Risultato della ricerca: povertà
RAPPORTO CARITAS 2020
covid e crisi economica una povertà sempre più “normale”
di Sabrina Magnani su Rocca
Il dibattito accesissimo di queste settimane circa la gestione dell’emergenza Covid si è imperniato sul nodo salute pubblica/economia cercando di procedere salvaguardando il più possibile entrambi, cosa che si sta profilando difficilissima. D’atra parte tale procedere ha la sua motivazione nel cercare di evitare una situazione di crisi economica così accentuata da porsi come problema più grave dell’epidemia stessa. Si tratta di un nodo drammatico, che tutti i paesi del mondo stanno affrontando, e che nel nostro paese ha già mostrato il suo volto in occasione del lockdown della scorsa primavera. A quali scenari di povertà e difficoltà economica si sia giunti in quei mesi e a quali potremmo indirizzarci nuovamente lo mostra chiaramente il Rapporto sulla povertà ed esclusione sociale in Italia 2020 presentato in occasione della Giornata mondiale di contrasto alla povertà, il 17 ottobre scorso, che restituisce una fotografia dei gravi effetti economici e sociali dell’attuale crisi sanitaria legata alla pandemia da Covid-19, e offre una tendenza che potrebbe ripetersi nei prossimi mesi.
pre-Covid, tra povertà e ripresa
Una «bilancia» fragilissima.
Nell’Italia pre-Covid i poveri assoluti risultavano 4,6 milioni, pari al 7,7% della popolazione (nel 2018 l’incidenza si attestava
all’8,4%), complessivamente 1,7 milioni di famiglie che corrispondono al 6,4% dei nuclei familiari (7,0% nel 2018). Rispetto al 2018, dunque, la povertà assoluta era calata – anche se con livelli ancora molto alti rispetto agli anni antecedenti – grazie alle misure di contrasto alla povertà messe in campo a livello governativo e alla cosidetta «ripresina» economica dopo la crisi economica del 2008. Più vulnerabili erano sempre le famiglie del Mezzogiorno, le famiglie numerose con 5 o più componenti, le famiglie con figli minori, i nuclei di stranieri (tra loro l’incidenza è pari al 24,4% a fronte del 4,9% tra le famiglie di soli italiani) e le persone meno istruite. Continua inoltre la correlazione negativa tra incidenza della povertà e età della persona di riferimento, decretando i nuclei degli under 34 come i più svantaggiati, che presentavano un’incidenza della povertà pari all’8,9%, mentre tra gli over 65 era pari al 5,1%, mentre molto alto era il peso della povertà tra i minori, che coinvolgeva l’11,4%, per un totale in valore assoluto di oltre 1,1 milioni bambini e ragazzi in stato di povertà.
Si tratta, evidentemente, di una situazione di grande fragilità, con una ampia fascia di popolazione che già prima della pandemia mostrava difficoltà evidenti, in un contesto, tipicamente italiano, connotato da uno de- gli indici di disuguaglianza tra i più alti e di mobilità sociale tra i più bassi d’Europa, una bilancia costantemente in bilico verso il basso, che il lockdown ha ulteriormente inclinato sfavorevolmente facendo scivolare nella povertà una parte della popolazione che a fatica riusciva a stare sui margini. Analizzando il periodo maggio-settembre del 2019 e confrontandolo con lo stesso periodo del 2020 emerge che da un anno all’altro l’incidenza dei «nuovi poveri» passa dal 31% al 45%: quasi una persona su due che si rivolge alla Caritas lo fa per la prima volta. Aumenta in particolare il peso delle famiglie con minori, delle donne, dei giovani, dei nuclei di italiani che risultano in maggioranza (52% rispetto al 47,9% del- lo scorso anno) e delle persone in età lavorativa; cala di contro la grave marginalità. A fare la differenza, tuttavia, rispetto allo shock economico del 2008 è il punto dal quale si parte, giacchè nell’Italia del pre-pandemia il numero di poveri assoluti era più che doppio rispetto al 2007. Secondo i dati pubblicati da Banca d’Italia, nei mesi di aprile e maggio, vi è stata una riduzione di reddito per la metà delle famiglie italiane, anche tenendo conto degli eventuali strumenti di sostegno ricevuti; e per il 15% del campione il calo è stato di oltre la metà del reddito complessivo.
L’impatto è più negativo tra i lavoratori indipendenti: quasi l’80% ha subito un calo nel reddito e per il 36% la caduta è di oltre la metà del reddito familiare. Oltre a un diffuso calo nei redditi, più di un terzo degli individui ha dichiarato di disporre di risorse finanziarie liquide sufficienti per meno di 3 mesi a coprire le spese per con- sumi essenziali. Questa quota supera il 50 per cento per i disoccupati e per i lavoratori dipendenti con contratto a termine.
i tre mesi di lockdown nuovi disagi e nuove criticità
In tre mesi (marzo-maggio) la rete Caritas ha registrato un forte incremento del numero di persone sostenute a livello diocesano e parrocchiale, con un aumento complessivo del 12,7% di chi ha chiesto un aiuto: complessivamente si parla di circa 450mila persone. Tra i beneficiari circa il 30% è rappresentato dai cosiddetti «nuovi poveri», che per la prima volta hanno sperimentato condizioni di disagio e di deprivazione economica tali da dover chiedere aiuto. Tra gli assistiti nel periodo marzo-maggio prevalgono i disoccupati, le persone con impiego irregolare fermo a causa delle restrizioni imposte dal lockdown, i lavoratori dipendenti in attesa della cassa integrazione ordinaria o in deroga e i lavoratori precari o intermittenti che, al momento della presa in carico, non godevano di ammortizzatori sociali.
Il disagio ha mostrato anche fenomeni nuovi, come ad esempio le difficoltà di alcune famiglie rispetto alla didattica a distanza, manifestate nell’impossibilità di poter accedere alla strumentazione adeguata (tablet, pc, connessioni wi-fi). Colpiscono, poi, i numerosi alert delle Caritas inerenti la dimensione psicologica: si rileva un evidente aumento durante il lockdown del «disagio psicologico-relazionale», di problemi connessi alla «solitudine» e di forme depressive. I territori sottolineano anche un accentuarsi delle problematiche familiari, in termini di conflittualità di coppia, violenza, difficoltà di accudimento di bambini piccoli o di familiari colpiti dalla disabilità, conflittualità genitori-figli. Preoccupa, infine, anche il fenomeno della «rinuncia o il rinvio di cure e assistenza sanitaria», determinato dal blocco dell’assistenza specialistica ordinaria e di prevenzione che potrebbe deter- minare in futuro un effetto di onda lunga sul piano del carico assistenziale e del profilo epidemiologico del nostro paese.
A fronte di uno spettro di fenomeni così vasto e inedito, le Caritas hanno evidenziato una grande capacità di adattamento, mettendo in atto risposte innovative e diversificate, mai sperimentate in precedenza. Una vivacità di iniziative e opere realizzate anche grazie all’azione di circa 62mila volontari, a partire dai giovani impegnati nel Servizio Civile Universale. Sono 19.087 gli over 65 che si sono dovuti fermare per ragioni di sicurezza sanitaria e 5.339 le nuove leve (under 34), attivate in questo tempo di emergenza. Sono stati mantenuti i «centri di ascolto» con forme anche telefoniche nel periodo di chiusura e poi di nuovo in presenza non appena è stato possibile. Preziosa è stata l’attività sul fronte dell’accompagnamento e orientamento rispetto alle misure previste dal Decreto «Cura Italia» e «Decreto Rilancio»; che ha permesso a numerose persone e famiglie in difficoltà di poter accedere a tali sostegni pubblici (l’83% delle diocesi ha svolto questa specifica attività). Circa l’ambito del lavoro, in particolare quello della sofferenza sperimentata da tanti piccoli commercianti e lavoratori autonomi, le Caritas diocesane hanno erogato sostegni economici specifici, in ben 136 diocesi sono stati attivati fondi dedicati, utili a sostenere le spese più urgenti (affitto degli immobili, rate del mutuo, utenze, acquisti utili alla ripartenza dell’attività, ecc.). Complessivamente sono stati 2.073 i piccoli commercianti/lavoratori autonomi accompagnati in questo tempo.
Caritas Italiana ha anche esaminato il funzionamento delle misure emergenziali disposte dal governo in particolare di quelle volte a sostenere i redditi di famiglie e lavoratori, anche per individuare i difetti e le criticità da evitare in futuro. Da una rilevazione ad hoc condotta su un campione di 756 nuclei beneficiari dei servizi Caritas nei mesi di giugno-luglio 2020, il Rem (Reddito di emergenza) è risultata la misura più richiesta (26,3%) ma con un tasso di accettazione delle domande più basso (30,2%) rispetto alla indennità per lavoratori domestici (61,9%), al bonus per i lavoratori stagionali (58,3%) e al bonus per i lavoratori flessibili (53,8%). Il Rem è stato fruito prevalentemente da nuclei composti da adulti over 50, soprattutto single e monogenitori con figli maggiorenni, con un reddito fino a 800 euro e bassi tassi di attività lavorativa. Si tratta di un profilo del tutto sovrapponibile a quello di coloro che percepiscono il Reddito di cittadinanza (32,5%) all’interno dello stesso campione intervistato: questo dice che tra le due misure, rispetto alle caratteristiche dei beneficiari, vi sia sovrapposizione piuttosto che compensazione.
una povertà strutturale, mutevole e multiforme
Quello che il Covid-19 ha messo in evidenza è il carattere mutevole della povertà e stiamo ora entrando in una nuova fase nel nostro Paese. Si tratta di una povertà sempre più cronica, multidimensionale, legata a vissuti complessi che richiedevano percorsi di accompagnamento anche molto lunghi.
Se si collega tale constatazione, che emerge da un’azione costante e articolata territorialmente come quello delle Caritas, ai dati sui processi di disagio registrati anche da altri fonti (Istat, Banca d’Italia) e che evidenziano il maggiore peso degli italiani sulla popolazione in difficoltà, con un aumento dell’incidenza dei giovani tra i 18 e i 34 anni, un innalzamento della quota di coniugati, delle famiglie con figli e delle famiglie con minori, si intravede dunque l’ipotesi di una nuova fase di «normalizzazione» della povertà che si innesta tuttavia su un fenomeno già di per sé normalizzato. Occorre, dunque, suggerisce il Rapporto, istituire strumenti di analisi e di intervento adeguati al mutato contesto, realizzare analisi di lungo periodo per monitorare come cambiano le condizioni di vita delle persone in povertà e come su di esse incidano le misure pubbliche, concepire le misure nazionali di contrasto alla povertà come un «work in progress», che, a partire da un attento e sistematico lavoro di monitoraggio, vengano periodicamente «aggiustate» per poter adeguarsi e meglio rispondere alle trasformazioni in corso. In definitiva, come dice papa Francesco, occorre «lottare contro le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la mancanza di lavoro, della casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi» (3 ottobre 2020). Solo in questo modo si potranno fornire elementi a partire dai quali proiettarsi in un futuro di concreto cambiamento.
