Risultato della ricerca: povertà

NGE Recovery Plan. Il Sud penalizzato. Focus sulle infrastrutture dei trasporti.

zoom_sudIL DOCUMENTO. Docenti Uni Calabria e Sicilia su AV a 300 Km/h e attraversamento Stretto
Zsud – Pubblicato: Martedì, 23 Febbraio 2021 19:49
lampadadialadmicromicroTraendolo dalla News online ZoomSud, riportiamo alcuni stralci del Documento dei docenti delle Università della Calabria e della Sicilia sulla questione delle infrastrutture dei trasporti nelle due regioni, che crediamo sia di interesse anche per la Sardegna, auspicando che le Università sarde sviluppino analoghi impegni di studio/ricerca e proposte attuative per la nostra regione, inserendosi nel più generale dibattito delle misure Piano Nazionale Ripresa e Resilienza (PNRR) per il Sud.
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Le scelte che saranno effettuate nel Piano Nazionale Ripresa e Resilienza (PNRR) saranno determinanti al fine di superare gli effetti devastanti determinati dalla pandemia del COVID 19 sul tessuto economico e sociale del nostro Paese, ma rappresentano anche un’occasione irripetibile per il rilancio economico e sociale del Paese.
Il Meridione aggiunge agli effetti della pandemia ad una situazione pregressa particolarmente negativa, caratterizzata non soltanto dagli effetti della crisi del 2008, ma anche da questioni di disomogeneità economico – sociale con le regioni del Nord mai risolte, nonché da una storica incapacità di utilizzo pieno ed efficace delle risorse messe a disposizione dall’Europa per le Regioni disagiate.
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Oggi martedì 2 marzo 2021

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——————-Opinioni, Commenti e Riflessioni—————————————
Draghi e lo scoglio della riforma della PA
2 Marzo 2021
Red su Democraziaoggi.
Cosa ci prospetta il nuovo governo sulla pubblica amministrazione? La riforma, ovviamante, e, anzitutto, sul versante della digitalizzazione della PA. Tema non nuovo, visto che il Codice dell’amministrazione digitale (Cad) ha compiuto tre lustri lo scorso anno. Draghi ne ha parlato a più riprese. Anzitutto nel discorso tenuto al Senato della Repubblica il […]
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IN PRIMO PIANO
L’ecologia che serve l’economia

02-03-2021 – di: Enzo Scandurra su Volerelaluna.
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Aladi(n)battiti. Reddito e Lavoro. Sul reddito di cittadinanza e altro ancora.

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RIMBALZI
Il reddito di base oltre il tempo della pandemia
25-02-2021 – di: Giuseppe Allegri su Volerelaluna.

Con queste note si vorrebbe invitare a una chiamata collettiva sui possibili spazi di miglioramento di politiche pubbliche di promozione sociale, dinanzi al dibattito europeo e globale sul reddito di base al tempo della pandemia. Considerando anche che nei giorni in cui si ultimano questi appunti il nascente Governo Draghi rimane interlocutorio sulle possibili condizioni di miglioramento della legislazione intorno al reddito di cittadinanza, mentre Oltralpe Libération, celebre quotidiano della nuova sinistra francese, richiama, nella prima pagina di martedì 9 febbraio, la proposta di revenu universel sostenuta da Benoît Hamon, ex candidato socialista alle presidenziali 2017 e ora vicino ai movimenti giovanili e verdi, e quindi dedica un intero dossier online al tema del reddito di base / revenu universel / basic income.

Ottant’anni di modello sociale europeo e due anni di parodistico dibattito italiano

Come oramai sappiamo, dalla primavera 2019 anche il nostro ordinamento repubblicano ha finalmente previsto una forma di “reddito minimo” (minimum income, da noi chiamato reddito di cittadinanza), a circa ottant’anni dalle prime previsioni in questo senso proposte dal Beveridge Report (1942), successivamente introdotte dal governo laburista di Clement Attlee (1945-1948), per liberare le persone dal bisogno, e a oltre trenta dall’introduzione del revenu minimum d’insertion (RMI) nella Francia del governo socialista di Michel Rocard, cioè dalla previsione del diritto di ottenere dalla collettività sufficienti mezzi di sussistenza («droit d’obtenire de la collectivité des moyens convenables d’existence», art. 1 della legge del 1° dicembre 1988). Per ricordare il primo e l’ultimo Paese della vecchia Europa che nei decenni passati introdussero misure di questo tipo. È stato il cuore del modello sociale europeo, pensato negli Stati costituzionali pluralistici e sociali del secondo dopoguerra a partire da misure universalistiche di protezione sociale, che – accanto all’accesso all’istruzione e alla sanità di qualità – prevedeva una lotta alla povertà finalizzata alla tutela effettiva della dignità umana e alla promozione di migliori condizioni di vita e di lavoro per tutta la cittadinanza. Con sussidi diretti alle persone in particolari condizioni di rischio, vulnerabilità e/o fragilità (anziani, malati, inabili al lavoro, famiglie con figli minori, donne in gravidanza, disoccupati cronici etc.), quindi con un’assicurazione sociale di integrazione al reddito per rifiutare i ricatti del lavoro povero, perciò in favore di tutti i salariati, per i lavoratori indipendenti e autonomi con le loro libere attività in proprio, per i disoccupati, sottoccupati o giovani in cerca di prima occupazione.

Nonostante questa arcinota storia oramai quasi secolare, il dibattito politico e culturale intorno al reddito di cittadinanza (RdC introdotto ai tempi del Governo giallo-nero-verde Conte I, con decreto legge n. 4/2019 e successiva legge di conversione n. 26/2019) rimane ancora sospeso in una urticante e indegna parodia, tra sussidio di ultima istanza e di disoccupazione. Da una parte il sempre più timido sostegno da parte dei promotori di questa misura, quel Movimento 5 Stelle dell’allora Ministro del lavoro e delle politiche sociali Luigi Di Maio che neanche due anni fa festeggiava con il retorico e sguaiato grido «abbiamo abolito la povertà». Dall’altra ci sono quegli eterni nemici di qualsiasi forma di sostegno al reddito, da loro pregiudizialmente ritenuta come un’elemosina per gli scansafatiche, propensi a prendere il reddito restando sdraiati sul divano, oppure seduti a mangiare pasta al pomodoro, come sostenne oramai quasi un decennio fa Elsa Fornero, allora Ministra del lavoro e delle politiche sociali del Governo presieduto da Mario Monti e quindi tra le principali responsabili del ritardo con cui si è arrivati a una misura del genere.

Così la legge di conversione ha incluso da subito le fantomatiche norme anti-divano con il vizio di origine, immediatamente evidenziato da Chiara Saraceno, di considerare il RdC come una politica del lavoro, confondendo politiche di sostegno al reddito con politiche attive del lavoro, generando solo confusione, false aspettative, inducendo abusi e prevedendo poi un’assai «discutibile impostazione meritocratica» della stringente condizionalità all’ottenimento del reddito, con una incredibilmente «fitta disciplina sanzionatoria, che occupa uno spazio davvero inusitato nel corpo della legge n. 26/2019 (in particolare con gli artt. 7, 7 bis, 7 ter», come osserva il giuslavorista Stefano Giubboni e come ricostruito anche nei diversi saggi contenuti nel volume collettivo di cui è curatore, Reddito di cittadinanza e pensioni: il riordino del welfare italiano, cui si rinvia per ulteriori approfondimenti.

Frammentazione e insicurezza al tempo della pandemia

La normativa adottata nella lotta alla pandemia ha allentato questi vincoli e ha poi introdotto una serie di indennità, trattamenti di integrazione salariale, bonus, reddito di emergenza, ristori etc. polverizzando le misure di sostegno al reddito in una ventina di interventi categoriali e settoriali (dall’istanza per l’emersione di lavoro subordinato irregolare, alle indennità di 600 e 1000 euro, alle indennità Covid-19 per i lavoratori domestici, al REM, ai Congedi Covid-19 retribuiti, al bonus baby sitting, bonus indennità collaboratori e istruttori sportivi etc.), generando un coacervo di strumenti sempre più parziali e occasionali, perché ogni volta una porzione della società rimaneva comunque fuori dalle tutele e garanzie previste in precedenza. Una sorta di rincorsa a tappare i buchi di un Welfare rimasto vittima della sua tradizionale impostazione categoriale, frammentata e fondamentalmente affidata all’intervento sussidiario della famiglia, anche in tempi di pandemia e conseguente sospensione di molte attività lavorative e imprenditoriali e per giunta spesso lacerati da rapporti familiari coatti, a causa dei diversi vincoli di isolamento.

Come nota il recente Rapporto DisuguItalia 2021 di Oxfam Italia, «in questo contesto, le misure di sostegno pubblico al reddito, al lavoro e alle famiglie emanate nel corso del 2020 dal Governo hanno contribuito ad attenuare gli impatti della crisi e a ridurre moderatamente i divari retributivi e reddituali. [… Ma] vecchie vulnerabilità si sono acuite e sommate a nuove fragilità, con conseguenze allarmanti per il benessere dei cittadini, l’inclusione e la coesione sociale». Tanto che altrove, anche come Basic Income Network Italia, abbiamo espressamente parlato di urgenza del reddito di base nella pandemia. Tutto ciò da un lato produce insicurezza, incertezza e risentimento nei confronti delle istituzioni pubbliche in quella porzione più debole della società, che si aspetta strumenti di protezione e tutela dai meccanismi di Welfare. Dall’altro innesca stigma e sfiducia in «quel 40% degli italiani in condizioni di povertà finanziaria, ovvero senza risparmi accumulati sufficienti per vivere, in assenza di reddito o altre entrate, sopra la soglia di povertà relativa per oltre tre mesi» (per citare sempre il Rapporto DisuguItalia 2021), circa 25 milioni di persone che in realtà costituiscono una parte impoverita di quel ceto medio già precarizzato, sottoccupato, sfiduciato, ora piombato nell’assenza di lavoro, se non sommerso, grigio, occasionale etc. e da sempre tradizionalmente poco avvezzo a entrare nei meccanismi burocratici della sicurezza sociale.

Per questo è necessario indagare gli spazi pubblici di confronto per migliorare il RdC esistente, pensare tutele e garanzie che diano risposte all’altezza della situazione e immaginare il welfare del presente e del futuro.

Per un possibile cantiere comune, a partire dal reddito di base

Quelle che seguono sono solo suggestioni, quasi slogan di un primo possibile ragionare in comune, nel senso di condividere analisi, riflessioni, proposte, progetti per migliorare le istituzioni di sicurezza sociale nella prospettiva di pensare un vero e proprio ius existentiae (per riprendere, nel dibattito italiano, tra i molti e le molte, le proposte di Luigi Ferrajoli, Principia Iuris. Teoria del diritto e della democrazia, Stefano Rodotà, Il diritto di avere diritti e quindi Elena Granaglia e Magda Bolzoni, Il reddito di base). Un reddito di base inteso come erogazione monetaria individuale, una nuova istituzione, diritto sociale fondamentale a condurre una vita quanto più libera possibile dai ricatti, un vero e proprio investimento pubblico in favore delle persone, per farle uscire da uno stato di ricatto e minorità, per una Democrazia del reddito universale come titolava il volume manifestolibri che nel 1997 raccoglieva testi dei maggiori studiosi europei del Basic Income, come Philippe Van Parijs, Alain Caillé, Claus Offe, che si stavano confrontando con l’avvento della società digitale e della precarietà diffusa.

