatto, si tratta di un pezzo di archeologia ormai in decomposizione quanto l’antropocentrismo e tanto meno attrattivo per le nuove generazioni, quanto più logorato dall’ingiustizia sociale e dal danno alla salute che ne hanno accompagnato la parabola. Non solo nelle parole del papa, ma nelle stesse preoccupazioni della scienza, esso, da consunta utopia, cede ormai il passo ad un bisogno di sopravvivenza, che può sussistere solo in armonia con la natura e come tensione cosciente verso una storia in comune, fatta di innumerevoli relazioni ed interconnessioni, visibili o invisibili, di cui “niente ci risulta indifferente”. Siamo, insomma, ad una svolta storica, ad una scoperta e, dall’altro lato, ad un “necrologio” – come afferma Wolfgang Sachs – che non a caso non ci è dato di elaborare quanto prima possibile. Possiamo però chiederci perché e cercare di scorgere quale sia il passo in avanti compiuto dalla seconda enciclica, che, al di là di ogni dubbio, tratta esplicitamente di politica e di un soggetto politico da definire nelle stesse settimane in cui Trump non risulta un semplice incidente, dal momento che non solo negli USA, ma anche vicino a noi si manifestano compulsioni che si riflettono in lui come in uno specchio.

Nonostante non ci fosse angoscia nelle pagine di una Enciclica premonitrice che invita a “camminare cantando”, ma una carica avvincente al rinnovamento, non è bastata la sintonia con l’affermarsi del movimento degli studenti di Greta né il crescente protagonismo delle donne in ogni regione del mondo, per incrociare un linguaggio o una pratica che imprimessero correzioni all’agenda dei governanti. Probabilmente lo stesso Francesco, così ostinatamente coerente ad ogni sua esternazione pubblica, riconosce che la Laudato Si’ peccò di ottimismo e non ci sono stati gli effetti sperati. Oltretutto, sulla scena globale, se si fa eccezione per qualche movimento degli “ignudi” nelle campagne o nelle foreste, il mondo del lavoro nel complesso si è mostrato incerto o poco attivo, mentre nel disagio sociale la democrazia ha fatto passi indietro, lasciando il campo ad una politica ostile all’austerità, insensibile ai limiti della natura e orientata all’economia dello scarto. Così, la nuova leva di leader autoritari e le corporation globali non hanno affatto desistito nel loro percorso involutivo: anzi, hanno concordemente intuito che, con la fine dell’era fossile e la limitazione dell’estrazione delle risorse naturali, la sconfitta inferta negli ultimi decenni a danno del bene comune e delle classi meno abbienti si sarebbe potuta arrestare se non addirittura ribaltare. Per il capitalismo globalizzato è parso giungere il momento per rendere ancora più aspro il conflitto con la crescente massa dei salariati e più pressante l’alienazione degli ultimi, sia nei confronti del lavoro sia verso la natura. Nelle strette di un cambio di passo con la pretesa di una resa dei conti, si è fatta strada – non solo ai piani alti, ma in molte fasce di popolazione temporaneamente protette – un’interpretazione del futuro prossimo del tutto incompatibile con il pensiero del pontefice argentino: non ci sarebbe stato più spazio per tutti gli scartati sul pianeta; il simulacro del PIL e il ruolo della finanza avrebbero assicurata la competizione più ostile e avida nei mercati; perfino l’idea di sviluppo si sarebbe potuta mettere in dubbio, ma avrebbe resistito all’erosione purché la si colorasse “un poco di verde”. A ruota, i media si sono distinti, da un versante, nel negare che fosse necessaria una rottura per riprogrammare modi e finalità di una produzione che aggredisce salute, ambiente e vite, da un altro, nel far sparire nel silenzio le domande più coinvolgenti sulla portata dell’Antropocene e sul ruolo non settario delle religioni in un mondo dilaniato ed in decomposizione ed in un tempo che sta tragicamente venendo a mancare (interrogativi consegnati ad una reazione niente affatto scontata, così ben rimarcati e rappresentati da un riflesso bianco che avanza nel buio di un Venerdì di pioggia in una piazza San Pietro deserta…).

La posta oggi è alta; forse più di quanto lo fosse cinque anni addietro, perché la pandemia ha accorciato ancor più i tempi. Ed è pertanto in un contesto aggravato che dobbiamo valutare il “rilancio” di Bergoglio attraverso la nuova enciclica “Fratelli Tutti”. Fortunatamente, Landini, i metalmeccanici e il sindacato stanno ribattendo senza arretramenti all’offensiva di Confindustria in una partita apertissima, il cui esito sarebbe ancora più incerto se terreni di scontro tra loro disconnessi si frazionassero ulteriormente. Non arriverei certo qui a sostenere che ci debba essere un nesso tra due versanti – i contratti e la predicazione – ovviamente autonomi e indipendenti. Ma come non riconoscere che il mondo cui si rivolge Francesco abbia necessità di poter contare anche sulla riconversione della produzione verso valori d’uso condivisi e sulla dignità del lavoro, affinché si possa aver cura della Terra, del clima e della giustizia sociale? Basta leggere – e rileggere, se occorre – il testo firmato il 3 di Ottobre del 2020 nella Basilica di Assisi. Il papa riprende sul terreno esplicito dove si sarebbe dovuta collocare la politica – cosa che quest’ultima non ha fatto – l’intero discorso del cambiamento strutturale antropologico, economico, finanziario e sociale auspicato, ma platealmente eluso. Ovviamente non si ripete, ma articola su altri temi e terreni la stessa provocazione di un cambio d’era evocata un lustro prima. Una boccata d’aria per credenti, non credenti, movimenti popolari, democrazie, forze sociali, forze politiche impegnate in cantieri spesso smarriti: un messaggio ed una alleanza da non lasciarsi sfuggire, anche se risulterà complesso comporre il quadro entro cui superare e sconfiggere l’involuzione nazionalista, populista e xenofoba, che comprime gli scarti e le povertà che dilagano nella società mondiale.

Parlo di alleanza da costruire perché abbiamo a che fare più con una pietra angolare che non con un edificio già strutturato. La diagnosi papale dei mali del mondo è oggettiva ed esplicita, ma la “pars construens”, anche quando luminosa e circostanziata, resta debole. Manca un anello: non è un limite di pensiero o di intenti, è un guasto – forse irreparabile – nell’ordine delle cose: la fraternità e l’amore universale non hanno ancora la forza che ha animato i movimenti politici in nome della libertà e dell’uguaglianza. A meno che, con il capovolgimento che nella Lettera viene concepito come una nuova gerarchia nella triade libertà-uguaglianza-fraternità si riscopra un primato di sorellanza e fratellanza tra gli individui ed un rapporto nuovo tra loro e la natura mediato dal lavoro: un lavoro che, avrebbero detto Marx ed Engels di metà Ottocento , “produce l’accrescimento della natura umanizzata senza provocare la scomparsa della primordiale natura amica”, ovvero, un lavoro che si autolimita a creare valore d’uso in un mondo in cui la sufficienza soppianta l’efficienza e il profitto cessa di essere identificato col fare impresa.

Dopo le sconfitte, rimangono due certezze: rivalutare la memoria come fonte di valori inalienabili e dare titolo di rappresentanza al fondo del barile dell’ingiustizia sociale e ambientale. Non sorprende allora se si dichiara senza mezzi termini che “Il diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto naturale secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati”, con un attacco frontale al principio su cui si regge un sistema capitalistico sempre più raffinato e corroborato dalla tecnocrazia. E non ci si stupisce nemmeno quando viene ribadita “la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata”, riprendendo così, all’interno delle contraddizioni laceranti tra sistema d’impresa, società e natura, il contestatissimo art. 41 di una Costituzione di democrazia sociale come quella della nostra Repubblica. Tanto meno meraviglia il ricorso ad una “consapevole coltivazione della fraternità”, come antidoto alla restrizione della libertà quando questa appaga solo per possedere o godere e come inveramento di una uguaglianza, che, se è definita solo in astratto, viene in realtà minata dall’individualismo competitivo.

Affermazioni non proprio ordinarie e difficili da elaborare sui due piedi dai commentatori di routine, che ne sono usciti spaesati, preferendo parlare di sé, anziché di un contenuto davvero complesso. Ci hanno provato infatti subito da destra, dando al papa del comunista, (Marcello Veneziani), dal centro, citando la triade della Rivoluzione Francese come “ponte” tra Illuminismo e Cattolicesimo e lamentando una tardiva rivalutazione della tecnica (Massimo Cacciari) ed anche da sinistra, richiamando la sproporzione tra ricchezza delle denunce e scarsezza dei rimedi (Pietro Stefani).
[segue]

Politiche attive del Lavoro – RdC improprio – RdC vero

Documentazione
ANNOTAZIONI

Cambiare si può, cambiare si deve

800px-giotto_di_bondone_-_legend_of_st_francis_-_2-_st_francis_giving_his_mantle_to_a_poor_man_-_wga09119 Riflessioni su alcune importanti questioni trattate dall’enciclica “Fratelli tutti” di Papa Francesco, e correlazioni con analoghi concetti sviluppati nel mondo laico*.
di Franco Meloni

