Risultato della ricerca: povertà
Caritas X Dossier 2020 “Luci di Carità in tempi di pandemia”
Conferenza stampa di presentazione del X Dossier 2020 “Luci di Carità in tempi di pandemia”
Lunedì 21 dicembre 2020 alle ore 10 nell’aula magna del Seminario arcivescovile di Cagliari (via mons. Cogoni 9) si svolgerà la conferenza stampa di presentazione del X Dossier 2020 della Caritas diocesana di Cagliari “Luci di Carità in tempi di pandemia”.
Durante la conferenza stampa verranno forniti i dati 2020 riguardanti le problematiche della povertà e dell’esclusione sociale nel territorio diocesano, e verrà effettuata l’analisi dei bisogni rilevati sul territorio attraverso i Centri d’ascolto della Caritas diocesana, strumenti privilegiati di incontro e di osservazione del disagio; in particolare verrà presentata l’attività della Caritas diocesana durante l’emergenza Covid-19.
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Nel tempo del Covid-19 e oltre
La crescente capacità di cura delle famiglie italiane
di Remo Siza*
La diffusione del COVID-19 ha profondamente cambiato le condizioni di vita di molte famiglie italiane. Molte associazioni come la Caritas e la Rete Banco Alimentare, hanno osservato un incremento significativo delle richieste di beni essenziali. Questi nuovi gruppi che chiedono assistenza alimentare sono spesso definiti nel dibattito pubblico come i “nuovi poveri”, per riferirsi a persone che potevano contare nei mesi scorsi su un reddito adeguato e che a causa della crisi sono diventate povere.
Probabilmente, però, il termine povertà non ci aiuta a definire queste condizioni sociali e ad individuare gli strumenti di politica sociale più appropriati, a definire politiche sociali di sostegno alle famiglie più articolate e non soltanto risposte minimali di supporto economico. La crescente richiesta di beni essenziali da parte di nuovi gruppi sociali che molte associazioni stanno affrontando è significativamente diversa da quella del passato: è meno persistente e cresce in un contesto sociale caratterizzato dall’aumento dell’insicurezza sociale ed economica, ma anche da nuove risorse di sostegno e cura.
La crisi economica e finanziaria determinata dalla pandemia di COVID-19 ha aggravato le irrisolte disuguaglianze e divisioni sociali della società italiana. Robert Castel in suo saggio molto noto ha osservato la presenza di tre “zone di coesione sociale” nelle attuali società occidentali:
- una “zona di integrazione” caratterizzata da contratti di lavoro a tempo pieno, possibilità di partecipazione alla vita sociale e benefici di welfare adeguati;
- una “zona di vulnerabilità”, la zona cioè della precarietà, del lavoro temporaneo, dei lavori mal retribuiti, di insufficienti risorse di welfare e di fragilità delle relazioni primarie;
- e, infine, la “zona della disaffiliazione” o dell’esclusione (esclusi dal mercato del lavoro e perdita di buona parte delle tutele sociali).
In Italia, la crisi ha ridotto la zona della integrazione riducendo significativamente la consistenza dei gruppi sociali con posti di lavoro altamente protetti da norme e contratti collettivi e livelli adeguati di protezione sociale. Ma soprattutto, ha ampliato a dismisura la zona della vulnerabilità e sta portando solo alcuni segmenti di questa zona verso la terza “zona dell’esclusione” e della povertà.
Certamente crescono i nuovi poveri, ma molte famiglie italiane non sono cadute in povertà in quanto la struttura della società italiana e le sue capacità di integrazione non si sono dissolte. In questi mesi non stiamo assistendo ad un “collasso” dei tre pilastri dell’integrazione sociale, delle sfere di vita cioè da cui dipende la nostra integrazione: il lavoro, la famiglia e il welfare.
Anzi, per tanti motivi, la pandemia ha invertito buona parte delle tendenze alla progressiva erosione di due sfere di vita (il welfare e la famiglia). In primo luogo, ha invertito tendenze che sembravano irreversibili verso una progressiva riduzione delle prestazioni di welfare e di contenimento dei costi. In questi mesi, le risorse del welfare sono cresciute notevolmente nel settore sanitario, nell’istruzione con effetti che saranno visibili nel medio e lungo periodo; le politiche sociali hanno ora una maggiore capacità protettiva e inclusiva, seppure privilegino quasi esclusivamente interventi passivi di supporto al reddito.
In secondo luogo, si sono sensibilmente attenuati processi che negli anni scorsi hanno minato i rapporti reciproci di sostegno e cura e la capacità delle famiglie di far fronte a rischi sociali vecchi e nuovi. La famiglia in questi mesi ha manifestato una elevata e crescente capacità di affrontare la crisi, di creare rapporti di cura e di supporto tra i suoi membri e nell’ambito del vicinato, nuove forme di socialità e di aiuto reciproco, nella costruzione di nuove forme associative.
In terzo luogo, la pandemia ha, invece, peggiorato ulteriormente le criticità storiche del mercato del lavoro italiano: crescono i lavori scarsamente retribuiti, il lavoro sommerso, i contratti a breve termine, si riducono ulteriormente i posti di lavoro.
Gli impatti della pandemia su queste tre sfere della vita stanno creando sicuramente una crescita della povertà, ma soprattutto la crescita di nuove condizioni economicamente e socialmente più vulnerabili: forme di precarietà lavorativa assistita attraverso prestazioni di welfare più generose, forme di deprivazione economica vissute, però, meno individualmente come condizione collettiva e con il supporto di relazioni familiari che la crisi ha rafforzato. Condizioni di vita che in molti casi sacrificano la dignità delle persone e delle famiglie, ma che spesso riescono a “trattenerle” evitando a molti di loro la caduta in forme severe e persistenti di povertà.
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- La foto in testa è tratta dalla pag. fb dell’Organizzazione no-profit Mutuo Soccorso Casteddu .
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Che succede? Che fare? Oggi, domani… Contributi al dibattito.
Le proposte dei giovani della Rete della Conoscenza
Arianna Petrosino
Sbilanciamoci! 2 Dicembre 2020 | Sezione: Politica, primo piano
Non sarà un vaccino a liberarci dai lasciti dell’emergenza Covid. E non sarà la vecchia ricetta fallimentare degli sgravi contributivi a rilanciare economia e lavoro. Alcune proposte della Rete della Conoscenza: reddito di formazione, scuola e università gratuite, tasse su grandi patrimoni e multinazionali del web.
Dallo scorso marzo il mondo è sospeso in una bolla di incertezza e attesa: si aspetta il vaccino, si aspettano le prossime restrizioni, si aspettano i sussidi, ci si chiede se saranno sufficienti, si prova a capire per quanto ancora si dovrà andare avanti così. La seconda ondata è riuscita a coglierci nuovamente impreparati.
E i dati ce lo dicono già con chiarezza: saranno i giovani a pagare più di tutti le conseguenze di questa crisi. Chi è nato negli anni Novanta avrà visto prima dei suoi trent’anni già due “crisi del secolo”: dopo lo scoppio della bolla dei mutui subprime del 2007-2008 e la stagione di austerity che ne seguì, ci troviamo oggi sull’orlo di una crisi nuova, potenzialmente più disastrosa, di cui stiamo già iniziando a saggiare le conseguenze. Nel corso dei due mesi di lockdown primaverile tra i giovani under 34 si è registrata una perdita complessiva di 303 mila posti di lavoro (dati INAPP) con un trend in calo anche nei mesi successivi. A settembre 2020 gli occupati tra i 15 e i 24 anni calano del 7,6% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente; gli occupati tra i 25 e i 34 anni calano del 6,1%, mentre nella stessa fascia d’età i disoccupati aumentano del 5,4% e gli inattivi del 7,1% (sempre rispetto al 2019).
Intanto le classi di età più avanzate registrano un trend in crescita (soprattutto dovuto alla componente demografica), mentre quelle centrali (35-49), anch’esse colpite dai mesi di lockdown, hanno recuperato complessivamente 100 mila posti di lavoro (ISTAT). Queste asimmetrie non sono casuali, ma frutto di anni di deregolamentazione del mercato del lavoro e di progressiva precarizzazione delle forme contrattuali, con politiche che hanno colpito soprattutto i più giovani.
Uno degli slogan più in voga durante il lockdown era quello apparso sui palazzi di Santiago de Chile lo scorso anno: “Non torneremo alla normalità perché la normalità era il problema”. Una normalità, quella prima del Covid, fatta soprattutto per i giovani di contratti a chiamata, part time involontario, lavoro stagionale, lavoro nero, emigrazione, povertà. Davanti a questa situazione le risposte emergenziali non bastano: è necessario prendere scelte coraggiose, che rappresentino una vera e propria inversione di rotta rispetto al passato. Non è sufficiente aggrapparsi ai finanziamenti del Recovery Fund – sui quali pure è necessario dare battaglia, perché non finiscano in larga parte nelle tasche delle imprese -, serve invece ragionare su quali misure strutturali si possano mettere in campo per redistribuire la ricchezza e combattere le diseguaglianze sociali.