1. Per un dibattito sul reddito di base in Italia

Proprio il riferimento agli anni Novanta del Novecento della rivoluzione informatica e dei primi movimenti di lotta alla disoccupazione/sottoccupazione e alla precarietà oramai strutturale, ci ricorda che in quegli stessi anni in Francia si aprì un fervido dibattito culturale, sociale, politico, sindacale e accademico intorno all’urgenza di estendere e ampliare le garanzie del revenu minimum d’insertion (RMI), ricordato in precedenza e introdotto nel 1988. L’intero decennio dei Novanta fu infatti attraversato da un ricchissimo dibattito, che coinvolse forze culturali e politiche, intellettuali e studiosi, sociologi ed economisti, sindacalisti e giuristi, come Thomas Piketty e Philippe Van Parijs, lo stesso Michel Rocard con Jean-Michel Belorgey, padri dell’allora esistente misura di RMI, quindi Jean-Marc Ferry e Alain Caillé, André Gorz e Daniel Cohen. Dibattito fatto di proposte e riflessioni che provarono a utilizzare lo stesso acronimo RMI per proporre un revenu minimum inconditionnel, cioè svincolato da particolari limitazioni e condizioni di accesso e di eventuale controprestazione lavorativa, fino alla previsione di una allocation universelle, un vero e proprio reddito di base, revenu de base, universale e incondizionato, nel quadro di un necessario aggiornamento universalistico del modello sociale statuale francese, nel contesto di quello europeo. È possibile immaginare che, magari anche a partire dallo spazio e dalle reti raccolte intorno al Centro per la Riforma dello Stato, si inneschi questo plurale dibattito e confronto per contribuire a elaborare elementi di modifica del RdC nel senso di un vero e proprio diritto sociale fondamentale individuale – e non familiare – verso una prospettiva sempre più universale e meno condizionata? Il tutto proprio a partire dalle ipotesi di sperimentazione che permette la stessa legislazione esistente, magari in favore di alcuni soggetti, come i giovani nella proposta di perequazione intergenerazionale di un’eredità universale, di cittadinanza, da erogare al compimento del 18esimo anno di età, proposta dal Forum Diseguaglianze e Diversità. O anche nel senso di quel reddito di autodeterminazione, rivendicato da tempo dal movimento Non una di meno, e inteso come «garanzia di indipendenza economica e dunque concreta forma di sostegno per le donne che intraprendono percorsi di fuoriuscita da relazioni violente (intrafamiliari e lavorative) […] strumento di prevenzione rispetto alla violenza di genere, di autonomia e liberazione dai ricatti dello sfruttamento, del lavoro purché sia, della precarietà, delle molestie».

2. Reddito di base incondizionato, tra iniziativa dei cittadini europei e futuro dell’Europa sociale

In questa prospettiva è utile ricordare che fino al 25 dicembre 2021 si potrà sostenere e firmare (direttamente online, presso il sito istituzionale dedicato alla raccolta del milione di firme) l’Iniziativa dei Cittadini Europei (ICE), istituto previsto dall’art. 11 TUE per la partecipazione della società civile nei rapporti con la Commissione europea, in questo caso per favorire l’introduzione di forme di reddito di base incondizionato (RBI o Unconditional Basic Income – UBI) nei 27 Stati UE. Si aggiunga che in questi primi sei mesi dell’anno la presidenza portoghese del Consiglio dell’UE ha come obiettivo anche quello di lavorare intorno al tema dell’Europa sociale, a partire dal Pilastro europeo dei diritti sociali (2017), dalla recente Risoluzione dell’Europarlamento su Un’Europa sociale forte per transizioni giuste (A strong Social Europe for just transitions, 17 dicembre 2020, al cui punto 36 si sottolinea che «ogni persona in Europa dovrebbe essere coperta da un regime di reddito minimo e che le pensioni dovrebbero assicurare un reddito superiore alla soglia di povertà») e dal programmato Vertice sociale europeo – Social Summit di Operto del prossimo 7 maggio. Il tema del futuro dell’Europa sociale – e delle connesse transizioni ecologiche, digitali, energetiche etc. – è quindi strettamente connesso a quello del reddito minimo e di base, nell’auspicabile prospettiva che proprio la garanzia di un Basic Income possa far parte del Recovery Programme. Considerando anche che otto membri dell’Europarlamento riuniti nel gruppo Positive Money, tra i quali Guy Verhofstadt e Sandro Gozi, si sono pronunciati in favore di qualcosa di simile a un QE for the people, sulla falsariga del bazooka monetario – Quantitative Easing – attivato da Mario Draghi allora alla BCE, un helicopter money distribuito direttamente dalla BCE, che una parte dell’opinione pubblica ritenga debba erogare un vero e proprio reddito di base. Mentre nel mondo il dibattito su helicopter money e basic income va avanti oramai da tempo, ripensando a quando anche l’Economist notò come le istanze del reddito di base cominciavano a trovare sempre maggiore consenso tra sperimentazioni locali e progetti istituzionali. Del resto, nelle settimane della primavera scorsa, del primo periodo di lotta alla pandemia globale da Sars-CoV-2 e dalla connessa Covid-19, il 71% di circa 12mila cittadini europei, consultati all’interno di un’ampia ricerca accademica, si dichiarò favorevole all’introduzione di un reddito di base per tutti i cittadini europei.

3. Sperimentazioni di reddito di base: il caso finlandese in chiave post-pandemica

Negli ultimi anni si è molto discusso della sperimentazione finlandese del reddito di base, portata avanti nel 2017-2018. Promossa dal governo, coinvolse duemila persone disoccupate, estratte a sorte nelle liste dei fruitori di sussidi, che ricevettero un reddito mensile di 560 €. L’Istituto finlandese per la protezione sociale, Kela, pubblica risultati e analisi della sperimentazione, sulla spinta di Olli Kangas, padre putativo di questo progetto e direttore di ricerca al Kela stesso. Dai primi report la gran parte degli analisti nota come da questa sperimentazione potrebbero uscire risposte utili e necessarie per pensare in modo più equo e inclusivo le nostre società nell’epoca (post-)pandemica, a partire da tre punti emersi dalle condizioni vissute dai fruitori finlandesi del reddito di base: diminuzione di stress causato da insicurezza economico-finanziaria; maggiore fiducia nelle proprie aspettative future; crescita di condizioni di autodeterminazione e autonomia individuale. Tre coordinate fondamentali per pensare benessere psichico individuale, investimento sul futuro, promozione di maggiore indipendenza, tanto più nella necessaria connessione tra pandemia, lockdown e reddito di base: da una grande crisi derivano grandi cambiamenti?

4. Per un nuovo Welfare, a partire dal sostegno al reddito

«Questa situazione impone un ripensamento del welfare, in cui fare proposte innovative – e non pensare solo a dispositivi protettivi – come nuove forme universalistiche di sostegno al reddito, non come politica di emergenza, ma come nuovo approccio al welfare. In salute mentale vediamo chiaramente l’insufficienza di modelli di welfare fondati sull’asse “produttività/improduttività”». Sono parole che prendo in prestito da un importante intervento, titolato Un nuovo Welfare Comunitario per la Salute Mentale (in Welfare Oggi, n. 3/2020, 9-22), di Roberto Mezzina, già autorevole Direttore dei Servizi di Salute Mentale di Trieste, il quale, in una precedente intervista con Luca Negrogno per l’Istituzione Gian Franco Minguzzi, sottolineò l’urgenza di una presa di posizione del mondo attivo intorno alla salute mentale in favore di misure di sostegno al reddito: «è una questione sul tavolo, è necessario un dibattito pubblico innovativo». E qui il CRS potrebbe impegnarsi a favorire questo dibattito, a partire dal confronto sugli insegnamenti basagliani con il loro vero e proprio movimento di “pazienti”, psichiatri, operatori, tecnici, ricercatori, intellettuali etc., cui partecipò anche Mezzina, con l’obiettivo di tenere insieme corpo organico e corpo sociale, condizione individuale e contesto materiale. Penso in primissima battuta nella connessione con gli studi e le pratiche di Robert Castel, che è forse stato il più prezioso analista del rapporto tra questione sociale, salute mentale e benessere psico-fisico, nella prospettiva attuale dibattuta in tutto il mondo che il reddito di base possa migliorare la salute mentale di un Paese. Questo approccio diventa fondamentale dinanzi agli effetti psicologici intergenerazionali – dai giovanissimi agli anziani – prodotti dalla reclusione e dall’isolamento in tempi di pandemia, con la connessa necessità di pensare, al presente e al futuro, strumenti di inclusione, partecipazione, protagonismo delle persone oltre la dimensione “produttiva” della cittadinanza sociale.

5. Reddito di base tra società automatica, città in trasformazione e officine municipali

In quest’ottica sistemica, il reddito di base è inteso come strumento di sicurezza sociale universale per proteggere gli individui dai duraturi effetti economico-sociali della crisi sanitaria, ma anche dai cambiamenti dei sistemi di produzione e lavoro, nell’economia di piattaforma, digitale e automatizzata e nelle città in trasformazione. Questo è forse il cantiere dove il CRS è maggiormente sensibile, con la sua Scuola critica del digitale oramai attiva da tempo nella sua disamina del capitalismo digitale e di piattaforma, e i suoi progetti intorno alle Officine Municipali, intese anche come nuove istituzioni dove sperimentare e favorire incontri virtuosi tra soggetti, spesso dispersi, frammentati, sottoccupati e precari, delle diverse forme dei lavori – da remoto e in presenza – di innovatori sociali, coworking di vecchia e nuova generazione, quindi affaticata informalità dell’autorganizzazione e della cooperazione sociale e istituzioni locali più tradizionali, come Municipi, Comune, Regione, ma anche quelle scolastiche, universitarie, sportive, del tempo libero e della socialità.

Tutto questo non deve però avere il sentore di un’ennesima utopia, se non da intendersi come “indispensabile”, per dirla con le parole del sempre provocatoriamente concreto Philippe Van Parijs (Il reddito di base: un’utopia indispensabile, in Il Mulino, n. 1/2018), il quale ci ricorda con spietata lucidità, fuori da retoriche paternalistiche, caritatevoli, marginalizzanti, che «oggi è giunto il momento di elaborare e proporre un’alternativa all’utopia neoliberale della sottomissione totale delle nostre vite individuali e collettive al mercato, e un’alternativa all’utopia paleosocialista della sottomissione totale delle nostre vite allo Stato. Di questa utopia il reddito di base è un elemento centrale». Perché ci permette di pensare una vera, concreta, libertà per tutte e tutti, ora che anche all’interno delle diverse classi dirigenti comincia a balenare l’insostenibilità esistenziale, ecologica, sistemica dell’attuale modello economico capitalistico.

L’articolo è tratto dal sito del CRS (Centro per la Riforma dello Stato) – 15 febbraio 2021 .

* Giuseppe Allegri è socio fondatore del Basic Income Network Italia, autore del volume Il reddito di base nell’era digitale. Alcuni di questi profili sono stati approfonditi in G. Allegri, Dal reddito di cittadinanza italiano al dibattito europeo sul reddito di base. Per un nuovo Welfare nella pandemia, in Rivista Critica del Diritto Privato, n. 3/2020, 401-431, cui si rinvia, anche per i riferimenti bibliografici ivi contenuti.

La crisi della Politica. Da dove ricominciare? Dibattito

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La Provvidenza, la normalizzazione e il futuro della sinistra
Volerelaluna, 3-02-2021 – di: Andrea Danilo Conte
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La formazione del Governo Draghi, le vicende che l’hanno favorita e accompagnata, la sua accettazione acritica da parte delle forze politiche (all’infuori della destra neofascista e di qualche esponente, in numero inferiore alle dita di una mano, di Sinistra italiana) e della totalità della stampa nazionale hanno aperto in quel che resta della sinistra un confronto sulle prospettive che si aprono. Le domande sono chiare: dove stiamo andando? E, ancora, che fare? A questo dibattito, su cui stanno arrivando molti e appassionati contributi, Volere la Luna dedicherà una particolare attenzione.

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Venne il giorno della Provvidenza ed era un giorno di pioggia come tutti gli altri. SuperMario, il Messia, il più competente, colui che tutto il mondo ci invidia e che non ci farà più vergognare, squarcia gli Osanna e dai cori emergono uomini e donne a volte mediocri a volte raccapriccianti. Ci avevano preparati ad avere il meglio cui l’Italia potesse aspirare. L’innovatore invece attinge al passato, quasi a voler fermare la storia, e vara un Governo di destra-centro-sinistra che riesce a concentrare il peggio dei Governi di centrodestra e di centrosinistra degli ultimi decenni: Brunetta, Gelmini, Carfagna, Franceschini, Orlando. Il suo Governo riporta l’orologio indietro di vent’anni. Come se la storia non avesse già decretato il fallimento del liberismo, della terza via e del berlusconismo. Il Migliore riesce nell’impresa di mettere insieme tutti questi fantasmi del passato quasi scommettendo che essi si possano esorcizzare gli uni con gli altri. Davamo tutti per morto il neoliberismo e ci dicevano che il Draghi della Trojka, della lettera d’intenti, della messa in ginocchio della Grecia era un lontano ricordo e che l’Uomo era cambiato. E invece l’Uomo della Provvidenza (che in Italia sarà anche Divina, ma è sempre di sesso maschile) vara un’operazione nostalgia piuttosto scialba e mediocre. Siamo dalle parti dei Governi Dini e Monti, ma in un contesto storico e internazionale totalmente mutato e con un tessuto sociale sfibrato e in ginocchio rispetto a venti o dieci anni fa. E con un tesoro di miliardi da distribuire in modo da ridisegnare gli equilibri di potere e i rapporti di forza dei prossimi anni.