BENI COMUNI e PROPRIETA’ PRIVATA
Il Papa dedica una parte dell’ultima sua enciclica “Fratelli tutti” ad alcuni concetti che, se pur antichi, oggi si ripropongono in maniera dirompente. Si tratta del diritto alla proprietà privata che deve comunque sottostare al primato del bene comune: parole sul tema che hanno destato scalpore, peraltro del tutto strumentale e superficiale.
Ricordiamo solo alcuni tra i molti titoli dei media al riguardo: “La svolta a sinistra di Bergoglio: «La proprietà non è intoccabile»”. “Bergoglio all’attacco della proprietà privata”. E così via (1).
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Il Papa aveva probabilmente previsto tali reazioni, scontate da oppositori con posizioni preconcette, meno da altri opinionisti, anche considerato che non propone altro di diverso dalla consolidata dottrina sociale della Chiesa, certo – ed è questa la novità – ridandole nuovo vigore per rispondere alle esigenze attuali dell’umanità, degli ultimi e dei diseredati in primo luogo.
Sostiene il Papa [FT 120]: ”Di nuovo faccio mie e propongo a tutti alcune parole di San Giovanni Paolo II, la cui forza non è stata forse compresa: «Dio ha dato la terra a tutto il genere umano, perché essa sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né privilegiare nessuno». In questa linea ricordo che «la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata, e ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata». Il principio dell’uso comune dei beni creati per tutti è il «primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale», è un diritto naturale, originario e prioritario. Tutti gli altri diritti sui beni necessari alla realizzazione integrale delle persone, inclusi quello della proprietà privata e qualunque altro, «non devono quindi intralciare, bensì, al contrario, facilitarne la realizzazione», come affermava San Paolo VI. Il diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto naturale secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati, e ciò ha conseguenze molto concrete, che devono riflettersi sul funzionamento della società. Accade però frequentemente che i diritti secondari si pongono al di sopra di quelli prioritari e originari, privandoli di rilevanza pratica”.
Se ci pensiamo bene il Papa non va oltre i principi ribaditi da alcune avanzate Costituzioni europee, tra cui esemplarmente quella italiana, che all’art. 41 recita: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. Nonché all’interno dell’art. 42: «La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti».
Ma la parte più avanzata e oggi di estrema attualità è quella che riguarda i ben comuni. La FT riprende concetti molto chiari formulati al riguardo nella LS [93]: ”Oggi, credenti e non credenti sono d’accordo sul fatto che la terra è essenzialmente una eredità comune, i cui frutti devono andare a beneficio di tutti. Per i credenti questo diventa una questione di fedeltà al Creatore, perché Dio ha creato il mondo per tutti. Di conseguenza, ogni approccio ecologico deve integrare una prospettiva sociale che tenga conto dei diritti fondamentali dei più svantaggiati. Il principio della subordinazione della proprietà privata alla destinazione universale dei beni e, perciò, il diritto universale al loro uso, è una “regola d’oro” del comportamento sociale, e il «primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale». La tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata, e ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata. San Giovanni Paolo II ha ricordato con molta enfasi questa dottrina, dicendo che «Dio ha dato la terra a tutto il genere umano, perché essa sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né privilegiare nessuno». Sono parole pregnanti e forti. Ha rimarcato che «non sarebbe veramente degno dell’uomo un tipo di sviluppo che non rispettasse e non promuovesse i diritti umani, personali e sociali, economici e politici, inclusi i diritti delle Nazioni e dei popoli». Con grande chiarezza ha spiegato che «la Chiesa difende sì il legittimo diritto alla proprietà privata, ma insegna anche con non minor chiarezza che su ogni proprietà privata grava sempre un’ipoteca sociale, perché i beni servano alla destinazione generale che Dio ha loro dato». Pertanto afferma che «non è secondo il disegno di Dio gestire questo dono in modo tale che i suoi benefici siano a vantaggio soltanto di alcuni pochi». Questo mette seriamente in discussione le abitudini ingiuste di una parte dell’umanità”. Ecco in queste affermazioni sta, a mio parere, la carica dirompente dell’enciclica, anzi delle due encicliche: l’Umanità vive la sua Terra, di cui ha diritto di beneficiare, amministrandola come bene comune da preservare e trasmettere alle generazioni future.
generazioni-futureSulla questione dei beni comuni – concetto sviluppato negli ambiti della filosofia, dell’etica, della scienza politica, della giurisprudenza e della religione, da tempo immemorabile – per gli aspetti che interessano l’odierna realtà, il Papa s’inserisce in un grande attuale dibattito, che a livello internazionale aveva trovato un momento di sintesi e riproposizione nelle elaborazioni di Elinor Ostrom, premio Premio Nobel per l’economia 2009. In Italia il dibattito si è assopito dopo la scomparsa dell’illustre politico e giurista Stefano Rodotà, che della questione era il massimo esperto, soprattutto per gli aspetti giuridici, anche se occorre segnalare una buona ripresa di attenzione, più culturale che politica, con l’iniziativa di un apposito Comitato denominato Generazioni future (2).
costituente-terra-logoTroviamo in questi concetti una bellissima assonanza con il movimento «Costituente Terra», promosso da intellettuali credenti e non credenti, tra i quali Raniero La Valle, Luigi Ferrajoli, Paola Paesano, Adolfo Pérez Esquivel, Anna Falcone, il vescovo Raffaele Nogaro, Mariarosaria Guglielmi, Domenico Gallo e molti altri, che persegue “l’obiettivo di un costituzionalismo mondiale e di una Costituzione della Terra, da raggiungersi attraverso gli opportuni strumenti politici e di pensiero (…) per suscitare il pensiero politico dell’unità del popolo della Terra, disimparare l’arte della guerra e promuovere un costituzionalismo mondiale”. Presupposto di tale iniziativa è la persuasione che comincia una nuova fase della storia umana e occorrono politiche e istituzioni adeguate alle dimensioni globali e fino a ieri del tutto imprevedibili della vita sulla terra. Si tratta infatti di rispondere alle sfide, cresciute esponenzialmente, alla vita pacifica e alla stessa sopravvivenza dell’umanità, e di avviare la costruzione di una nuova soggettività politica e giuridica mondiale, quale espressione dell’intero popolo della Terra. Ciò è favorito oggi da una condizione mai verificatasi prima, ovvero l’imporsi del fenomeno detto «globalizzazione» o «mondializzazione» e il solenne riconoscersi delle grandi religioni nella comune fraternità umana” (3).

lampadadialadmicromicroPer correlazione con le riflessioni sull’enciclica “Fratelli tutti”, particolarmente sulla questione della proprietà privata e dei beni comuni, constatiamo l’assonanza delle considerazioni di Papa Francesco con quelle di molti intellettuali del mondo laico. Tra questi citiamo Thomas Piketty e Mariana Mazzucato, cogliendo l’occasione di un interessante articolo di Valentina Pazé sul sito Volerelaluna (4). L’intervento riguarda sopratutto Piketty, del quale Pazé recensisce il poderoso ultimo libro Capitale e ideologia (La nave di Teseo, 2020). Solo una citazione è dedicata al libro di Mariana Mazzucato, dal significativo titolo
“Non sprechiamo questa crisi” (Laterza, 2020), che riecheggia il monito di Papa Francesco nella messa celebrata il 31 maggio scorso nella basilica di San Pietro, per la solennità di Pentecoste, dopo le misure restrittive imposte dalla pandemia: “Peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla”.
NOTE
(1) Da “Il giornale” del 4 ottobre 2020
La svolta a sinistra di Bergoglio: “La proprietà non è intoccabile”
di Francesco Boezi su Il giornale del 4/10/2020.
[Il Papa nella "Fratelli Tutti"] “rilegge l’accezione giuridica di “proprietà”, sottolineandone la “funzione sociale”. E questo potrebbe essere un passaggio criticato nella misura in cui la proprietà viene associata dalla prassi, dalla giurisprudenza e dalla tradizione occidentale ad un diritto assoluto [?]. Bergoglio scrive che “la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata, e ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata”. (…) sembra lecito immaginare che l’enclica del Papa possa essere attaccata dalla destra ecclesiastica. Il punto più discusso – lo ripetiamo – dovrebbe essere la concettualizzazione attorno al valore della “proprietà”. Se il fronte tradizionale criticasse il pontefice argentino, allora verrebbe messo in campo l’ennesimo accostamento di Bergoglio al marxismo o alla teologia della liberazione”.
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L’ideologia della fratellanza in Bergoglio
Sul blog di Marcello Veneziani, accreditato intellettuale della destra, 6 ottobre 2020
“«Fratelli tutti» è il manifesto ideologico del bergoglismo. (…) La parola comunismo è dimenticata da Bergoglio, anche se alcune sue eredità appaiono in lui, a cominciare dall’attacco alla proprietà privata”.

(2) Tra i testi fondamentali c’è, ovviamente, “Governare i beni collettivi” di Elinor Ostrom (Marsilio Editore), premio Premio Nobel 2009 per l’economia, insieme a Oliver Williamson, per l’analisi della governance e, in particolare, delle risorse comuni (vedasi: https://it.wikipedia.org/wiki/Elinor_Ostrom). In Italia principali riferimenti sono gli studi di Stefano Rodotà. Meritoriamente un Comitato denominato Generazioni future, guidato dal prof. Ugo Mattei, ha di recente ripreso l’iniziativa, tra l’altro proponendo una legge di iniziativa popolare. Informazioni sul sito web https://generazionifuture.org. Alcuni riferimenti: Il concetto di “beni comuni” è da individuare concretamente nelle “cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona (…) che devono essere tutelati e salvaguardati dall’ordinamento giuridico, anche a beneficio delle generazioni future” e dei quali favorire la fruibilità e la gestione da parte dei cittadini attivi e organizzati in accordo con le Pubbliche amministrazioni. La categoria dei “beni comuni” è immensa. Il primo bene comune universale è la terra, nella sua generalità (superficie e sottosuolo), da utilizzare a beneficio di tutti, nel rispetto dei limiti imposti dall’ordinamento giuridico. E possiamo continuare in un’elencazione di dettaglio, non certo esauriente, traendola dalle elaborazioni della Commissione Rodotà (2007/2008): “i fiumi, i torrenti e le loro sorgenti; i laghi e le altre acque; l’aria; i parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi e i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate”.

(3) Le informazioni sul movimento “Costituente Terra” sono presenti sul sito web dedicato http://www.costituenteterra.it

(4) Sostiene Piketty (ovvero, cambiare si può)
09-11-2020 – di Valentina Pazé su Volerelaluna.

* Sigle utilizzate nel corpo dell’articolo: LS per la Laudato si’; FT per la Fratelli tutti.

L’Italia e il Goal 1: contro l’impoverimento serve una strategia integrata

asvis-italia-logoBene le misure dei Decreti di contrasto alla povertà, ma il Rapporto ASviS chiede una visione sistemica degli interventi, un welfare più robusto e maggiore sostegno al Terzo settore. Indice italiano peggiore della media Ue. [VIDEO]. 5/11/20
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RAPPORTO CARITAS 2020

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covid e crisi economica una povertà sempre più “normale”

di Sabrina Magnani su Rocca

Il dibattito accesissimo di queste settimane circa la gestione dell’emergenza Covid si è imperniato sul nodo salute pubblica/economia cercando di procedere salvaguardando il più possibile entrambi, cosa che si sta profilando difficilissima. D’atra parte tale procedere ha la sua motivazione nel cercare di evitare una situazione di crisi economica così accentuata da porsi come problema più grave dell’epidemia stessa. Si tratta di un nodo drammatico, che tutti i paesi del mondo stanno affrontando, e che nel nostro paese ha già mostrato il suo volto in occasione del lockdown della scorsa primavera. A quali scenari di povertà e difficoltà economica si sia giunti in quei mesi e a quali potremmo indirizzarci nuovamente lo mostra chiaramente il Rapporto sulla povertà ed esclusione sociale in Italia 2020 presentato in occasione della Giornata mondiale di contrasto alla povertà, il 17 ottobre scorso, che restituisce una fotografia dei gravi effetti economici e sociali dell’attuale crisi sanitaria legata alla pandemia da Covid-19, e offre una tendenza che potrebbe ripetersi nei prossimi mesi.