Sabrina Magnani
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GLI ANTICORPI DELLA SOLIDARIETÀ
RAPPORTO 2020 SU POVERTÀ
ED ESCLUSIONE SOCIALE IN ITALIA
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Gli operai non vorranno mica imparare il clavicembalo?
Formazione permanente e l’eredità delle 150 ore
di Fiorella Farinelli
Sbilanciamoci! 3 Novembre 2020 | Sezione: Apertura, Lavoro.
La povertà educativa non è solo minorile. L’Italia occupa la coda delle classifiche Ocse. In più adesso abbiamo bisogno di competenze nuove, digitali e non. 500 mila lavoratori utilizzarono i corsi delle 150 ore poi quel patrimonio sindacale andò disperso. L’occasione del contratto dei metalmeccanici.
Sarebbe una buona cosa se col rinnovo del contratto dei metalmeccanici si facessero progressi sulla formazione continua, definita già nel testo del 2016 come “diritto soggettivo” (la stessa definizione è in una normativa nazionale del 2012, largamente inapplicata, sull’apprendimento permanente) [nota 1]. Diritto soggettivo significa che la formazione sul lavoro è esigibile da tutti i lavoratori, anche i non coinvolti nelle azioni formative delle aziende. Viene perciò previsto un pacchetto di 24 ore di congedo retribuito utilizzabile anche individualmente. Assicurarne l’attuazione, e anche qualche sviluppo, sarebbe importante.
Sebbene ingabbiato in varie condizionalità (i lavoratori interessati, per esempio, sono solo quelli a tempo indeterminato ), quel modesto pacchetto di ore fruibile anche a richiesta individuale potrebbe fare da contrappeso all’avarizia sociale di gran parte delle politiche formative aziendali. Nella definizione vivono infatti due finalità, entrambe strategiche, e nessuna granché apprezzata dalle imprese. La prima, di profilo universalistico, è che alla formazione devono poter accedere tutti i lavoratori, anche quelli che, in tutta la loro vita lavorativa conoscono, se va bene, solo quella obbligatoria sulla sicurezza: i tanti esclusi dai progetti aziendali (anche concordati col sindacato) che privilegiano solitamente le figure di livello professionale più alto, dirigenti, quadri, tecnici, impiegati, e poi più i maschi che le femmine, più le fasce di età centrali che le altre, più i nativi che gli immigrati. La seconda finalità è che la formazione non dovrebbe tradursi solo in adattamento alle trasformazioni organizzative e tecnologiche dell’azienda ma andare oltre, contribuendo a sviluppare nei lavoratori le competenze, specifiche o trasversali, e spesso anche di base, necessarie a rafforzarne “l’occupabilità”, cioè ad essere più forti e preparati a misurarsi con la mobilità, necessitata o scelta, e con la riconversione professionale. Con le “transizioni”, le incertezze e gli agguati di un lavoro sempre meno stabile, oltre che con le prospettive, quando ci sono, di carriere interne.
Nell’accordo del 2016 si annunciava infatti anche una campagna per lo sviluppo delle competenze digitali, divenute ormai di base, almeno nel senso che chi non le ha è di sicuro svantaggiato nel mondo del lavoro di oggi. Possono certo apparire secondari, a fronte di tanti altri problemi, i piccoli passi avanti della contrattazione in materia di formazione (e, viceversa, lo scarso utilizzo dei congedi di “diritto allo studio”, che nei contratti ci sono ma vengono per lo più regalati alle aziende), ma non lo è. Le politiche attive del lavoro di cui si tanto si parla non hanno a che fare solo con l’incrocio tra domanda e offerta di lavoro, ma dovrebbero essere fatte anche di formazione. Non solo per chi è stato messo fuori dal lavoro o per chi un lavoro, come si deve non l’ha mai incontrato, ma anche per chi nel lavoro c’è già ma ha buone ragioni per prevedere che sarà prima o poi costretto a cercarne un altro. A sollecitare l’attenzione per i contenuti dell’accordo del 2016, è però anche che è stato ancora una volta il contratto dei metalmeccanici a introdurre per primo qualcosa di innovativo in campo formativo.
Ancora una volta. E a quasi cinquant’anni dallo storico rinnovo contrattuale in cui i metalmeccanici, e poi di seguito tutte le altre categorie, comprese quelle del terziario e del lavoro pubblico, conquistarono le “150 ore”. Cosa sono state e cosa hanno prodotto, perché furono appassionatamente volute, direttamente gestite e infine abbandonate dal sindacato, non lo sa quasi più nessuno. Non lo sanno, e forse neppure interessa, i delegati e gli operai, e neppure i sindacalisti che sembrano non sapere cosa farsene di quel congedo formativo retribuito – una riduzione del tempo di lavoro, una irruzione nel tempo di lavoro del tempo di vita – ha depositato nei contratti. Nate dalle lotte di fabbrica, oggi le “150 ore”, variamente ritoccate in tanti rinnovi contrattuali, vengono infatti utilizzate soprattutto nel pubblico, di solito per via individuale o, per meglio dire, solitaria. E invece in quella lontana esperienza di utilizzo del congedo – collettivo perché ispirato alla volontà di una emancipazione collettiva – non c’è solo un pezzo importante della storia sindacale, sociale, scolastica degli anni Settanta. Vi sono diritti, idee, pratiche sociali, contenuti utili anche oggi, in un mondo del lavoro pur irriconoscibile rispetto ad allora. Sarebbe utilissimo, per esempio, tener fermo che la “domanda” dei lavoratori, fosse anche solo di tipo individuale deve, per poter emergere e contare, essere ascoltata, capita, rappresentata, negoziata. Circolarono ai tempi un bel po’ di storie su chi nella Flm, a ridosso dell’Autunno caldo del 1969, ebbe per primo l’idea, forse anche sulla scorta di esperienze francesi (e allora è Bruno Trentin il primo indiziato), di buttare sul tavolo della trattativa anche un congedo retribuito per “studiare”. Sulle reazioni di una controparte ostile e arrogante, e su come gli si seppe rispondere. “Per studiare che cosa ? Gli operai non vorranno mica imparare il clavicembalo?”. “Perché no, se lo vogliono? anche il clavicembalo“.
Fu così che lo sconosciuto strumento musicale divenne per anni il logo, fin nei volantini, di una rivendicazione felicemente trasgressiva – una specie di versione operaia dell’immaginazione al potere – che era stata prima di tutto di libertà, uguaglianza, autonomia. Anche se c’è chi ancora ricorda un corso sul rock di grande successo per giovani delegati, la musica che poi si suonò fu tutta un’altra. Anch’essa indigesta a gran parte del padronato , e ovviamente anche al ministero dell’Istruzione, che cercò di ridurne la portata innovativa tentando di assimilarla a vecchi corsetti di tipo assistenziale per analfabeti. Le richieste su come utilizzare il congedo (150 ore non bastavano per i percorsi lunghi e gli operai dovettero aggiungerci un bel pò del proprio tempo di vita) erano di più tipi. C’era la formazione di livello alto, ma senza riferimento a titoli di studio, come i seminari universitari (ce ne furono tanti, affollati di delegati, che trattarono di economia, diritto, storia, medicina del lavoro…). E c’era quella di livello intermedio collocabile nel primo biennio della secondaria superiore. Ma il fuoco fu da subito sulla scuola media e sul diritto a concluderla in un anno. Già nel 1973, a trattative ancora aperte, Cgil Cisl e Uil avviarono il negoziato per ottenere in tutto il Paese corsi statali per lavoratori di durata annuale per la licenza media (e, quando necessario, e in molti casi lo era, anche per la licenza elementare). I corsi, a centinaia, gradualmente si ottennero e, anche grazie a una singolare alleanza con tanti insegnanti affascinati dall’idea di far vivere nella scuola degli operai la scoperta sessantottina del Don Milani della “Lettera a una professoressa”, l’esperimento si sviluppò un po’ ovunque e tenne alla grande per più di una quindicina d’anni.
Solo nei primi dieci, dal 1973 al 1983, i lavoratori coinvolti furono più di 500 mila. Ma perché proprio la scuola media, perché la Flm non puntò anche , o solo, sulla qualificazione professionale? Si è a lungo sostenuto che l’identificazione della formazione professionale con “lo strumento del padrone” fosse effetto di un eccesso di ideologia. Di risvolti ideologici, certo, ce n’erano, in questo e in altri aspetti della vicenda, ma in quella scelta che suscitò discussioni anche dentro le stanze della Flm, c’era soprattutto altro. Da un lato l’imprescindibile riflesso della distruzione delle professionalità operaie imposta dall’organizzazione fordista della grande fabbrica, dove bastavano due giorni di affiancamento perché gli addetti alla “catena” imparassero i contenuti della prestazione. Dall’altro il bisogno di una proposta adeguata a una classe operaia affamata di uguaglianza, quella che aveva ottenuto l’inquadramento unico e gli aumenti salariali eguali per tutti, quella che rivendicava una sua cultura con cui trasformare “l’organizzazione capitalista del lavoro”. L’obiettivo, allora, non poteva essere che il “diritto allo studio”, allora incarnato nella scuola che, cancellato con la riforma del 1962 il doppio binario tra “il ginnasio” dei figli dei ricchi e “l’avviamento professionale” (o anche niente) degli altri, era diventata l’emblema dell’istruzione per tutti. L’attuazione, finalmente, degli “almeno otto anni“ di obbligo scolastico scritti in Costituzione, il sapere come via per l’emancipazione sociale, nel lavoro e fuori. Tutti ne avevano diritto, dunque anche gli operai che non avevano potuto avere che pochi anni di scuola elementare, anche loro, proprio come i loro figli. Ma la scuola media degli operai doveva essere un’altra rispetto ai programmi e ai metodi della scuola ordinaria che continuava a bocciare i figli dei più poveri. Bisognava partire dall’esperienza e dai bisogni dei lavoratori, valorizzare il tanto che già sapevano e avevano imparato insieme, costruire una didattica nuova, conoscere quello che serve per poter trasformare la realtà. Della fabbrica, e anche oltre. Una sfida alta anche per gli insegnanti, che portò spesso a pratiche educative e strumentazioni didattiche, concordate con il sindacato, davvero innovative per l’italia e la scuola del tempo.