Tanto rumore per nulla, dunque? Non è così.

La vera portata del Governo Draghi non sta nel Governo stesso, ma nel tipo di operazione di cui è portatore. Lo scenario politico ne esce travolto e radicalmente mutato nel giro di pochi giorni. L’operazione Draghi lascia fuori solo la Destra nazionalista e razzista, ma insonorizza e imbriglia tutto il resto, il sovranismo muscolare e xenofobo, il populismo movimentista, anche l’egoismo narcisista renziano. Non è un’operazione casuale, è quello che si voleva, che si è teorizzato e preparato nei dettagli: l’omologazione del sistema politico italiano. I poteri economici nazionali e sovranazionali hanno ritenuto che non si potesse rischiare, che alcuni disegni di legge in cantiere dovessero essere affossati e che timidissimi segnali di autonomia presenti nel precedente Governo e nel premier dovessero essere bloccati sul nascere. E così, anche la democrazia costituzionale ne esce normalizzata e commissariata. Quello di Draghi è un Governo ineccepibile sul piano della democrazia parlamentare, ma è un Governo normalizzatore e imbrigliatore delle dinamiche partecipative della democrazia costituzionale: azzerare le differenze, rendere obsoleta l’esistenza di posizione politiche contrapposte; tra Salvini e Speranza non ci devono essere differenze o comunque non devono essere percepite, perché il messaggio diretto al ventre del Paese è abbandonare gli egoismi di parte e concorrere tutti insieme al bene della nazione. Destra e sinistra definitivamente omologate. I rider e le multinazionali, gli invisibili e i miliardari del Billionaire, sono la stessa cosa. Difendere i primi contrasta con l’interesse nazionale. E soprattutto i primi devono rimanere senza rappresentanza politica, mentre ai secondi è garantita la “copertura” di tutto l’arco parlamentare. Da questo punto di vista, si tratta del disegno più pericoloso che il Paese potesse subire. Azzerare il conflitto vuol dire consegnare lo scettro ai più forti, negare l’esistenza stessa della lotta politica per la difesa di interessi differenti; e prelude sempre alla chiamata della Patria che non consente diserzioni. E infatti nessuno ha disertato; anche quella sparuta pattuglia di parlamentari di sinistra, del tutto scollegata con i fermenti vivi del Paese, ha piegato la testa. Il Normalizzatore ha sancito così la definitiva vittoria dell’antipolitica; ci avevano detto di aspettarci chissà quale svolta storica o quale raffinata teoria e invece siamo a livello di pettegolezzo da bar: «tanto son tutti uguali». Draghi offre così il migliore puntello alla recente vittoria referendaria: che senso ha avere così tanti parlamentari se tanto stanno tutti dalla stessa parte? L’unanimismo rende inutili le sfumature e le differenze e la rappresentanza era già diventata un costo da tagliare.

Ma se questo è lo scenario, oggi che essere “di parte” è messo al bando dalla storia, per chi intende la democrazia costituzionale come partecipazione dei cittadini alla vita politica del Paese in difesa di idee, valori, interessi, programmi si apre uno scenario inedito e senza precedenti. In un contesto in cui tutte le forze rappresentate in Parlamento fanno da megafono alla normalizzazione di ogni alterità, chi intende stare da una parte sola ha un’occasione unica. Bisogna far nascere immediatamente nel Paese una forza politica alternativa, che sottragga alla Meloni il palcoscenico della vita pubblica per evitare l’ultima delle beffe, ossia che una forza in realtà omogenea alla compagine governativa riesca a intercettare l’opposizione senza essere autenticamente diversa. La costituzione di una forza politica che sappia mettere a nudo l’anticaglia di questo Governo non può essere rinviata oltre. Fra un anno, l’antipolitica avrà seminato ulteriori veleni e una parte rilevante del Paese non può continuare a essere ancora esclusa dalla rappresentanza politica. O dovremo prepararci a scenari ancora più cupi.

Ci sono alcuni pilastri imprescindibili per avviare questo percorso. Primo. Il meglio che offre il Paese non è dentro questo Governo e non trova rappresentanza in questo Parlamento. Bisogna risvegliare queste energie e farle tornare in politica, coinvolgerle da subito nel processo costituente. Secondo. Chi è antagonista a questo sistema politico ed economico deve smetterla di ritenersi autosufficiente e di vantarsi della propria identità e purezza. Nei prossimi mesi, PD e 5S deflagreranno. Occorre da subito, con umiltà, avviare un dialogo con le parti migliori di questi due soggetti politici perché nessuno è sufficiente a sé stesso. Terzo. La testimonianza appartiene alla sfera personale dell’impegno politico, non a quella collettiva. Un soggetto collettivo che si propone il cambiamento del Paese deve essere consapevole che le sue posizioni e tutta la sua comunicazione devono essere popolari e non elitarie.

Il momento è questo e non è rinviabile. Forse Draghi è davvero l’uomo mandato dalla Provvidenza, per dare nuova vita a una storia spezzata.
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IN PRIMO PIANO
Governo Draghi: come in Svizzera?
Volerelaluna, 23-02-2021 – di: Francesco Pallante
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Alla fine, la legislatura a maggioranza Cinque Stelle si conclude davvero come in Svizzera. Solo che a venire presa a modello dal sistema elvetico non è la componente iper-maggioritaria, incentrata sugli istituti della democrazia diretta, bensì quella iper-consociativa, incentrata sul ruolo dei partiti politici. Difficile immaginare una sconfitta più clamorosa dell’impostazione ideologica grillina.

Tra le peculiarità della Svizzera c’è quella di non essere una democrazia parlamentare e nemmeno una democrazia presidenziale: il governo non nasce dalla fiducia conferita dal parlamento né da un voto popolare diretto. La forma di governo elvetica è ispirata al cosiddetto regime direttoriale, un modello, nato dall’esperienza della Rivoluzione francese, che non ricorre in alcuna altra democrazia del mondo. Caratteristica del sistema direttoriale è l’elezione dell’organo esecutivo – che funge anche da Capo di Stato collegiale – da parte del parlamento, in modo tale che sia proporzionalmente rispettata la consistenza dei maggiori gruppi parlamentari. Questo significa che i ministri sono espressione non di una maggioranza politica, come avviene nei sistemi parlamentari, bensì dell’intera assemblea rappresentativa, così da riprodurre in piccolo, all’interno dell’organo esecutivo, il pluralismo politico-ideologico che connota il parlamento. Sarebbe come se, in Italia, sulla base dei risultati delle votazioni del 2018, il governo fosse stato fin da subito – ordinariamente e non, come adesso, eccezionalmente – formato da ministri riconducibili al Movimento 5 Stelle, al Partito democratico, alla Lega e a Forza Italia. Occorre, inoltre, tenere presente che il parlamento svizzero è eletto con sistema proporzionale e che, come nei sistemi presidenziali, una volta designato, il governo non è poi sfiduciabile.

Com’è intuibile, un governo composto secondo la formula ora descritta non è, di regola, in condizione di esprimere un indirizzo politico omogeneo. A sua volta, un parlamento eletto tramite legge elettorale proporzionale e non tenuto a costruire alleanze di governo risulta normalmente incapace di esprimere una maggioranza stabile. Ecco spiegato il frequente ricorso al corpo elettorale per l’assunzione, tramite referendum, delle decisioni maggiormente delicate: il prezzo da pagare per la stabilità dell’esecutivo e per il rispetto del pluralismo politico è il rischio della paralisi decisionale, che viene equilibrato attribuendo l’essenziale del potere deliberativo direttamente agli elettori. Anche se – va aggiunto – nella prassi non è poi così raro che le forze politiche, per non rimanere “tagliate fuori” dall’esercizio del potere decisionale, trovino il modo di accordarsi.

Il problema è che da noi il modello svizzero arriva non in virtù della forza dei partiti, necessaria a riequilibrare la forza degli elettori, ma a causa della debolezza di entrambi: dei partiti e degli elettori. È il tragico paradosso della cosiddetta seconda Repubblica: nata per sottrarre potere alle forze politiche organizzate e attribuirlo ai cittadini, ha finito per toglierlo alle une e agli altri. Quattro «governi tecnici» – Ciampi, Dini, Monti e, ora, Draghi – sono lì a dimostrarlo. Il vecchio sistema politico, bene o male, aveva sempre saputo gestire i passaggi storici cruciali: l’uscita dal fascismo, la guerra fredda, la ricostruzione post-bellica, la crisi petrolifera, la strategia della tensione, il terrorismo. Quello nuovo si sfalda non appena si esula dall’ordinario: l’adozione dell’euro, la crisi finanziaria del 2008, la pandemia e la ripresa post-pandemica.

È venuto il momento di abbandonare la falsa contrapposizione tra i partiti (la società politica) e gli elettori (la società civile) – una contrapposizione portata alle estreme conseguenze dal Movimento 5 Stelle, in piena continuità, non in rottura, con il passato – e comprendere che solo rafforzando i primi si rafforzano anche i secondi. Altrimenti non ci resta che rassegnarci a quella che pare essere la nuova costituzione materiale della Repubblica: quando il gioco si fa duro, i duri escono da Palazzo Koch ed entrano a Palazzo Chigi.
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sbilanciamoci-20 Le lacune di Draghi
Luciana Castellina, su Sbilanciamoci!
24 Febbraio 2021 | Sezione: Editoriale, Politica

Quanto mi delude e mi allarma del governo Draghi non è la presenza dei partiti di Salvini o Brunetta, in qualche modo scontata quando si ricorre a un governo di emergenza. E’ invece soprattutto la scelta dei tecnici di fiducia operata dal nuovo presidente del Consiglio che in questo si è fidato solo di manager. E […]

Appena si è saputo che è a Mario Draghi che sarebbe stato affidato il governo d’emergenza proposto dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella l’area politica vasta ma destrutturata cui io appartengo – la sinistra – ha immediatamente protestato. ”E’ un banchiere” – hanno gridato quasi tutti con orrore.

Io no. Perché, poiché non mi pare ci si trovi in un tempo in cui è pensabile l’eliminazione a breve delle banche, che lui sia uno abituato a dirigerle non mi è apparso uno scandalo. Ho anzi considerato buona cosa che dopo una così accesa e ormai prolungata ondata di sovranismo ci sarebbe stato in Italia un primo ministro non certo di sinistra e però leader autorevolissimo di quell’ala, fino ad oggi assai minoritaria, impegnata a battersi per cambiare l’Unione nel senso in cui ogni ragionevole esponente della sinistra dovrebbe voler andare. E cioè su una linea che preveda un bilancio comune, una autonoma capacità fiscale, il potere di emettere eurobond e di abolire le più rigide (e catastrofiche) regole relative al pareggio dei bilanci, rendendo così disponibili le risorse indispensabili ad avviare uno sviluppo sostenibile. Insomma, una correzione sostanziale della pessima struttura disegnata dai Trattati.

In questa direzione Draghi si è in effetti mosso da parecchi anni, al limite delle sue competenze (e persino un po’ oltre).

Poiché io sono fra quelli che ritengono quanto accade a livello europeo di massima importanza, della sua nomina ero dunque contenta. Credo infatti che la dimensione nazionale non sia più sufficiente a recuperare la sovranità popolare che la globalizzazione ha cancellato, e che dunque solo quella europea potrebbe, forse, consentirci di tornare ad esercitarla. Così restituendo ruolo alla politica, cioè agli umani, per limitare il potere deliberativo oggi affidato quasi esclusivamente al pilota automatico del mercato.

Ad una settimana dal conferimento dell’incarico a Draghi sono tuttavia molto scontenta: trovo infatti – come del resto quasi tutta la sinistra – davvero impresentabile la compagine governativa messa insieme dal nostro primo ministro. Che in questo si è rivelato proprio un banchiere, fiducioso solo nei manager, come se il disastro ambientale non fosse soprattutto responsabilità delle miopissime scelte per lo più operate dalla loro categoria, per la quale obiettivi prioritari sono profitto e Pil.