Reddito incondizionato per decidere sulle proprie vite
Uno dei meriti delle misure messe in campo dallo Stato nel corso del lockdown primaverile è stato quello di evidenziare alcuni dei limiti degli strumenti ordinari: è il caso ad esempio del reddito di emergenza, varato sì per rispondere ad una situazione non prevedibile che ha lasciato decine di migliaia di lavoratori senza entrate, ma che ha anche fatto emergere come il reddito di cittadinanza non rappresenti uno strumento sufficiente né per il contrasto alla povertà né, tantomeno, in ottica emancipatoria. Non si tratta solo di un ampliamento ai singoli, ma soprattutto a tutta una serie di categorie che hanno avuto la possibilità per la prima volta di accedere ad uno strumento di sostegno al reddito, per quanto anche a prescindere dal Covid non vivessero una situazione economicamente positiva. Se il reddito di cittadinanza è stato introdotto sotto la retorica dell’abolizione della povertà, un anno dopo possiamo dire con sufficiente certezza che quest’obiettivo non è stato raggiunto, e non solo per colpa del Covid. E una delle ragioni sta proprio nella distanza del Reddito di cittadinanza made in Italy da quello che viene tradizionalmente definito reddito di cittadinanza: la misura italiana è infatti priva di due delle sue caratteristiche fondamentali, l’incondizionalità e l’universalità. Il Reddito di cittadinanza, come traspare tra l’altro dalle dichiarazioni alla stampa di diversi esponenti della maggioranza di governo, viene interpretato più che altro come uno strumento di inserimento nel mercato del lavoro. Al netto degli enormi limiti dimostrati in questo senso, è necessario fare un passo indietro. È giusto che questa sia la funzione del Reddito? Insomma, è davvero questo il Reddito di cui abbiamo bisogno? Se riconosciamo come un problema il fatto che la mobilità sociale nel nostro Paese sia del tutto bloccata, se vogliamo liberarci realmente dal ricatto della precarietà, è chiaro che una misura di questo tipo non possa essere sufficiente e che serve immaginare invece tutta un’altra forma di Reddito, a partire da due elementi irrinunciabili: l’incondizionalità e l’elargizione su base individuale. Nel momento in cui la precarietà e l’instabilità la fanno da padrone, introdurre strumenti che si sleghino dalla concezione puramente familistica che caratterizza il nostro sistema welfaristico è sempre più urgente. Lo dimostrano i dati sull’età a cui si va a vivere da soli (31 anni in Italia, 26 di media europea), ma anche l’incidenza del dato sui nuovi poveri tra i giovani di età compresa tra i 18 e i 35 anni, in fortissima crescita rispetto agli anni precedenti.
Reddito incondizionato e individuale, dunque, non solo per coloro i quali si trovano al di sotto della soglia di povertà, ma da ragionare per una platea ben più ampia, che possa declinarsi in diverse forme – come quella del Reddito di formazione per le studentesse e gli studenti – a partire dai bisogni delle nuove generazioni, ma che non veda discrimini anagrafici: un reddito che sia davvero uno strumento per decidere sulle proprie vite e liberarsi dai ricatti.
Diritti universali, per ridare dignità al lavoro contro la precarietà esistenziale
Non serviva una pandemia per rendere palese quanto oggi il mondo del lavoro sia teatro di ingiustizie profonde, non frutto del caso ma di precise scelte politiche susseguitesi negli ultimi decenni. La precarizzazione ha assunto confini ben più ampi di quelli della sola durata del contratto (quando un contratto c’è), riguardando la garanzia di diritti e tutele e la certezza che un lavoro potesse assicurare una vita degna. La flessibilità è diventata un elemento strutturale, utile a livellare i salari verso il basso, negare le tutele più basilari e massimizzare i profitti. Così come il lavoro sottopagato o gratuito, spesso sotto forma di tirocini non retribuiti, o l’apprendistato come strumento di risparmio per le aziende.
Se per gli under 35 la precarietà è diventata l’unica cifra del mondo del lavoro, non sono soltanto i giovani a vivere di incertezze, diritti negati, salari da fame, disoccupazione, sfruttamento. Ma per chi è entrato nel mondo del lavoro – o prova a farlo – negli ultimi dieci/quindici anni, tutto questo è la normalità, è l’unico lavoro che si sia mai visto.
Nel testo della legge di bilancio 2021 si legge l’ennesima riproposizione di una ricetta fallimentare, quella degli sgravi contributivi. Sgravi del 100% per un periodo massimo di 36 mesi (48 per le regioni del Sud), con una clausola anti licenziamento di 9 mesi, per chi assume under 35 con un contratto a tutele crescenti. Quella della decontribuzione è stata una strada scelta a più riprese dagli ultimi governi, ma i dati relativi all’andamento delle assunzioni evidenziano come non abbia sortito effetti positivi sull’occupazione stabile, soprattutto in assenza delle necessarie condizionalità. Per rilanciare l’occupazione giovanile si deve ridare dignità al lavoro, combattendo una guerra contro la precarietà che parta dal riconoscimento universale dei diritti fondamentali, ed è necessaria una politica industriale e dello sviluppo che sappia cogliere le priorità per il futuro, senza limitarsi alle contingenze. Il futuro dei giovani, delle donne, il rilancio del Sud non può essere affidato ai privati attraverso la politica degli incentivi: serve invece un ruolo forte dello Stato in economia, nella definizione dei settori strategici, nella gestione delle risorse, nella creazione di posti di lavoro, in termini ben maggiori di quelli previsti dalla legge di bilancio sulle assunzioni nella P.A.
Serve ripensare complessivamente il modello produttivo, rimettendo al centro le persone e il pianeta e non i profitti, creando occupazione di qualità a partire dalla riconversione ecologica e dalla redistribuzione dell’orario di lavoro.
E non si tratta di una battaglia che riguarda solo una generazione.
Istruzione gratuita per il futuro del Paese
L’Italia si trova al 36° posto tra i 37 paesi OCSE per percentuale di laureati tra i 25 e 34 anni, mentre dal lato della scuola la dispersione scolastica è pari al 15%, con dati inquietanti se si guardano le singole regioni (come la Sicilia dove si raggiunge il 24%). Una situazione nazionale così grave in merito ai livelli di istruzione del Paese vede tra le maggiori cause quella di ordine economico: molte famiglie e molti studenti e studentesse, semplicemente, non possono permetterselo. Il combinato dell’emergenza sanitaria e della crisi economica da essa scaturita rischia nel prossimo futuro di aggravare ulteriormente la situazione.
Scuole, Università e filiera formativa in generale – dall’asilo nido ai percorsi post laurea – come istituzioni pubbliche devono perseguire una serie di obiettivi fondamentali per la società moderna. Il primo è certamente quello di permettere ad ogni individuo di decidere sul proprio presente e per il proprio futuro, per essere strumento per costruire una società consapevole. Il secondo obiettivo, di pari importanza, deve essere quello di riduzione delle disuguaglianze: eliminare le differenze socioeconomiche delle famiglie di provenienza. Il terzo deve essere quello di incarnare il ruolo di motore di innovazione e sviluppo, tecnologico, sociale e democratico, per costruire un modello di sviluppo ecologicamente e socialmente sostenibile.
Per questi motivi la gratuità e l’accessibilità dell’istruzione devono essere delle priorità urgenti per il nostro Paese, per uscire prima e meglio dalla crisi innescata dalla pandemia, e sono obiettivi concreti e raggiungibili attraverso un diverso uso delle risorse pubbliche e con una riforma della tassazione in senso progressivo, che quindi redistribuisca la ricchezza e consenta forti investimenti da parte dello Stato in quelle che devono essere le politiche strategiche per il prossimo futuro.
Non ci sono soldi?
Per finanziare tutto questo servono soldi. E i soldi ci sono, o si possono recuperare. Non solo tagliando da una serie di settori – quello bellico, ad esempio – ma anche liberando la spesa sociale dai vincoli di bilancio (ad oggi solo sospesi) e dal diktat del debito, e generando maggiori entrate per le casse dello Stato.
Nel corso della pandemia i 40 miliardari italiani hanno visto il loro patrimonio crescere del 31%, attestandosi sui 165 miliardi di euro. Attaccare la rendita, i grandi patrimoni, i monopoli, le multinazionali, le aziende inquinanti e le corporations del web non è solo una tra le tante opzioni: è la strada da praticare. Se ne stanno rendendo conto i governi di altri Paesi, che per fronteggiare la crisi dovuta al Covid hanno varato delle misure che vanno in questa direzione, mentre in Italia sembra essere ancora un tabù. Un intervento coraggioso sulla fiscalità generale, che miri davvero a redistribuire le ricchezze per garantire diritti e benessere alla popolazione, è tuttavia sempre più urgente. E l’assenza di qualsiasi indirizzo in questa direzione nella legge di bilancio non è un dato positivo.
Non basterà un vaccino per evitare le conseguenze disastrose della crisi post pandemia. Reddito, lavoro, istruzione, redistribuzione delle ricchezze: tenere ben saldi questi pilastri è fondamentale se non vogliamo solo uscire da questa crisi, ma soprattutto uscirne migliori.
Appello. Un patto di tutti i sardi per la Sardegna.
“Non ci si salva da soli”. Per battere il Covid in Sardegna è urgente la “buona politica; non quella asservita alle ambizioni individuali o alla prepotenza di fazioni o centri di interessi”.
Appello di cattolici sardi
Premessa.
Noi cittadini sardi, cattolici ispirati dai valori del Vangelo, fedeli agli insegnamenti del Concilio Vaticano II e della dottrina sociale della Chiesa, convintamente riproposti dalle ultime illuminanti encicliche di Papa Francesco, ci dichiariamo preoccupati e angosciati per il precipitare della situazione economica della Sardegna, con il portato di sofferenze materiali e psicologiche per un numero crescente di persone appartenenti a tutti gli strati della società sarda, specie dei meno abbienti. Chiediamo pertanto a tutti, a partire da quanti hanno responsabilità pubbliche, nelle Istituzioni e nelle altre organizzazioni della Società, e a tutti gli uomini e a tutte le donne di buona volontà, un impegno corale che, nel rispetto delle differenze delle diverse appartenenze politiche e culturali, ci renda solidali e attivi per uscire dalla situazione di crisi e difficoltà antiche e attuali della nostra regione.