Ma la sfida era evidentemente anche politica, e non poteva restare la stessa quando il vento cominciò a cambiare. Quando, negli anni Ottanta, e dopo la traumatica sconfitta alla Fiat, il sindacalismo industriale dovette misurarsi con le ristrutturazioni e le crisi aziendali. Non resse, in verità, anche al fatto che i corsi 150 ore venivano sempre più frequentati da figure diverse dagli operai-massa della grande fabbrica (anche perché la riforma della scuola media stava poco a poco avendo i suoi benefici effetti, almeno per i più giovani). Tanti operai delle piccole fabbriche dove il sindacato non c’era o non riusciva a far riconoscere il diritto al congedo, tanti artigiani, disoccupati, casalinghe, cassaintegrati, bidelli e commessi del lavoro pubblico, giovani drop out della scuola dell’obbligo. E poi anche i primi immigrati a imparare l’italiano.
Sarebbe potuto essere motivo di orgoglio che una conquista operaia si stesse trasformando in una conquista civile, ma furono in molti a non vederla affatto in questo modo. Le Confederazioni avrebbero potuto, di fronte alle trasformazioni, rilanciare la palla per fare della scuola per i lavoratori il primo nucleo attorno a cui far crescere quel sistema di apprendimento permanente per adulti, lavoratori e non, che in Italia non c’era, e che ancora ci manca. Ma per tanti motivi non andò così. E la gestione dei corsi, passata di fatto ai sindacati Scuola, diventò sempre più questione di organici, concorsi, stabilità e orari del personale. Tra gli effetti indiretti della dismissione, ci fu anche l’appannarsi del ruolo protagonista sul diritto allo studio e sulla scuola che le Confederazioni si erano conquistate negli anni Settanta. Le dismissioni senza alternativa – i sindacati dell’industria sono i primi a saperlo – lasciano sempre dei brutti segni.
Fu persa, insomma, un’occasione importante. Non è di sicuro per questo, visti i tanti anni trascorsi, che sulla formazione continua, sulla formazione professionale tra lavoro e non lavoro e da un lavoro all’altro, e più in generale sull’apprendimento permanente, si debbano registrare risultati molto modesti e vistosi ritardi rispetto ad altri grandi Paesi dell’area europea. Ma è certo che da allora il movimento sindacale e quello che a lungo gli si è mosso attorno non ha più saputo sviluppare con continuità iniziative coerenti e lungimiranti su questi temi. E che – in verità paradossalmente, in una fase in cui la formazione per il lavoro e per la cittadinanza attiva ha acquisito un’urgenza che allora non c’era – ha lasciato troppo spazio a culture sociali miopi e a politiche mediocri, delle imprese come delle istituzioni. Tutt’altro che attente a innalzare il livello di istruzione e di qualificazione della popolazione adulta, a offrire una seconda chance ai tanti giovani inguaiati dagli abbandoni scolastici precoci, a rendere attraente e praticabile la partecipazione all’apprendimento “lungo tutto il corso della vita”. Ad attivare , come prevede la legge del 2012 e come sollecitato dalle politiche europee, i dispositivi di validazione delle competenze acquisite nel lavoro, nel volontariato, nella vita sociale, come strumento di accorciamento dei percorsi e come incoraggiamento a rientrare in formazione.
Eppure i numeri, confermati anno dopo anno da studi, indagini, comparazioni in area UE e OCSE dicono con chiarezza la gravità della situazione italiana. La “povertà educativa” di cui si parla non è solo “minorile”, non riguarda solo le aree più svantaggiate del Paese, i tanti ragazzi con background migratorio, il 22% dei Neet. E non è fatta solo di quel 15% di early school leavers che non concludono i percorsi formali. Nasce anche dal non lavoro, dal lavoro poco qualificato e senza seri processi di qualificazione, dagli apprendistati senza veri investimenti formativi, dai tirocini in cui non si impara niente, da una formazione professionale inadeguata per numeri e qualità, da interventi per gli occupati che trascurano, più che in altri Paesi, i più deboli. Dall’incapacità o non volontà di giocare la carta della formazione, si tratti del programma europeo “Garanzia Giovani”, del reddito di cittadinanza, della cassa integrazione, e di tanti altri contesti.
Pesa del resto l’ostinata assenza di un sistema effettivo di apprendimento permanente. Ciò di cui disponiamo, in un’Italia che occupa l’ultimo posto nelle classifiche OCSE per possesso delle competenze di base in italiano e matematica degli adulti tra 25 e 64 anni (con gravi carenze anche tra i giovani fino ai 35 anni), è fatto di spezzoni scoordinati che non fanno sistema, di un insieme che non sa mettersi in sintonia con l’intera gamma dei bisogni di istruzione, formazione professionale, educazione in età adulta. E che lascia sistematicamente fuori quelli che, per motivi soggettivi o oggettivi, alla formazione non possono arrivarci da soli.
[segue]
UNITÀ ED EGUAGLIANZA UMANA
15 FEBBRAIO 2020 / COSTITUENTETERRA / L’UNITÀ UMANA /
Non c’è più né Giudeo né Greco
(Gal. 3, 28)
Relazione tenuta da Raniero La Valle a Portici il 6 ottobre 2018 alla Festa Multiculturale “Pane nostro”del Coordinamento Campano contro le camorre e le mafie.
di Raniero La Valle
Vi potrà stupire che ci sia una citazione biblica come titolo di questo mio intervento , quando né le citazioni bibliche né il cristianesimo sembrano oggi molto di moda, e anzi si sta cercando di dare una spallata per abbatterli.
Però a ben vedere anche il titolo di questa vostra Festa multiculturale è una citazione biblica, “Pane nostro”, anzi è addirittura una citazione del “Padre nostro”. E in sostanza le due citazioni vogliono dire la stessa cosa: e cioè che non c’è nulla di nostro, nemmeno il pane, che non sia anche degli altri, che non sia un nostro di tutti. E se non c’è né Giudeo né Greco è perché non c’è un mondo di soli cittadini e non anche di stranieri, non c’è da una parte un’Europa comunitaria e dall’altra un mondo barbarico di extracomunitari, non c’è un’Italia di residenti che non sia anche un’Italia di immigrati, di fuggiaschi e di nomadi.
Questa è la tesi del nostro discorso. Ma perché cominciare proprio dal mettere insieme Giudei e Greci? Per la buona ragione che nella nostra società non c’è più posto per l’antisemitismo. È vero che per arrivarci ci sono voluti milioni di morti, ma ormai su questo, a parte i negazionisti e gli acciecati, sono tutti d’accordo. Allora è bene partire da una posizione da tutti condivisa, per affermarne un’altra altrettanto sacrosanta, e cioè che come non c’è Giudeo e Greco, così non c’è Italiano e Straniero; e questa affermazione è invece oggi fieramente contestata, quando si dice “prima gli Italiani” o addirittura “solo gli Italiani”, come si dice “prima l’America” o “la Francia per prima”. L’altra sera in TV la signora Santanchè diceva che i migranti devono essere respinti in quanto delinquenti, e anche sotto questo profilo doveva valere il motto “prima gli Italiani”, anzi in questo caso il messaggio era “solo gli Italiani, vogliamo solo i delinquenti italiani”; e questi ce li dobbiamo tenere almeno fino a quando non si riuscirà a togliere la cittadinanza anche a loro, come prevede il decreto sicurezza del ministro Salvini.
Allora qui bisogna sapere che è in gioco una grande questione, che ha attraversato tutta la storia, e su cui si decide tutto il nostro futuro: è la questione della diseguaglianza.
La storia della diseguaglianza
Dire non c’è più Giudeo né Greco, come dissero Paolo e il cristianesimo nascente, era una rivoluzione epocale anzitutto perché gli stessi Ebrei sostenevano una differenza invalicabile tra sé e gli stranieri, che non potevano neanche entrare nel recinto del Tempio, gli uni essendo eletti gli altri dannati; ma era una novità straordinaria anche perché il pensiero della diseguaglianza dominava non solo l’immaginario religioso, ma tutta la cultura dell’umanità, e non solo nel sentire comune e nell’opinione del volgo, ma ai livelli più alti della filosofia e del pensiero. Quella che dominava era infatti l’antropologia di Aristotile che divideva la società in signori e servi, e i servi erano tali per natura, “naturaliter servi”, come traducevano i latini. Questa diseguaglianza non dipendeva da contingenti condizioni economiche e sociali, ma era una diseguaglianza originaria; in termini colti si potrebbe dire una diseguaglianza ontologica, per essenza, e quindi umanamente irrimediabile. È la stessa cosa che valeva e vale ancora oggi per le caste in India, per cui mai lì si potrà passare dalla casta dei mercanti o dei servi alla casta dei guerrieri o dei brahamani: l’unica possibilità di cambiare casta è di morire e ricominciare un’altra vita. E non parliamo poi dei dalit, o intoccabili e “fuori casta”, con cui le caste superiori non devono nemmeno venire in contatto; anzi per la strada essi devono camminare al centro per non offuscare con la loro ombra le mura delle case delle caste alte.
In Occidente Aristotele spiegava che come per natura si uniscono maschio e femmina per la riproduzione, così deve esserci “chi per natura comanda e chi è comandato al fine della conservazione” (“Politica”, libro I), e questo rapporto di dominio si fondava su una diseguaglianza originaria, per cui si nasce liberi o schiavi, maschio e femmina, “l’uno per natura superiore, l’altra inferiore, l’uno comanda, l’altra è comandata”, e da qui scendevano a cascata le altre diseguaglianze, sociali, di classe ed etniche, per cui erano contrapposti padroni e servi, liberi dal lavoro e costretti ai lavori necessari, cittadini e non cittadini, greci e barbari, nativi e meteci (che erano poi i meticci, gli immigrati).
Fu perciò una grande rivoluzione religiosa e antropologica che Gesù, in nome di Dio Padre nostro, padre di tutti, rompesse il muro di separazione tra Giudei e Greci, tra Ebrei e Gentili e affermasse la radicale eguaglianza di tutti gli esseri umani, fino a dire con Paolo non solo che non c’è più né Giudeo né Greco, ma non c’è più maschio e femmina, non c’è Barbaro o Scita, schiavo e libero, e non c’è più circoncisione e incirconcisione (Col. 3, 11): e questo voleva dire abrogare quella divisione tra eletti e scartati che, secondo le Scritture ebraiche era addirittura di diritto divino, tanto da essere poi per sempre impressa nella carne dei membri del popolo eletto mediante la circoncisione.