pre-Covid, tra povertà e ripresa
Una «bilancia» fragilissima.
Nell’Italia pre-Covid i poveri assoluti risultavano 4,6 milioni, pari al 7,7% della popolazione (nel 2018 l’incidenza si attestava
all’8,4%), complessivamente 1,7 milioni di famiglie che corrispondono al 6,4% dei nuclei familiari (7,0% nel 2018). Rispetto al 2018, dunque, la povertà assoluta era calata – anche se con livelli ancora molto alti rispetto agli anni antecedenti – grazie alle misure di contrasto alla povertà messe in campo a livello governativo e alla cosidetta «ripresina» economica dopo la crisi economica del 2008. Più vulnerabili erano sempre le famiglie del Mezzogiorno, le famiglie numerose con 5 o più componenti, le famiglie con figli minori, i nuclei di stranieri (tra loro l’incidenza è pari al 24,4% a fronte del 4,9% tra le famiglie di soli italiani) e le persone meno istruite. Continua inoltre la correlazione negativa tra incidenza della povertà e età della persona di riferimento, decretando i nuclei degli under 34 come i più svantaggiati, che presentavano un’incidenza della povertà pari all’8,9%, mentre tra gli over 65 era pari al 5,1%, mentre molto alto era il peso della povertà tra i minori, che coinvolgeva l’11,4%, per un totale in valore assoluto di oltre 1,1 milioni bambini e ragazzi in stato di povertà.
Si tratta, evidentemente, di una situazione di grande fragilità, con una ampia fascia di popolazione che già prima della pandemia mostrava difficoltà evidenti, in un contesto, tipicamente italiano, connotato da uno de- gli indici di disuguaglianza tra i più alti e di mobilità sociale tra i più bassi d’Europa, una bilancia costantemente in bilico verso il basso, che il lockdown ha ulteriormente inclinato sfavorevolmente facendo scivolare nella povertà una parte della popolazione che a fatica riusciva a stare sui margini. Analizzando il periodo maggio-settembre del 2019 e confrontandolo con lo stesso periodo del 2020 emerge che da un anno all’altro l’incidenza dei «nuovi poveri» passa dal 31% al 45%: quasi una persona su due che si rivolge alla Caritas lo fa per la prima volta. Aumenta in particolare il peso delle famiglie con minori, delle donne, dei giovani, dei nuclei di italiani che risultano in maggioranza (52% rispetto al 47,9% del- lo scorso anno) e delle persone in età lavorativa; cala di contro la grave marginalità. A fare la differenza, tuttavia, rispetto allo shock economico del 2008 è il punto dal quale si parte, giacchè nell’Italia del pre-pandemia il numero di poveri assoluti era più che doppio rispetto al 2007. Secondo i dati pubblicati da Banca d’Italia, nei mesi di aprile e maggio, vi è stata una riduzione di reddito per la metà delle famiglie italiane, anche tenendo conto degli eventuali strumenti di sostegno ricevuti; e per il 15% del campione il calo è stato di oltre la metà del reddito complessivo.
L’impatto è più negativo tra i lavoratori indipendenti: quasi l’80% ha subito un calo nel reddito e per il 36% la caduta è di oltre la metà del reddito familiare. Oltre a un diffuso calo nei redditi, più di un terzo degli individui ha dichiarato di disporre di risorse finanziarie liquide sufficienti per meno di 3 mesi a coprire le spese per con- sumi essenziali. Questa quota supera il 50 per cento per i disoccupati e per i lavoratori dipendenti con contratto a termine.
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i tre mesi di lockdown nuovi disagi e nuove criticità
In tre mesi (marzo-maggio) la rete Caritas ha registrato un forte incremento del numero di persone sostenute a livello diocesano e parrocchiale, con un aumento complessivo del 12,7% di chi ha chiesto un aiuto: complessivamente si parla di circa 450mila persone. Tra i beneficiari circa il 30% è rappresentato dai cosiddetti «nuovi poveri», che per la prima volta hanno sperimentato condizioni di disagio e di deprivazione economica tali da dover chiedere aiuto. Tra gli assistiti nel periodo marzo-maggio prevalgono i disoccupati, le persone con impiego irregolare fermo a causa delle restrizioni imposte dal lockdown, i lavoratori dipendenti in attesa della cassa integrazione ordinaria o in deroga e i lavoratori precari o intermittenti che, al momento della presa in carico, non godevano di ammortizzatori sociali.
Il disagio ha mostrato anche fenomeni nuovi, come ad esempio le difficoltà di alcune famiglie rispetto alla didattica a distanza, manifestate nell’impossibilità di poter accedere alla strumentazione adeguata (tablet, pc, connessioni wi-fi). Colpiscono, poi, i numerosi alert delle Caritas inerenti la dimensione psicologica: si rileva un evidente aumento durante il lockdown del «disagio psicologico-relazionale», di problemi connessi alla «solitudine» e di forme depressive. I territori sottolineano anche un accentuarsi delle problematiche familiari, in termini di conflittualità di coppia, violenza, difficoltà di accudimento di bambini piccoli o di familiari colpiti dalla disabilità, conflittualità genitori-figli. Preoccupa, infine, anche il fenomeno della «rinuncia o il rinvio di cure e assistenza sanitaria», determinato dal blocco dell’assistenza specialistica ordinaria e di prevenzione che potrebbe deter- minare in futuro un effetto di onda lunga sul piano del carico assistenziale e del profilo epidemiologico del nostro paese.
A fronte di uno spettro di fenomeni così vasto e inedito, le Caritas hanno evidenziato una grande capacità di adattamento, mettendo in atto risposte innovative e diversificate, mai sperimentate in precedenza. Una vivacità di iniziative e opere realizzate anche grazie all’azione di circa 62mila volontari, a partire dai giovani impegnati nel Servizio Civile Universale. Sono 19.087 gli over 65 che si sono dovuti fermare per ragioni di sicurezza sanitaria e 5.339 le nuove leve (under 34), attivate in questo tempo di emergenza. Sono stati mantenuti i «centri di ascolto» con forme anche telefoniche nel periodo di chiusura e poi di nuovo in presenza non appena è stato possibile. Preziosa è stata l’attività sul fronte dell’accompagnamento e orientamento rispetto alle misure previste dal Decreto «Cura Italia» e «Decreto Rilancio»; che ha permesso a numerose persone e famiglie in difficoltà di poter accedere a tali sostegni pubblici (l’83% delle diocesi ha svolto questa specifica attività). Circa l’ambito del lavoro, in particolare quello della sofferenza sperimentata da tanti piccoli commercianti e lavoratori autonomi, le Caritas diocesane hanno erogato sostegni economici specifici, in ben 136 diocesi sono stati attivati fondi dedicati, utili a sostenere le spese più urgenti (affitto degli immobili, rate del mutuo, utenze, acquisti utili alla ripartenza dell’attività, ecc.). Complessivamente sono stati 2.073 i piccoli commercianti/lavoratori autonomi accompagnati in questo tempo.
Caritas Italiana ha anche esaminato il funzionamento delle misure emergenziali disposte dal governo in particolare di quelle volte a sostenere i redditi di famiglie e lavoratori, anche per individuare i difetti e le criticità da evitare in futuro. Da una rilevazione ad hoc condotta su un campione di 756 nuclei beneficiari dei servizi Caritas nei mesi di giugno-luglio 2020, il Rem (Reddito di emergenza) è risultata la misura più richiesta (26,3%) ma con un tasso di accettazione delle domande più basso (30,2%) rispetto alla indennità per lavoratori domestici (61,9%), al bonus per i lavoratori stagionali (58,3%) e al bonus per i lavoratori flessibili (53,8%). Il Rem è stato fruito prevalentemente da nuclei composti da adulti over 50, soprattutto single e monogenitori con figli maggiorenni, con un reddito fino a 800 euro e bassi tassi di attività lavorativa. Si tratta di un profilo del tutto sovrapponibile a quello di coloro che percepiscono il Reddito di cittadinanza (32,5%) all’interno dello stesso campione intervistato: questo dice che tra le due misure, rispetto alle caratteristiche dei beneficiari, vi sia sovrapposizione piuttosto che compensazione.

una povertà strutturale, mutevole e multiforme
Quello che il Covid-19 ha messo in evidenza è il carattere mutevole della povertà e stiamo ora entrando in una nuova fase nel nostro Paese. Si tratta di una povertà sempre più cronica, multidimensionale, legata a vissuti complessi che richiedevano percorsi di accompagnamento anche molto lunghi.
Se si collega tale constatazione, che emerge da un’azione costante e articolata territorialmente come quello delle Caritas, ai dati sui processi di disagio registrati anche da altri fonti (Istat, Banca d’Italia) e che evidenziano il maggiore peso degli italiani sulla popolazione in difficoltà, con un aumento dell’incidenza dei giovani tra i 18 e i 34 anni, un innalzamento della quota di coniugati, delle famiglie con figli e delle famiglie con minori, si intravede dunque l’ipotesi di una nuova fase di «normalizzazione» della povertà che si innesta tuttavia su un fenomeno già di per sé normalizzato. Occorre, dunque, suggerisce il Rapporto, istituire strumenti di analisi e di intervento adeguati al mutato contesto, realizzare analisi di lungo periodo per monitorare come cambiano le condizioni di vita delle persone in povertà e come su di esse incidano le misure pubbliche, concepire le misure nazionali di contrasto alla povertà come un «work in progress», che, a partire da un attento e sistematico lavoro di monitoraggio, vengano periodicamente «aggiustate» per poter adeguarsi e meglio rispondere alle trasformazioni in corso. In definitiva, come dice papa Francesco, occorre «lottare contro le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la mancanza di lavoro, della casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi» (3 ottobre 2020). Solo in questo modo si potranno fornire elementi a partire dai quali proiettarsi in un futuro di concreto cambiamento.
Sabrina Magnani
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rocca-22-15nov20
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GLI ANTICORPI DELLA SOLIDARIETÀ
RAPPORTO 2020 SU POVERTÀ
ED ESCLUSIONE SOCIALE IN ITALIA

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Gli operai non vorranno mica imparare il clavicembalo?

lezione alla scuola popolare 1971
Formazione permanente e l’eredità delle 150 ore
di Fiorella Farinelli
sbilanciamoci-20
Sbilanciamoci! 3 Novembre 2020 | Sezione: Apertura, Lavoro.
La povertà educativa non è solo minorile. L’Italia occupa la coda delle classifiche Ocse. In più adesso abbiamo bisogno di competenze nuove, digitali e non. 500 mila lavoratori utilizzarono i corsi delle 150 ore poi quel patrimonio sindacale andò disperso. L’occasione del contratto dei metalmeccanici.

Sarebbe una buona cosa se col rinnovo del contratto dei metalmeccanici si facessero progressi sulla formazione continua, definita già nel testo del 2016 come “diritto soggettivo” (la stessa definizione è in una normativa nazionale del 2012, largamente inapplicata, sull’apprendimento permanente) [nota 1]. Diritto soggettivo significa che la formazione sul lavoro è esigibile da tutti i lavoratori, anche i non coinvolti nelle azioni formative delle aziende. Viene perciò previsto un pacchetto di 24 ore di congedo retribuito utilizzabile anche individualmente. Assicurarne l’attuazione, e anche qualche sviluppo, sarebbe importante.

Sebbene ingabbiato in varie condizionalità (i lavoratori interessati, per esempio, sono solo quelli a tempo indeterminato ), quel modesto pacchetto di ore fruibile anche a richiesta individuale potrebbe fare da contrappeso all’avarizia sociale di gran parte delle politiche formative aziendali. Nella definizione vivono infatti due finalità, entrambe strategiche, e nessuna granché apprezzata dalle imprese. La prima, di profilo universalistico, è che alla formazione devono poter accedere tutti i lavoratori, anche quelli che, in tutta la loro vita lavorativa conoscono, se va bene, solo quella obbligatoria sulla sicurezza: i tanti esclusi dai progetti aziendali (anche concordati col sindacato) che privilegiano solitamente le figure di livello professionale più alto, dirigenti, quadri, tecnici, impiegati, e poi più i maschi che le femmine, più le fasce di età centrali che le altre, più i nativi che gli immigrati. La seconda finalità è che la formazione non dovrebbe tradursi solo in adattamento alle trasformazioni organizzative e tecnologiche dell’azienda ma andare oltre, contribuendo a sviluppare nei lavoratori le competenze, specifiche o trasversali, e spesso anche di base, necessarie a rafforzarne “l’occupabilità”, cioè ad essere più forti e preparati a misurarsi con la mobilità, necessitata o scelta, e con la riconversione professionale. Con le “transizioni”, le incertezze e gli agguati di un lavoro sempre meno stabile, oltre che con le prospettive, quando ci sono, di carriere interne.