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Appello. Un patto di tutti i sardi per la Sardegna.
SARDEGNA: UN CASO SERIO DI DEFICIT POLITICO E I CATTOLICI RISOLLEVANO LA TESTA
di Antonio Secchi
Dic 2, 2020 – su Politicainsieme.com
E’ da almeno vent’anni che non si vedeva in Sardegna un documento-appello di cattolici ( il documento segue questa presentazione, ndr ), preoccupati per l’aggravarsi della situazione economica, sociale e sanitaria dell’isola. Questo lasso di tempo corrisponde a quello della diaspora dei cattolici nel sistema nazionale, che ha trovato puntuale applicazione anche nella vita politica della Regione sarda.
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Documento del Consiglio comunale di Cagliari sul sistema sanitario, approvato all’unanimità
Ordine del giorno in esito al dibattito svolto in Consiglio Comunale
sul sistema sanitario della città di Cagliari [3/12/2020]
Il Consiglio Comunale di Cagliari, a seguito della richiesta di dibattito prot. n. 239560/2020 del 27 settembre 2020 (presentata dalla consigliera Francesca Ghirra e più), nella seduta del 24 novembre 2020, ha avviato la discussione sul sistema sanitario della città di Cagliari. In esito ai numerosi interventi, il medesimo Consiglio ha approvato il seguente ordine del giorno. [segue]
Fratelli tutti: materiali di studio per l’associazione Amici sardi della Cittadella di Assisi
CAPITOLO PRIMO
LE OMBRE DI UN MONDO CHIUSO
Appello. Un patto di tutti i sardi per la Sardegna.
Non ci si salva da soli
di Franco Meloni, su il manifesto sardo.
Attraverso l’appello qui pubblicato, un gruppo di cattolici sardi preoccupati della situazione generale e, in particolare, della Sardegna, sollecitano un impegno corale dei cittadini sardi e delle Istituzioni per arrestare il declino della regione e lavorare uniti per un suo nuovo sviluppo, volgendo la terribile crisi dovuta all’epidemia covid-19 a nuove prospettive.
L’appello si collega idealmente alle esortazioni di Papa Francesco, significativamente al video-messaggio da lui fatto al termine delle giornate del The Economy of Francesco e al documento finale dello stesso evento denominato “Patto di Assisi”. Con questi intenti l’appello mira a creare un forte spirito unitario, ispirandosi alla proficua alleanza tra appartenenti a diverse impostazioni culturali (cattolica, marxista, liberale, azionista) che caratterizzò la ricostruzione dell’Italia dalle macerie della II guerra mondiale, superando le profonde devastazioni morali, culturali e materiali del nazifascismo. Proprio a quel “Patto politico-culturale” dobbiamo la magnifica Carta costituzionale della Repubblica e, per quanto ci riguarda, lo Statuto di autonomia della Sardegna. Ovviamente, nel nostro caso, il primo ambito di riferimento e terreno di azione è la Sardegna, tuttavia inserita nei più ampi contesti: italiano, mediterraneo, europeo, planetario. In conclusione, l’appello non si indirizza solo ai cattolici, singoli e associati, chiamati a un risveglio rispetto alla necessità imprescindibile di un loro maggior impegno politico (come precisamente indicato da Papa Francesco), ma a tutte le componenti organizzate della società e ai singoli cittadini, nel rispetto delle diversità di ogni tipo, che però devono trovare comuni percorsi per grandi finalità da perseguire, insieme. Ecco perchè in questa fase si chiede a tutte e tutti di sottoscriverlo, per poi far scaturire dallo stesso e dal dibattito che saprà suscitare coerenti iniziative culturali, sociali, politiche.
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“Non ci si salva da soli”. Per battere il Covid in Sardegna è urgente la “buona politica; non quella asservita alle ambizioni individuali o alla prepotenza di fazioni o centri di interessi”.
Appello di cattolici sardi
Premessa.
Noi cittadini sardi, cattolici ispirati dai valori del Vangelo, fedeli agli insegnamenti del Concilio Vaticano II e della dottrina sociale della Chiesa, convintamente riproposti dalle ultime illuminanti encicliche di Papa Francesco, ci dichiariamo preoccupati e angosciati per il precipitare della situazione economica della Sardegna, con il portato di sofferenze materiali e psicologiche per un numero crescente di persone appartenenti a tutti gli strati della società sarda, specie dei meno abbienti. Chiediamo pertanto a tutti, a partire da quanti hanno responsabilità pubbliche, nelle Istituzioni e nelle altre organizzazioni della Società, e a tutti gli uomini e a tutte le donne di buona volontà, un impegno corale che, nel rispetto delle differenze delle diverse appartenenze politiche e culturali, ci renda solidali e attivi per uscire dalla situazione di crisi e difficoltà antiche e attuali della nostra regione.
1. Il momento della Sardegna.
La Sardegna nel momento in cui ha bisogno della più grande ricostruzione morale sociale ed economica della sua storia contemporanea – che può iniziare proprio dalla lotta al Coronavirus e ai suoi devastanti effetti – risulta paralizzata da un insieme di contraddizioni che si scaricano soprattutto sui più deboli.
La pandemia da Coronavirus ha ulteriormente aggravato le già precarie condizioni economiche e sociali della Regione. L’aggiornamento congiunturale dell’economia della Sardegna del novembre 2020, pubblicato dalla Banca d’Italia, sottolinea la forte negatività di tutte le variabili ( molto peggio di quanto accaduto a livello nazionale) dal PIL ai consumi, dalle esportazioni all’occupazione, dal fatturato agli ordinativi di tutti i settori dall’agricoltura all’industria, dal commercio, all’edilizia dal turismo ai servizi. Gli effetti di questa crisi strutturale avranno pesanti conseguenze oltrechè sul piano sociale anche su specifiche situazioni come l’emigrazione dei giovani istruiti, l’ulteriore spopolamento dei piccoli comuni, l’incremento dei livelli di povertà.
2. Principali emergenze
In diversi settori fondamentali le situazioni di crisi si sono aggravate negli anni.
– Nella scuola, nella formazione, nell’Università e nella Ricerca, comparti in cui si ampliano i divari tra i partecipanti a tutti i livelli – con esclusioni dettate in grande misura dalle condizioni economiche di partenza delle famiglie – oggi anche acuiti dalla formazione a distanza.
– Nei trasporti perennemente incerti al punto di togliere ai sardi il diritto costituzionale alla mobilità. E’ dei giorni scorsi la dichiarazione relativa all’interruzione dal 1° dicembre di tutti i collegamenti navali in convenzione.
– Nella sanità, con i tagli sistematici agli organici, l’annuncio di riforme penalizzanti nei confronti dei territori, l’intasamento degli ospedali; il taglio delle borse di studio per le specializzazioni mediche. Questioni ben rappresentate in questo periodo dal malessere dei sindaci di fronte all’enormità dell’emergenza sanitaria disperatamente affrontata dai medici, dal personale sanitario, dagli operatori delle cooperative sociali e del volontariato a cui va la nostra solidarietà
– Nelle pubbliche amministrazioni, in tutte le diverse articolazioni, dove si aggrava la farraginosità burocratica al punto da compromettere i diritti dei cittadini, ma anche delle imprese, ostacolate anzichè sostenute nella funzione di creare lavoro per uno sviluppo economico eco-sostenibile.
Nella politica, segnata dal crollo della partecipazione dei cittadini sardi agli eventi elettorali e, spesso , da carenze programmatiche e attuative che rischiano di mettere a repentaglio i diritti della persona e perfino del rispetto della dignità umana. Nell’emergenza attuale, che riguarda tutti, ad essere maggiormente colpite sono, come sempre, le fasce sociali più deboli della popolazione: giovani, donne, anziani, poveri di ogni tipologia e, tra essi, ammalati, persone con basso livello culturale, analfabeti digitali, i residenti nei piccoli centri dell’interno, disoccupati.
Le famiglie che già vivevano in situazioni di disagio prima dell’inizio dell’emergenza sanitaria, versano oggi in situazioni di gravissima difficoltà, come testimoniano anche i recenti dati della Caritas sull’aumento della povertà assoluta e relativa.
La Sardegna ha bisogno, dunque, di interventi concreti sulle politiche per la famiglia, i giovani, il lavoro e le imprese, la questione ambientale, la sanità, la scuola, le infrastrutture, l’Università, la ricerca, le nuove tecnologie, la lotta alla corruzione.
3. La buona politica
L’obiettivo principale della Politica deve essere, in questo frangente, la salvezza della dignità delle persone, concentrando ogni sforzo sul lavoro, sulla ricerca del bene comune e non sull’assistenzialismo.
4. Piano straordinario e Piano per la Rinascita
Si metta perciò a punto un piano straordinario di investimenti da far partire al più presto, non oltre il 1° gennaio 2021. Quando la moratoria statale sui licenziamenti finirà e termineranno le risorse straordinarie per la cassa integrazione, gran parte dei lavoratori più deboli e meno qualificati perderà il lavoro col rischio più che concreto di rimanere intrappolata in una condizione di impoverimento per lungo tempo. Pertanto è necessario fin da ora intervenire con determinazione, anche con provvedimenti legislativi straordinari, sulle ben note emergenze create dalla pandemia.