Ora questa radicale unità ed eguaglianza di tutti gli uomini e le donne che Gesù ha affermato e realizzato attraverso la croce veniva ad adempiere quelle promesse messianiche, che già nell’Antico Testamento avevano prefigurato l’unità di tutte le famiglie della terra; basta pensare alla profezia di Isaia che annunciava che dalle loro spade fabbricheranno vomeri, dalle loro lance falci, nessuna nazione alzerà più la spada contro l’altra e non impareranno più l’arte della guerra (Is. 2, 4), o la profezia di Michea che annunciava che potranno sedersi ciascuno tranquillo sotto la sua vite e sotto il suo fico senza nessuno che li spaventi, e addirittura che tutti i popoli avrebbero camminato insieme ognuno nel nome del suo Dio (Mich. 4, 4-5): cioè tutte le discriminazioni sarebbero cadute, mentre tutte le identità sarebbero state salvate. La novità del Cristo, che poi significa Messia, portava cioè quel cambiamento radicale che doveva segnare il passaggio dall’età della profezia, dell’annuncio, a quella della realizzazione delle promesse messianiche.
Purtroppo però questa antropologia nuova non è entrata di fatto nella storia successiva, e nemmeno, se non con molta fatica, nello stesso cristianesimo. È vero che, come dice la seconda lettera di Pietro un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno al cospetto di Dio (2Pt 3,8), ma fatto sta che il pensiero della diseguaglianza ha continuato a dominare la storia. Ed è stata questa cultura della diseguaglianza che ha fondato e legittimato le società signorili e feudali, e innumerevoli forme storiche concrete di società inegualitarie, castali, razziste, sessiste e classiste.
La conquista dell’America
Per venire a tempi più recenti, possiamo dire che questa cultura della diseguaglianza è all’opera e produce il massimo della sua capacità discriminatoria agli albori della modernità, quando, con la conquista dell’America, gli europei si imbattono negli Indios, e parte la grande vicenda della colonizzazione. Nel 1500 si ricorre infatti all’antropologia di Aristotile, per dire che vi sono uomini e collettività che non essendo per limiti innati dotati di ragione sufficiente, sono incapaci di essere liberi e padroni di se stessi e quindi giustamente assoggettati dagli Spagnoli. È la tesi che Francisco De Vitoria confuterà nella sua famosa Relectio de Indis: ma intanto gli Indios vengono assoggettati e questo pensiero della diseguaglianza arriverà fino ad Hegel, a Croce, a De Gobineau e ai razzismi del Novecento europeo.
È proprio a partire dalla conquista dell’America che si sviluppa infatti nella filosofia dell’Occidente la concezione che teorizza una diseguaglianza per natura tra gli esseri umani, come dirà apoditticamente il grande dizionario Larousse alla fine del XIX secolo: “Nul ne contestera que la race blanche ne soit superieure à toutes les autres”. L’idea antica che tra gli esseri umani ci fossero i superiori e gli inferiori, i perfetti e i malriusciti, trova nella percezione europea degli Indios “scoperti” o incontrati in America la conferma irrefutabile. Se ci sono uomini e meno uomini, gli Indios ne forniscono la prova. Comincia Colombo, che non riconosce “l’altro” (come ha mostrato Cvetan Todorov in «La conquista dell’America: il problema dell’”altro”») non riconosce colui che a suo parere non “sa parlare” (in verità non sa parlare lo spagnolo), e poi c’è il conquistatore Francisco Pizarro che ha ben ragione di sentirsi superiore dal momento che con soli 168 soldati riesce a prevalere su un esercito di 80.000 uomini, e prende prigioniero Atahualpa, il re degli Inca, nella città andina di Cajamarca, uccidendo settemila Indios (ma la verità è che aveva i cavalli, non ancora domesticati nel continente americano, e perciò aveva la cavalleria, e i fucili e l’acciaio delle corazze e delle spade e delle lance, ancora ignoti agli indiani che combattevano potendo ferire, ma non uccidere); e poi c’è Hernan Cortés, che impone con la violenza il meticciato facendo sposare agli spagnoli le più belle indiane e sposando lui stesso una principessa indiana, la Malinche, che poi naturalmente ripudia, per popolare le terre conquistate con una razza nuova, non più di indigeni, ma di mestizos, cioè di indiani spagnolizzati. Ci penserà poi la teologia di Juàn de Sepùlveda a suggellare l’inferiorità degli Indios, ma purtroppo questa teorizzazione della diseguaglianza non resta isolata, si pianta nella cultura europea fino ad essere espressa nel punto più alto della filosofia occidentale, cioè nell’opera di Hegel. Il grande filosofo tedesco ha delle pagine terribili sulla presunta inferiorità degli Indios. “Dal tempo in cui gli Europei sono approdati in America, gli indigeni sono scomparsi a poco a poco, al soffio dell’attività europea”, dice nelle “Lezioni sulla filosofia della storia”, e lo spiega così: “Della civiltà americana quale si era venuta evolvendo specialmente nel Messico e nel Perù… sappiamo solo che essa era del tutto naturale, e che doveva quindi scomparire al primo contatto con lo spirito”. Ma lo scarto tra lo spirito e la natura è anche uno scarto nella stessa natura; la scomparsa degli indigeni dipende dunque per Hegel “dall’inferiorità di questi individui sotto ogni aspetto, perfino quanto a statura”.
Nel rievocare queste pagine, il filosofo del diritto Luigi Ferrajoli sottolinea come esse abbiano fatto scuola, fino a Croce. Anche il patriarca della cultura italiana adotta infatti il criterio storiografico di un’opposizione tra popoli della natura e popoli dello spirito, e scrive: “Gli uomini si distinguono tra uomini che appartengono alla storia e uomini della natura, uomini capaci di svolgimento e uomini di ciò incapaci; e verso la seconda classe di esseri, che zoologicamente e non storicamente sono uomini, si esercita, come verso gli animali, il dominio, e si cerca di addomesticarli e di addestrarli, e in certi casi, quando altro non si può, si lascia che vivano ai margini… lasciando che di essa si estingua la stirpe, come accadde di quelle razze americane che si ritiravano e morivano (secondo l’immagine che piacque) dinanzi alla civiltà da loro insopportabile”[1].
E che la soluzione migliore per gli Indiani fosse lo sterminio, è stato teorizzato da eminenti studiosi. Nel 1782 a Pittsburgh il giurista e letterato H. Henry Brackenridge così si esprime a proposito degli Indiani: “Essi hanno l’aspetto umano e forse fanno parte della specie umana”; ma “la natura dell’indiano è feroce e crudele… Il loro sterminio sarebbe utile al mondo e onorevole per coloro che vi provvederanno”.
Ma purtroppo l’Indio è solo un prototipo; infatti la diseguaglianza teorizzata per loro riguarderà poi i neri, gli ebrei ed ogni altra categoria di diversi. Locke, all’inizio della rivoluzione industriale, assimilerà agli Indios i proletari: “un manovale non è in grado di ragionare meglio di un indigeno”. E Spencer, il promotore ottocentesco della società dell’utile, applicando alla sociologia e alla società la teoria darwiniana dell’evoluzione, scriverà nel suo “Sistema di filosofia sintetica”: Tutti gli uomini sono come sottoposti a un giudizio di Dio, “se sono realmente in grado di vivere, essi vivono, ed è giusto che vivano. Se non sono realmente in grado di vivere, essi muoiono, ed è giusto che muoiano”.
Il punto d’arrivo di questa linea di pensiero è Nietzsche, il vero teorico della società della selezione. Per Nietzsche non si può parlare di uomini “eguali”: questa è l’illusione dei deboli. In diversi punti delle sue opere Nietzsche mette sotto accusa l’eguaglianza, intesa come una grande follia. “Così parla a me la giustizia: gli uomini non sono tutti eguali. E neppure devono diventarlo!” (Zarathustra); l’eguaglianza “è volontà di negazione della vita, principio di dissoluzione e di decadenza” (Al di là del bene e del male). Di qui gli effetti, le conseguenze e gli scopi dell’eguaglianza: trasformare l’umanità in sabbia: tutti molto eguali, molto piccoli, molto tollerabili, molto noiosi”); essa porta a un “guazzabuglio sociale”, a una degenerazione della razza a .. sopprimere “la selezione” e rovinare la specie (Frammenti postumi). Il razzismo ha pertanto la sua copertura filosofica. Da tutto questo veniamo, altro che Salvini!
La svolta
Ma a un certo punto c’è una svolta epocale. La svolta arriva dopo i genocidi del Novecento, quello degli Armeni prima, e quello degli Ebrei poi, e arriva dopo quella tragedia della volontà di potenza che era stata la seconda guerra mondiale. L’umanità capisce il suo lungo errore, decide di cambiare pagina: sull’eguaglianza di tutti gli uomini e le donne e di tutte le Nazioni grandi e piccole è fondata l’ONU, viene messa fuori legge la guerra, il principio di eguaglianza è assunto come irrevocabile nella Costituzione italiana e nel costituzionalismo postbellico. Sembrava davvero l’inizio della realizzazione delle promesse messianiche. Invece è arrivata la guerra fredda, il terrore atomico, il riarmo nucleare; e quando i blocchi sono caduti e il comunismo è finito, il capitalismo, che era stato messo sotto scacco dalle politiche comuniste, socialdemocratiche, keynesiane e dalle stesse Costituzioni, ha preso la sua rivincita e ha potuto prendere il dominio del mondo nelle forme della globalizzazione. A questo punto la diseguaglianza è tornata a dominare la politica, l’economia e la finanza, e si è aperto il baratro di quella che papa Francesco chiama oggi la società dello scarto.
La società dello scarto
La nuova società dello scarto, che mette fuori gioco i non scelti, i non salvati, gli esuberi, i senza casa e i senza lavoro, è peggiore della vecchia società dello sfruttamento; lo ha spiegato il papa nella “Evangelli Gaudium” e lo ha ribadito nella recentissima intervista al Sole 24 ore (7 settembre 2018): “non si tratta semplicemente del fenomeno conosciuto come azione di sfruttamento e oppressione, ma di un vero e proprio fenomeno nuovo. Con l’azione dell’esclusione colpiamo nella sua stessa radice i legami di appartenenza alla società a cui apparteniamo dal momento che in essa non si viene semplicemente relegati negli scantinati dell’esistenza, nelle periferie, non veniamo privati di ogni potere, bensì veniamo sbattuti fuori. Chi viene escluso non è sfruttato, ma completamente rifiutato, cioè considerato spazzatura, avanzo, quindi spinto fuori della società. Non possiamo ignorare che un’economia così strutturata uccide perché mette al centro e obbedisce solo al denaro: quando la persona non è più al centro, quando fare soldi diventa l’obiettivo primario e unico, siamo al di fuori dell’etica e si costruiscono strutture di povertà schiavitù e di scarti”.