Nell’accordo del 2016 si annunciava infatti anche una campagna per lo sviluppo delle competenze digitali, divenute ormai di base, almeno nel senso che chi non le ha è di sicuro svantaggiato nel mondo del lavoro di oggi. Possono certo apparire secondari, a fronte di tanti altri problemi, i piccoli passi avanti della contrattazione in materia di formazione (e, viceversa, lo scarso utilizzo dei congedi di “diritto allo studio”, che nei contratti ci sono ma vengono per lo più regalati alle aziende), ma non lo è. Le politiche attive del lavoro di cui si tanto si parla non hanno a che fare solo con l’incrocio tra domanda e offerta di lavoro, ma dovrebbero essere fatte anche di formazione. Non solo per chi è stato messo fuori dal lavoro o per chi un lavoro, come si deve non l’ha mai incontrato, ma anche per chi nel lavoro c’è già ma ha buone ragioni per prevedere che sarà prima o poi costretto a cercarne un altro. A sollecitare l’attenzione per i contenuti dell’accordo del 2016, è però anche che è stato ancora una volta il contratto dei metalmeccanici a introdurre per primo qualcosa di innovativo in campo formativo.

Ancora una volta. E a quasi cinquant’anni dallo storico rinnovo contrattuale in cui i metalmeccanici, e poi di seguito tutte le altre categorie, comprese quelle del terziario e del lavoro pubblico, conquistarono le “150 ore”. Cosa sono state e cosa hanno prodotto, perché furono appassionatamente volute, direttamente gestite e infine abbandonate dal sindacato, non lo sa quasi più nessuno. Non lo sanno, e forse neppure interessa, i delegati e gli operai, e neppure i sindacalisti che sembrano non sapere cosa farsene di quel congedo formativo retribuito – una riduzione del tempo di lavoro, una irruzione nel tempo di lavoro del tempo di vita – ha depositato nei contratti. Nate dalle lotte di fabbrica, oggi le “150 ore”, variamente ritoccate in tanti rinnovi contrattuali, vengono infatti utilizzate soprattutto nel pubblico, di solito per via individuale o, per meglio dire, solitaria. E invece in quella lontana esperienza di utilizzo del congedo – collettivo perché ispirato alla volontà di una emancipazione collettiva – non c’è solo un pezzo importante della storia sindacale, sociale, scolastica degli anni Settanta. Vi sono diritti, idee, pratiche sociali, contenuti utili anche oggi, in un mondo del lavoro pur irriconoscibile rispetto ad allora. Sarebbe utilissimo, per esempio, tener fermo che la “domanda” dei lavoratori, fosse anche solo di tipo individuale deve, per poter emergere e contare, essere ascoltata, capita, rappresentata, negoziata. Circolarono ai tempi un bel po’ di storie su chi nella Flm, a ridosso dell’Autunno caldo del 1969, ebbe per primo l’idea, forse anche sulla scorta di esperienze francesi (e allora è Bruno Trentin il primo indiziato), di buttare sul tavolo della trattativa anche un congedo retribuito per “studiare”. Sulle reazioni di una controparte ostile e arrogante, e su come gli si seppe rispondere. “Per studiare che cosa ? Gli operai non vorranno mica imparare il clavicembalo?”. “Perché no, se lo vogliono? anche il clavicembalo“.
clavicembalo e 150 ore
Fu così che lo sconosciuto strumento musicale divenne per anni il logo, fin nei volantini, di una rivendicazione felicemente trasgressiva – una specie di versione operaia dell’immaginazione al potere – che era stata prima di tutto di libertà, uguaglianza, autonomia. Anche se c’è chi ancora ricorda un corso sul rock di grande successo per giovani delegati, la musica che poi si suonò fu tutta un’altra. Anch’essa indigesta a gran parte del padronato , e ovviamente anche al ministero dell’Istruzione, che cercò di ridurne la portata innovativa tentando di assimilarla a vecchi corsetti di tipo assistenziale per analfabeti. Le richieste su come utilizzare il congedo (150 ore non bastavano per i percorsi lunghi e gli operai dovettero aggiungerci un bel pò del proprio tempo di vita) erano di più tipi. C’era la formazione di livello alto, ma senza riferimento a titoli di studio, come i seminari universitari (ce ne furono tanti, affollati di delegati, che trattarono di economia, diritto, storia, medicina del lavoro…). E c’era quella di livello intermedio collocabile nel primo biennio della secondaria superiore. Ma il fuoco fu da subito sulla scuola media e sul diritto a concluderla in un anno. Già nel 1973, a trattative ancora aperte, Cgil Cisl e Uil avviarono il negoziato per ottenere in tutto il Paese corsi statali per lavoratori di durata annuale per la licenza media (e, quando necessario, e in molti casi lo era, anche per la licenza elementare). I corsi, a centinaia, gradualmente si ottennero e, anche grazie a una singolare alleanza con tanti insegnanti affascinati dall’idea di far vivere nella scuola degli operai la scoperta sessantottina del Don Milani della “Lettera a una professoressa”, l’esperimento si sviluppò un po’ ovunque e tenne alla grande per più di una quindicina d’anni.
libro scuola popolare is m
Solo nei primi dieci, dal 1973 al 1983, i lavoratori coinvolti furono più di 500 mila. Ma perché proprio la scuola media, perché la Flm non puntò anche , o solo, sulla qualificazione professionale? Si è a lungo sostenuto che l’identificazione della formazione professionale con “lo strumento del padrone” fosse effetto di un eccesso di ideologia. Di risvolti ideologici, certo, ce n’erano, in questo e in altri aspetti della vicenda, ma in quella scelta che suscitò discussioni anche dentro le stanze della Flm, c’era soprattutto altro. Da un lato l’imprescindibile riflesso della distruzione delle professionalità operaie imposta dall’organizzazione fordista della grande fabbrica, dove bastavano due giorni di affiancamento perché gli addetti alla “catena” imparassero i contenuti della prestazione. Dall’altro il bisogno di una proposta adeguata a una classe operaia affamata di uguaglianza, quella che aveva ottenuto l’inquadramento unico e gli aumenti salariali eguali per tutti, quella che rivendicava una sua cultura con cui trasformare “l’organizzazione capitalista del lavoro”. L’obiettivo, allora, non poteva essere che il “diritto allo studio”, allora incarnato nella scuola che, cancellato con la riforma del 1962 il doppio binario tra “il ginnasio” dei figli dei ricchi e “l’avviamento professionale” (o anche niente) degli altri, era diventata l’emblema dell’istruzione per tutti. L’attuazione, finalmente, degli “almeno otto anni“ di obbligo scolastico scritti in Costituzione, il sapere come via per l’emancipazione sociale, nel lavoro e fuori. Tutti ne avevano diritto, dunque anche gli operai che non avevano potuto avere che pochi anni di scuola elementare, anche loro, proprio come i loro figli. Ma la scuola media degli operai doveva essere un’altra rispetto ai programmi e ai metodi della scuola ordinaria che continuava a bocciare i figli dei più poveri. Bisognava partire dall’esperienza e dai bisogni dei lavoratori, valorizzare il tanto che già sapevano e avevano imparato insieme, costruire una didattica nuova, conoscere quello che serve per poter trasformare la realtà. Della fabbrica, e anche oltre. Una sfida alta anche per gli insegnanti, che portò spesso a pratiche educative e strumentazioni didattiche, concordate con il sindacato, davvero innovative per l’italia e la scuola del tempo.

Ma la sfida era evidentemente anche politica, e non poteva restare la stessa quando il vento cominciò a cambiare. Quando, negli anni Ottanta, e dopo la traumatica sconfitta alla Fiat, il sindacalismo industriale dovette misurarsi con le ristrutturazioni e le crisi aziendali. Non resse, in verità, anche al fatto che i corsi 150 ore venivano sempre più frequentati da figure diverse dagli operai-massa della grande fabbrica (anche perché la riforma della scuola media stava poco a poco avendo i suoi benefici effetti, almeno per i più giovani). Tanti operai delle piccole fabbriche dove il sindacato non c’era o non riusciva a far riconoscere il diritto al congedo, tanti artigiani, disoccupati, casalinghe, cassaintegrati, bidelli e commessi del lavoro pubblico, giovani drop out della scuola dell’obbligo. E poi anche i primi immigrati a imparare l’italiano.

Sarebbe potuto essere motivo di orgoglio che una conquista operaia si stesse trasformando in una conquista civile, ma furono in molti a non vederla affatto in questo modo. Le Confederazioni avrebbero potuto, di fronte alle trasformazioni, rilanciare la palla per fare della scuola per i lavoratori il primo nucleo attorno a cui far crescere quel sistema di apprendimento permanente per adulti, lavoratori e non, che in Italia non c’era, e che ancora ci manca. Ma per tanti motivi non andò così. E la gestione dei corsi, passata di fatto ai sindacati Scuola, diventò sempre più questione di organici, concorsi, stabilità e orari del personale. Tra gli effetti indiretti della dismissione, ci fu anche l’appannarsi del ruolo protagonista sul diritto allo studio e sulla scuola che le Confederazioni si erano conquistate negli anni Settanta. Le dismissioni senza alternativa – i sindacati dell’industria sono i primi a saperlo – lasciano sempre dei brutti segni.

Fu persa, insomma, un’occasione importante. Non è di sicuro per questo, visti i tanti anni trascorsi, che sulla formazione continua, sulla formazione professionale tra lavoro e non lavoro e da un lavoro all’altro, e più in generale sull’apprendimento permanente, si debbano registrare risultati molto modesti e vistosi ritardi rispetto ad altri grandi Paesi dell’area europea. Ma è certo che da allora il movimento sindacale e quello che a lungo gli si è mosso attorno non ha più saputo sviluppare con continuità iniziative coerenti e lungimiranti su questi temi. E che – in verità paradossalmente, in una fase in cui la formazione per il lavoro e per la cittadinanza attiva ha acquisito un’urgenza che allora non c’era – ha lasciato troppo spazio a culture sociali miopi e a politiche mediocri, delle imprese come delle istituzioni. Tutt’altro che attente a innalzare il livello di istruzione e di qualificazione della popolazione adulta, a offrire una seconda chance ai tanti giovani inguaiati dagli abbandoni scolastici precoci, a rendere attraente e praticabile la partecipazione all’apprendimento “lungo tutto il corso della vita”. Ad attivare , come prevede la legge del 2012 e come sollecitato dalle politiche europee, i dispositivi di validazione delle competenze acquisite nel lavoro, nel volontariato, nella vita sociale, come strumento di accorciamento dei percorsi e come incoraggiamento a rientrare in formazione.

Eppure i numeri, confermati anno dopo anno da studi, indagini, comparazioni in area UE e OCSE dicono con chiarezza la gravità della situazione italiana. La “povertà educativa” di cui si parla non è solo “minorile”, non riguarda solo le aree più svantaggiate del Paese, i tanti ragazzi con background migratorio, il 22% dei Neet. E non è fatta solo di quel 15% di early school leavers che non concludono i percorsi formali. Nasce anche dal non lavoro, dal lavoro poco qualificato e senza seri processi di qualificazione, dagli apprendistati senza veri investimenti formativi, dai tirocini in cui non si impara niente, da una formazione professionale inadeguata per numeri e qualità, da interventi per gli occupati che trascurano, più che in altri Paesi, i più deboli. Dall’incapacità o non volontà di giocare la carta della formazione, si tratti del programma europeo “Garanzia Giovani”, del reddito di cittadinanza, della cassa integrazione, e di tanti altri contesti.