Stridono – a fronte delle scelte compiute da Draghi – le sue belle parole sull’importanza dell’ecologia, visto che non c’è, fra i tecnici che proprio lui ha scelto, neppure un ecologo, che è come portare un malato a curarsi da un ingegnere anziché da un medico. Così come la centralità che attribuisce all’innovazione tecnologica, quando l’elemento decisivo è piuttosto il mutamento dell’umanità, sempre più drammaticamente ignara di esser solo l’insignificante 0,6 % delle specie che abitano la terra con le quali se si vuole sopravvivere si dovrà ben interagire. Non servono a molto manager e tecnocrati per passare ad una economia circolare, concetto a loro per lo più oscuro e però centrale se si vuole davvero una trasformazione del nostro modo di consumare, produrre, vivere, della gerarchia dei nostri piaceri.

Dice Draghi che non andranno più finanziate le aziende che non sono vitali. Ma chi è vitale? Chi guadagna un sacco di soldi riempiendo i supermarket di prodotti superflui che consumano risorse non rinnovabili? Chi giudicherà quali sono le aziende migliori: i “migliori” fra coloro che hanno contribuito a portarci al dissesto che è sotto i nostri occhi? La cosa più preoccupante che questa crisi politica ci rivela è la scarsissima conoscenza della complessità dell’ecosistema da parte dell’establishment politico del nostro paese. E Draghi non sembra fare eccezione.

Non è un caso che fra i riferimenti delle linee guida dei bandi del Recovery Plan e quelli dei progetti annunciati, sia dal PNRR del governo Conte, sia, ora e ancor più, da quelli annunciati da Draghi, vi sia tanta poca coincidenza. Basta guardare alle parole: 109 volte la parola “ecosistema” nel documento europeo, 2 in quello italiano, tanto per fare un esempio. La stessa proporzione per parole altrettanto importanti, quali, per esempio, “biodiversità”, che non si protegge facendo crescere qua e là dei bei boschetti. Il rischio che Bruxelles ritenga le nostre richieste incompatibili con i requisiti fissati non è fantasia!

Sono osservazioni che possono sembrare pignolerie, ma sono invece indici allarmanti della storica sottovalutazione del dramma ambientale e dunque di quello sanitario, che al primo è strettamente collegato. Per un governo che è stato definito d’emergenza proprio in nome dell’urgenza della questione salute e di quella ecologica, non c’è male.

Ma è considerazione che riguarda anche la questione sociale, perché sembra non si capisca che pensare di affrontare in modo serio la questione sociale grazie alla ripresa del vecchio modello di sviluppo, magari accelerato da un prevedibile “sblocca cantieri”, non è “efficienza” e “modernità”, ma cultura da dinosauri.

Quanto mi delude e mi allarma del governo Draghi non è dunque la presenza dei partiti di Salvini o Brunetta (in qualche modo scontata quando si ricorre a un governo di emergenza). E’ invece soprattutto la scelta dei tecnici di fiducia operata dal nuovo presidente del Consiglio: la transizione ambientale affidata a Cingolani, specialista di nanotecnologie che, quando si è pronunciato sul cambiamento energetico, ha parlato più del gas che di rinnovabili; l’accorpamento del ministero dell’Ambiente con quello dello Sviluppo che non solo non si fa come pure promesso, ma quest’ultimo viene affidato a un esponente del partito che vuole il ponte di Messina; l’innovazione tecnologica nelle mani di Colao che, oltre ad aver dato vita alla prima commissione di esperti fallita ancor prima di cominciare, viene ora decantato perché brillantissimo manager della Vodafone, fautore della modernizzazione 5G, quando la vera modernità sarebbe portare la rete nei territori, e quartieri definiti in gergo “non interessanti per il mercato” perché poveri di clienti e che infatti dalla sua azienda, così come dalle altre, proprio per via di questa povertà sono state lasciate senza collegamenti digitali. (Questo rischia fra l’altro di far fallire ogni tentativo di riportare i giovani nelle campagne per animare la trasformazione più indilazionabile che è quella dell’agricoltura).

La cosa più preoccupante è che queste scelte appaiono dettate soprattutto dall’arretratezza culturale dell’establishment che compone questo governo, di destra, di centro, e di buona parte di quella che si definisce di sinistra. Non è un bello spettacolo.

Un’ultima aggiunta: la delusione maggiore che mi ha dato Draghi è proprio sul terreno su cui mi aspettavo di più: quello della politica europea. Perché forse per la prima volta non ci sarà più un ministro per gli Affari europei. Capisco che Draghi l’abbia ritenuto inutile visto che c’è lui che ne sa più di ogni altro, ma, santiddio, il simbolico pesa in politica, eccome! E non sarà un bel segnale: adesso, infatti, avremo probabilmente a sostituzione del ministro, un sottosegretario agli Esteri incaricato dell’Europa. Tanto per far capire al mondo che noi, l’UE la consideriamo “estero”, non la Comunità di cui facciamo parte e con la quale quotidianamente condividiamo scelte che non hanno a che vedere con la politica estera.

Prima di concludere: dal nuovo governo credo non possiamo aspettarci molto, visto che nasce da una sconfitta della sinistra: la deliberata operazione liquidatoria animata da Matteo Renzi (per conto di forze ben riconoscibili) per togliere di mezzo il governo Conte, pieno di difetti e sorretto da una maggioranza confusa e fragile, ma pur sempre orientato a sinistra e forte di una conduzione del paese nel momento di una crisi senza precedenti assai migliore di quanto chiunque si sarebbe aspettato. Nonostante le mie amare considerazioni su quanto è prevedibile che ora accada non sono pessimista: non tutto dipende per fortuna dal governo, in Italia sopravvive una società per nulla passiva, animata da una gran quantità di organizzazioni ambientaliste autorevoli e molto attive, da sindacati forti, da movimenti sociali radicati sul territorio, da una combattiva presenza femminista. La sua rappresentanza politica istituzionale è frantumata e perciò poco visibile. Ma c’è, e si farà sentire. Se Draghi è bravo e ben intenzionato, dovrebbe esser capace di utilizzare la sua mobilitazione.

La versione tedesca di quest’articolo appare sulla rivista online IPG della Friedrich Ebert Stiftung, la fondazione della Spd tedesca, http://www://ipg-journal.de/

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LUNEDÌ 1 MARZO 2021 ALLE ORE 15:30
Mezzogiorno: una opportunità per il Paese
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Piove a Roma e abbiamo il nuovo governo. Ci aspettavamo un maggiore investimento innovativo. Ma, nonostante tutto, vale la pena sostenere, critici e vigili. E la Sardegna? Per ora al palo. Qualcosa però si muove…

schermata-2021-02-12-alle-22-09-50Con Mario Draghi 23 ministri, 15 uomini e 8 donne.
Sono 4 i ministri per M5S, 3 ciascuno per il Pd, la Lega e Forza Italia, 1 per Leu e Italia Viva, con 8 tecnici. La media dell’età dei ministri è 54 anni. Il giuramento è fissato per le 12.00 di sabato 13 febbraio al Quirinale. Ecco i nomi.

PRESIDENTE DEL CONSIGLIO Mario Draghi

Luigi Di Maio (M5S) agli Esteri

Luciana Lamorgese (tecnica) all’Interno

Marta Cartabia (tecnica) alla Giustizia

Daniele Franco (tecnico) all’Economia

Lorenzo Guerini (Pd) alla Difesa

Giancarlo Giorgetti (Lega) allo Sviluppo economico

Stefano Patuanelli (M5S) all’Agricoltura

Roberto Cingolani (tecnico) alla Transizione ecologica

Dario Franceschini (Pd) alla Cultura

Roberto Speranza (Leu) alla Salute

Enrico Giovannini (tecnico) alle Infrastrutture

Andrea Orlando (Pd) al Lavoro

Patrizio Bianchi (tecnico) all’Istruzione

Cristina Messa (tecnico) all’Università

Federico D’Incà (M5S) ai Rapporti con il Parlamento

Vittorio Colao (tecnico) all’Innovazione tecnologica

Renato Brunetta (Forza Italia) Pubblica amministrazione

Maria Stella Gelmini (Forza Italia) agli Affari regionali

Mara Carfagna (Forza Italia) al Sud

Elena Bonetti (Italia Viva) alle Pari opportunità

Erika Stefani (Lega) alle Disabilità

Fabiana Dadone (M5S) alle Politiche giovanili

Massimo Garavaglia (Lega) al Turismo

Sottosegretario alla presidenza del Consiglio Roberto Garofoli (tecnico).
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lampadadialadmicromicro1Il nuovo Governo comincia. Un’apertura di credito, nonostante tutto. E la Sardegna? Ancora al palo, ma qualcosa eppur si muove!

Non è esattamente quanto ci aspettavamo. Avremo voluto maggior coraggio, maggiore investimento innovativo, anche nella scelta delle persone. Comunque Draghi e la nuova compagine sono in grado, sulla carta, di traghettare l’Italia verso una normalità democratica, quando si dovrà tornare alla sana dialettica maggioranza/opposizione, passando per un rinnovamento dei partiti e un nuovo sistema elettorale proporzionale, che promuova la partecipazione istituzionale. Auspichiamo questo nuovo quadro, nella transizione che deve essere governata, ancora nella pandemia ma con tutte le risorse già a disposizione (Next Generation Eu – Recovery Fund in primis). Dobbiamo uscire dalla crisi sapendo che dobbiamo superare la pandemia e la sindemia, cioè quel complesso di situazioni sanitarie, ambientali, sociali (disuguaglianze, povertà, disoccupazione, diritti negati…) che ci hanno travolto. Dalla crisi, ci ricorda ogni giorno Papa Francesco possiamo uscire migliori o peggiori. Insieme e con duro lavoro possiamo uscirne migliori. Tutti dobbiamo fare la nostra parte. Noi qui, in Sardegna, che rischia di essere ignorata e non resa partecipe dell’impresa comune. Una cosa è certa: se come sardi non ci facciamo sentire, nessuno ci terrà in considerazione. Noi nell’ambito della comunicazione e in quello politico-sociale-culturale faremo la nostra parte, in collaborazione con tutti coloro che intraprenderanno o hanno già intrapreso questo percorso.
Al riguardo, per una volta, pur sapendo in quale situazione di disagio sociale e anche di disperazione versiamo, lasciateci volgere lo sguardo verso i segnali delle cose che vanno in senso ostinatamente contrario: la ripresa della partecipazione, specie giovanile, l’attività (poco riconosciuta dalle Istituzioni) del terzo settore e del volontariato. In questo contesto vediamo crescere una piccola esperienza lanciata da un gruppo di cattolici sardi, che ora comincia a prendere il largo come iniziativa coinvolgente tante altre persone, “gli uomini e le donne di buona volontà”: il Patto per la Sardegna. Ci ritorneremo.
(Franco Meloni)
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Primi commenti.
Governo Draghi un carro per tutti in attesa di elezioni
13 Febbraio 2021
A.P. su Democraziaoggi.
Cos’è il governo Draghi? Come dev’essere intesa questa corsa a esserci senza paletti e condizioni. Come sembrano interpretarlo i partiti che si sono affrettati ad aderire, senza neanche conoscere il programma? Come è stato inteso l’appello di Mattarella all’unità nazionale?
Non è facile rispondere, ma alla buona e all’ingrosso pare che i partiti e i gruppi lo intendano più o meno così.
Draghi deve fare alcune cose indifferibili (Recovery, lotta pandemia, misure mitigatrici in campo economico e sociale, scuola, sanità ecc.). Se le avesse fatte Conte, se ne sarebbe intestato il merito o il corpo elettorale glielo avrebbe riconosciuto. La sua popolarità è già alta; è pericoloso per tutti (anche per il M5S?) incrementarla. Meglio un governo nel quale il merito è di tutti o di nessuno. Ecco perchè tutti vogliono esserci. E tutti vogliono tutti. E ci sono. Si va da alcune eccellenze ad alcune ragazze di B. fino alla Catarbia, che sembra una collegiale. La ratio delle composizione? Lasciamo da parte la vulgata della competenza, bla, bla, bla (non se ne può più!). Volete la verità? Nessuno ritiene vantaggiosa la partecipazione alle elezioni dall’opposizione. “Il potere logora chi non ce l’ha“, diceva uno che se ne intendeva, e non incrementa i voti. Quindi, lasciamo fare a Draghi alcune cose rognose, senza che nessuno possa trarne esclusivo merito (o demerito) in chiave elettorale, poi tutti in lotta contro tutti. E si vedrà. Anche per i ministri, non è tanto importante che ci siano i miei, l’importante che non ci siano neanche quelli altrui. Oppure – come è stato – par condicio, un po’ di tutto. Nel mezzo c’è l’elezione al Colle, e Draghi ha interesse a essere buono, a non scontentare nessuno. Niente figli e figliastri. Se no, tiro dal muretto a secco e impallinatura, come con Marini o Prodi. Ricordate? Sembrava impossibile, e invece… Draghi, dunque, è avvisato. Stia calmo e buono, se vuole salire al Colle. Ma lui questo ben lo sa e tutto vuole fuorché essere crocifisso. Tutto sommato lassù meglio lui di qualche improbabile uomo o donna del centrodestra, con umori antiCarta, razzisti e nostalgici.
E poi? Poi la partita riprenderà. E il gioco sarà pesante. Gli unici fuori dai radar sono ancora una volta i ceti popolari. A loro ci pensa solo Francesco nelle sue preghiere. Molta fede e buona volontà, ma non fa miracoli.
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Tonino Dessì
13 Febbraio 2021 – 10:06 su Democraziaoggi.