Ma anche risulta indispensabile elaborare la fase della ricostruzione con un Piano per la Rinascita da costruire da parte delle Istituzioni con la collaborazione delle parti sociali – datoriali e sindacali – dei cittadini e delle loro organizzazioni, nella pratica della sussidiarietà, affinché si immaginino e si costruiscano percorsi di riqualificazione e affiancamento sociale condivisi e in grado di traghettare non solo le vittime del lockdown, ma l’intera Sardegna nella fase del post Covid. Questo piano indispensabile anche per utilizzare al meglio le ingenti risorse, che dovrebbero arrivare dal Recovery fund dell’Unione Europea. Si corre il rischio, infatti, che tali risorse vengano male utilizzate o sprecate se non si dovessero avere le idee chiare sulla loro destinazione e modalità d’impiego.
5. Unità per il bene della Sardegna
Come cattolici apprezziamo e sosteniamo il valore e l’importanza del pluralismo e della dialettica tra le forze politiche. Ma oggi, in questi tempi straordinari, le contrapposizioni devono mitigarsi lasciando posto al perseguimento di una grande unità tra le forze politiche e istituzionali. Il bene della Sardegna e della sua gente vale molto di più di piccoli vantaggi elettorali.
Speravamo tutti che questa pandemia da Covid-l9 cessasse e si potesse riprendere la vita nella sua normalità. Ma non è così. L’emergenza non sarà di breve durata e siamo certi che molto non sarà più come prima e che dobbiamo acquistare capacità politica di disegnare e realizzare nuovi e inediti scenari, come abbiamo cercato di argomentare in questo scritto.
Nell’esperienza drammatica che stiamo vivendo, e che ci ha fatto toccare con mano quanto siamo collegati e interdipendenti, ci è consegnata questa lezione: come il contagio avviene per contatto anche l’uscita dall’emergenza è possibile nel fare corpo unico. Non ci si salva da soli.
6. «Non sprechiamo la crisi!»
Rammentiamo in conclusione il recente messaggio della Conferenza Episcopale Italiana alle comunità cristiane in tempo di pandemia: “Viviamo una fase complessa della storia mondiale, che può anche essere letta come una rottura rispetto al passato, per avere un disegno nuovo, più umano, sul futuro. «Perché peggio di questa crisi, c’è solo il dramma di sprecarla, chiudendoci in noi stessi» (Papa Francesco, Omelia nella Solennità di Pentecoste, 31 maggio 2020)”.
Noi, cattolici sardi, raccogliamo queste esortazioni e chiamiamo tutte e tutti agli impegni che sinteticamente e sicuramente non esaurientemente abbiamo delineato in questo nostro appello.
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Per sottoscrivere l’appello – che fino alla pubblicazione di questo editoriale (1 dicembre 2020 ore 10) ha raggiunto 172 sottoscrizioni – inviare l’adesione (Nome, Cognome, paese/città) a una delle seguenti email: mario1946.girau@gmail.com o melonif@gmail.com. L’elenco aggiornato dei sottoscrittori è disponibile – in continuo aggiornamento – sul sito web di Aladinpensiero online, al seguente link:
Appello di cattolici sardi: un Patto di tutti i Sardi per la Sardegna
Pubblichiamo volentieri e diffondiamo un appello di cattolici sardi che preoccupati della situazione generale e, in particolare della Sardegna, sollecitano un impegno corale dei cittadini sardi e delle Istituzioni per arrestare il declino della regione e lavorare uniti per un suo nuovo sviluppo, volgendo la terribile crisi dovuta all’epidemia covi-19 a nuove prospettive. Torneremo sui contenuti dell’appello che abbiamo istantaneamente collegato alle esortazioni di Papa Francesco, significativamente all’appello da lui fatto al termine delle giornate del The Economy of Francesco e al documento finale dello stesso evento denominato “Patto di Assisi”. I cattolici in fondo delineano la proposta che insieme con tutti gli uomini di buona volontà si costruisca un “Patto di Assisi per la Sardegna”. (fm)
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“Non ci si salva da soli”. Per battere il Covid in Sardegna è urgente la “buona politica; non quella asservita alle ambizioni individuali o alla prepotenza di fazioni o centri di interessi”.
Appello di cattolici sardi
Premessa. Noi cittadini sardi, cattolici ispirati dai valori del Vangelo, fedeli agli insegnamenti del Concilio Vaticano II e della dottrina sociale della Chiesa, convintamente riproposti dalle ultime illuminanti encicliche di Papa Francesco, ci dichiariamo preoccupati e angosciati per il precipitare della situazione economica della Sardegna, con il portato di sofferenze materiali e psicologiche per un numero crescente di persone appartenenti a tutti gli strati della società sarda, specie dei meno abbienti. Chiediamo pertanto a tutti, a partire da quanti hanno responsabilità pubbliche, nelle Istituzioni e nelle altre organizzazioni della Società, e a tutti gli uomini e a tutte le donne di buona volontà, un impegno corale che, nel rispetto delle differenze delle diverse appartenenze politiche e culturali, ci renda solidali e attivi per uscire dalla situazione di crisi e difficoltà antiche e attuali della nostra regione.
1. La Sardegna nel momento in cui ha bisogno della più grande ricostruzione morale sociale ed economica della sua storia contemporanea – che può iniziare proprio dalla lotta al Coronavirus e ai suoi devastanti effetti – risulta paralizzata da un insieme di contraddizioni che si scaricano soprattutto sui più deboli.
La pandemia da Coronavirus ha ulteriormente aggravato le già precarie condizioni economiche e sociali della Regione. L’aggiornamento congiunturale dell’economia della Sardegna del novembre 2020, pubblicato dalla Banca d’Italia, sottolinea la forte negatività di tutte le variabili ( molto peggio di quanto accaduto a livello nazionale) dal PIL ai consumi, dalle esportazioni all’occupazione, dal fatturato agli ordinativi di tutti i settori dall’agricoltura all’industria, dal commercio, all’edilizia dal turismo ai servizi. Gli effetti di questa crisi strutturale avranno pesanti conseguenze oltrechè sul piano sociale anche su specifiche situazioni come l’emigrazione dei giovani istruiti, l’ulteriore spopolamento dei piccoli comuni, l’incremento dei livelli di povertà.
2. Principali emergenze
In diversi settori fondamentali le situazioni di crisi si sono aggravate negli anni.
- Nella scuola, nella formazione, nell’Università e nella Ricerca, comparti in cui si ampliano i divari tra i partecipanti a tutti i livelli – con esclusioni dettate in grande misura dalle condizioni economiche di partenza delle famiglie – oggi anche acuiti dalla formazione a distanza.
- Nei trasporti perennemente incerti al punto di togliere ai sardi il diritto costituzionale alla mobilità. E’ dei giorni scorsi la dichiarazione relativa all’interruzione dal 1° dicembre di tutti i collegamenti navali in convenzione.
- Nella sanità, con i tagli sistematici agli organici, l’annuncio di riforme penalizzanti nei confronti dei territori, l’intasamento degli ospedali; il taglio delle borse di studio per le specializzazioni mediche. Questioni ben rappresentate in questo periodo dal malessere dei sindaci di fronte all’enormità dell’emergenza sanitaria disperatamente affrontata dai medici, dal personale sanitario, dagli operatori delle cooperative sociali e del volontariato a cui va la nostra solidarietà
- Nelle pubbliche amministrazioni, in tutte le diverse articolazioni, dove si aggrava la farraginosità burocratica al punto da compromettere i diritti dei cittadini, ma anche delle imprese, ostacolate anzichè sostenute nella funzione di creare lavoro per uno sviluppo economico eco-sostenibile.
Nella politica, segnata dal crollo della partecipazione dei cittadini sardi agli eventi elettorali e, spesso , da carenze programmatiche e attuative che rischiano di mettere a repentaglio i diritti della persona e perfino del rispetto della dignità umana. Nell’emergenza attuale, che riguarda tutti, ad essere maggiormente colpite sono, come sempre, le fasce sociali più deboli della popolazione: giovani, donne, anziani, poveri di ogni tipologia e, tra essi, ammalati, persone con basso livello culturale, analfabeti digitali, i residenti nei piccoli centri dell’interno, disoccupati.
Le famiglie che già vivevano in situazioni di disagio prima dell’inizio dell’emergenza sanitaria, versano oggi in situazioni di gravissima difficoltà, come testimoniano anche i recenti dati della Caritas sull’aumento della povertà assoluta e relativa.
La Sardegna ha bisogno, dunque, di interventi concreti sulle politiche per la famiglia, i giovani, il lavoro e le imprese, la questione ambientale, la sanità, la scuola, le infrastrutture, l’Università, la ricerca, le nuove tecnologie, la lotta alla corruzione.
3. La buona politica
Sulle orme di Papa Francesco chiediamo per la Sardegna “l’urgenza della buona politica; non di quella asservita alle ambizioni individuali o alla prepotenza di fazioni o centri di interessi. Una politica che non sia né serva né padrona, ma amica e collaboratrice; non paurosa o avventata, ma responsabile e quindi coraggiosa e prudente nello stesso tempo; che faccia crescere il coinvolgimento delle persone, la loro progressiva inclusione e partecipazione; che non lasci ai margini alcune categorie, che non saccheggi e inquini le risorse naturali […] che sappia armonizzare le legittime aspirazioni dei singoli e dei gruppi tenendo il timone ben saldo sull’interesse dell’intera cittadinanza”
L’obiettivo principale della Politica deve essere, in questo frangente, la salvezza della la dignità delle persone, concentrando ogni sforzo sul lavoro, sulla ricerca del bene comune e non sull’assistenzialismo.
4. Piano straordinario e Piano per la Rinascita
Si metta perciò a punto un piano straordinario di investimenti da far partire al più presto, non oltre il 1° gennaio 2021. Quando la moratoria statale sui licenziamenti finirà e termineranno le risorse straordinarie per la cassa integrazione, gran parte dei lavoratori più deboli e meno qualificati perderà il lavoro col rischio più che concreto di rimanere intrappolata in una condizione di impoverimento per lungo tempo. Pertanto è necessario fin da ora intervenire con determinazione, anche con provvedimenti legislativi straordinari, sulle ben note emergenze create dalla pandemia.