Pesa del resto l’ostinata assenza di un sistema effettivo di apprendimento permanente. Ciò di cui disponiamo, in un’Italia che occupa l’ultimo posto nelle classifiche OCSE per possesso delle competenze di base in italiano e matematica degli adulti tra 25 e 64 anni (con gravi carenze anche tra i giovani fino ai 35 anni), è fatto di spezzoni scoordinati che non fanno sistema, di un insieme che non sa mettersi in sintonia con l’intera gamma dei bisogni di istruzione, formazione professionale, educazione in età adulta. E che lascia sistematicamente fuori quelli che, per motivi soggettivi o oggettivi, alla formazione non possono arrivarci da soli.
[segue]

UNITÀ ED EGUAGLIANZA UMANA

564882df-16fe-4f9b-b2b6-56f50b43f7e8 15 FEBBRAIO 2020 / COSTITUENTETERRA / L’UNITÀ UMANA /
Non c’è più né Giudeo né Greco
(Gal. 3, 28)

Relazione tenuta da Raniero La Valle a Portici il 6 ottobre 2018 alla Festa Multiculturale “Pane nostro”del Coordinamento Campano contro le camorre e le mafie.

di Raniero La Valle

Vi potrà stupire che ci sia una citazione biblica come titolo di questo mio intervento , quando né le citazioni bibliche né il cristianesimo sembrano oggi molto di moda, e anzi si sta cercando di dare una spallata per abbatterli.

Però a ben vedere anche il titolo di questa vostra Festa multiculturale è una citazione biblica, “Pane nostro”, anzi è addirittura una citazione del “Padre nostro”. E in sostanza le due citazioni vogliono dire la stessa cosa: e cioè che non c’è nulla di nostro, nemmeno il pane, che non sia anche degli altri, che non sia un nostro di tutti. E se non c’è né Giudeo né Greco è perché non c’è un mondo di soli cittadini e non anche di stranieri, non c’è da una parte un’Europa comunitaria e dall’altra un mondo barbarico di extracomunitari, non c’è un’Italia di residenti che non sia anche un’Italia di immigrati, di fuggiaschi e di nomadi.

Questa è la tesi del nostro discorso. Ma perché cominciare proprio dal mettere insieme Giudei e Greci? Per la buona ragione che nella nostra società non c’è più posto per l’antisemitismo. È vero che per arrivarci ci sono voluti milioni di morti, ma ormai su questo, a parte i negazionisti e gli acciecati, sono tutti d’accordo. Allora è bene partire da una posizione da tutti condivisa, per affermarne un’altra altrettanto sacrosanta, e cioè che come non c’è Giudeo e Greco, così non c’è Italiano e Straniero; e questa affermazione è invece oggi fieramente contestata, quando si dice “prima gli Italiani” o addirittura “solo gli Italiani”, come si dice “prima l’America” o “la Francia per prima”. L’altra sera in TV la signora Santanchè diceva che i migranti devono essere respinti in quanto delinquenti, e anche sotto questo profilo doveva valere il motto “prima gli Italiani”, anzi in questo caso il messaggio era “solo gli Italiani, vogliamo solo i delinquenti italiani”; e questi ce li dobbiamo tenere almeno fino a quando non si riuscirà a togliere la cittadinanza anche a loro, come prevede il decreto sicurezza del ministro Salvini.

Allora qui bisogna sapere che è in gioco una grande questione, che ha attraversato tutta la storia, e su cui si decide tutto il nostro futuro: è la questione della diseguaglianza.

La storia della diseguaglianza

Dire non c’è più Giudeo né Greco, come dissero Paolo e il cristianesimo nascente, era una rivoluzione epocale anzitutto perché gli stessi Ebrei sostenevano una differenza invalicabile tra sé e gli stranieri, che non potevano neanche entrare nel recinto del Tempio, gli uni essendo eletti gli altri dannati; ma era una novità straordinaria anche perché il pensiero della diseguaglianza dominava non solo l’immaginario religioso, ma tutta la cultura dell’umanità, e non solo nel sentire comune e nell’opinione del volgo, ma ai livelli più alti della filosofia e del pensiero. Quella che dominava era infatti l’antropologia di Aristotile che divideva la società in signori e servi, e i servi erano tali per natura, “naturaliter servi”, come traducevano i latini. Questa diseguaglianza non dipendeva da contingenti condizioni economiche e sociali, ma era una diseguaglianza originaria; in termini colti si potrebbe dire una diseguaglianza ontologica, per essenza, e quindi umanamente irrimediabile. È la stessa cosa che valeva e vale ancora oggi per le caste in India, per cui mai lì si potrà passare dalla casta dei mercanti o dei servi alla casta dei guerrieri o dei brahamani: l’unica possibilità di cambiare casta è di morire e ricominciare un’altra vita. E non parliamo poi dei dalit, o intoccabili e “fuori casta”, con cui le caste superiori non devono nemmeno venire in contatto; anzi per la strada essi devono camminare al centro per non offuscare con la loro ombra le mura delle case delle caste alte.

In Occidente Aristotele spiegava che come per natura si uniscono maschio e femmina per la riproduzione, così deve esserci “chi per natura comanda e chi è comandato al fine della conservazione” (“Politica”, libro I), e questo rapporto di dominio si fondava su una diseguaglianza originaria, per cui si nasce liberi o schiavi, maschio e femmina, “l’uno per natura superiore, l’altra inferiore, l’uno comanda, l’altra è comandata”, e da qui scendevano a cascata le altre diseguaglianze, sociali, di classe ed etniche, per cui erano contrapposti padroni e servi, liberi dal lavoro e costretti ai lavori necessari, cittadini e non cittadini, greci e barbari, nativi e meteci (che erano poi i meticci, gli immigrati).

Fu perciò una grande rivoluzione religiosa e antropologica che Gesù, in nome di Dio Padre nostro, padre di tutti, rompesse il muro di separazione tra Giudei e Greci, tra Ebrei e Gentili e affermasse la radicale eguaglianza di tutti gli esseri umani, fino a dire con Paolo non solo che non c’è più né Giudeo né Greco, ma non c’è più maschio e femmina, non c’è Barbaro o Scita, schiavo e libero, e non c’è più circoncisione e incirconcisione (Col. 3, 11): e questo voleva dire abrogare quella divisione tra eletti e scartati che, secondo le Scritture ebraiche era addirittura di diritto divino, tanto da essere poi per sempre impressa nella carne dei membri del popolo eletto mediante la circoncisione.

Ora questa radicale unità ed eguaglianza di tutti gli uomini e le donne che Gesù ha affermato e realizzato attraverso la croce veniva ad adempiere quelle promesse messianiche, che già nell’Antico Testamento avevano prefigurato l’unità di tutte le famiglie della terra; basta pensare alla profezia di Isaia che annunciava che dalle loro spade fabbricheranno vomeri, dalle loro lance falci, nessuna nazione alzerà più la spada contro l’altra e non impareranno più l’arte della guerra (Is. 2, 4), o la profezia di Michea che annunciava che potranno sedersi ciascuno tranquillo sotto la sua vite e sotto il suo fico senza nessuno che li spaventi, e addirittura che tutti i popoli avrebbero camminato insieme ognuno nel nome del suo Dio (Mich. 4, 4-5): cioè tutte le discriminazioni sarebbero cadute, mentre tutte le identità sarebbero state salvate. La novità del Cristo, che poi significa Messia, portava cioè quel cambiamento radicale che doveva segnare il passaggio dall’età della profezia, dell’annuncio, a quella della realizzazione delle promesse messianiche.

Purtroppo però questa antropologia nuova non è entrata di fatto nella storia successiva, e nemmeno, se non con molta fatica, nello stesso cristianesimo. È vero che, come dice la seconda lettera di Pietro un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno al cospetto di Dio (2Pt 3,8), ma fatto sta che il pensiero della diseguaglianza ha continuato a dominare la storia. Ed è stata questa cultura della diseguaglianza che ha fondato e legittimato le società signorili e feudali, e innumerevoli forme storiche concrete di società inegualitarie, castali, razziste, sessiste e classiste.

La conquista dell’America

Per venire a tempi più recenti, possiamo dire che questa cultura della diseguaglianza è all’opera e produce il massimo della sua capacità discriminatoria agli albori della modernità, quando, con la conquista dell’America, gli europei si imbattono negli Indios, e parte la grande vicenda della colonizzazione. Nel 1500 si ricorre infatti all’antropologia di Aristotile, per dire che vi sono uomini e collettività che non essendo per limiti innati dotati di ragione sufficiente, sono incapaci di essere liberi e padroni di se stessi e quindi giustamente assoggettati dagli Spagnoli. È la tesi che Francisco De Vitoria confuterà nella sua famosa Relectio de Indis: ma intanto gli Indios vengono assoggettati e questo pensiero della diseguaglianza arriverà fino ad Hegel, a Croce, a De Gobineau e ai razzismi del Novecento europeo.

È proprio a partire dalla conquista dell’America che si sviluppa infatti nella filosofia dell’Occidente la concezione che teorizza una diseguaglianza per natura tra gli esseri umani, come dirà apoditticamente il grande dizionario Larousse alla fine del XIX secolo: “Nul ne contestera que la race blanche ne soit superieure à toutes les autres”. L’idea antica che tra gli esseri umani ci fossero i superiori e gli inferiori, i perfetti e i malriusciti, trova nella percezione europea degli Indios “scoperti” o incontrati in America la conferma irrefutabile. Se ci sono uomini e meno uomini, gli Indios ne forniscono la prova. Comincia Colombo, che non riconosce “l’altro” (come ha mostrato Cvetan Todorov in «La conquista dell’America: il problema dell’”altro”») non riconosce colui che a suo parere non “sa parlare” (in verità non sa parlare lo spagnolo), e poi c’è il conquistatore Francisco Pizarro che ha ben ragione di sentirsi superiore dal momento che con soli 168 soldati riesce a prevalere su un esercito di 80.000 uomini, e prende prigioniero Atahualpa, il re degli Inca, nella città andina di Cajamarca, uccidendo settemila Indios (ma la verità è che aveva i cavalli, non ancora domesticati nel continente americano, e perciò aveva la cavalleria, e i fucili e l’acciaio delle corazze e delle spade e delle lance, ancora ignoti agli indiani che combattevano potendo ferire, ma non uccidere); e poi c’è Hernan Cortés, che impone con la violenza il meticciato facendo sposare agli spagnoli le più belle indiane e sposando lui stesso una principessa indiana, la Malinche, che poi naturalmente ripudia, per popolare le terre conquistate con una razza nuova, non più di indigeni, ma di mestizos, cioè di indiani spagnolizzati. Ci penserà poi la teologia di Juàn de Sepùlveda a suggellare l’inferiorità degli Indios, ma purtroppo questa teorizzazione della diseguaglianza non resta isolata, si pianta nella cultura europea fino ad essere espressa nel punto più alto della filosofia occidentale, cioè nell’opera di Hegel. Il grande filosofo tedesco ha delle pagine terribili sulla presunta inferiorità degli Indios. “Dal tempo in cui gli Europei sono approdati in America, gli indigeni sono scomparsi a poco a poco, al soffio dell’attività europea”, dice nelle “Lezioni sulla filosofia della storia”, e lo spiega così: “Della civiltà americana quale si era venuta evolvendo specialmente nel Messico e nel Perù… sappiamo solo che essa era del tutto naturale, e che doveva quindi scomparire al primo contatto con lo spirito”. Ma lo scarto tra lo spirito e la natura è anche uno scarto nella stessa natura; la scomparsa degli indigeni dipende dunque per Hegel “dall’inferiorità di questi individui sotto ogni aspetto, perfino quanto a statura”.