Una “ribollita” di centrodestra.
Che un Governo “di unità nazionale” o “di salute pubblica” o di “emergenza” espresso da questo Parlamento sarebbe stato spostato in senso più moderato rispetto al Governo Conte 2, si poteva darlo per scontato.
Vedere tuttavia così plasticamente incarnato in persone fisiche un Governo che è difficile non definire di centrodestra fa abbastanza impressione.
E parlo tanto della componente politica quanto di quella tecnica.
Come spiegare, se non come assunzione dell’interim implicito del ministero in capo a Draghi, il senso del siluramento di Gualtieri all’economia, per esempio, per sostituirlo con un tecnico dalla lunga carriera svolta fra Ragioneria generale dello Stato e Direzione generale di Bankitalia?
In parallelo, tuttavia, allo sviluppo economico nientemeno che il numero due della Lega, Giorgetti.
E Brunetta alla pubblica amministrazione non inganni: ce lo ricordiamo con lo stesso incarico in una precedente occasione e il giudizio non mi pare fosse dei più positivi, ma soprattutto, come storico, principale riferimento berlusconiano in materia economica, completa abbastanza linearmente il quadro degli equilibri interni che caratterizzano l’Esecutivo.
Colpisce sotto questo profilo anche il fatto che la composizione del Governo sia accentuatamente nordista: è vero, al Mezzogiorno c’è la pur volenterosa, intelligente e napoletana Carfagna, ma non riequilibra per nulla il contesto.
Si, naturalmente per esprimere una valutazione compiuta aspettiamo il programma (Recovery, vaccini, ripartenza, poco altro di più, magari niente di esplicitamente antipopolare).
Certo, niente elezioni anticipate in cui scontare meriti e demeriti di questa legislatura.
Infine si tira avanti senza strappi fino all’elezione del nuovo Capo dello Stato, scongiurando il rischio che possa eleggerselo da solo un centrodestra del quale si pronosticherebbe “allo stato” un largo successo elettorale.
Sai però che entusiasmo.
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GOVERNO DRAGHI: IL SUD E LA SARDEGNA MARGINALIZZATI?
di Benedetto Sechi, su fb.
Si sentono flebili lamenti, giungere da alcune parti della penisola e dell’Isola, sulla mancata presenza di rappresentanti nel nuovo governo Draghi. Tempo al tempo! Un qualche straccio di sottosegretario (dei quali confesso, non ho mai capito la funzione), verrà assegnato a chi sta ai confini dell’impero. Si tratterà. perlopiù di pro consoli, ufficiali di collegamento, utili a tenere i rapporti con le truppe, in attesa di ordini.

In realtà tutto il sud è stato messo un da parte! C’è da spendere soldi e questi si sa vanno dove l’economia tira, e l’economia tira soprattutto nel nord. Dall’unificazione del Regno d’Italia è sempre stato così. Non per ineluttabile destino, o per l’indolenza dei meridionali, ma perché cosi si è voluto formare lo stato italiano. Perciò il pensiero di Cavour, continua ad essere il faro dello stivale.

Troppo ghiotto è il piatto, ed i leghisti, che interpretano al meglio gli umori dell’impresa nordista, non se lo sono fatto ripetere due volte, abiurando alle loro storiche quanto insulse battaglie: rom, immigrati, no tasse, no euro, no Europa, pur di essere della partita.

Al sud una classe politica di secondo livello, non riesce a mettere insieme convenienze comuni e legittimarsi per una svolta davvero radicale, che metta in risalto le sue enormi potenzialità.

E la Sardegna? Mah? Questa è oggi, ancora più marginale, nonostante, o forse a causa, del governo sardo-leghista.
Il PSd’Az, che perfino nel suo statuto prevede il raggiungimento dell’indipendenza, ha delegato la sua rappresentanza nazionale a Salvini, sposando, di fatto il nazionalismo ed il sovranismo italiano, negando cioè la sua stessa ragione per esistere.

E’ parso davvero strano che Draghi incontrasse i rappresentanti delle minoranze linguistiche ed etniche, valdostane e sud-tirolesi, ma non i sardi, che pure numericamente sono ben più numerosi. Ancora più strano il fatto che nessuno glielo abbia chiesto.
Ma il presidente Solinas il problema non se lo è neppure posto, ha lasciato che fosse Salvini, rappresentarci.

Si è, ancora una volta, riconfermato che, per lo stato italiano, la lingua sarda non esiste, e che pertanto i sardi non sono un minoranza etnica.
Lo Statuto di Autonomia, ormai vetusto e che perciò andrebbe radicalmente cambiato, non è, evidentemente, tra le priorità di questo presidente regionale e dei sardisti. Il punto, quindi, sta nella scarsa consapevolezza dei sardi, di avere una loro identità culturale, storica, linguistica e perciò politica, sulla quale basare il patto istituzionale che li lega allo stato italiano, ed aggiungo all’Europa.
Si nega così l’esistenza di una “Questione Meridionale”, e di una “Questione Sarda” di gramsciana memoria. Eppure il reddito pro capite del sud è allarmante, povertà e criminalità organizzata crescono, mentre i nuovi paesi arrivati nella U.E. si sviluppano e ci sorpassano.

Ma in un tempo di grandi trasformazioni economiche e sociali, una forte iniziativa per costruire una “Macro Regione Europea del Mediterraneo”, non sarebbe più che sacrosanta? Potrebbe essere utile non solo al sud Italia, alla Sardegna, ma anche alla stessa Europa.
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Il governo d’emergenza e il sommerso della crisi
di Guido Formigoni
12 Febbraio 2021 by c3dem_admin | su C3dem.
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Corradino Mineo su fb.

“Preparare il futuro, non prepararsi per il futuro”*

ngeu
lampadadialadmicromicro1Non so quanti lettori perderemo (in tale eventualità: dispiace, ma pazienza), ma quanto sostiene Beppe Grillo nel post pubblicato ieri sul suo blog, che qui riprendiamo integralmente, mi trova nella sostanza pienamente d’accordo!
Franco Meloni, direttore di aladinpensiero online,

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Condivido quanto scrive Beppe Grillo nel post che ha pubblicato sul suo blog. Penso che lo condividiamo in tanti a prescindere dalle appartenenze politiche. Per me un buon programma politico sulle cose da fare deve perseguire la realizzazione degli obbiettivi dell’Agenda Onu 2030. Il Next Generation Eu (Recovery Plan) è modellato sull’Agenda Onu 2030 e i Piani nazionali e regionali di attuazione delle linee stabilite a livello comunitario devono esserne conformi. Ecco: quanto sostiene/auspica Grillo è sostanzialmente coerente rispetto a quanto prevede l’Agenda Onu 2030 e la sua declinazione europea. Così penso. Ovviamente discutiamone.

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blog-grillo
Un Super-Ministero per la Transizione Ecologica
Febbraio 10, 2021
di Beppe Grillo sul suo blog.

Un Super-Ministero per la transizione ecologica lo hanno Francia, Spagna, Svizzera, Costarica e altri paesi. Presto lo dovranno avere tutti. Non lo dico io. Ce lo gridano la natura, l’economia, la società. E anche Papa Francesco. Siamo francescani, fondati il 4 ottobre, giorno di San Francesco.

Un Super-Ministero per la transizione ecologica fonde le competenze per lo sviluppo economico, l’energia e l’ambiente. Capiamolo, una volta per tutte: è l’economia che rovina l’ambiente, non il contrario. Lo dico da vent’anni negli spettacoli: “Il vero ministero dell’ambiente è quello dell’economia, dell’energia, delle finanze”.

Un Super-Ministero per la transizione ecologica è la coordinazione per trasformare la società – non solo dell’economia. E’ uno strumento fondamentale, come ci sembrarono fondamentali i primi ministeri dell’ambiente negli anni ’70. Qualcuno allora faceva ironie. Ma oggi il ministero dell’ambiente lo hanno tutti gli Stati.

Dopo mezzo secolo abbiamo capito però che per curare il cancro non bastano i cerotti. I ministeri dell’ambiente sono obsoleti. Da cinquant’anni abbiamo il motore economico-ecologico in folle. Perché il motore è in banca. Non è nel bosco. Ora che lo abbiamo capito dobbiamo finalmente mettere la marcia avanti. La quarta, non la prima.

Solo un Super-Ministero per la transizione ecologica può affrontare le crisi che in cinquant’anni di economia patogena abbiamo fatto diventare emergenze: il clima, la biodiversità, le disuguaglianze, il lavoro, le migrazioni. Questa è una pand-economia micidiale. In mezzo secolo, ha fatto più morti che il Covid in un anno.

Fra poco avremo nei mari più plastica che pesce. Nei cieli, più satelliti che rondini. Nei parchi, più display che lucciole. Occorre un cambiamento di civiltà, non solo di governo. Sì, ma non adesso, ci dicono da cinquant’anni. Attenzione. Velo lo dico da Genova: questo ritardo ci costerà tantissimo. Me lo diceva mio padre, saldatore: costa meno un estintore che un autobotte dei pompieri.

stern_economicsLo sconvolgimento climatico è ora il problema economico, ripeto,
e c o n o m i c o,
più grave. Lo sconvolgimento climatico sta minacciando l’economia, la crescita, la finanza. Fa crescere povertà, disoccupazione, migrazioni. E’ questo il succo del “Rapporto Stern – Economia del cambiamento climatico” dell’economista britannico Sir Nicholas Stern, che il Presidente incaricato di sicuro conosce. Stern lo calcolò nel 2006: agire sul clima subito ci costa 10 volte meno che non agire. Son passati quindici anni. Al 4% per cento all’anno, di quante migliaia di miliardi di euro è aumentato il nostro deficit economico-climatico?

L’Italia deve chiedere al Presidente Macron di gemellarci nel One Planet Summit, ideato nel 2017 dal Presidente francese, ex- banchiere ed ex-ministro delle finanze. Il One Planet Summit riunisce ogni anno a Parigi i maggiori attori privati e pubblici della finanza mondiale che si impegnano per la transizione ecologica. Perché non fare il nuovo One Planet Summit a Roma? E i successivi in altre capitali europee, coinvolgendo così l’intera Europa?

Dopo mezzo secolo di inedia ecologico-economica, dobbiamo darci una mossa. Siamo da cinquant’anni nel comma 22. I banchieri hanno la leva principale per cambiare ma non hanno capito che bisogna cambiare. E quelli che hanno capito che bisogna cambiare non hanno la leva principale. Anche un banchiere e finanziere lo capisce, ma non può dire: “Sì, ma non adesso!”

Mettiamo dei fiori nei nostri bazooka!

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* La frase del titolo è di Papa Francesco.
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- Approfondimenti su Agenda Onu 2030 e Laudato si’

Oggi Giornata della Fratellanza Universale Umana

4 febbraio. Giornata della Fratellanza Umana. Il messaggio di Papa Francesco.
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Documento sulla “Fratellanza Umana per la Pace Mondiale e la convivenza comune” firmato da Sua Santità Papa Francesco e il Grande Imam di Al-Azhar Ahamad al-Tayyib (Abu Dhabi, 4 febbraio 2019), 04.02.2019
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PREFAZIONE

La fede porta il credente a vedere nell’altro un fratello da sostenere e da amare. Dalla fede in Dio, che ha creato l’universo, le creature e tutti gli esseri umani – uguali per la Sua Misericordia –, il credente è chiamato a esprimere questa fratellanza umana, salvaguardando il creato e tutto l’universo e sostenendo ogni persona, specialmente le più bisognose e povere.