Ma anche risulta indispensabile elaborare la fase della ricostruzione con un Piano per la Rinascita da costruire da parte delle Istituzioni con la collaborazione delle parti sociali – datoriali e sindacali – dei cittadini e delle loro organizzazioni, nella pratica della sussidiarietà, affinché si immaginino e si costruiscano percorsi di riqualificazione e affiancamento sociale condivisi e in grado di traghettare non solo le vittime del lockdown, ma l’intera Sardegna nella fase del post Covid. Questo piano indispensabile anche per utilizzare al meglio le ingenti risorse, che dovrebbero arrivare dal Recovery fund dell’Unione Europea. Si corre il rischio, infatti, che tali risorse vengano male utilizzate o sprecate se non si dovessero avere le idee chiare sulla loro destinazione e modalità d’impiego.
5. Unità per il bene della Sardegna
Come cattolici apprezziamo e sosteniamo il valore e l’importanza del pluralismo e della dialettica tra le forze politiche. Ma oggi, in questi tempi straordinari, le contrapposizioni devono mitigarsi lasciando posto al perseguimento di una grande unità tra le forze politiche e istituzionali. Il bene della Sardegna e della sua gente vale molto di più di piccoli vantaggi elettorali.
Speravamo tutti che questa pandemia da Covid-l9 cessasse e si potesse riprendere la vita nella sua normalità. Ma non è così. L’emergenza non sarà di breve durata e siamo certi che molto non sarà più come prima e che dobbiamo acquistare capacità politica di disegnare e realizzare nuovi e inediti scenari, come abbiamo cercato di argomentare in questo scritto.
Nell’esperienza drammatica che stiamo vivendo, e che ci ha fatto toccare con mano quanto siamo collegati e interdipendenti, ci è consegnata questa lezione: come il contagio avviene per contatto anche l’uscita dall’emergenza è possibile nel fare corpo unico. Non ci si salva da soli.
6. «Non sprechiamo la crisi!»
Rammentiamo in conclusione il recente messaggio della Conferenza Episcopale Italiana alle comunità cristiane in tempo di pandemia: “Viviamo una fase complessa della storia mondiale, che può anche essere letta come una rottura rispetto al passato, per avere un disegno nuovo, più umano, sul futuro. «Perché peggio di questa crisi, c’è solo il dramma di sprecarla, chiudendoci in noi stessi» (Papa Francesco, Omelia nella Solennità di Pentecoste, 31 maggio 2020)”.
Noi, cattolici sardi, raccogliamo queste esortazioni e chiamiamo tutte e tutti agli impegni che sinteticamente e sicuramente non esaurientemente abbiamo delineato in questo nostro appello.
Cagliari, giovedì 26 novembre 2020
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Seguono le firme
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The Economy of Francesco
The Economy of Francesco, 21 novembre 2020
Noi giovani economisti, imprenditori, change makers del mondo, convocati ad Assisi da Papa Francesco, nell’anno della pandemia di COVID-19, vogliamo mandare un messaggio agli economisti, imprenditori, decisori politici, lavoratrici e lavoratori, cittadine e cittadini del mondo, per trasmettere la gioia, le esperienze, le speranze, le sfide che in questo periodo abbiamo maturato e raccolto ascoltando la nostra gente e il nostro cuore. Siamo convinti che non si costruisce un mondo migliore senza una economia migliore e che l’economia è troppo importante per la vita dei popoli e dei poveri per non occuparcene tutti. Per questo, a nome dei giovani e dei poveri della Terra, noi chiediamo che:
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The Economy of Francesco
Videomessaggio del Santo Padre Francesco ai partecipanti all’Incontro internazionale “Economy of Francesco – Papa Francesco e i giovani da tutto il mondo per l’economia di domani” (Assisi, 19 – 21 novembre 2020), 21.11.2020
Videomessaggio del Santo Padre
Pubblichiamo di seguito il testo del Videomessaggio che il Santo Padre Francesco ha inviato, a conclusione dei lavori, ai partecipanti all’Incontro internazionale “Economy of Francesco – Papa Francesco e i giovani da tutto il mondo per l’economia di domani”, in corso ad Assisi – in diretta streaming – dal 19 al 21 novembre 2020:
Cari giovani, buon pomeriggio!
Grazie per essere lì, per tutto il lavoro che avete fatto, per l’impegno di questi mesi, malgrado i cambi di programma. Non vi siete scoraggiati, anzi, ho conosciuto il livello di riflessione, la qualità, la serietà e la responsabilità con cui avete lavorato: non avete tralasciato nulla di ciò che vi dà gioia, vi preoccupa, vi indigna e vi spinge a cambiare.
L’idea originaria era di incontrarci ad Assisi per ispirarci sulle orme di San Francesco. Dal Crocifisso di San Damiano e da tanti altri volti – come quello del lebbroso – il Signore gli è andato incontro, lo ha chiamato e gli ha affidato una missione; lo ha spogliato degli idoli che lo isolavano, delle perplessità che lo paralizzavano e lo chiudevano nella solita debolezza del “si è sempre fatto così” – questa è una debolezza! – o della tristezza dolciastra e insoddisfatta di quelli che vivono solo per sé stessi e gli ha regalato la capacità di intonare un canto di lode, espressione di gioia, libertà e dono di sé. Perciò, questo incontro virtuale ad Assisi per me non è un punto di arrivo ma la spinta iniziale di un processo che siamo invitati a vivere come vocazione, come cultura e come patto.
La vocazione di Assisi
“Francesco va’, ripara la mia casa che, come vedi, è in rovina”. Queste furono le parole che smossero il giovane Francesco e che diventano un appello speciale per ognuno di noi. Quando vi sentite chiamati, coinvolti e protagonisti della “normalità” da costruire, voi sapete dire “sì”, e questo dà speranza. So che avete accettato immediatamente questa convocazione, perché siete in grado di vedere, analizzare e sperimentare che non possiamo andare avanti in questo modo: lo ha mostrato chiaramente il livello di adesione, di iscrizione e di partecipazione a questo patto, che è andato oltre le capacità. Voi manifestate una sensibilità e una preoccupazione speciali per identificare le questioni cruciali che ci interpellano. L’avete fatto da una prospettiva particolare: l’economia, che è il vostro ambito di ricerca, di studio e di lavoro. Sapete che urge una diversa narrazione economica, urge prendere atto responsabilmente del fatto che «l’attuale sistema mondiale è insostenibile da diversi punti di vista»[1] e colpisce nostra sorella terra, tanto gravemente maltrattata e spogliata, e insieme i più poveri e gli esclusi. Vanno insieme: tu spogli la terra e ci sono tanti poveri esclusi. Essi sono i primi danneggiati… e anche i primi dimenticati.
Attenzione però a non lasciarsi convincere che questo sia solo un ricorrente luogo comune. Voi siete molto più di un “rumore” superficiale e passeggero che si può addormentare e narcotizzare con il tempo. Se non vogliamo che questo succeda, siete chiamati a incidere concretamente nelle vostre città e università, nel lavoro e nel sindacato, nelle imprese e nei movimenti, negli uffici pubblici e privati con intelligenza, impegno e convinzione, per arrivare al nucleo e al cuore dove si elaborano e si decidono i temi e i paradigmi.[2] Tutto ciò mi ha spinto a invitarvi a realizzare questo patto. La gravità della situazione attuale, che la pandemia del Covid ha fatto risaltare ancora di più, esige una responsabile presa di coscienza di tutti gli attori sociali, di tutti noi, tra i quali voi avete un ruolo primario: le conseguenze delle nostre azioni e decisioni vi toccheranno in prima persona, pertanto non potete rimanere fuori dai luoghi in cui si genera, non dico il vostro futuro, ma il vostro presente. Voi non potete restare fuori da dove si genera il presente e il futuro. O siete coinvolti o la storia vi passerà sopra.
Una nuova cultura
Abbiamo bisogno di un cambiamento, vogliamo un cambiamento, cerchiamo un cambiamento.[3] Il problema nasce quando ci accorgiamo che, per molte delle difficoltà che ci assillano, non possediamo risposte adeguate e inclusive; anzi, risentiamo di una frammentazione nelle analisi e nelle diagnosi che finisce per bloccare ogni possibile soluzione. In fondo, ci manca la cultura necessaria per consentire e stimolare l’apertura di visioni diverse, improntate a un tipo di pensiero, di politica, di programmi educativi, e anche di spiritualità che non si lasci rinchiudere da un’unica logica dominante.[4] Se è urgente trovare risposte, è indispensabile far crescere e sostenere gruppi dirigenti capaci di elaborare cultura, avviare processi – non dimenticatevi questa parola: avviare processi – tracciare percorsi, allargare orizzonti, creare appartenenze… Ogni sforzo per amministrare, curare e migliorare la nostra casa comune, se vuole essere significativo, richiede di cambiare «gli stili di vita, i modelli di produzione e di consumo, le strutture consolidate di potere che oggi reggono le società».[5] Senza fare questo, non farete nulla.
Abbiamo bisogno di gruppi dirigenti comunitari e istituzionali che possano farsi carico dei problemi senza restare prigionieri di essi e delle proprie insoddisfazioni, e così sfidare la sottomissione – spesso inconsapevole – a certe logiche (ideologiche) che finiscono per giustificare e paralizzare ogni azione di fronte alle ingiustizie. Ricordiamo, ad esempio, come bene osservò Benedetto XVI, che la fame «non dipende tanto da scarsità materiale, quanto piuttosto da scarsità di risorse sociali, la più importante delle quali è di natura istituzionale».[6] Se voi sarete capaci di risolvere questo, avrete la via aperta per il futuro. Ripeto il pensiero di Papa Benedetto: la fame non dipende tanto da scarsità materiale, quanto piuttosto da scarsità di risorse sociali, la più importante delle quali è di natura istituzionale.