Nel rievocare queste pagine, il filosofo del diritto Luigi Ferrajoli sottolinea come esse abbiano fatto scuola, fino a Croce. Anche il patriarca della cultura italiana adotta infatti il criterio storiografico di un’opposizione tra popoli della natura e popoli dello spirito, e scrive: “Gli uomini si distinguono tra uomini che appartengono alla storia e uomini della natura, uomini capaci di svolgimento e uomini di ciò incapaci; e verso la seconda classe di esseri, che zoologicamente e non storicamente sono uomini, si esercita, come verso gli animali, il dominio, e si cerca di addomesticarli e di addestrarli, e in certi casi, quando altro non si può, si lascia che vivano ai margini… lasciando che di essa si estingua la stirpe, come accadde di quelle razze americane che si ritiravano e morivano (secondo l’immagine che piacque) dinanzi alla civiltà da loro insopportabile”[1].

E che la soluzione migliore per gli Indiani fosse lo sterminio, è stato teorizzato da eminenti studiosi. Nel 1782 a Pittsburgh il giurista e letterato H. Henry Brackenridge così si esprime a proposito degli Indiani: “Essi hanno l’aspetto umano e forse fanno parte della specie umana”; ma “la natura dell’indiano è feroce e crudele… Il loro sterminio sarebbe utile al mondo e onorevole per coloro che vi provvederanno”.

Ma purtroppo l’Indio è solo un prototipo; infatti la diseguaglianza teorizzata per loro riguarderà poi i neri, gli ebrei ed ogni altra categoria di diversi. Locke, all’inizio della rivoluzione industriale, assimilerà agli Indios i proletari: “un manovale non è in grado di ragionare meglio di un indigeno”. E Spencer, il promotore ottocentesco della società dell’utile, applicando alla sociologia e alla società la teoria darwiniana dell’evoluzione, scriverà nel suo “Sistema di filosofia sintetica”: Tutti gli uomini sono come sottoposti a un giudizio di Dio, “se sono realmente in grado di vivere, essi vivono, ed è giusto che vivano. Se non sono realmente in grado di vivere, essi muoiono, ed è giusto che muoiano”.

Il punto d’arrivo di questa linea di pensiero è Nietzsche, il vero teorico della società della selezione. Per Nietzsche non si può parlare di uomini “eguali”: questa è l’illusione dei deboli. In diversi punti delle sue opere Nietzsche mette sotto accusa l’eguaglianza, intesa come una grande follia. “Così parla a me la giustizia: gli uomini non sono tutti eguali. E neppure devono diventarlo!” (Zarathustra); l’eguaglianza “è volontà di negazione della vita, principio di dissoluzione e di decadenza” (Al di là del bene e del male). Di qui gli effetti, le conseguenze e gli scopi dell’eguaglianza: trasformare l’umanità in sabbia: tutti molto eguali, molto piccoli, molto tollerabili, molto noiosi”); essa porta a un “guazzabuglio sociale”, a una degenerazione della razza a .. sopprimere “la selezione” e rovinare la specie (Frammenti postumi). Il razzismo ha pertanto la sua copertura filosofica. Da tutto questo veniamo, altro che Salvini!

La svolta

Ma a un certo punto c’è una svolta epocale. La svolta arriva dopo i genocidi del Novecento, quello degli Armeni prima, e quello degli Ebrei poi, e arriva dopo quella tragedia della volontà di potenza che era stata la seconda guerra mondiale. L’umanità capisce il suo lungo errore, decide di cambiare pagina: sull’eguaglianza di tutti gli uomini e le donne e di tutte le Nazioni grandi e piccole è fondata l’ONU, viene messa fuori legge la guerra, il principio di eguaglianza è assunto come irrevocabile nella Costituzione italiana e nel costituzionalismo postbellico. Sembrava davvero l’inizio della realizzazione delle promesse messianiche. Invece è arrivata la guerra fredda, il terrore atomico, il riarmo nucleare; e quando i blocchi sono caduti e il comunismo è finito, il capitalismo, che era stato messo sotto scacco dalle politiche comuniste, socialdemocratiche, keynesiane e dalle stesse Costituzioni, ha preso la sua rivincita e ha potuto prendere il dominio del mondo nelle forme della globalizzazione. A questo punto la diseguaglianza è tornata a dominare la politica, l’economia e la finanza, e si è aperto il baratro di quella che papa Francesco chiama oggi la società dello scarto.

La società dello scarto

La nuova società dello scarto, che mette fuori gioco i non scelti, i non salvati, gli esuberi, i senza casa e i senza lavoro, è peggiore della vecchia società dello sfruttamento; lo ha spiegato il papa nella “Evangelli Gaudium” e lo ha ribadito nella recentissima intervista al Sole 24 ore (7 settembre 2018): “non si tratta semplicemente del fenomeno conosciuto come azione di sfruttamento e oppressione, ma di un vero e proprio fenomeno nuovo. Con l’azione dell’esclusione colpiamo nella sua stessa radice i legami di appartenenza alla società a cui apparteniamo dal momento che in essa non si viene semplicemente relegati negli scantinati dell’esistenza, nelle periferie, non veniamo privati di ogni potere, bensì veniamo sbattuti fuori. Chi viene escluso non è sfruttato, ma completamente rifiutato, cioè considerato spazzatura, avanzo, quindi spinto fuori della società. Non possiamo ignorare che un’economia così strutturata uccide perché mette al centro e obbedisce solo al denaro: quando la persona non è più al centro, quando fare soldi diventa l’obiettivo primario e unico, siamo al di fuori dell’etica e si costruiscono strutture di povertà schiavitù e di scarti”.

E noi possiamo aggiungere che mentre gli sfruttati almeno potevano lottare per riscattarsi, gli scartati non possono nemmeno lottare perché di fatto “non ci sono”. Non ci sono.

Il popolo dei migranti

Allo stesso modo non ci sono, non ci devono essere i migranti.
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SALARIO MINIMO, si muove l’UE

eur-lexMercoledì 20 ottobre 2010
Il ruolo del reddito minimo nella lotta contro la povertà e nella promozione di una società inclusiva in Europa. Risoluzione del Parlamento europeo del 20 ottobre 2010 sul ruolo del reddito minimo nella lotta contro la povertà e la promozione di una società inclusiva in Europa (2010/2039(INI))
avvenire-2020-10-29-salario-min-garantito
GIOVANNI MARIA DEL RE su Avvenire 29 ottobre 2020
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DOCUMENTAZIONE

eur-lexMercoledì 20 ottobre 2010
Il ruolo del reddito minimo nella lotta contro la povertà e nella promozione di una società inclusiva in Europa.
P7_TA(2010)0375 Risoluzione del Parlamento europeo del 20 ottobre 2010 sul ruolo del reddito minimo nella lotta contro la povertà e la promozione di una società inclusiva in Europa (2010/2039(INI))

Appello

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COVID-19: CONTRO LA POVERTÀ, INDENNIZZI E REDDITO D’EMERGENZA
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Fabrizio Barca, Enrico Giovannini e Cristiano Gori: “Per il REM è necessario estendere i termini per le domande e semplificare le procedure. Per i lavoratori autonomi, un sostegno commisurato alle condizioni economiche dei beneficiari”.
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Roma, 26 ottobre 2020_ Apprezziamo che al varo dell’inasprimento delle misure di contenimento del contagio con il DPCM 24 ottobre, abbia corrisposto l’annuncio da parte del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che tale provvedimento sarà accompagnato dall’introduzione di misure di indennizzo per tutte le categorie colpite. Apprezziamo inoltre che, come ribadito dal Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali Nunzia Catalfo, esse includeranno l’estensione per un mese del Reddito di Emergenza (Rem). Anche se sarebbe stato opportuno che tutte queste misure fossero contestuali allo stesso DPCM, al fine di dare immediate certezze all’intera popolazione.

L’intervento di estensione del Rem è peraltro particolarmente urgente in quanto, dal 15 ottobre non è più possibile fare domanda per ricevere questo sostegno destinato a chi non può accedere ad altri ammortizzatori sociali, cioè la parte più debole della società italiana.

Il Rem – proposto a marzo dai firmatari di questo testo – era stato introdotto a maggio per assicurare un contributo monetario alle famiglie in grave difficoltà economica e prive di altri sostegni pubblici durante la prima ondata del Covid-19. Era una misura temporanea – tre mensilità al massimo – e di importo variabile tra 400 euro mensili per un singolo e 800 per i nuclei più numerosi. Purtroppo, lo hanno ricevuto molte meno persone di quelle previste: 700mila rispetto ai due milioni di individui aventi diritto. Questo esito non sorprende: il Rem era stato pensato come una misura da ottenere nel modo più semplice e rapido possibile, ma è mancata un’adeguata informazione alla popolazione destinataria della misura e sono state previste procedure molto complesse, che hanno probabilmente scoraggiato molte persone dal presentare la domanda.

La seconda ondata della pandemia sta investendo ora l’Italia e i più deboli rischiano nuovamente di doverla affrontare privi di un sostegno pubblico. Per questo, non basta erogare una nuova mensilità a chi ha già iniziato a percepire il Rem, ma è necessario e urgente riaprire i termini per la presentazione delle domande almeno fino a fine anno, pronti a nuove estensioni automatiche in relazione alle misure di contenimento che verranno assunte. E’ inoltre necessario prevedere una semplificazione delle procedure che ne regolano il funzionamento, facendo tesoro dell’esperienza finora maturata e dei suggerimenti da noi formulati inizialmente per il disegno della misura. Siamo pronti a confrontarci con le autorità su questi profili.

Anche con riguardo al complesso del lavoro autonomo, è possibile migliorare la qualità dell’intervento, facendo riferimento alla proposta di un Sostegno di emergenza per il lavoro autonomo (Sea) da noi avanzata il 30 marzo scorso insieme al Rem , il quale prevede un importo variabile in funzione delle diverse situazioni. In particolare, poiché l’obiettivo è quello di sostenere soprattutto chi è in grave difficoltà, l’ammontare del contributo viene determinato in modo progressivo a seconda delle condizioni economiche del nucleo familiare del lavoratore autonomo. Il SEA punta, inoltre, a mantenere la capacità produttiva del lavoro, per cui il suo valore è anche parametrato alla perdita di guadagno (in proporzione al proprio volume abituale di attività), così da supportare in misura maggiore chi subisce un danno maggiore.

Fabrizio Barca, Coordinatore del Forum Disuguaglianze e Diversità (FDD)
Enrico Giovannini, Portavoce dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS)
Cristiano Gori, Docente di Politica sociale all’Università di Trento
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Povertà ed emergenza alimentare: la crisi si abbatte su donne e giovani

In Italia è boom di nuovi poveri, anche tra le persone in età lavorativa, e a pagare sono in particolare donne e minori: Caritas e Actionaid lanciano l’allarme e chiedono un cambio di rotta al governo. 21/10/20, su AsVis.
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Esplode in Italia il numero di persone colpite da povertà per gli effetti della crisi scatenata dal Covid-19. L’impatto economico e sociale della pandemia ha infatti innescato nel Paese nuove forme di povertà e un’emergenza alimentare mai così grave, come confermano due rilevazioni uscite nelle ultime settimane. Il rapporto 2020 di Caritas Italiana dal titolo “Gli anticorpi della solidarietà”, pubblicato il 17 ottobre, ha evidenziato che l’incidenza dei “nuovi poveri” in Italia è passata al 45% rispetto al 31% dello scorso anno; aumenta, in particolare, il peso della crisi su donne, giovani, famiglie con minori, nuclei di italiani (che ora risultano in maggioranza, 52% rispetto al 47,9 % dello scorso anno) e persone in età lavorativa. Di contro, diminuisce l’impatto della grave marginalità, la percentuale di persone senza dimora, di stranieri (magari di passaggio) e delle persone sole. “Quello che il Covid-19 ha messo in evidenza è il carattere mutevole della povertà e stiamo ora entrando in una nuova fase nel nostro Paese”, spiegano i ricercatori del Centro studi Caritas. L’organismo della Cei ha effettuato tre monitoraggi nazionali: uno ad aprile in pieno lockdown, il secondo a giugno, dopo la riapertura dei confini regionali, e il terzo a settembre dopo il periodo estivo. Secondo l’indagine, nel periodo maggio – settembre 2020 quasi una persona su due che si è rivolta alla Caritas lo ha fatto per la prima volta.