Partendo da questo valore trascendente, in diversi incontri dominati da un’atmosfera di fratellanza e amicizia, abbiamo condiviso le gioie, le tristezze e i problemi del mondo contemporaneo, al livello del progresso scientifico e tecnico, delle conquiste terapeutiche, dell’era digitale, dei mass media, delle comunicazioni; al livello della povertà, delle guerre e delle afflizioni di tanti fratelli e sorelle in diverse parti del mondo, a causa della corsa agli armamenti, delle ingiustizie sociali, della corruzione, delle disuguaglianze, del degrado morale, del terrorismo, della discriminazione, dell’estremismo e di tanti altri motivi.

Da questi fraterni e sinceri confronti, che abbiamo avuto, e dall’incontro pieno di speranza in un futuro luminoso per tutti gli esseri umani, è nata l’idea di questo » Documento sulla Fratellanza Umana « . Un documento ragionato con sincerità e serietà per essere una dichiarazione comune di buone e leali volontà, tale da invitare tutte le persone che portano nel cuore la fede in Dio e la fede nella fratellanza umana a unirsi e a lavorare insieme, affinché esso diventi una guida per le nuove generazioni verso la cultura del reciproco rispetto, nella comprensione della grande grazia divina che rende tutti gli esseri umani fratelli.

DOCUMENTO

In nome di Dio che ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli tra di loro, per popolare la terra e diffondere in essa i valori del bene, della carità e della pace.

In nome dell’innocente anima umana che Dio ha proibito di uccidere, affermando che chiunque uccide una persona è come se avesse ucciso tutta l’umanità e chiunque ne salva una è come se avesse salvato l’umanità intera.

In nome dei poveri, dei miseri, dei bisognosi e degli emarginati che Dio ha comandato di soccorrere come un dovere richiesto a tutti gli uomini e in particolar modo a ogni uomo facoltoso e benestante.

In nome degli orfani, delle vedove, dei rifugiati e degli esiliati dalle loro dimore e dai loro paesi; di tutte le vittime delle guerre, delle persecuzioni e delle ingiustizie; dei deboli, di quanti vivono nella paura, dei prigionieri di guerra e dei torturati in qualsiasi parte del mondo, senza distinzione alcuna.

In nome dei popoli che hanno perso la sicurezza, la pace e la comune convivenza, divenendo vittime delle distruzioni, delle rovine e delle guerre.

In nome della»  fratellanza umana « che abbraccia tutti gli uomini, li unisce e li rende uguali.

In nome di questa fratellanza lacerata dalle politiche di integralismo e divisione e dai sistemi di guadagno smodato e dalle tendenze ideologiche odiose, che manipolano le azioni e i destini degli uomini.

In nome della libertà, che Dio ha donato a tutti gli esseri umani, creandoli liberi e distinguendoli con essa.

In nome della giustizia e della misericordia, fondamenti della prosperità e cardini della fede.

In nome di tutte le persone di buona volontà, presenti in ogni angolo della terra.

In nome di Dio e di tutto questo, Al-Azhar al-Sharif – con i musulmani d’Oriente e d’Occidente –, insieme alla Chiesa Cattolica – con i cattolici d’Oriente e d’Occidente –, dichiarano di adottare la cultura del dialogo come via; la collaborazione comune come condotta; la conoscenza reciproca come metodo e criterio.

Noi – credenti in Dio, nell’incontro finale con Lui e nel Suo Giudizio –, partendo dalla nostra responsabilità religiosa e morale, e attraverso questo Documento, chiediamo a noi stessi e ai Leader del mondo, agli artefici della politica internazionale e dell’economia mondiale, di impegnarsi seriamente per diffondere la cultura della tolleranza, della convivenza e della pace; di intervenire, quanto prima possibile, per fermare lo spargimento di sangue innocente, e di porre fine alle guerre, ai conflitti, al degrado ambientale e al declino culturale e morale che il mondo attualmente vive.

Ci rivolgiamo agli intellettuali, ai filosofi, agli uomini di religione, agli artisti, agli operatori dei media e agli uomini di cultura in ogni parte del mondo, affinché riscoprano i valori della pace, della giustizia, del bene, della bellezza, della fratellanza umana e della convivenza comune, per confermare l’importanza di tali valori come àncora di salvezza per tutti e cercare di diffonderli ovunque.

Questa Dichiarazione, partendo da una riflessione profonda sulla nostra realtà contemporanea, apprezzando i suoi successi e vivendo i suoi dolori, le sue sciagure e calamità, crede fermamente che tra le più importanti cause della crisi del mondo moderno vi siano una coscienza umana anestetizzata e l’allontanamento dai valori religiosi, nonché il predominio dell’individualismo e delle filosofie materialistiche che divinizzano l’uomo e mettono i valori mondani e materiali al posto dei principi supremi e trascendenti.

Noi, pur riconoscendo i passi positivi che la nostra civiltà moderna ha compiuto nei campi della scienza, della tecnologia, della medicina, dell’industria e del benessere, in particolare nei Paesi sviluppati, sottolineiamo che, insieme a tali progressi storici, grandi e apprezzati, si verifica un deterioramento dell’etica, che condiziona l’agire internazionale, e un indebolimento dei valori spirituali e del senso di responsabilità. Tutto ciò contribuisce a diffondere una sensazione generale di frustrazione, di solitudine e di disperazione, conducendo molti a cadere o nel vortice dell’estremismo ateo e agnostico, oppure nell’integralismo religioso, nell’estremismo e nel fondamentalismo cieco, portando così altre persone ad arrendersi a forme di dipendenza e di autodistruzione individuale e collettiva.

La storia afferma che l’estremismo religioso e nazionale e l’intolleranza hanno prodotto nel mondo, sia in Occidente sia in Oriente, ciò che potrebbe essere chiamato i segnali di una «terza guerra mondiale a pezzi», segnali che, in varie parti del mondo e in diverse condizioni tragiche, hanno iniziato a mostrare il loro volto crudele; situazioni di cui non si conosce con precisione quante vittime, vedove e orfani abbiano prodotto. Inoltre, ci sono altre zone che si preparano a diventare teatro di nuovi conflitti, dove nascono focolai di tensione e si accumulano armi e munizioni, in una situazione mondiale dominata dall’incertezza, dalla delusione e dalla paura del futuro e controllata dagli interessi economici miopi.

Affermiamo altresì che le forti crisi politiche, l’ingiustizia e la mancanza di una distribuzione equa delle risorse naturali – delle quali beneficia solo una minoranza di ricchi, a discapito della maggioranza dei popoli della terra – hanno generato, e continuano a farlo, enormi quantità di malati, di bisognosi e di morti, provocando crisi letali di cui sono vittime diversi paesi, nonostante le ricchezze naturali e le risorse delle giovani generazioni che li caratterizzano. Nei confronti di tali crisi che portano a morire di fame milioni di bambini, già ridotti a scheletri umani – a motivo della povertà e della fame –, regna un silenzio internazionale inaccettabile.

È evidente a questo proposito quanto sia essenziale la famiglia, quale nucleo fondamentale della società e dell’umanità, per dare alla luce dei figli, allevarli, educarli, fornire loro una solida morale e la protezione familiare. Attaccare l’istituzione familiare, disprezzandola o dubitando dell’importanza del suo ruolo, rappresenta uno dei mali più pericolosi della nostra epoca.

Attestiamo anche l’importanza del risveglio del senso religioso e della necessità di rianimarlo nei cuori delle nuove generazioni, tramite l’educazione sana e l’adesione ai valori morali e ai giusti insegnamenti religiosi, per fronteggiare le tendenze individualistiche, egoistiche, conflittuali, il radicalismo e l’estremismo cieco in tutte le sue forme e manifestazioni.

Il primo e più importante obiettivo delle religioni è quello di credere in Dio, di onorarLo e di chiamare tutti gli uomini a credere che questo universo dipende da un Dio che lo governa, è il Creatore che ci ha plasmati con la Sua Sapienza divina e ci ha concesso il dono della vita per custodirlo. Un dono che nessuno ha il diritto di togliere, minacciare o manipolare a suo piacimento, anzi, tutti devono preservare tale dono della vita dal suo inizio fino alla sua morte naturale. Perciò condanniamo tutte le pratiche che minacciano la vita come i genocidi, gli atti terroristici, gli spostamenti forzati, il traffico di organi umani, l’aborto e l’eutanasia e le politiche che sostengono tutto questo.

Altresì dichiariamo – fermamente – che le religioni non incitano mai alla guerra e non sollecitano sentimenti di odio, ostilità, estremismo, né invitano alla violenza o allo spargimento di sangue. Queste sciagure sono frutto della deviazione dagli insegnamenti religiosi, dell’uso politico delle religioni e anche delle interpretazioni di gruppi di uomini di religione che hanno abusato – in alcune fasi della storia – dell’influenza del sentimento religioso sui cuori degli uomini per portali a compiere ciò che non ha nulla a che vedere con la verità della religione, per realizzare fini politici e economici mondani e miopi. Per questo noi chiediamo a tutti di cessare di strumentalizzare le religioni per incitare all’odio, alla violenza, all’estremismo e al fanatismo cieco e di smettere di usare il nome di Dio per giustificare atti di omicidio, di esilio, di terrorismo e di oppressione. Lo chiediamo per la nostra fede comune in Dio, che non ha creato gli uomini per essere uccisi o per scontrarsi tra di loro e neppure per essere torturati o umiliati nella loro vita e nella loro esistenza. Infatti Dio, l’Onnipotente, non ha bisogno di essere difeso da nessuno e non vuole che il Suo nome venga usato per terrorizzare la gente.

Questo Documento, in accordo con i precedenti Documenti Internazionali che hanno sottolineato l’importanza del ruolo delle religioni nella costruzione della pace mondiale, attesta quanto segue:

· La forte convinzione che i veri insegnamenti delle religioni invitano a restare ancorati ai valori della pace; a sostenere i valori della reciproca conoscenza, della fratellanza umana e della convivenza comune; a ristabilire la saggezza, la giustizia e la carità e a risvegliare il senso della religiosità tra i giovani, per difendere le nuove generazioni dal dominio del pensiero materialistico, dal pericolo delle politiche dell’avidità del guadagno smodato e dell’indifferenza, basate sulla legge della forza e non sulla forza della legge.

· La libertà è un diritto di ogni persona: ciascuno gode della libertà di credo, di pensiero, di espressione e di azione. Il pluralismo e le diversità di religione, di colore, di sesso, di razza e di lingua sono una sapiente volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani. Questa Sapienza divina è l’origine da cui deriva il diritto alla libertà di credo e alla libertà di essere diversi. Per questo si condanna il fatto di costringere la gente ad aderire a una certa religione o a una certa cultura, come pure di imporre uno stile di civiltà che gli altri non accettano.

· La giustizia basata sulla misericordia è la via da percorrere per raggiungere una vita dignitosa alla quale ha diritto ogni essere umano.

· Il dialogo, la comprensione, la diffusione della cultura della tolleranza, dell’accettazione dell’altro e della convivenza tra gli esseri umani contribuirebbero notevolmente a ridurre molti problemi economici, sociali, politici e ambientali che assediano grande parte del genere umano.

· Il dialogo tra i credenti significa incontrarsi nell’enorme spazio dei valori spirituali, umani e sociali comuni, e investire ciò nella diffusione delle più alte virtù morali, sollecitate dalle religioni; significa anche evitare le inutili discussioni.

· La protezione dei luoghi di culto – templi, chiese e moschee – è un dovere garantito dalle religioni, dai valori umani, dalle leggi e dalle convenzioni internazionali. Ogni tentativo di attaccare i luoghi di culto o di minacciarli attraverso attentati o esplosioni o demolizioni è una deviazione dagli insegnamenti delle religioni, nonché una chiara violazione del diritto internazionale.

· Il terrorismo esecrabile che minaccia la sicurezza delle persone, sia in Oriente che in Occidente, sia a Nord che a Sud, spargendo panico, terrore e pessimismo non è dovuto alla religione – anche se i terroristi la strumentalizzano – ma è dovuto alle accumulate interpretazioni errate dei testi religiosi, alle politiche di fame, di povertà, di ingiustizia, di oppressione, di arroganza; per questo è necessario interrompere il sostegno ai movimenti terroristici attraverso il rifornimento di denaro, di armi, di piani o giustificazioni e anche la copertura mediatica, e considerare tutto ciò come crimini internazionali che minacciano la sicurezza e la pace mondiale. Occorre condannare un tale terrorismo in tutte le sue forme e manifestazioni.