E noi possiamo aggiungere che mentre gli sfruttati almeno potevano lottare per riscattarsi, gli scartati non possono nemmeno lottare perché di fatto “non ci sono”. Non ci sono.
Il popolo dei migranti
Allo stesso modo non ci sono, non ci devono essere i migranti.
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SALARIO MINIMO, si muove l’UE
Mercoledì 20 ottobre 2010
Il ruolo del reddito minimo nella lotta contro la povertà e nella promozione di una società inclusiva in Europa. Risoluzione del Parlamento europeo del 20 ottobre 2010 sul ruolo del reddito minimo nella lotta contro la povertà e la promozione di una società inclusiva in Europa (2010/2039(INI))
GIOVANNI MARIA DEL RE su Avvenire 29 ottobre 2020
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DOCUMENTAZIONE
Mercoledì 20 ottobre 2010
Il ruolo del reddito minimo nella lotta contro la povertà e nella promozione di una società inclusiva in Europa.
P7_TA(2010)0375 Risoluzione del Parlamento europeo del 20 ottobre 2010 sul ruolo del reddito minimo nella lotta contro la povertà e la promozione di una società inclusiva in Europa (2010/2039(INI))
“Fratelli tutti” UN APPASSIONATO INVITO ALL’UNITÀ UMANA
L’ enciclica “Fratelli tutti” per la complessità e la molteplicità dei temi che tratta meriterà molta attenzione di volta in volta sui vari blocchi di argomenti. Una prima lettura serve ad averne un’idea generale senza in alcun modo esaurire la riflessione.
La situazione difficile del mondo
Essa, nelle sue linee generali, riprende ampiamente il messaggio culturale e sociopolitico di papa Francesco, lo sistematizza e lo arricchisce. In particolare riprende ampiamente il documento di Abu Dhabi del febbraio del 2019 “sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune” firmato dal papa con il Grande Imam Abu Al-Tayyeb dell’Università Al-Azhar del Cairo. La prima parte descrive la situazione del mondo constatandone il peggioramento per i nazionalismi emergenti, la crescita delle radicalizzazioni e delle disuguaglianze, i razzismi, le nuove povertà, la pandemia “che ci ha denudati” e ha gravemente penalizzato i più deboli, il rischio del “tutti contro tutti”, il rifiuto dei migranti, i muri, invece dei ponti, che si costruiscono un po’ dovunque, le forme ormai consolidate di schiavitù, la guerra mondiale a pezzi, i poteri economici che sovrastano i soggetti politici che dovrebbero proteggere la “casa comune” dell’umanità.
In questa descrizione si può leggere un contributo abbastanza nuovo (cap. 44 e 45) sulle tante aggressività che si esprimono mediante la comunicazione online e in tutto il mondo digitale che ha alle spalle interessi economici enormi e che è capace di forme invasive e sottili di controllo e di manipolazione. In questa descrizione non nuova delle tante cose negative dello scenario globale non vi è spazio (un solo cenno) per un approfondimento della specifica condizione della donna che è pesante e diffusa ovunque. I diversi aspetti della sua condizione di subordinazione fanno parte dei pesanti rapporti di dominio esistenti al mondo che tutti l’enciclica condanna duramente. Questa assenza ci sembra il limite principale dell’enciclica ed è coerente con la mancanza nel pontificato di papa Francesco di un impegno non formale od episodico perché la condizione femminile sia tutelata e promossa nella società e, a maggior ragione, nella Chiesa. La richiesta che l’enciclica si chiamasse “Sorelle e fratelli tutti” ci sembrava del tutto giustificata (la citazione esatta delle parole di S. Francesco poteva essere ripresa e spiegata nel testo). E’ stato anche rilevato che tra i grandi “maestri” citati tra quelli che hanno ispirato l’enciclica (S. Francesco, Martin Luther King, Desmond Tutu, Mahatma Gandhi, Charles de Foucauld) non c’è nessuna donna.
Il Samaritano, modello per la vita e per la società
L’enciclica passa poi ad un approfondimento del racconto evangelico del buon Samaritano, che viene assunto come modello generale per nuovi rapporti tra gli uomini. Il testo è particolarmente efficace nel descrivere i quattro soggetti presenti nella parabola, assunti a tipologie di comportamenti diffusi. Partendo da qui si sviluppano le linee portanti dei principali messaggi di Francesco. Essi riguardano: gli “ultimi”, i migranti, il potere economico che domina la politica, gli individualismi generalizzati che chiudono le comunità e le società in se stesse, la proprietà privata che dovrebbe essere diritto secondario rispetto ai beni comuni ed al bene comune, i nazionalismi fondati sulla xenofobia e via di questo passo. L’amore si deve praticare da una parte verso le fragilità individuali nei rapporti interpersonali che ognuno di noi incontra nella propria vita, dall’altra con quella che Francesco chiama “amicizia sociale” perché la carità si deve esprimere con l’intervenire sulle situazioni di sofferenza della casa comune (con azioni di tipo sociale, politico, culturale). Questa è la solidarietà. Poi l’enciclica fa un interessante discorso su Fraternità, Libertà e Uguaglianza. Le tre parole d’ordine della Rivoluzione francese vengono naturalmente accettate (già demonizzate dalla Chiesa a suo tempo) ma declinate in questo modo: la fraternità è la condizione indispensabile perché libertà e uguaglianza siano veramente tali. Tutta l’enciclica ruota attorno alla tutela e alla promozione dei diritti umani, a partire dagli ultimi, dagli esclusi, dai “non conosciuti”. Qualcuno ha osservato che la Chiesa mentre li promuove con convinzione dovrebbe essere più consapevole che al proprio interno essi meritano una ben maggiore tutela (per esempio quelli degli abusati dal clero pedofilo) e che, in generale, tante strutture della Chiesa dovrebbero finalmente cambiare nella direzione di quanto dice l’enciclica (per esempio nella gestione delle sue risorse economiche, argomento di assoluta attualità).
Cosa si debba intendere per popolo
L’enciclica continua su come siano da gestire correttamente i valori di ogni popolo, mantenendo le radici storiche, culturali, linguistiche ma dialogando con ogni altro Paese per capire, accettare e stabilire rapporti positivi a partire dal fatto che ogni popolo deve sentirsi parte della famiglia umana. L’accoglienza e l’integrazione dei migranti sono la base per una nuova politica che esiga però programmi globali internazionali. Il “locale” deve avere l’orizzonte del “globale” ed ogni Paese cerchi alleanze ed integrazioni coi Paesi vicini per trattare con le grandi potenze.
Il testo esamina poi in modo critico il populismo e le forme liberali di gestione del potere e vi descrive gli aspetti positivi del concetto di “popolo”. Ma qualsiasi impegno e soluzione – dice l’enciclica – “potrebbe avere ben poca consistenza, se perdiamo la capacità di riconoscere il bisogno di un cambiamento nei cuori umani, nelle abitudini e negli stili di vita. È quello che succede quando la propaganda politica, i media e i costruttori di opinione pubblica insistono nel fomentare una cultura individualistica e ingenua davanti agli interessi economici senza regole e all’organizzazione delle società al servizio di quelli che hanno già troppo potere.”
La carità è l’impegno per il bene comune
Il discorso continua su un versante più direttamente politico. La crisi del 2008 è stata un’occasione persa, gli Stati nazionali perdono potere e domina la finanza. Soprattutto – passo importante dell’enciclica – è necessaria la riforma dell’ONU, il rilancio dei rapporti internazionali e del multilateralismo che è in grave crisi dopo una fase in cui forme importanti di aggregazione si erano sviluppate, per esempio in Europa e in America Latina. In questa situazione papa Francesco richiama il ruolo dei movimenti popolari e sottolinea molto l’importanza delle organizzazioni della società civile che si impegnano per la tutela dei diritti umani e per il bene comune. Questa è carità, è amore, è l’impegno per il bene comune, per cambiare, per il dialogo, per ogni passo in avanti, anche con risultati modesti. Ogni azione deve tendere a riconoscere l’altro, deve tendere a un processo d’incontro tra differenze (senza fermare le rivendicazioni sociali), per una trasformazione degli stili di vita, per nuovi rapporti sociali. Francesco propone un “artigianato della pace” che parta dal basso e “lasci aperte sempre altre possibilità, altre considerazioni del reale, altre strade possibili, perfino dinanzi al peccato e all’errore; sempre è invocata la pluralità, mai il relativismo, sempre il gusto delle differenze, dell’inedito, del non ancora compreso; il poliedro, mai la torre di Babele, dalla pretesa unificante” (Raniero La Valle).
La memoria e il perdono
Per completare il quadro l’enciclica parla del perdono e del suo rapporto con la giustizia e poi della memoria. Non si costruisce per il futuro se non si ha sempre a mente la Shoah ed Hiroshima e Nagasaki. L’enciclica dice: “E nemmeno vanno dimenticati le persecuzioni, il traffico di schiavi e i massacri etnici che sono avvenuti e avvengono in diversi Paesi, e tanti altri fatti storici che ci fanno vergognare di essere umani. Vanno ricordati sempre, sempre nuovamente, senza stancarci e senza anestetizzarci. È facile oggi cadere nella tentazione di voltare pagina dicendo che ormai è passato molto tempo e che bisogna guardare avanti. No, per amor di Dio! Senza memoria non si va mai avanti, non si cresce senza una memoria integra e luminosa. Abbiamo bisogno di mantenere la fiamma della coscienza collettiva, testimoniando alle generazioni successive l’orrore di ciò che è accaduto», che «risveglia e conserva in questo modo la memoria delle vittime, affinché la coscienza umana diventi sempre più forte di fronte ad ogni volontà di dominio e di distruzione” (messaggio per la Giornata della pace 2020). Papa Francesco è anche esplicito sulla Chiesa e dice: “A volte mi rattrista il fatto che la Chiesa ha avuto bisogno di tanto tempo per condannare con forza la schiavitù e diverse forme di violenza.”