Tra marzo e maggio 2020, in piena emergenza, la rete Caritas ha registrato un forte incremento del numero di persone sostenute a livello diocesano e parrocchiale: circa 450mila persone, di cui il 30% costituito da “nuovi poveri”, cioè soggetti che per la prima volta hanno sperimentato condizioni di disagio e di deprivazione economica tali da dover chiedere aiuto. Tra questi prevalgono i disoccupati, i lavoratori precari o irregolari, i lavoratori dipendenti in attesa della cassa integrazione ordinaria o in deroga. Relativamente alla tipologia di problematica emersa, Caritas segnala in primo luogo un forte incremento dei problemi di povertà economica (legati alla perdita del lavoro e alle fonti di reddito) e le difficoltà connesse al mantenimento dell’abitazione (affitto o mutuo). Tuttavia compaiono anche fenomeni nuovi, come ad esempio le difficoltà di alcune famiglie rispetto alla didattica a distanza, manifestate nell’impossibilità di poter accedere alla strumentazione adeguata (tablet, pc, connessioni Wi-Fi).

Nel periodo giugno – agosto 2020, si intravedono segnali di miglioramento rispetto al periodo del lockdown: cala il numero degli assistiti, la media per diocesi scende da 2.990 persone (del periodo marzo-maggio) a circa 1.200. In linea con il dato generale cala anche il numero medio dei nuovi ascolti, che scendono da 868 a 305 per diocesi. Tra coloro che hanno riconosciuto dei segnali di miglioramento, il 43% delle Caritas attribuisce una risonanza anche al Reddito di emergenza (Rem), la misura del governo introdotta al fine di supportare le persone e le famiglie in condizione di necessità economica e prive di ulteriori ammortizzatori sociali. Infine, rispetto alle forme di intervento e prestazioni erogate dalle Caritas, i dati di settembre iniziano a registrare una graduale e lenta ripresa.

Caritas Italiana ha anche esaminato il funzionamento delle misure emergenziali disposte dal governo, in particolare di quelle volte a sostenere i redditi di famiglie e lavoratori. Da una rilevazione ad hoc condotta su un campione di 756 nuclei beneficiari dei servizi Caritas nei mesi di giugno-luglio 2020, il Rem è risultata la misura più richiesta (26,3%) ma con un tasso di accettazione delle domande più basso (30,2%) rispetto alla indennità per lavoratori domestici (61,9%), al bonus per i lavoratori stagionali (58,3%) e al bonus per i lavoratori flessibili (53,8%). Troppo difficile, secondo l’indagine, presentare le domande di Rem e infatti il numero di quelle accettate aumenta per chi si è fatto aiutare a compilarle dai volontari dei centri di ascolto. Il Rem è stato fruito prevalentemente da nuclei composti da adulti over 50, soprattutto single e mono-genitori con figli maggiorenni, con un reddito fino a 800 euro e bassi tassi di attività lavorativa. In generale, Rem e Reddito di cittadinanza sono considerate dalle Caritas come misure frammentarie e che necessitano di orientamento.

Secondo Caritas, per affrontare la nuova fase pandemica il Paese ha bisogno di strumenti di analisi e di intervento adeguati, in particolare: mettere in relazione i dati sulla povertà (assoluta e relativa) con quelli sui percettori delle misure di contrasto; realizzare analisi di lungo periodo per monitorare come cambiano le condizioni di vita delle persone in povertà e se e come su di esse incidano le misure pubbliche; concepire le misure nazionali di contrasto alla povertà come in continuo aggiornamento per rispondere meglio alle trasformazioni in corso; intercettare le cause strutturali della povertà.

L’altro rapporto uscito recentemente, “La pandemia che affama l’Italia: Covid-19, povertà alimentare e diritto al cibo”, realizzato da ActionAid, ha evidenziato che il lockdown ha aumentato in modo esponenziale l’insicurezza alimentare per le famiglie. “L’Italia attraversa la più grave crisi alimentare di sempre”, si legge nel Rapporto, “un ‘emergenza che colpisce in particolare donne, bambini e coloro che già vivevano in condizioni di precarietà”. E a fronte dell’aumento delle richieste di aiuto, ActionAid rileva che “solo una piccola parte delle famiglie in stato di bisogno ha ricevuto assistenza tramite i buoni alimentari, la misura di emergenza varata dal governo e erogata dai comuni”.

Da un’indagine condotta dall’organizzazione su un gruppo di oltre 300 famiglie nel Comune di Corsico, centro dell’hinterland milanese che già prima della pandemia registrava la più alta percentuale di poveri di tutti i comuni dell’area, è emerso che l’80% di chi richiede aiuto è donna tra i 22 e gli 85 anni, ben il 91% delle donne in età da lavoro è disoccupata. Nei nuclei famigliari sono presenti oltre 186 minori under 16. Il 76,85% degli intervistati ha dovuto saltare ripetutamente interi pasti per la mancanza di cibo sufficiente. Per la stragrande maggioranza delle famiglie (135) questo è accaduto più di dieci volte al mese, con punte di 20/30 episodi durante il lockdown.

Poco efficaci, secondo l’indagine, le misure del governo sotto forma di buoni spesa e distribuzione di generi alimentari e di prima necessità: “Criteri di accesso discriminatori (ad esempio la residenza), risorse insufficienti, modalità di accesso alla domanda non facilmente fruibili per tutti, tempi di erogazione in certi casi troppo lunghi emergono dall’analisi di otto comuni in tutto il territorio nazionale (Torino, Milano, Corsico, L’Aquila, Napoli, Reggio Calabria, Messina e Catania)”, si legge nel documento.

Oltre due milioni di famiglie in Italia scivoleranno nella povertà assoluta, secondo una proiezione di ActionAid, ma occorrono efficaci strategie di contrasto che siano supportate da risorse adeguate. Ad esempio, ha spiegato Roberto Sensi, Policy advisor global inequality di ActionAid Italia, “garantendo l’accesso universale a bambine e bambini alle mense scolastiche e inserendo nella prossima Legge di Bilancio un fondo di solidarietà alimentare che disponga di nuove risorse addizionali e che tenga presente della crisi attuale. Il cibo deve tornare a rappresentare un’opportunità non solo di sostenibilità e salute, ma anche di equità per tutte le comunità del nostro Paese”.

Scarica i documenti

- “Gli anticorpi della solidarietà” – Caritas Italiana

- “La pandemia che affama l’Italia: Covid-19, povertà alimentare e diritto al cibo” – ActionAid

di Andrea De Tommasi su AsVis

Mercoledì 21 Ottobre 2020, su AsVis.
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Sul sito web del Forum Disuguaglianze Diversità.
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DALLA PARTE DEGLI INVISIBILI
Editoriale di Avvenire
La tragedia dei più poveri tra noi
MARCO IASEVOLI, su Avvenire 29 ottobre 2020
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“Fratelli tutti” UN APPASSIONATO INVITO ALL’UNITÀ UMANA

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L’enciclica “Fratelli tutti” di papa Francesco in una lettura di “Noi siamo Chiesa”. Ogni azione deve tendere a riconoscere l’altro, a un incontro tra differenze, per una trasformazione degli stili di vita, per nuovi rapporti sociali

L’ enciclica “Fratelli tutti” per la complessità e la molteplicità dei temi che tratta meriterà molta attenzione di volta in volta sui vari blocchi di argomenti. Una prima lettura serve ad averne un’idea generale senza in alcun modo esaurire la riflessione.

La situazione difficile del mondo

Essa, nelle sue linee generali, riprende ampiamente il messaggio culturale e sociopolitico di papa Francesco, lo sistematizza e lo arricchisce. In particolare riprende ampiamente il documento di Abu Dhabi del febbraio del 2019 “sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune” firmato dal papa con il Grande Imam Abu Al-Tayyeb dell’Università Al-Azhar del Cairo. La prima parte descrive la situazione del mondo constatandone il peggioramento per i nazionalismi emergenti, la crescita delle radicalizzazioni e delle disuguaglianze, i razzismi, le nuove povertà, la pandemia “che ci ha denudati” e ha gravemente penalizzato i più deboli, il rischio del “tutti contro tutti”, il rifiuto dei migranti, i muri, invece dei ponti, che si costruiscono un po’ dovunque, le forme ormai consolidate di schiavitù, la guerra mondiale a pezzi, i poteri economici che sovrastano i soggetti politici che dovrebbero proteggere la “casa comune” dell’umanità.

In questa descrizione si può leggere un contributo abbastanza nuovo (cap. 44 e 45) sulle tante aggressività che si esprimono mediante la comunicazione online e in tutto il mondo digitale che ha alle spalle interessi economici enormi e che è capace di forme invasive e sottili di controllo e di manipolazione. In questa descrizione non nuova delle tante cose negative dello scenario globale non vi è spazio (un solo cenno) per un approfondimento della specifica condizione della donna che è pesante e diffusa ovunque. I diversi aspetti della sua condizione di subordinazione fanno parte dei pesanti rapporti di dominio esistenti al mondo che tutti l’enciclica condanna duramente. Questa assenza ci sembra il limite principale dell’enciclica ed è coerente con la mancanza nel pontificato di papa Francesco di un impegno non formale od episodico perché la condizione femminile sia tutelata e promossa nella società e, a maggior ragione, nella Chiesa. La richiesta che l’enciclica si chiamasse “Sorelle e fratelli tutti” ci sembrava del tutto giustificata (la citazione esatta delle parole di S. Francesco poteva essere ripresa e spiegata nel testo). E’ stato anche rilevato che tra i grandi “maestri” citati tra quelli che hanno ispirato l’enciclica (S. Francesco, Martin Luther King, Desmond Tutu, Mahatma Gandhi, Charles de Foucauld) non c’è nessuna donna.

Il Samaritano, modello per la vita e per la società

L’enciclica passa poi ad un approfondimento del racconto evangelico del buon Samaritano, che viene assunto come modello generale per nuovi rapporti tra gli uomini. Il testo è particolarmente efficace nel descrivere i quattro soggetti presenti nella parabola, assunti a tipologie di comportamenti diffusi. Partendo da qui si sviluppano le linee portanti dei principali messaggi di Francesco. Essi riguardano: gli “ultimi”, i migranti, il potere economico che domina la politica, gli individualismi generalizzati che chiudono le comunità e le società in se stesse, la proprietà privata che dovrebbe essere diritto secondario rispetto ai beni comuni ed al bene comune, i nazionalismi fondati sulla xenofobia e via di questo passo. L’amore si deve praticare da una parte verso le fragilità individuali nei rapporti interpersonali che ognuno di noi incontra nella propria vita, dall’altra con quella che Francesco chiama “amicizia sociale” perché la carità si deve esprimere con l’intervenire sulle situazioni di sofferenza della casa comune (con azioni di tipo sociale, politico, culturale). Questa è la solidarietà. Poi l’enciclica fa un interessante discorso su Fraternità, Libertà e Uguaglianza. Le tre parole d’ordine della Rivoluzione francese vengono naturalmente accettate (già demonizzate dalla Chiesa a suo tempo) ma declinate in questo modo: la fraternità è la condizione indispensabile perché libertà e uguaglianza siano veramente tali. Tutta l’enciclica ruota attorno alla tutela e alla promozione dei diritti umani, a partire dagli ultimi, dagli esclusi, dai “non conosciuti”. Qualcuno ha osservato che la Chiesa mentre li promuove con convinzione dovrebbe essere più consapevole che al proprio interno essi meritano una ben maggiore tutela (per esempio quelli degli abusati dal clero pedofilo) e che, in generale, tante strutture della Chiesa dovrebbero finalmente cambiare nella direzione di quanto dice l’enciclica (per esempio nella gestione delle sue risorse economiche, argomento di assoluta attualità).