La crisi sociale ed economica, che molti patiscono nella propria carne e che sta ipotecando il presente e il futuro nell’abbandono e nell’esclusione di tanti bambini e adolescenti e di intere famiglie, non tollera che privilegiamo gli interessi settoriali a scapito del bene comune. Dobbiamo ritornare un po’ alla mistica [allo spirito] del bene comune. In questo senso, permettetemi di rilevare un esercizio che avete sperimentato come metodologia per una sana e rivoluzionaria risoluzione dei conflitti. Durante questi mesi avete condiviso varie riflessioni e importanti quadri teorici. Siete stati capaci di incontrarvi su 12 tematiche (i “villaggi”, voi li avete chiamati): 12 tematiche per dibattere, discutere e individuare vie praticabili. Avete vissuto la tanto necessaria cultura dell’incontro, che è l’opposto della cultura dello scarto, che è alla moda. E questa cultura dell’incontro permette a molte voci di stare intorno a uno stesso tavolo per dialogare, pensare, discutere e creare, secondo una prospettiva poliedrica, le diverse dimensioni e risposte ai problemi globali che riguardano i nostri popoli e le nostre democrazie.[7] Com’è difficile progredire verso soluzioni reali quando si è screditato, calunniato e decontestualizzato l’interlocutore che non la pensa come noi! Questo screditare, calunniare o decontestualizzare l’interlocutore che non la pensa come noi è un modo di difendersi codardamente dalle decisioni che io dovrei assumere per risolvere tanti problemi. Non dimentichiamo mai che «il tutto è più delle parti, ed è anche più della loro semplice somma»[8], e che «la mera somma degli interessi individuali non è in grado di generare un mondo migliore per tutta l’umanità».[9]
Questo esercizio di incontrarsi al di là di tutte le legittime differenze è il passo fondamentale per qualsiasi trasformazione che aiuti a dar vita a una nuova mentalità culturale e, quindi, economica, politica e sociale; perché non sarà possibile impegnarsi in grandi cose solo secondo una prospettiva teorica o individuale senza uno spirito che vi animi, senza alcune motivazioni interiori che diano senso, senza un’appartenenza e un radicamento che diano respiro all’azione personale e comunitaria.[10]
Così il futuro sarà un tempo speciale, in cui ci sentiamo chiamati a riconoscere l’urgenza e la bellezza della sfida che ci si presenta. Un tempo che ci ricorda che non siamo condannati a modelli economici che concentrino il loro interesse immediato sui profitti come unità di misura e sulla ricerca di politiche pubbliche simili che ignorano il proprio costo umano, sociale e ambientale.[11] Come se potessimo contare su una disponibilità assoluta, illimitata o neutra delle risorse. No, non siamo costretti a continuare ad ammettere e tollerare in silenzio nei nostri comportamenti «che alcuni si sentano più umani di altri, come se fossero nati con maggiori diritti»[12] o privilegi per il godimento garantito di determinati beni o servizi essenziali.[13] Non basta neppure puntare sulla ricerca di palliativi nel terzo settore o in modelli filantropici. Benché la loro opera sia cruciale, non sempre sono capaci di affrontare strutturalmente gli attuali squilibri che colpiscono i più esclusi e, senza volerlo, perpetuano le ingiustizie che intendono contrastare. Infatti, non si tratta solo o esclusivamente di sovvenire alle necessità più essenziali dei nostri fratelli. Occorre accettare strutturalmente che i poveri hanno la dignità sufficiente per sedersi ai nostri incontri, partecipare alle nostre discussioni e portare il pane alle loro case. E questo è molto più che assistenzialismo: stiamo parlando di una conversione e trasformazione delle nostre priorità e del posto dell’altro nelle nostre politiche e nell’ordine sociale.
In pieno secolo XXI, «non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori».[14] State attenti a questo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. È la cultura dello scarto, che non solamente scarta, bensì obbliga a vivere nel proprio scarto, resi invisibili al di là del muro dell’indifferenza e del confort.
Io ricordo la prima volta che ho visto un quartiere chiuso: non sapevo che esistessero. È stato nel 1970. Sono dovuto andare a visitare dei noviziati della Compagnia, e sono arrivato in un Paese, e poi, andando per la città, mi hanno detto: “No, da quella parte non si può andare, perché quello è un quartiere chiuso”. Dentro c’erano dei muri, e dentro c’erano le case, le strade, ma chiuso: cioè un quartiere che viveva nell’indifferenza. A me colpì tanto vedere questo. Ma poi questo è cresciuto, cresciuto, cresciuto…, ed era dappertutto. Ma io ti domando: il tuo cuore è come un quartiere chiuso?
Il patto di Assisi
Non possiamo permetterci di continuare a rimandare alcune questioni. Questo enorme e improrogabile compito richiede un impegno generoso nell’ambito culturale, nella formazione accademica e nella ricerca scientifica, senza perdersi in mode intellettuali o pose ideologiche – che sono isole –, che ci isolino dalla vita e dalla sofferenza concreta della gente.[15] È tempo, cari giovani economisti, imprenditori, lavoratori e dirigenti d’azienda, è tempo di osare il rischio di favorire e stimolare modelli di sviluppo, di progresso e di sostenibilità in cui le persone, e specialmente gli esclusi (e tra questi anche sorella terra), cessino di essere – nel migliore dei casi – una presenza meramente nominale, tecnica o funzionale per diventare protagonisti della loro vita come dell’intero tessuto sociale.
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Cambiare si può, cambiare si deve
Impegnati nella divulgazione (e nel dibattito relativo) delle due encicliche di Papa Francesco, facciamo seguito ai numerosi interventi già ospitati dalla nostra News e, in particolare, all’ultimo editoriale del direttore, per dare spazio all’importante contributo di Mario Agostinelli, che sotto riportiamo integralmente dalla rivista online Sbilanciamoci!.
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Da Laudato Si’ a Fratelli Tutti: lavoro e conflitto sociale oltre lo sviluppo
di Mario Agostinelli
Sbilanciamoci! 11 Novembre 2020 | Sezione: Alter, Lavoro, primo piano.
Papa Francesco a cinque anni di distanza dalla Laudato Si’ ci propone con Fratelli Tutti un nuovo cambio di paradigma che dall’emergenza climatica mette al centro questa in rapporto al lavoro. Una riflessione sul cambiamento antropologico che serve all’umanità.
Dopo cinque anni di esperienza a contatto di una Associazione che ha preso ispirazione dall’Enciclica Laudato Si’, traggo la convinzione che le resistenze politico-culturali, oltre che ad un irresponsabile rigetto del monito di Francesco, siano dovute principalmente al rifiuto di separarsi definitivamente dall’idea dello “sviluppo”. Un rifiuto che continua ad alimentare un’illusione rivelatasi al fondo un disastro: che cioè l’aumento della torta da spartire in base alla crescita non avrebbe trovato limiti nelle risorse della biosfera e non avrebbe fatto i conti con la rapacità del sistema capitalista nell’appropriarsi delle ricchezze provenienti dal lavoro e dalla natura. Occorre riconoscere che anche tra le maglie del progressismo lo sviluppo è stato insignito di un favore largo, nella convinzione che le nazioni “avanzate” potessero indicare ai paesi ritardatari la strada da intraprendere per allinearsi e misurare il miglioramento della loro prestazione economica misurata dal PIL. Dopo aver preso in custodia la loro economia, la sbalorditiva varietà dei popoli si sarebbe ridotta ad una classifica basata sul debito contratto e preteso e sulla ricchezza prodotta e immancabilmente depredata. Almeno dal secondo dopoguerra fino al suo declino con l’inizio del nuovo secolo, questa riduzione delle differenze culturali, sociali, naturali, che fanno dell’umanità un punto di osservazione plurale e cosciente della biosfera entro cui convive, ha tenuto banco, contaminando la gran parte delle culture politiche. Le merci e il loro consumo si son eretti a mezzo di comunicazione quando non a scopo dell’esistenza e si è creato uno spazio sociale transnazionale nel quale il tempo veniva ad essere in continua accelerazione. Rompere uno schema così potenzialmente inclusivo, eppure distruttivo, è il compito che Francesco si è dato ed è la misura dell’ostilità incontrata da un autentico capovolgimento di valori.
Le élite mondiali ed i media transnazionali si sforzano di dare credibilità ad una loro rappresentazione della civiltà industriale che garantisca in prospettiva il livello minimo dei diritti umani e delle condizioni ambientali, assicurando comunque per l’impresa la massimizzazione dei profitti. Ma non esiste misura per trovare un equilibrio tra i tre contendenti, se non la pratica di un conflitto in cui lavoro e natura stanno dalla stessa parte. Un conflitto giunto ad un punto di rottura che riguarda la messa in discussione radicale del sistema. Sono i fatti a dimostrare che il ricorso senza limiti al consumo di natura ed i danni provocati dallo sfruttamento del lavoro tramutano quello che viene spacciato per sviluppo – un termine ormai privo di significati positivi – nel lento declino della vita vegetale e animale. Di fatto, si tratta di un pezzo di archeologia ormai in decomposizione quanto l’antropocentrismo e tanto meno attrattivo per le nuove generazioni, quanto più logorato dall’ingiustizia sociale e dal danno alla salute che ne hanno accompagnato la parabola. Non solo nelle parole del papa, ma nelle stesse preoccupazioni della scienza, esso, da consunta utopia, cede ormai il passo ad un bisogno di sopravvivenza, che può sussistere solo in armonia con la natura e come tensione cosciente verso una storia in comune, fatta di innumerevoli relazioni ed interconnessioni, visibili o invisibili, di cui “niente ci risulta indifferente”. Siamo, insomma, ad una svolta storica, ad una scoperta e, dall’altro lato, ad un “necrologio” – come afferma Wolfgang Sachs – che non a caso non ci è dato di elaborare quanto prima possibile. Possiamo però chiederci perché e cercare di scorgere quale sia il passo in avanti compiuto dalla seconda enciclica, che, al di là di ogni dubbio, tratta esplicitamente di politica e di un soggetto politico da definire nelle stesse settimane in cui Trump non risulta un semplice incidente, dal momento che non solo negli USA, ma anche vicino a noi si manifestano compulsioni che si riflettono in lui come in uno specchio.