· Il concetto di cittadinanza si basa sull’eguaglianza dei diritti e dei doveri sotto la cui ombra tutti godono della giustizia. Per questo è necessario impegnarsi per stabilire nelle nostre società il concetto della piena cittadinanza e rinunciare all’uso discriminatorio del termine minoranze, che porta con sé i semi del sentirsi isolati e dell’inferiorità; esso prepara il terreno alle ostilità e alla discordia e sottrae le conquiste e i diritti religiosi e civili di alcuni cittadini discriminandoli.

· Il rapporto tra Occidente e Oriente è un’indiscutibile reciproca necessità, che non può essere sostituita e nemmeno trascurata, affinché entrambi possano arricchirsi a vicenda della civiltà dell’altro, attraverso lo scambio e il dialogo delle culture. L’Occidente potrebbe trovare nella civiltà dell’Oriente rimedi per alcune sue malattie spirituali e religiose causate dal dominio del materialismo. E l’Oriente potrebbe trovare nella civiltà dell’Occidente tanti elementi che possono aiutarlo a salvarsi dalla debolezza, dalla divisione, dal conflitto e dal declino scientifico, tecnico e culturale. È importante prestare attenzione alle differenze religiose, culturali e storiche che sono una componente essenziale nella formazione della personalità, della cultura e della civiltà orientale; ed è importante consolidare i diritti umani generali e comuni, per contribuire a garantire una vita dignitosa per tutti gli uomini in Oriente e in Occidente, evitando l’uso della politica della doppia misura.

· È un’indispensabile necessità riconoscere il diritto della donna all’istruzione, al lavoro, all’esercizio dei propri diritti politici. Inoltre, si deve lavorare per liberarla dalle pressioni storiche e sociali contrarie ai principi della propria fede e della propria dignità. È necessario anche proteggerla dallo sfruttamento sessuale e dal trattarla come merce o mezzo di piacere o di guadagno economico. Per questo si devono interrompere tutte le pratiche disumane e i costumi volgari che umiliano la dignità della donna e lavorare per modificare le leggi che impediscono alle donne di godere pienamente dei propri diritti.
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RECOVERY PLAN e ISTRUZIONE

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Passi avanti da migliorare
di Fiorella Farinelli su Rocca.

Forse è chiedere troppo all’attuale classe politica. Ma è certo che nel Recovery Plan varato il 12 gennaio, non c’è un disegno convincente delle strategie e delle misure con cui innescare cambiamenti decisivi – un’autentica ricostruzione nazionale – in un Paese slabbrato ed esausto già prima della pandemia. È lungo, del resto, il cammino per la versione definitiva dei programmi e delle riforme (da attivare «contestualmente», indica saggiamente la Commissione europea, «perché le risorse non cadano come pioggia sul deserto»), con cui ottenere i 209 mld tra prestiti e trasferimenti destinati all’Italia nell’ambito di Next Generation Ue 2021-26. Ci si arriverà solo dopo confronti con le istituzioni regionali e locali, le forze economiche e sociali, il Terzo Settore e le reti di cittadinanza attiva, e ovviamente il Parlamento. C’è dunque da augurarsi che da qui alla scadenza di aprile ci siano significativi miglioramenti. Come è già successo con i passi avanti, parziali ma nella giusta direzione, dalle prime bozze a quest’ultima versione, grazie soprattutto al pressing di Italia Viva: ricalibrato il peso dei bonus a favore degli investimenti, cresciute le risorse per la sanità e l’istruzione, ottenuti più coordinamento e minore frammentazione. Ma con un testo così complesso e un piatto così ricco (310 mld il totale, per l’inclusione nel pacchetto di altri fondi Ue e di spese programmate nel bilancio ordinario), la cosa non è scontata. Non solo per possibili ostinazioni dell’uno o dell’altro padrone del vapore a tener fermi programmi-bandiera che ingoiano troppe risorse (è il caso, non unico, del superecobonus 110/100 per la proprietà edilizia) o per un taglio più modernizzatore che sociale che sembra ormai difficile modificare, ma perché il clima generale è sempre più pesante. Tra tensioni politiche che delegittimano le istituzioni, contrasti e distonie tra Stato, Regioni, Città, reazioni agli effetti immediati e futuri della pandemia (mentre la parte dedicata alle politiche attive e al lavoro, soprattutto dei più giovani, è del tutto inadeguata agli sconquassi che verranno). Tutto ciò accompagnato dall’incapacità di definire la cosiddetta «governance». Cioè il modello di gestione dell’operazione, rinviato a un futuro decreto «che identifichi le responsabilità della realizzazione, garantisca il coordinamento con i ministri competenti a livello nazionale e gli altri livelli di governo, monitori i progressi di avanzamento della spesa». Difficoltà della politica politicante, certo, ma anche un approccio centralista che non aiuta e in più la solita mancanza di cultura attuativa, quella che permette di aprire i cantieri. Un limite, quest’ultimo, che preoccupa e squalifica, essendo noto in ambito europeo che nell’ultimo settennio non siamo stati capaci di spendere più del 40 per cento dei Fondi assegnati. C’entrano, si sa, leggi e regolamenti che trasformano in estenuanti tormentoni ogni gara d’appalto, ogni concorso, ogni convenzione. Ma come si fa a spendere entro il 2026 quella montagna di soldi se non si trovano i soggetti, le procedure, i modi per rimediare alla crisi dell’asse decisionale tra Stato, Regioni, Città e per superare la «diserzione amministrativa»? Basterà la «digitalizzazione» per garantire semplificazione ed efficienza? E basterà quanto previsto dal Piano – al momento poco più di un titolo – per portare a casa la più difficile delle sfide, una riforma decente della Pubblica Amministrazione? Appare dunque ancora impervia la strada per trasformare il Piano in un investimento capace di scaldare i cuori e di attivare le intelligenze dell’insieme della società italiana. E anche questo non è un problema da poco.

un finanziamento notevole ma insufficiente
Istruzione e ricerca è la quarta delle sei Missioni (1) contenute nel Piano, articolate in 16 componenti e 47 progetti. Il finanziamento è 28,5 miliardi, di cui 16,7 per il «potenziamento delle competenze e il diritto allo studio» (scuola e università) e 11,7 per la linea «dalla ricerca all’impresa» (università). Pur essendo il più grande finanziamento pubblico in educazione dopo il piano di ricostruzione postbellica delle scuole e quello di sviluppo del sistema successivo alla riforma della scuola media (1962-63), i 16,7 mld sono insufficienti non solo rispetto alla gravità della situazione educativa del Paese, ma anche alla piena realizzazione di tutte le azioni previste. Anche i 6,8 mld aggiuntivi per l’edilizia scolastica (che vengono dall’«efficientamento energetico e cablaggio degli edifici pubblici» di un’altra Missione) costituiscono un investimento modesto, neppure 1/5 di quello che occorre per mettere in sicurezza, riqualificare, riadattare a modelli di apprendimento e di apertura allo sviluppo culturale e civile delle comunità, le circa 30.000 sedi scolastiche. Un patrimonio pubblico per lo più piuttosto vecchio, in parte costruito prima delle normative antisismiche, spesso in stato di cattiva manutenzione, quasi sempre strutturato secondo finalità educative e didattiche obsolete. Più in generale l’investimento complessivo è inadeguato a misurarsi con la quantità e qualità dei problemi che stanno dietro alle criticità più acute, non derivate solo da una lunga stagione di «tagli» ma anche dall’incapacità politica di affrontare temi scomodi, che scatenano contrarietà nella più numerosa ed irritabile categoria professionale, quella dei docenti. La minore efficacia del nostro sistema rispetto ad altri in ambito sia europeo che Ocse (i più alti tassi di dispersione esplicita e implicita, il minor numero di diplomati e laureati, i divari territoriali nella quantità e qualità dell’offerta e anche nei risultati, le diseguaglianze e i fenomeni di segregazione formativa, la distanza tra formazione scolastica e sfide del mondo del lavoro, l’esistenza nella popolazione adulta anche delle età più giovani di un’ampia area di senza-diplomi e senza-qualifiche, e perfino di 13 milioni di analfabeti funzionali e digitali privi delle competenze minime per il lavoro e per la cittadinanza attiva) non nasce da niente. E non dipende solo dalle tante e diverse «povertà» sociali e individuali che condizionano negativamente l’apprendimento. A pesare sulle difficoltà che la scuola non supera, tradendo quindi il suo stesso ruolo che non è solo di inclusione ma anche di promozione, ci sono troppe povertà culturali, organizzative, professionali intrinseche al sistema. Che riguardano la troppo variabile qualità professionale dei docenti, la rigidità dell’organizzazione del lavoro, degli orari, delle cattedre, le carriere basate sull’anzianità e non sui meriti. Un’autonomia scolastica non ancorata alle comunità di riferimento e non dotata delle figure necessarie al suo funzionamento. Un ordinamento, nel primo e nel secondo ciclo, che non risponde al diritto allo studio nella «scuola di tutti» (che dire, per esempio, di quel dispositivo tutt’altro che innocente rispetto agli abbandoni precoci che è l’esame di stato alla fine della scuola media nonostante la durata decennale dell’obbligo di istruzione? e di un’istruzione e formazione professionale, decisiva per il completamento dell’obbligo per centinaia di migliaia di ragazzi, che però funziona solo in metà del Paese, e non dove dispersione e abbandoni mordono di più?). Un insegnamento, nella secondaria, caratterizzato da separazione e gerarchizzazione delle discipline, che non valorizza il naturale altalenare dell’apprendimento tra teoria e pratica, tra formale e non formale, e non permette percorsi vocazionali e orientativi. E poi il buco enorme dell’assenza di un sistema per l’apprendimento permanente, pur strategico a fronte della crescente importanza per tutta la popolazione di buoni livelli di conoscenza e di capacità di apprendere lungo tutto il corso della vita, non solo in vista del lavoro che cambia ma della crescente complessità del vivere sociale. Di molto di tutto ciò – e quindi anche di una povertà educativa non solo «minorile» – non c’è traccia nel Recovery Plan, dove manca anche una contestualizzazione rispetto ai processi in corso. Cosa sarà la scuola italiana tra dieci anni, con 1 milione e 300.000 iscritti in meno per calo demografico, l’uscita per pensionamento del 40% del suo personale, un peso specifico crescente degli studenti con back ground migratorio, con problemi di integrazione, ma col vantaggio potenziale di un bilinguismo naturale e di un affaccio culturale su mondi diversi? Qual è il nuovo modello a cui guardiamo? Non sarà, speriamo, solo una scuola tornata «in presenza» il nostro nuovo paradiso.

il paradiso non sarà solo una scuola tornata in presenza
Ma bisognava scegliere. Il «Potenziamento delle competenze e diritto allo studio» si articola in tre aree di intervento. La prima è «Accesso all’istruzione e divari territoriali», con uno stanziamento di 9,45 miliardi. La seconda è «Competenze Stem-Scienza*, Tecnologia, Ingegneria, Matematica e Multilinguismo» (ma comprende anche attrezzature didattiche, laboratori, scuola 4.0), con 5,02 miliardi. La terza è «Istituti Professionali e Istruzione Tecnica Superiore» (ma comprende anche l’orientamento al post diploma) con 2,25 miliardi. A questo si aggiungono 9 riforme, che interessano anche l’Università, solo in parte collegate con le azioni e i progetti, e con contenuti per lo più da definire. Sono l’istituzione della Scuola di Alta formazione per il personale scolastico (Università-Indire) a frequenza obbligatoria; la riforma del reclutamento docenti (coincidenza dell’esame di laurea con l’esame di stato per l’accesso alla professione e tirocinio annuale); l’aggiunta nei curricoli di moduli Stem e per le competenze digitali; la riforma degli Istituti Tecnici Superiori; degli istituti tecnici e professionali; dell’orientamento al livello terziario; l’introduzione delle lauree abilitanti; la riforma delle classi di laurea; la riforma dei dottorati. Qual è, in sintesi, il perimetro degli interventi? Se da un lato si conferma un approccio che, per quanto attiene alla qualità del lavoro nella scuola si limita a mettere a fuoco la formazione iniziale e continua del personale e il reclutamento dei docenti, dall’altro si interviene sul pianeta istruzione circoscrivendo due principali ambiti. Il primo, riguardante soprattutto il primo ciclo e il comparto 0-6, consiste nella prevenzione precoce delle diseguaglianze, nel contrasto della povertà educativa minorile, nel rafforzamento delle competenze di base incluse quelle digitali e multilingue. Il secondo, che guarda al superamento del gap tra preparazione scolastica e competenze richieste dal mondo del lavoro, consiste nel rafforzamento del comparto tecnico professionalizzante di livello secondario e terziario, nella declinazione dei curricoli e della didattica in direzione dell’innovazione tecnologica, nonché nell’orientamento agli studi post-diploma. Non è tutto quel che servirebbe, ma sono comunque criticità vere su cui intervenire.
Ma come lo si fa?