Cosa si debba intendere per popolo

L’enciclica continua su come siano da gestire correttamente i valori di ogni popolo, mantenendo le radici storiche, culturali, linguistiche ma dialogando con ogni altro Paese per capire, accettare e stabilire rapporti positivi a partire dal fatto che ogni popolo deve sentirsi parte della famiglia umana. L’accoglienza e l’integrazione dei migranti sono la base per una nuova politica che esiga però programmi globali internazionali. Il “locale” deve avere l’orizzonte del “globale” ed ogni Paese cerchi alleanze ed integrazioni coi Paesi vicini per trattare con le grandi potenze.

Il testo esamina poi in modo critico il populismo e le forme liberali di gestione del potere e vi descrive gli aspetti positivi del concetto di “popolo”. Ma qualsiasi impegno e soluzione – dice l’enciclica – “potrebbe avere ben poca consistenza, se perdiamo la capacità di riconoscere il bisogno di un cambiamento nei cuori umani, nelle abitudini e negli stili di vita. È quello che succede quando la propaganda politica, i media e i costruttori di opinione pubblica insistono nel fomentare una cultura individualistica e ingenua davanti agli interessi economici senza regole e all’organizzazione delle società al servizio di quelli che hanno già troppo potere.”

La carità è l’impegno per il bene comune

Il discorso continua su un versante più direttamente politico. La crisi del 2008 è stata un’occasione persa, gli Stati nazionali perdono potere e domina la finanza. Soprattutto – passo importante dell’enciclica – è necessaria la riforma dell’ONU, il rilancio dei rapporti internazionali e del multilateralismo che è in grave crisi dopo una fase in cui forme importanti di aggregazione si erano sviluppate, per esempio in Europa e in America Latina. In questa situazione papa Francesco richiama il ruolo dei movimenti popolari e sottolinea molto l’importanza delle organizzazioni della società civile che si impegnano per la tutela dei diritti umani e per il bene comune. Questa è carità, è amore, è l’impegno per il bene comune, per cambiare, per il dialogo, per ogni passo in avanti, anche con risultati modesti. Ogni azione deve tendere a riconoscere l’altro, deve tendere a un processo d’incontro tra differenze (senza fermare le rivendicazioni sociali), per una trasformazione degli stili di vita, per nuovi rapporti sociali. Francesco propone un “artigianato della pace” che parta dal basso e “lasci aperte sempre altre possibilità, altre considerazioni del reale, altre strade possibili, perfino dinanzi al peccato e all’errore; sempre è invocata la pluralità, mai il relativismo, sempre il gusto delle differenze, dell’inedito, del non ancora compreso; il poliedro, mai la torre di Babele, dalla pretesa unificante” (Raniero La Valle).

La memoria e il perdono

Per completare il quadro l’enciclica parla del perdono e del suo rapporto con la giustizia e poi della memoria. Non si costruisce per il futuro se non si ha sempre a mente la Shoah ed Hiroshima e Nagasaki. L’enciclica dice: “E nemmeno vanno dimenticati le persecuzioni, il traffico di schiavi e i massacri etnici che sono avvenuti e avvengono in diversi Paesi, e tanti altri fatti storici che ci fanno vergognare di essere umani. Vanno ricordati sempre, sempre nuovamente, senza stancarci e senza anestetizzarci. È facile oggi cadere nella tentazione di voltare pagina dicendo che ormai è passato molto tempo e che bisogna guardare avanti. No, per amor di Dio! Senza memoria non si va mai avanti, non si cresce senza una memoria integra e luminosa. Abbiamo bisogno di mantenere la fiamma della coscienza collettiva, testimoniando alle generazioni successive l’orrore di ciò che è accaduto», che «risveglia e conserva in questo modo la memoria delle vittime, affinché la coscienza umana diventi sempre più forte di fronte ad ogni volontà di dominio e di distruzione” (messaggio per la Giornata della pace 2020). Papa Francesco è anche esplicito sulla Chiesa e dice: “A volte mi rattrista il fatto che la Chiesa ha avuto bisogno di tanto tempo per condannare con forza la schiavitù e diverse forme di violenza.”

NO alla guerra giusta e alla pena di morte

Il papa riprende quanto già detto molte volte sulla ripresa della corsa al riarmo, in particolare per quanto riguarda le armi nucleari e constata che negli ultimi decenni si è optato “per la guerra avanzando ogni tipo di scuse apparentemente umanitarie, difensive o preventive, ricorrendo anche alla manipolazione dell’informazione. Di fatto, negli ultimi decenni tutte le guerre hanno preteso di avere una giustificazione”. Di conseguenza la Chiesa ritiene superata la dottrina della guerra giusta in certe circostanze e rilancia la proposta della Populorum Progressio per un Fondo mondiale finanziato dalla riduzione delle spese militari per eliminare la fame e per lo sviluppo dei Paesi poveri. Questa posizione netta sulla guerra è una indiretta denuncia di tutti i facili consensi del mondo cattolico nei confronti delle strutture militari ed addirittura di presenze al loro interno (nel nostro Paese i cappellani militari con l’Ordinario militare!). Ugualmente la Chiesa ha definitivamente preso posizione contro la pena di morte in qualsiasi circostanza facendo così una evidente autocritica rispetto alla sua posizione precedente. L’enciclica si conclude sul dialogo tra le religioni e sull’identità cristiana. La Chiesa, che auspica la convergenza del mondo cristiano e di tutte le religioni su queste grandi questioni, rivendica l’autonomia della politica ma «non può e non deve neanche restare ai margini» nella costruzione di un mondo migliore, né trascurare di «risvegliare le forze spirituali che possano fecondare tutta la vita sociale”. In questo modo si contribuisce a combattere a oltranza quel terrorismo che strumentalizza la religione e che combatte la libertà religiosa. Ci lascia però perplessi, al cap. 273 una citazione di papa Wojtyla che dice: “Se non esiste una verità trascendente, obbedendo alla quale l’uomo acquista la sua piena identità, allora non esiste nessun principio sicuro che garantisca giusti rapporti tra gli uomini”. Interpretato alla lettera questo passo può indicare una “esclusiva” delle religioni nell’indicare le strade per la retta convivenza sociale (e ciò è del tutto discutibile sia come affermazione di principio sia perché smentibile osservando la storia).

Fratelli tutti” completa il messaggio della Laudato Si’

Mi pare che “Fratelli tutti” esprima il filone migliore e più universale di un pontificato che viene ostacolato da tante strutture ecclesiastiche che sono retaggio dei due pontificati precedenti, di una comprensione mummificata dell’Evangelo da parte di molti, di una struttura piramidale autoreferenziale e di un accentramento eccessivo del potere nella figura del papa. L’enciclica è quindi “la voce di chi non ha voce” e sfugge anche a un certo dottrinarismo delle vecchie encicliche sociali perché “morde” nella storia. Infatti nel suo lungo ragionare si leggono sottotraccia tutte le situazioni di sofferenza esistenti e le potenzialità pure presenti nella Chiesa. Ognuno le può facilmente vedere. A noi, per esempio, appare evidente quanto i suoi contenuti siano direttamente in contrasto pesante con la linea della presidenza uscente degli USA (lo ha scritto il “Washington Post”!) e, nel nostro Paese, con l’arroganza della destra che si pretende cristiana perché “ci sono ancora coloro che ritengono di sentirsi incoraggiati o almeno autorizzati dalla loro fede a sostenere varie forme di nazionalismo chiuso e violento, atteggiamenti xenofobi, disprezzo e persino maltrattamenti verso coloro che sono diversi”. L’enciclica fa un appello universale al mondo intero perché il suo messaggio non sia ininfluente. Ma essa interessa soprattutto i cattolici perché si impegnino a cercare di fare seguire alle parole i fatti, dando testimonianza dell’Evangelo, maggiore credibilità alla loro Chiesa e così un forte contributo alla sua vera riforma ed alla sua conversione che consiste nel seguire l’esempio del Samaritano.

Roma, 11 ottobre 2020

NOI SIAMO CHIESA
“Fratelli tutti”
UN APPASSIONATO INVITO ALL’UNITÀ UMANA
22 OTTOBRE 2020 / su www.chiesadeipoverichiesaditutti.it
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Fratelli tutti: «La vita è l’arte dell’incontro». Facciamo crescere la cultura dell’incontro

di Franco Meloni

Nello scrivere dell’enciclica provo un certo ritegno perché sintetizzarne i concetti rischia di guastarne la chiarezza e diminuirne la forza comunicativa. Per evitare entrambi ricorro alla tecnica della “virgolettatura”, soffermandomi su pochi passaggi che mi piace mettere in evidenza. Formulo comunque l’invito a leggerla per intero, e poi a rileggerla per singoli argomenti, anche senza seguire l’ordine originario.
Intanto rammento gli intendimenti del Papa: “Consegno questa Enciclica sociale come un umile apporto alla riflessione affinché [...] siamo in grado di reagire con un nuovo sogno di fraternità e di amicizia sociale che non si limiti alle parole. Pur avendola scritta a partire dalle mie convinzioni cristiane [...] ho cercato di farlo in modo che la riflessione si apra al dialogo con tutte le persone di buona volontà”. Ecco: tre parole fondamentali, avvolte dal sogno che ne rafforza la suggestione: fraternità, amicizia sociale, dialogo. E ancora, i destinatari: «tutte le persone di buona volontà», come è consuetudine dei Papi, da Giovanni XXIII (Pacem in terris, 1963) in poi. Perfino nel porgere la parabola del buon Samaritano il Papa ci tiene a dire: “benché questa Lettera sia rivolta a tutte le persone di buona volontà, al di là delle loro convinzioni religiose, la parabola si esprime in modo tale che chiunque di noi può lasciarsene interpellare”.
Riflettiamo sul racconto evangelico, condividendo le parole di Raniero La Valle: «la figura emblematica che fa l’identità di questa enciclica, […] è quella del Samaritano, che ci pone di fronte a una scelta stringente: davanti all’uomo ferito [...] ci sono solo tre possibilità: o noi siamo i briganti, e come tali armiamo la società dell’esclusione e dell’iniquità, o siamo quelli dell’indifferenza che passano oltre immersi nelle loro faccende e nelle loro religioni, o riconosciamo l’uomo caduto e ci facciamo carico del suo dolore: e dobbiamo farlo non solo con il nostro amore privato, ma col nostro amore politico, perché dobbiamo pure far sì che ci sia una locanda a cui affidare la vittima, e istituzioni che giungano là dove il denaro non compra e il mercato non arriva». [segue]