Nonostante non ci fosse angoscia nelle pagine di una Enciclica premonitrice che invita a “camminare cantando”, ma una carica avvincente al rinnovamento, non è bastata la sintonia con l’affermarsi del movimento degli studenti di Greta né il crescente protagonismo delle donne in ogni regione del mondo, per incrociare un linguaggio o una pratica che imprimessero correzioni all’agenda dei governanti. Probabilmente lo stesso Francesco, così ostinatamente coerente ad ogni sua esternazione pubblica, riconosce che la Laudato Si’ peccò di ottimismo e non ci sono stati gli effetti sperati. Oltretutto, sulla scena globale, se si fa eccezione per qualche movimento degli “ignudi” nelle campagne o nelle foreste, il mondo del lavoro nel complesso si è mostrato incerto o poco attivo, mentre nel disagio sociale la democrazia ha fatto passi indietro, lasciando il campo ad una politica ostile all’austerità, insensibile ai limiti della natura e orientata all’economia dello scarto. Così, la nuova leva di leader autoritari e le corporation globali non hanno affatto desistito nel loro percorso involutivo: anzi, hanno concordemente intuito che, con la fine dell’era fossile e la limitazione dell’estrazione delle risorse naturali, la sconfitta inferta negli ultimi decenni a danno del bene comune e delle classi meno abbienti si sarebbe potuta arrestare se non addirittura ribaltare. Per il capitalismo globalizzato è parso giungere il momento per rendere ancora più aspro il conflitto con la crescente massa dei salariati e più pressante l’alienazione degli ultimi, sia nei confronti del lavoro sia verso la natura. Nelle strette di un cambio di passo con la pretesa di una resa dei conti, si è fatta strada – non solo ai piani alti, ma in molte fasce di popolazione temporaneamente protette – un’interpretazione del futuro prossimo del tutto incompatibile con il pensiero del pontefice argentino: non ci sarebbe stato più spazio per tutti gli scartati sul pianeta; il simulacro del PIL e il ruolo della finanza avrebbero assicurata la competizione più ostile e avida nei mercati; perfino l’idea di sviluppo si sarebbe potuta mettere in dubbio, ma avrebbe resistito all’erosione purché la si colorasse “un poco di verde”. A ruota, i media si sono distinti, da un versante, nel negare che fosse necessaria una rottura per riprogrammare modi e finalità di una produzione che aggredisce salute, ambiente e vite, da un altro, nel far sparire nel silenzio le domande più coinvolgenti sulla portata dell’Antropocene e sul ruolo non settario delle religioni in un mondo dilaniato ed in decomposizione ed in un tempo che sta tragicamente venendo a mancare (interrogativi consegnati ad una reazione niente affatto scontata, così ben rimarcati e rappresentati da un riflesso bianco che avanza nel buio di un Venerdì di pioggia in una piazza San Pietro deserta…).
La posta oggi è alta; forse più di quanto lo fosse cinque anni addietro, perché la pandemia ha accorciato ancor più i tempi. Ed è pertanto in un contesto aggravato che dobbiamo valutare il “rilancio” di Bergoglio attraverso la nuova enciclica “Fratelli Tutti”. Fortunatamente, Landini, i metalmeccanici e il sindacato stanno ribattendo senza arretramenti all’offensiva di Confindustria in una partita apertissima, il cui esito sarebbe ancora più incerto se terreni di scontro tra loro disconnessi si frazionassero ulteriormente. Non arriverei certo qui a sostenere che ci debba essere un nesso tra due versanti – i contratti e la predicazione – ovviamente autonomi e indipendenti. Ma come non riconoscere che il mondo cui si rivolge Francesco abbia necessità di poter contare anche sulla riconversione della produzione verso valori d’uso condivisi e sulla dignità del lavoro, affinché si possa aver cura della Terra, del clima e della giustizia sociale? Basta leggere – e rileggere, se occorre – il testo firmato il 3 di Ottobre del 2020 nella Basilica di Assisi. Il papa riprende sul terreno esplicito dove si sarebbe dovuta collocare la politica – cosa che quest’ultima non ha fatto – l’intero discorso del cambiamento strutturale antropologico, economico, finanziario e sociale auspicato, ma platealmente eluso. Ovviamente non si ripete, ma articola su altri temi e terreni la stessa provocazione di un cambio d’era evocata un lustro prima. Una boccata d’aria per credenti, non credenti, movimenti popolari, democrazie, forze sociali, forze politiche impegnate in cantieri spesso smarriti: un messaggio ed una alleanza da non lasciarsi sfuggire, anche se risulterà complesso comporre il quadro entro cui superare e sconfiggere l’involuzione nazionalista, populista e xenofoba, che comprime gli scarti e le povertà che dilagano nella società mondiale.
Parlo di alleanza da costruire perché abbiamo a che fare più con una pietra angolare che non con un edificio già strutturato. La diagnosi papale dei mali del mondo è oggettiva ed esplicita, ma la “pars construens”, anche quando luminosa e circostanziata, resta debole. Manca un anello: non è un limite di pensiero o di intenti, è un guasto – forse irreparabile – nell’ordine delle cose: la fraternità e l’amore universale non hanno ancora la forza che ha animato i movimenti politici in nome della libertà e dell’uguaglianza. A meno che, con il capovolgimento che nella Lettera viene concepito come una nuova gerarchia nella triade libertà-uguaglianza-fraternità si riscopra un primato di sorellanza e fratellanza tra gli individui ed un rapporto nuovo tra loro e la natura mediato dal lavoro: un lavoro che, avrebbero detto Marx ed Engels di metà Ottocento , “produce l’accrescimento della natura umanizzata senza provocare la scomparsa della primordiale natura amica”, ovvero, un lavoro che si autolimita a creare valore d’uso in un mondo in cui la sufficienza soppianta l’efficienza e il profitto cessa di essere identificato col fare impresa.
Dopo le sconfitte, rimangono due certezze: rivalutare la memoria come fonte di valori inalienabili e dare titolo di rappresentanza al fondo del barile dell’ingiustizia sociale e ambientale. Non sorprende allora se si dichiara senza mezzi termini che “Il diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto naturale secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati”, con un attacco frontale al principio su cui si regge un sistema capitalistico sempre più raffinato e corroborato dalla tecnocrazia. E non ci si stupisce nemmeno quando viene ribadita “la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata”, riprendendo così, all’interno delle contraddizioni laceranti tra sistema d’impresa, società e natura, il contestatissimo art. 41 di una Costituzione di democrazia sociale come quella della nostra Repubblica. Tanto meno meraviglia il ricorso ad una “consapevole coltivazione della fraternità”, come antidoto alla restrizione della libertà quando questa appaga solo per possedere o godere e come inveramento di una uguaglianza, che, se è definita solo in astratto, viene in realtà minata dall’individualismo competitivo.
Affermazioni non proprio ordinarie e difficili da elaborare sui due piedi dai commentatori di routine, che ne sono usciti spaesati, preferendo parlare di sé, anziché di un contenuto davvero complesso. Ci hanno provato infatti subito da destra, dando al papa del comunista, (Marcello Veneziani), dal centro, citando la triade della Rivoluzione Francese come “ponte” tra Illuminismo e Cattolicesimo e lamentando una tardiva rivalutazione della tecnica (Massimo Cacciari) ed anche da sinistra, richiamando la sproporzione tra ricchezza delle denunce e scarsezza dei rimedi (Pietro Stefani).
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Cambiare si può, cambiare si deve
Riflessioni su alcune importanti questioni trattate dall’enciclica “Fratelli tutti” di Papa Francesco, e correlazioni con analoghi concetti sviluppati nel mondo laico*.
di Franco Meloni
BENI COMUNI e PROPRIETA’ PRIVATA
Il Papa dedica una parte dell’ultima sua enciclica “Fratelli tutti” ad alcuni concetti che, se pur antichi, oggi si ripropongono in maniera dirompente. Si tratta del diritto alla proprietà privata che deve comunque sottostare al primato del bene comune: parole sul tema che hanno destato scalpore, peraltro del tutto strumentale e superficiale.
Ricordiamo solo alcuni tra i molti titoli dei media al riguardo: “La svolta a sinistra di Bergoglio: «La proprietà non è intoccabile»”. “Bergoglio all’attacco della proprietà privata”. E così via (1).
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Il Papa aveva probabilmente previsto tali reazioni, scontate da oppositori con posizioni preconcette, meno da altri opinionisti, anche considerato che non propone altro di diverso dalla consolidata dottrina sociale della Chiesa, certo – ed è questa la novità – ridandole nuovo vigore per rispondere alle esigenze attuali dell’umanità, degli ultimi e dei diseredati in primo luogo.