NO alla guerra giusta e alla pena di morte
Il papa riprende quanto già detto molte volte sulla ripresa della corsa al riarmo, in particolare per quanto riguarda le armi nucleari e constata che negli ultimi decenni si è optato “per la guerra avanzando ogni tipo di scuse apparentemente umanitarie, difensive o preventive, ricorrendo anche alla manipolazione dell’informazione. Di fatto, negli ultimi decenni tutte le guerre hanno preteso di avere una giustificazione”. Di conseguenza la Chiesa ritiene superata la dottrina della guerra giusta in certe circostanze e rilancia la proposta della Populorum Progressio per un Fondo mondiale finanziato dalla riduzione delle spese militari per eliminare la fame e per lo sviluppo dei Paesi poveri. Questa posizione netta sulla guerra è una indiretta denuncia di tutti i facili consensi del mondo cattolico nei confronti delle strutture militari ed addirittura di presenze al loro interno (nel nostro Paese i cappellani militari con l’Ordinario militare!). Ugualmente la Chiesa ha definitivamente preso posizione contro la pena di morte in qualsiasi circostanza facendo così una evidente autocritica rispetto alla sua posizione precedente. L’enciclica si conclude sul dialogo tra le religioni e sull’identità cristiana. La Chiesa, che auspica la convergenza del mondo cristiano e di tutte le religioni su queste grandi questioni, rivendica l’autonomia della politica ma «non può e non deve neanche restare ai margini» nella costruzione di un mondo migliore, né trascurare di «risvegliare le forze spirituali che possano fecondare tutta la vita sociale”. In questo modo si contribuisce a combattere a oltranza quel terrorismo che strumentalizza la religione e che combatte la libertà religiosa. Ci lascia però perplessi, al cap. 273 una citazione di papa Wojtyla che dice: “Se non esiste una verità trascendente, obbedendo alla quale l’uomo acquista la sua piena identità, allora non esiste nessun principio sicuro che garantisca giusti rapporti tra gli uomini”. Interpretato alla lettera questo passo può indicare una “esclusiva” delle religioni nell’indicare le strade per la retta convivenza sociale (e ciò è del tutto discutibile sia come affermazione di principio sia perché smentibile osservando la storia).
“Fratelli tutti” completa il messaggio della Laudato Si’
Mi pare che “Fratelli tutti” esprima il filone migliore e più universale di un pontificato che viene ostacolato da tante strutture ecclesiastiche che sono retaggio dei due pontificati precedenti, di una comprensione mummificata dell’Evangelo da parte di molti, di una struttura piramidale autoreferenziale e di un accentramento eccessivo del potere nella figura del papa. L’enciclica è quindi “la voce di chi non ha voce” e sfugge anche a un certo dottrinarismo delle vecchie encicliche sociali perché “morde” nella storia. Infatti nel suo lungo ragionare si leggono sottotraccia tutte le situazioni di sofferenza esistenti e le potenzialità pure presenti nella Chiesa. Ognuno le può facilmente vedere. A noi, per esempio, appare evidente quanto i suoi contenuti siano direttamente in contrasto pesante con la linea della presidenza uscente degli USA (lo ha scritto il “Washington Post”!) e, nel nostro Paese, con l’arroganza della destra che si pretende cristiana perché “ci sono ancora coloro che ritengono di sentirsi incoraggiati o almeno autorizzati dalla loro fede a sostenere varie forme di nazionalismo chiuso e violento, atteggiamenti xenofobi, disprezzo e persino maltrattamenti verso coloro che sono diversi”. L’enciclica fa un appello universale al mondo intero perché il suo messaggio non sia ininfluente. Ma essa interessa soprattutto i cattolici perché si impegnino a cercare di fare seguire alle parole i fatti, dando testimonianza dell’Evangelo, maggiore credibilità alla loro Chiesa e così un forte contributo alla sua vera riforma ed alla sua conversione che consiste nel seguire l’esempio del Samaritano.
Roma, 11 ottobre 2020
NOI SIAMO CHIESA
“Fratelli tutti”
UN APPASSIONATO INVITO ALL’UNITÀ UMANA
22 OTTOBRE 2020 / su www.chiesadeipoverichiesaditutti.it
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Fratelli tutti: «La vita è l’arte dell’incontro». Facciamo crescere la cultura dell’incontro
di Franco Meloni
Nello scrivere dell’enciclica provo un certo ritegno perché sintetizzarne i concetti rischia di guastarne la chiarezza e diminuirne la forza comunicativa. Per evitare entrambi ricorro alla tecnica della “virgolettatura”, soffermandomi su pochi passaggi che mi piace mettere in evidenza. Formulo comunque l’invito a leggerla per intero, e poi a rileggerla per singoli argomenti, anche senza seguire l’ordine originario.
Intanto rammento gli intendimenti del Papa: “Consegno questa Enciclica sociale come un umile apporto alla riflessione affinché [...] siamo in grado di reagire con un nuovo sogno di fraternità e di amicizia sociale che non si limiti alle parole. Pur avendola scritta a partire dalle mie convinzioni cristiane [...] ho cercato di farlo in modo che la riflessione si apra al dialogo con tutte le persone di buona volontà”. Ecco: tre parole fondamentali, avvolte dal sogno che ne rafforza la suggestione: fraternità, amicizia sociale, dialogo. E ancora, i destinatari: «tutte le persone di buona volontà», come è consuetudine dei Papi, da Giovanni XXIII (Pacem in terris, 1963) in poi. Perfino nel porgere la parabola del buon Samaritano il Papa ci tiene a dire: “benché questa Lettera sia rivolta a tutte le persone di buona volontà, al di là delle loro convinzioni religiose, la parabola si esprime in modo tale che chiunque di noi può lasciarsene interpellare”.
Riflettiamo sul racconto evangelico, condividendo le parole di Raniero La Valle: «la figura emblematica che fa l’identità di questa enciclica, […] è quella del Samaritano, che ci pone di fronte a una scelta stringente: davanti all’uomo ferito [...] ci sono solo tre possibilità: o noi siamo i briganti, e come tali armiamo la società dell’esclusione e dell’iniquità, o siamo quelli dell’indifferenza che passano oltre immersi nelle loro faccende e nelle loro religioni, o riconosciamo l’uomo caduto e ci facciamo carico del suo dolore: e dobbiamo farlo non solo con il nostro amore privato, ma col nostro amore politico, perché dobbiamo pure far sì che ci sia una locanda a cui affidare la vittima, e istituzioni che giungano là dove il denaro non compra e il mercato non arriva». [segue]
Fratelli tutti. LA MIGLIORE POLITICA.
Avanti coraggiosamente su Politica, Economia, Lavoro… Sul reddito universale di base il Papa frena.
Pubblichiamo il capitolo quinto dell’enciclica dedicato in massima parte all’attività politica. Il Papa la esalta mettendola su un binario virtuoso: “la migliore politica, posta al servizio del vero bene comune”. Quanto non fanno i populismi e i liberalismi; mentre esalta il concetto di popolo, ridando senso e significato alla parola popolo e all’aggettivo popolare. La critica al liberalismo coincide con la critica all’economia neo liberista che mette al primo posto il mercato e le sue priorità a discapito dei bisogni del popolo, provocando ineguagliane e povertà. Occorre allora ricercare e praticare nuove forme di economia. Per questo la Politica deve riprendersi il giusto posto. Riportiamo integralmente questo periodo: “177. Mi permetto di ribadire che «la politica non deve sottomettersi all’economia e questa non deve sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia».[158] Benché si debba respingere il cattivo uso del potere, la corruzione, la mancanza di rispetto delle leggi e l’inefficienza, «non si può giustificare un’economia senza politica, che sarebbe incapace di propiziare un’altra logica in grado di governare i vari aspetti della crisi attuale».[159] Al contrario, «abbiamo bisogno di una politica che pensi con una visione ampia, e che porti avanti un nuovo approccio integrale, includendo in un dialogo interdisciplinare i diversi aspetti della crisi».[160] Penso a «una sana politica, capace di riformare le istituzioni, coordinarle e dotarle di buone pratiche, che permettano di superare pressioni e inerzie viziose».[161] Non si può chiedere ciò all’economia, né si può accettare che questa assuma il potere reale dello Stato”. Rimandiamo ovviamente alla lettura integrale del Capitolo, ricco di ulteriori concetti anche con proiezioni operative. Tra questi, ad esempio l’auspicata “riforma «sia dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che dell’architettura economica e finanziaria internazionale, affinché si possa dare reale concretezza al concetto di famiglia di Nazioni».[151]“. Per nostra scelta ci soffermiamo solo su un punto che la nostra News ha da sempre curato e approfondito: la “questione del diritto al lavoro e del suo rapporto con il diritto al reddito minimo garantito, o reddito di cittadinanza, o dividendo sociale, o altro”. Il Papa la riprende, in parte ricalcando il solco tradizionale della dottrina sociale della Chiesa, rallentando su alcune impostazioni innovative che pur aveva cautamente avanzato. Dice il Papa: “162. Il grande tema è il lavoro. Ciò che è veramente popolare – perché promuove il bene del popolo – è assicurare a tutti la possibilità di far germogliare i semi che Dio ha posto in ciascuno, le sue capacità, la sua iniziativa, le sue forze. Questo è il miglior aiuto per un povero, la via migliore verso un’esistenza dignitosa. Perciò insisto sul fatto che «aiutare i poveri con il denaro dev’essere sempre un rimedio provvisorio per fare fronte a delle emergenze. Il vero obiettivo dovrebbe sempre essere di consentire loro una vita degna mediante il lavoro».[136] Per quanto cambino i sistemi di produzione, la politica non può rinunciare all’obiettivo di ottenere che l’organizzazione di una società assicuri ad ogni persona un modo di contribuire con le proprie capacità e il proprio impegno. Infatti, «non esiste peggiore povertà di quella che priva del lavoro e della dignità del lavoro».[137] In una società realmente progredita, il lavoro è una dimensione irrinunciabile della vita sociale, perché non solo è un modo di guadagnarsi il pane, ma anche un mezzo per la crescita personale, per stabilire relazioni sane, per esprimere sé stessi, per condividere doni, per sentirsi corresponsabili nel miglioramento del mondo e, in definitiva, per vivere come popolo”. Poco prima aveva affermato che “il superamento dell’inequità richiede di sviluppare l’economia, facendo fruttare le potenzialità di ogni regione e assicurando così un’equità sostenibile.[134] Dall’altra, «i piani assistenziali, che fanno fronte ad alcune urgenze, si dovrebbero considerare solo come risposte provvisorie».[135]“. Risposte provvisorie. Ecco è proprio su questo passaggio che il Papa segna una fermata, anzi una frenata rispetto a quanto prospettato nella “Lettera ai movimenti e alle organizzazioni popolari”, laddove scriveva: “Forse è giunto il momento di pensare a una forma di retribuzione universale di base che riconosca e dia dignità ai nobili e insostituibili compiti che svolgete; un salario che sia in grado di garantire e realizzare quello slogan così umano e cristiano: nessun lavoratore senza diritti”. Bisogna approfondire l’argomento, perché probabilmente tra i due diritti fondamentali, del lavoro e del reddito, potremmo trovare una conciliazione, perfino un rapporto fecondo. Ma questo è questione troppo grande per essere trattata nello spazio di un articolo. E’ comunque importante che la approfondiamo, come ci impegnamo a fare, ulteriormente.
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CAPITOLO QUINTO
LA MIGLIORE POLITICA
154. Per rendere possibile lo sviluppo di una comunità mondiale, capace di realizzare la fraternità a partire da popoli e nazioni che vivano l’amicizia sociale, è necessaria la migliore politica, posta al servizio del vero bene comune. Purtroppo, invece, la politica oggi spesso assume forme che ostacolano il cammino verso un mondo diverso.
Populismi e liberalismi
155. Il disprezzo per i deboli può nascondersi in forme populistiche, che li usano demagogicamente per i loro fini, o in forme liberali al servizio degli interessi economici dei potenti. In entrambi i casi si riscontra la difficoltà a pensare un mondo aperto dove ci sia posto per tutti, che comprenda in sé i più deboli e rispetti le diverse culture.
Popolare o populista
156. Negli ultimi anni l’espressione “populismo” o “populista” ha invaso i mezzi di comunicazione e il linguaggio in generale. Così essa perde il valore che potrebbe possedere e diventa una delle polarità della società divisa. Ciò è arrivato al punto di pretendere di classificare tutte le persone, i gruppi, le società e i governi a partire da una divisione binaria: “populista” o “non populista”. Ormai non è possibile che qualcuno si esprima su qualsiasi tema senza che tentino di classificarlo in uno di questi due poli, o per screditarlo ingiustamente o per esaltarlo in maniera esagerata.
157. La pretesa di porre il populismo come chiave di lettura della realtà sociale contiene un altro punto debole: il fatto che ignora la legittimità della nozione di popolo. Il tentativo di far sparire dal linguaggio tale categoria potrebbe portare a eliminare la parola stessa “democrazia” (“governo del popolo”). Ciò nonostante, per affermare che la società è più della mera somma degli individui, è necessario il termine “popolo”. La realtà è che ci sono fenomeni sociali che strutturano le maggioranze, ci sono mega-tendenze e aspirazioni comunitarie; inoltre, si può pensare a obiettivi comuni, al di là delle differenze, per attuare insieme un progetto condiviso; infine, è molto difficile progettare qualcosa di grande a lungo termine se non si ottiene che diventi un sogno collettivo. Tutto ciò trova espressione nel sostantivo “popolo” e nell’aggettivo “popolare”. Se non li si includesse – insieme ad una solida critica della demagogia – si rinuncerebbe a un aspetto fondamentale della realtà sociale.
158. Esiste infatti un malinteso. «Popolo non è una categoria logica, né è una categoria mistica, se la intendiamo nel senso che tutto quello che fa il popolo sia buono, o nel senso che il popolo sia una categoria angelicata. Ma no! È una categoria mitica […] Quando spieghi che cos’è un popolo usi categorie logiche perché lo devi spiegare: ci vogliono, certo. Ma non spieghi così il senso dell’appartenenza al popolo. La parola popolo ha qualcosa di più che non può essere spiegato in maniera logica. Essere parte del popolo è far parte di un’identità comune fatta di legami sociali e culturali. E questa non è una cosa automatica, anzi: è un processo lento, difficile… verso un progetto comune».[132]
159. Ci sono leader popolari capaci di interpretare il sentire di un popolo, la sua dinamica culturale e le grandi tendenze di una società. Il servizio che prestano, aggregando e guidando, può essere la base per un progetto duraturo di trasformazione e di crescita, che implica anche la capacità di cedere il posto ad altri nella ricerca del bene comune. Ma esso degenera in insano populismo quando si muta nell’abilità di qualcuno di attrarre consenso allo scopo di strumentalizzare politicamente la cultura del popolo, sotto qualunque segno ideologico, al servizio del proprio progetto personale e della propria permanenza al potere. Altre volte mira ad accumulare popolarità fomentando le inclinazioni più basse ed egoistiche di alcuni settori della popolazione. Ciò si aggrava quando diventa, in forme grossolane o sottili, un assoggettamento delle istituzioni e della legalità.
160. I gruppi populisti chiusi deformano la parola “popolo”, poiché in realtà ciò di cui parlano non è un vero popolo. Infatti, la categoria di “popolo” è aperta. Un popolo vivo, dinamico e con un futuro è quello che rimane costantemente aperto a nuove sintesi assumendo in sé ciò che è diverso. Non lo fa negando sé stesso, ma piuttosto con la disposizione ad essere messo in movimento e in discussione, ad essere allargato, arricchito da altri, e in tal modo può evolversi.
161. Un’altra espressione degenerata di un’autorità popolare è la ricerca dell’interesse immediato. Si risponde a esigenze popolari allo scopo di garantirsi voti o appoggio, ma senza progredire in un impegno arduo e costante che offra alle persone le risorse per il loro sviluppo, per poter sostenere la vita con i loro sforzi e la loro creatività. In questo senso ho affermato con chiarezza che è «lungi da me il proporre un populismo irresponsabile».[133] Da una parte, il superamento dell’inequità richiede di sviluppare l’economia, facendo fruttare le potenzialità di ogni regione e assicurando così un’equità sostenibile.[134] Dall’altra, «i piani assistenziali, che fanno fronte ad alcune urgenze, si dovrebbero considerare solo come risposte provvisorie».[135]
162. Il grande tema è il lavoro. Ciò che è veramente popolare – perché promuove il bene del popolo – è assicurare a tutti la possibilità di far germogliare i semi che Dio ha posto in ciascuno, le sue capacità, la sua iniziativa, le sue forze. Questo è il miglior aiuto per un povero, la via migliore verso un’esistenza dignitosa. Perciò insisto sul fatto che «aiutare i poveri con il denaro dev’essere sempre un rimedio provvisorio per fare fronte a delle emergenze. Il vero obiettivo dovrebbe sempre essere di consentire loro una vita degna mediante il lavoro».[136] Per quanto cambino i sistemi di produzione, la politica non può rinunciare all’obiettivo di ottenere che l’organizzazione di una società assicuri ad ogni persona un modo di contribuire con le proprie capacità e il proprio impegno. Infatti, «non esiste peggiore povertà di quella che priva del lavoro e della dignità del lavoro».[137] In una società realmente progredita, il lavoro è una dimensione irrinunciabile della vita sociale, perché non solo è un modo di guadagnarsi il pane, ma anche un mezzo per la crescita personale, per stabilire relazioni sane, per esprimere sé stessi, per condividere doni, per sentirsi corresponsabili nel miglioramento del mondo e, in definitiva, per vivere come popolo.
Valori e limiti delle visioni liberali
163. La categoria di popolo, a cui è intrinseca una valutazione positiva dei legami comunitari e culturali, è abitualmente rifiutata dalle visioni liberali individualistiche, in cui la società è considerata una mera somma di interessi che coesistono. Parlano di rispetto per le libertà, ma senza la radice di una narrativa comune. In certi contesti, è frequente l’accusa di populismo verso tutti coloro che difendono i diritti dei più deboli della società. Per queste visioni, la categoria di popolo è una mitizzazione di qualcosa che in realtà non esiste. Tuttavia, qui si crea una polarizzazione non necessaria, poiché né quella di popolo né quella di prossimo sono categorie puramente mitiche o romantiche, tali da escludere o disprezzare l’organizzazione sociale, la scienza e le istituzioni della società civile.[138]
164. La carità riunisce entrambe le dimensioni – quella mitica e quella istituzionale – dal momento che implica un cammino efficace di trasformazione della storia che esige di incorporare tutto: le istituzioni, il diritto, la tecnica, l’esperienza, gli apporti professionali, l’analisi scientifica, i procedimenti amministrativi, e così via. Perché «non c’è di fatto vita privata se non è protetta da un ordine pubblico; un caldo focolare domestico non ha intimità se non sta sotto la tutela della legalità, di uno stato di tranquillità fondato sulla legge e sulla forza e con la condizione di un minimo di benessere assicurato dalla divisione del lavoro, dagli scambi commerciali, dalla giustizia sociale e dalla cittadinanza politica».[139]
165. La vera carità è capace di includere tutto questo nella sua dedizione, e se deve esprimersi nell’incontro da persona a persona, è anche in grado di giungere a un fratello e a una sorella lontani e persino ignorati, attraverso le varie risorse che le istituzioni di una società organizzata, libera e creativa sono capaci di generare. Nel caso specifico, anche il buon samaritano ha avuto bisogno che ci fosse una locanda che gli permettesse di risolvere quello che lui da solo in quel momento non era in condizione di assicurare. L’amore al prossimo è realista e non disperde niente che sia necessario per una trasformazione della storia orientata a beneficio degli ultimi. Per altro verso, a volte si hanno ideologie di sinistra o dottrine sociali unite ad abitudini individualistiche e procedimenti inefficaci che arrivano solo a pochi. Nel frattempo, la moltitudine degli abbandonati resta in balia dell’eventuale buona volontà di alcuni. Ciò dimostra che è necessario far crescere non solo una spiritualità della fraternità ma nello stesso tempo un’organizzazione mondiale più efficiente, per aiutare a risolvere i problemi impellenti degli abbandonati che soffrono e muoiono nei Paesi poveri. Ciò a sua volta implica che non c’è una sola via d’uscita possibile, un’unica metodologia accettabile, una ricetta economica che possa essere applicata ugualmente per tutti, e presuppone che anche la scienza più rigorosa possa proporre percorsi differenti.
[segue]
Oggi lunedì 19 ottobre 2020
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Covid19: siamo a un bivio tra autodisciplina e coprifuoco
19 Ottobre 2020
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
Situazione complessa, tremendamente complessa, come in guerra, anche se, per fortuna, non è guerra contro un nemico statuale, visibile. Il Covid fa morti come le mitragliarici e i cannoni, e distrugge l’economia e la quotidianità delle persone come i bombardamenti. Ci porta via anzitempo i vecchi e blocca come un piccolo […]
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ITALIA
Pandemia sociale: i poveri «post Covid» sono 450 mila in più
Roberto Ciccarelli. Su il manifesto quotidiano.
Il caso. Secondo il rapporto Caritas 2020 la pandemia ha messo in ginocchio in Italia i giovani e le famiglie senza più lavoro. Boom di richieste, prese in carico oltre 450mila persone, una su due ha chiesto aiuto per la prima volta. Ecco l’identikit della nuova povertà: colpisce donne, minori, partite Iva e precari. La denuncia il caos del Welfare nell’emergenza: il «paradosso» dei bonus categoriali che moltiplicano gli esclusi. Il “reddito di cittadinanza” va riformato in senso universalistico e senza condizioni.