Sostiene il Papa [FT 120]: ”Di nuovo faccio mie e propongo a tutti alcune parole di San Giovanni Paolo II, la cui forza non è stata forse compresa: «Dio ha dato la terra a tutto il genere umano, perché essa sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né privilegiare nessuno». In questa linea ricordo che «la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata, e ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata». Il principio dell’uso comune dei beni creati per tutti è il «primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale», è un diritto naturale, originario e prioritario. Tutti gli altri diritti sui beni necessari alla realizzazione integrale delle persone, inclusi quello della proprietà privata e qualunque altro, «non devono quindi intralciare, bensì, al contrario, facilitarne la realizzazione», come affermava San Paolo VI. Il diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto naturale secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati, e ciò ha conseguenze molto concrete, che devono riflettersi sul funzionamento della società. Accade però frequentemente che i diritti secondari si pongono al di sopra di quelli prioritari e originari, privandoli di rilevanza pratica”.
Se ci pensiamo bene il Papa non va oltre i principi ribaditi da alcune avanzate Costituzioni europee, tra cui esemplarmente quella italiana, che all’art. 41 recita: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. Nonché all’interno dell’art. 42: «La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti».
Ma la parte più avanzata e oggi di estrema attualità è quella che riguarda i ben comuni. La FT riprende concetti molto chiari formulati al riguardo nella LS [93]: ”Oggi, credenti e non credenti sono d’accordo sul fatto che la terra è essenzialmente una eredità comune, i cui frutti devono andare a beneficio di tutti. Per i credenti questo diventa una questione di fedeltà al Creatore, perché Dio ha creato il mondo per tutti. Di conseguenza, ogni approccio ecologico deve integrare una prospettiva sociale che tenga conto dei diritti fondamentali dei più svantaggiati. Il principio della subordinazione della proprietà privata alla destinazione universale dei beni e, perciò, il diritto universale al loro uso, è una “regola d’oro” del comportamento sociale, e il «primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale». La tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata, e ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata. San Giovanni Paolo II ha ricordato con molta enfasi questa dottrina, dicendo che «Dio ha dato la terra a tutto il genere umano, perché essa sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né privilegiare nessuno». Sono parole pregnanti e forti. Ha rimarcato che «non sarebbe veramente degno dell’uomo un tipo di sviluppo che non rispettasse e non promuovesse i diritti umani, personali e sociali, economici e politici, inclusi i diritti delle Nazioni e dei popoli». Con grande chiarezza ha spiegato che «la Chiesa difende sì il legittimo diritto alla proprietà privata, ma insegna anche con non minor chiarezza che su ogni proprietà privata grava sempre un’ipoteca sociale, perché i beni servano alla destinazione generale che Dio ha loro dato». Pertanto afferma che «non è secondo il disegno di Dio gestire questo dono in modo tale che i suoi benefici siano a vantaggio soltanto di alcuni pochi». Questo mette seriamente in discussione le abitudini ingiuste di una parte dell’umanità”. Ecco in queste affermazioni sta, a mio parere, la carica dirompente dell’enciclica, anzi delle due encicliche: l’Umanità vive la sua Terra, di cui ha diritto di beneficiare, amministrandola come bene comune da preservare e trasmettere alle generazioni future.
Sulla questione dei beni comuni – concetto sviluppato negli ambiti della filosofia, dell’etica, della scienza politica, della giurisprudenza e della religione, da tempo immemorabile – per gli aspetti che interessano l’odierna realtà, il Papa s’inserisce in un grande attuale dibattito, che a livello internazionale aveva trovato un momento di sintesi e riproposizione nelle elaborazioni di Elinor Ostrom, premio Premio Nobel per l’economia 2009. In Italia il dibattito si è assopito dopo la scomparsa dell’illustre politico e giurista Stefano Rodotà, che della questione era il massimo esperto, soprattutto per gli aspetti giuridici, anche se occorre segnalare una buona ripresa di attenzione, più culturale che politica, con l’iniziativa di un apposito Comitato denominato Generazioni future (2).
Troviamo in questi concetti una bellissima assonanza con il movimento «Costituente Terra», promosso da intellettuali credenti e non credenti, tra i quali Raniero La Valle, Luigi Ferrajoli, Paola Paesano, Adolfo Pérez Esquivel, Anna Falcone, il vescovo Raffaele Nogaro, Mariarosaria Guglielmi, Domenico Gallo e molti altri, che persegue “l’obiettivo di un costituzionalismo mondiale e di una Costituzione della Terra, da raggiungersi attraverso gli opportuni strumenti politici e di pensiero (…) per suscitare il pensiero politico dell’unità del popolo della Terra, disimparare l’arte della guerra e promuovere un costituzionalismo mondiale”. Presupposto di tale iniziativa è la persuasione che comincia una nuova fase della storia umana e occorrono politiche e istituzioni adeguate alle dimensioni globali e fino a ieri del tutto imprevedibili della vita sulla terra. Si tratta infatti di rispondere alle sfide, cresciute esponenzialmente, alla vita pacifica e alla stessa sopravvivenza dell’umanità, e di avviare la costruzione di una nuova soggettività politica e giuridica mondiale, quale espressione dell’intero popolo della Terra. Ciò è favorito oggi da una condizione mai verificatasi prima, ovvero l’imporsi del fenomeno detto «globalizzazione» o «mondializzazione» e il solenne riconoscersi delle grandi religioni nella comune fraternità umana” (3).
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Per correlazione con le riflessioni sull’enciclica “Fratelli tutti”, particolarmente sulla questione della proprietà privata e dei beni comuni, constatiamo l’assonanza delle considerazioni di Papa Francesco con quelle di molti intellettuali del mondo laico. Tra questi citiamo Thomas Piketty e Mariana Mazzucato, cogliendo l’occasione di un interessante articolo di Valentina Pazé sul sito Volerelaluna (4). L’intervento riguarda sopratutto Piketty, del quale Pazé recensisce il poderoso ultimo libro Capitale e ideologia (La nave di Teseo, 2020). Solo una citazione è dedicata al libro di Mariana Mazzucato, dal significativo titolo
“Non sprechiamo questa crisi” (Laterza, 2020), che riecheggia il monito di Papa Francesco nella messa celebrata il 31 maggio scorso nella basilica di San Pietro, per la solennità di Pentecoste, dopo le misure restrittive imposte dalla pandemia: “Peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla”.
NOTE
(1) Da “Il giornale” del 4 ottobre 2020
La svolta a sinistra di Bergoglio: “La proprietà non è intoccabile”
di Francesco Boezi su Il giornale del 4/10/2020.
[Il Papa nella "Fratelli Tutti"] “rilegge l’accezione giuridica di “proprietà”, sottolineandone la “funzione sociale”. E questo potrebbe essere un passaggio criticato nella misura in cui la proprietà viene associata dalla prassi, dalla giurisprudenza e dalla tradizione occidentale ad un diritto assoluto [?]. Bergoglio scrive che “la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata, e ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata”. (…) sembra lecito immaginare che l’enclica del Papa possa essere attaccata dalla destra ecclesiastica. Il punto più discusso – lo ripetiamo – dovrebbe essere la concettualizzazione attorno al valore della “proprietà”. Se il fronte tradizionale criticasse il pontefice argentino, allora verrebbe messo in campo l’ennesimo accostamento di Bergoglio al marxismo o alla teologia della liberazione”.
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L’ideologia della fratellanza in Bergoglio
Sul blog di Marcello Veneziani, accreditato intellettuale della destra, 6 ottobre 2020
“«Fratelli tutti» è il manifesto ideologico del bergoglismo. (…) La parola comunismo è dimenticata da Bergoglio, anche se alcune sue eredità appaiono in lui, a cominciare dall’attacco alla proprietà privata”.
(2) Tra i testi fondamentali c’è, ovviamente, “Governare i beni collettivi” di Elinor Ostrom (Marsilio Editore), premio Premio Nobel 2009 per l’economia, insieme a Oliver Williamson, per l’analisi della governance e, in particolare, delle risorse comuni (vedasi: https://it.wikipedia.org/wiki/Elinor_Ostrom). In Italia principali riferimenti sono gli studi di Stefano Rodotà. Meritoriamente un Comitato denominato Generazioni future, guidato dal prof. Ugo Mattei, ha di recente ripreso l’iniziativa, tra l’altro proponendo una legge di iniziativa popolare. Informazioni sul sito web https://generazionifuture.org. Alcuni riferimenti: Il concetto di “beni comuni” è da individuare concretamente nelle “cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona (…) che devono essere tutelati e salvaguardati dall’ordinamento giuridico, anche a beneficio delle generazioni future” e dei quali favorire la fruibilità e la gestione da parte dei cittadini attivi e organizzati in accordo con le Pubbliche amministrazioni. La categoria dei “beni comuni” è immensa. Il primo bene comune universale è la terra, nella sua generalità (superficie e sottosuolo), da utilizzare a beneficio di tutti, nel rispetto dei limiti imposti dall’ordinamento giuridico. E possiamo continuare in un’elencazione di dettaglio, non certo esauriente, traendola dalle elaborazioni della Commissione Rodotà (2007/2008): “i fiumi, i torrenti e le loro sorgenti; i laghi e le altre acque; l’aria; i parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi e i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate”.
(3) Le informazioni sul movimento “Costituente Terra” sono presenti sul sito web dedicato http://www.costituenteterra.it
(4) Sostiene Piketty (ovvero, cambiare si può)
09-11-2020 – di Valentina Pazé su Volerelaluna.
* Sigle utilizzate nel corpo dell’articolo: LS per la Laudato si’; FT per la Fratelli tutti.
L’Italia e il Goal 1: contro l’impoverimento serve una strategia integrata
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