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Oggi 17 ottobre Giornata mondiale per l’eliminazione della povertà
La giornata mondiale per l’eliminazione della povertà
Su Volerelaluna
Nel nostro Paese da 7 anni – prima con la campagna Miseria Ladra e poi con la Rete dei Numeri Pari – centinaia di realtà sociali e sindacali si organizzano nella Giornata mondiale per l’eliminazione della povertà per dire a gran voce che questa dovrebbe essere la priorità politica nel nostro Paese.
Negli ultimi 12 anni, in Italia, le persone in povertà assoluta sono raddoppiate, passando da 2 milioni e 113mila nel 2008 a oltre 4,5 milioni nel 2019. Allo stesso tempo, il numero dei miliardari è quasi triplicato: da 12 nel 2008 a 40 nel 2020. Nel rapporto Dignità e non miseria (https://www.oxfamitalia.org/emergenza-coronavirus-poverta-estrema/), Oxfam denuncia che a causa dello shock pandemico mezzo miliardo di persone nel mondo rischiano di diventare povere.
In un Paese come il nostro, dove già prima della pandemia una persona su tre viveva a rischio esclusione sociale, è preoccupante immaginare quale sarà la situazione dei prossimi mesi, quando finirà il blocco degli sfratti e dei licenziamenti. Per di più ben sappiamo che, dove lo Stato fallisce, più facilmente crescono sistemi di regolazione alternativa, non democratici, collusivi e mafiosi.
Vecchie e nuove povertà possono essere affrontate solo ripensando i modelli economici, riconoscendo alcuni diritti fondamentali come quello dell’abitare, e conferendo solidità ai beni comuni a cominciare da scuola e sanità. Per questa ragione la giornata mondiale per l’eliminazione della povertà è l’occasione per chiedere al Governo e al Parlamento che venga data priorità politica all’impegno contro le disuguaglianze, verso un reale cambio di paradigma.
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Oggi sabato 17 ottobre 2020
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Contagi a quota 10mila, aumento dei decessi. I medici: “Necessarie misure più restrittive”. E che ne è delle libertà?
17 Ottobre 2020
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
Non voglio annoiarvi con un elenco di dati sul Covid19. Basta accendere la TV, sfogliare i giornali o leggere la sempre aggiornata Ansa. 10mila i nuovi contagi per il Covid in Italia nelle ultime 24 ore, secondo il bollettino del Ministero della Salute. I decessi sono alti, come in altalena salgono oggi […]
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Oggi 17 ottobre Giornata mondiale di lotta contro la povertà
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Oggi domenica 11 ottobre 2020
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Carbonia. Non si placano in città le polemiche fra gli opposti schieramenti, le sinistre costruiscono argini contro i provocatori
11 Ottobre 2020
di Gianna Lai su Democraziaoggi.
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L’enciclica “Fratelli tutti”, ovvero la dimensione politica della fraternità
11 Ottobre 2020
Domenico Gallo su Democraziaoggi.
Ecco una nuova riflessione sull’Enciclica di Papa Francesco dopo i contrinuti di Raniero La Valle e di Andrea Pubusa.
La fraternità è l’oggetto della seconda enciclica di papa Francesco (lettera del Santo Padre sulla fraternità e l’amicizia sociale) Fratelli tutti. La lettera si apre con le osservazioni sulle ombre di un mondo chiuso. Nel mondo attuale […]
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Fratelli tutti: l’enciclica della fraternità integrale.
Lilia Sebastiani su Rocca n. 20 del 15 ottobre 2020
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Francesco alla resa dei conti
L’enciclica «Fratelli tutti» condanna il neoliberismo e mette a fuoco la necessità di sovvertire i rapporti sociali vigenti. Se n’è accorta solo la destra reazionaria
di Guido Viale su il manifesto,
“Fratelli tutti”: emerge un’altra Chiesa
Con il consenso dell’autore riprendiamo un intervento che Francesco Casula ha pubblicato sul manifesto sardo e altre testate online. Francesco parte dal “caso Becciu”, ma evita di esprimere giudizi sullo stesso. Si vedrà l’esito delle inchieste in corso. Trae invece spunto dalla vicenda per esporre una convincente teoria. La vicenda rivela una certa visione (e pratica) di una Chiesa, quella finora dominante almeno in ambito istituzionale. A questa visione si contrappone quella di un’altra Chiesa, quella autenticamente conciliare, rappresentata proprio da Papa Francesco. Le encicliche e le esortazioni apostoliche di Papa Francesco delineano con chiarezza questa altra Chiesa. Le due Chiese convivono, ma lo scontro, che c’è sempre stato, emerge ora con molta chiarezza. Saprà Papa Francesco governare questo conflitto e far prevalere la sua concezione della Chiesa, basata sul primato del Vangelo? L’enciclica “Fratelli tutti” non lascia spazio a possibili mediazioni. Torneremo ovviamente su questa coinvolgente problematica che va ben aldilà del mondo cattolico per riguardare l’intera umanità.
Il Caso Becciu e le due Chiese
1 Ottobre 2020
[Francesco Casula su il manifesto sardo]
[segue]
Lettera enciclica di Papa Francesco Fratelli tutti. Sulla fraternità e l’amicizia sociale. Dibattito.
Molto si è già scritto e ancor di più si scriverà sull’enciclica e dintorni. Vale la pena leggerla per intero (eccola nel sito della sala stampa vaticana:
http://www.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20201003_enciclica-fratelli-tutti.html), ma se vogliamo averne una quasi istantanea visione complessiva, prima ancora di immergerci nel testo integrale, suggeriamo l’ottima sintesi che propone M.Michela Nicolais per l’Agenzia SIR (Servizio Informazione Religiosa – promossa e sostenuta dalla CEI), che trovate di seguito nel link https://www.agensir.it/chiesa/2020/10/04/fratelli-tutti-sintesi-dellenciclica-di-papa-francesco-serve-amicizia-sociale-per-un-mondo-malato/?fbclid=IwAR0jais8307S9vXbksjmEOKaMp_iWiqhB1HUU4FPrLMs-JLStK4ZdLMHAYA.
In effetti sintetizzare i concetti che sono espressi nell’enciclica, utilizzando diverse parole, comporta guastarne la chiarezza e diminuirne la efficace forza comunicativa. Per evitare entrambe si dovrebbe ricorrere in grande misura alla “virgolettatura”. E’ quanto faremo nella news a partire da domani e nei prossimi giorni, contrassegnando gli interventi con il logo che segue:
Diverso è il discorso sui commenti che però devono avere come presupposto la conoscenza dell’enciclica. Di questo dibattito saremo conto nei prossimi giorni riportando contributi di diverse provenienze, che riteniamo utili e significativi. Il primo che pubblichiamo è quello di Tonino Dessì, apparso oggi anche sulla sua pagina fb.
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Antonio Dessì
su fb.
Bergoglio sviluppa i connotati di un Papato (e tendenzialmente di una Chiesa) “progressista”.
Sovranisti (persino rossobruni) e destre tradizionaliste fremono per il disappunto.
Già questo indurrebbe laici come me a guardare alla nuova enciclica con grande favore, cosa che effettivamente sono incline a fare.
Tuttavia ho come l’impressione che, almeno in un Occidente preoccupato delle proprie precarie condizioni materiali, messe in discussione dai fenomeni migratori, dalla crisi climatica, dall’inceppamento economico del neoliberismo senza che le contraddizioni sociali prodotte dal neoliberismo siano state neppure avviate a una qualche soluzione e infine dalle conseguenze della pandemia, l’enciclica “progressista” non sia destinata a scaldare troppo.
Non molto di più di quanto scaldi il progressismo laico, insomma (non parliamo poi della “sinistra” contemporanea).
Mi viene ancora in mente l’obiezione teologica di Ratzinger, che criticammo a suo tempo perché contingentemente rivolta alla “teologia della liberazione”: <
Nonostante non sia credente, col senno di oggi, nel richiamo di Ratzinger a un fondamento trascendente, ma tipicamente ed esclusivamente cristiano (Dio si incarna nell’Uomo e l’Uomo risorge sia come Uomo sia come Dio), riconosco che in realtà c’era la consapevolezza dei rischi di una secolarizzazione totale della Chiesa.
Raztzinger (o forse più i Papi regnanti, in modo particolare Woitila) indubbiamente individuava in forma acuta quel rischio in una sovrapposizione col “marxismo”, ma era presente anche la presa di distanza dal capitalismo, che oggi caratterizza più marcatamente la posizione di Bergoglio.
Già, ma dov’è, lo “scandalo”, oggi?
La nuova enciclica viene resa pubblica nella ricorrenza di calendario della nascita di Francesco d’Assisi (fra l’altro patrono d’Italia).
A San Francesco è legata tutta una tradizione simbolica religiosa e laica, derivante soprattutto dal “Cantico delle Creature”, anticipatore di tanto ecologismo contemporaneo e dall’ispirazione al dialogo con altre religioni (ma l’incontro col Sultano Al Malik nel 1219 non fu proprio un successo).
Benchè sia un tratto biografico assai ricordato, mi pare invece sempre più messo in ombra il vero “scandalo” francescano, ossia la “conversione” del rampollo di una ricca famiglia di commercianti attraverso lo spogliarsi e il rigetto radicale di ogni agio materiale per vestire la più totale povertà personale, fisica, esistenziale, filosofica, religiosa (l’essenzialità del ridursi a nudo uomo per tentare di ripercorrere la via dell’Uomo-Dio, Cristo).
Per quanto si possa comprendere come fatto storico e politico che nella dimensione contemporanea un’istituzione quale la Chiesa difficilmente possa rinunciare alla dotazione dei mezzi materiali indispensabili per garantirsi l’indipendenza, tuttavia (ancor più alla luce del ben più terreno scandalo finanziario di questi giorni), forse solo approfondire il tema della povertà non solo come vicinanza caritatevole, o sociale, o politica, con i poveri, ma come immedesimazione e pratica radicale della conversione e della predicazione della conversione, potrebbe riaprire una nuova storia della Chiesa cattolica, in una prospettiva peraltro in qualche modo indicata e praticata da alcune correnti del protestantesimo, ma tutt’altro che estranea alla stessa tradizione sia pur internamente conflittuale del cattolicesimo.
(Beh, insomma, lo so: sembra, la mia, un’incursione pretenziosa, se non addirittura presuntuosa, su terreni che non dovrebbero competermi, però il pensiero corre un po’ dove gli pare e questo appunto lo lascio comunque agli atti).
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Sulle due diverse concezioni della Chiesa: la Chiesa dei poveri e la Chiesa “costantiniana”, una dialettica, un confronto, uno scontro che ha attraversato la sua storia millenaria. E che nella storia carsicamente emerge in alcuni periodi, per inabissarsi (…). Un interessante e condivisibile analisi di Francesco Casula su il manifesto sardo.
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