c’è ancora da limare e riequilibrare
Non è un dettaglio, ovviamente, l’articolazione degli investimenti. Balza all’occhio, per esempio, l’incongruenza tra la generosità dei 5,2 mld della seconda linea d’azione («Competenze Stem* e multilingue») che ne stanzia ben 3 in laboratori e attrezzature per la «scuola 4.0», e i risicati 9,45 mld per l’articolatissimo programma della prima («Accesso all’istruzione e divari territoriali»). Tolti infatti i 2,35 mld per borse di studio e alloggi per gli studenti universitari, ne restano solo 7,10 per obiettivi tutti molto importanti e impegnativi. Che infatti, chi più chi meno, vengono dotati di investimenti insufficienti a una realizzazione compiuta. A partire dall’azione più importante per il contrasto precoce delle diseguaglianze educative e per il superamento dei divari territoriali, ovvero lo sviluppo omogeneo dei servizi educativi 0-3 cioè gli asili nido, in tutte le aree del Paese (copertura al 33% della domanda in ogni Regione, media nazionale al 55%). Lo sanno ormai anche le pietre, infatti, che il programma, finalizzato anche al contrasto della denatalità, alla conciliazione tra lavoro e genitorialità, all’occupazione femminile, costa almeno 4,8 mld, mentre nel Piano, dove varie oscillazioni, ci si assesta ora su 3,6. Assai peggio va all’altro ingrediente essenziale per il raggiungimento dell’obiettivo, cioè lo sviluppo del tempo pieno, dove si prevede 1 mld mentre la sua generalizzazione nella primaria costerebbe, solo di spesa per il personale (senza considerare quella degli Enti Locali), 2,8 mld annui. Completano il quadro 1 mld per il potenziamento della scuola per l’infanzia, che potrebbe essere un costo perfino sovrastimato considerato il forte impatto del calo demografico su questo comparto educativo (e l’assenza, viceversa, dell’obiettivo di una sua «generalizzazione»), e 1,5 mld per il contrasto degli abbandoni che potrebbe invece essere sensibilmente sottostimato rispetto alle complessità delle azioni e alla numerosità del target. Quanto alla terza linea d’azione («Istruzione Professionale e Its»), la parte del leone dei 2,25 mld la fa il potenziamento dell’istruzione tecnica superiore (1,50 mld), mentre all’orientamento scuola-università e alla collaborazione Università-Formazione professionale vanno 0,75 mld. C’è dunque ancora da limare, e soprattutto da riequilibrare. Zero assoluto, invece, per l’Istruzione e Formazione professionale per l’obbligo di istruzione e la qualifica professionale, che non compare né qui né dove ci si occupa di politiche formative per il lavoro, pur essendo un’alternativa preziosa, dove c’è, agli abbandoni precoci. E pur intercettando ogni anno migliaia di ragazzi in difficoltà, tra cui molti stranieri di prima e seconda generazione. C’è da chiedersi, con qualche amarezza, se gli estensori del testo sappiano sempre di che cosa stanno scrivendo. E anche questo, ovviamente, non è un problema da poco. Ma ci si dovrà tornare.
Fiorella Farinelli
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Nota
(1) Le altre sono digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura (46,1 mld); rivoluzione verde e transizione ecologica (68,9 mld); infrastrutture per la mobilità sostenibile (31,98 mld); inclusione sociale e coesione (27,62 mld); salute (19,72 mld).
* L’acronimo STEM, dall’inglese Science, Technology, Engineering and Mathematics è un termine utilizzato per indicare le discipline scientifico-tecnologiche (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) e i relativi corsi di studio.
ROCCA 1 FEBBRAIO 2021
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Sosteniamo Costituente Terra

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“COSTITUENTE TERRA” FA SCUOLA
9 GENNAIO 2021 / COSTITUENTE TERRA / IL PROCESSO COSTITUENTE /
La crisi della democrazia americana, che si è sprigionata sotto gli occhi di tutti svelando il volto nascosto (e neanche troppo nascosto) di un fascismo americano in agguato, che ha trovato in Donald Trump un interprete fin troppo improbabile, ha posto con nuova drammaticità e urgenza il problema della democrazia nel mondo e della salvaguardia dei diritti fondamentali, a cui l’iniziativa di “Costituente Terra” ha inteso indicare una via di soluzione. È del tutto evidente che se non è proponibile un modello di democrazia valido per tutte le Nazioni (il tentativo di imporlo è finito nelle peggiori tragedie), è invece possibile concepire ed attuare un costituzionalismo globale che metta in sicurezza le libertà fondamentali, i diritti irrinunciabili, i beni comuni essenziali e la stessa sopravvivenza fisica della Terra. Questo progetto lanciato un anno fa da “Costituente Terra”, e che è in cantiere a partire dalla elaborazione teorica e dal magistero filosofico–giuridico del prof. Luigi Ferrajoli, sta facendo scuola e gettando semi in diverse parti del mondo.
È annunciato, dal Paraguay, un saggio, che pubblicheremo tra breve, della prof. María Inés Ramírez dal titolo: “Post pandemia: ¿Hacia donde se dirige elderechoconstitucional? Característicasesenciales del poderconstituyente con miras a una Constitución Planetaria “.
Nello stesso tempo l’Instituto Educativo Punta Mogotes di Mar del Plata (Provincia di Buenos Aires, Argentina) ha deciso di creare un Laboratorio di Diritto Costituzionale che porta il nome di “Laboratorio Luigi Ferrajoli”, in cui si lavorerà sulla proposta di una Costituzione della Terra. Tale iniziativa è stata riconosciuta dal Comune di Mar del Plata come un progetto di grande interesse culturale, per l’intera comunità, e in particolare per la promozione dell’educazione in materia di diritti costituzionali dei bambini e dei giovani.
All’Istituto, in occasione dell’inaugurazione dei corsi, il prof. Ferrajoli ha fatto pervenire questo messaggio che riepiloga, come una prolusione, il senso del lavoro da svolgere:

La vostra istituzione di una scuola e di un laboratorio sul tema della Costituzione della Terra è esattamente quanto auspicammo fin dall’appello e poi dalla nostra Assemblea di “Costituente Terra” dello scorso 21 febbraio.
Questa prospettiva del costituzionalismo globale equivale all’ipotesi di un vero salto di civiltà, tanto necessario ed urgente per il salvataggio della pace, della democrazia e della stessa abitabilità del nostro pianeta, quanto imposto, logicamente e giuridicamente, dalle tante Carte dei diritti, costituzionali e internazionali di cui sono dotati i nostri ordinamenti. Purtroppo queste Carte sono rimaste ineffettive perché non sono state istituite le loro garanzie e le relative funzioni e istituzioni globali di garanzia. Il nostro progetto di una Costituzione della Terra altro non è che il progetto dell’attuazione di quelle Carte, attraverso la rielaborazione dei principi comuni da esse espressi e la loro sistemazione in un unico testo, rigidamente sopra-ordinato – in accordo con il paradigma del costituzionalismo rigido sperimentato nei nostri ordinamenti dalle Costituzioni più avanzate – a tutte le altre fonti del diritto, sia statali che internazionali.
La necessità e l’urgenza di questo allargamento oltre gli Stati nazionali, del paradigma costituzionale, sono oggi imposte dalla banale, elementare consapevolezza dei pericoli senza precedenti che altrimenti incombono sull’umanità. E’ infatti inverosimile che 8 miliardi di persone, 196 Stati sovrani dieci dei quali dotati di armamenti nucleari, un capitalismo vorace e predatorio e un sistema industriale ecologicamente insostenibile possano a lungo sopravvivere senza andare incontro a catastrofi umanitarie, nucleari, economiche ed ecologiche. Di qui la necessità di uno sviluppo multi-livello del paradigma costituzionale, cioè della costruzione di un costituzionalismo sovranazionale, in grado di limitare i poteri globali oggi sregolati e selvaggi e perciò di colmare il vuoto di diritto pubblico prodotto dall’asimmetria tra il carattere globale degli odierni poteri extra-statali e il carattere ancora prevalentemente locale del costituzionalismo, della politica, del diritto e delle connesse funzioni di governo e di garanzia.
Non si tratta di un’ipotesi utopistica o avveniristica. Si tratta del dover essere giuridico della politica e del diritto medesimo, già formulato in quell’embrione di Costituzione del mondo che è formato dalla Carta dell’Onu e dalle tante Carte, dichiarazioni, convenzioni e patti internazionali sui diritti umani. A causa della miopia e dell’irresponsabilità della politica questa embrionale Costituzione del mondo è rimasta finora inattuata. Ma la sua attuazione è resa possibile dal carattere formale del paradigma costituzionale, consistente in un sistema di limiti e vincoli applicabile, grazie alla sua struttura a gradi, a qualunque apparato di poteri. E’ resa inoltre realisticamente necessaria ed urgente dalla gravità delle sfide globali. E’ infine resa giuridicamente obbligatoria dalla normatività dei diritti e dei principi di pace e di giustizia positivamente stabiliti nelle tante Carte internazionali e dai nessi di implicazione tra le aspettative nelle quali tali diritti e principi consistono e l’obbligo di introdurre le loro garanzie.
All’indomani della seconda guerra mondiale, infatti, non furono solo rifondati, nei Paesi liberati dai fascismi, i sistemi politici nazionali nelle forme della democrazia costituzionale. Fu anche rifondato il diritto internazionale, trasformato, dalla Carta dell’Onu e dalle tante Carte sui diritti umani, da sistema pattizio di relazioni tra Stati sovrani, basato su trattati bi- o multi-laterali, in un ordinamento giuridico entro il quale tutti gli Stati membri sono soggetti a un medesimo diritto, cioè al divieto della guerra e al rispetto dei diritti umani. Di questo nuovo ordinamento internazionale, basato sulla pace e sui diritti, si sta tuttavia verificando un processo decostituente, tanto vistoso quanto paradossale perché simultaneo alla globalizzazione che più che mai ne richiederebbe, al contrario, la costituzionalizzazione. Quelle Carte avrebbero richiesto – e tuttora impongono – norme di attuazione, dirette a introdurre le funzioni e le istituzioni di garanzia dei principi e dei diritti in esse stabiliti: garanzie della pace, tramite l’attuazione del capo VII della Carta dell’Onu e perciò l’istituzione del monopolio sovranazionale della forza, lo scioglimento degli eserciti nazionali e la messa al bando delle armi; garanzie dei diritti sociali, tramite adeguati finanziamenti di istituzioni globali di garanzia come l’Organizzazione mondiale della sanità e la Fao; garanzie dei beni comuni dell’ambiente naturale contro le loro terribili e crescenti devastazioni, tramite la creazione di demani sovranazionali e di rigidi limiti alle emissioni di gas inquinanti; garanzie giurisdizionali secondarie, a cominciare dal controllo di costituzionalità e di convenzionalità su tutte le fonti di diritto, statali e sovrastatali, in contrasto con i principi costituzionalmente stabiliti. Fatta eccezione per la Corte penale internazionale per i crimini contro l’umanità, il cui statuto fu approvato a Roma nel 1998 ma al quale non hanno aderito le maggiori potenze, poco o nulla è stato fatto. Si è anzi appannata la memoria dei “mai più” opposti nel quinquennio 1945-1949 agli orrori dei totalitarismi e delle guerre ed è tramontato il progetto, allora formulato, di una rifondazione costituzionale dell’ordine internazionale, proprio oggi che l’anomia dei poteri globali e la crescente interdipendenza mondiale hanno reso quel progetto più che mai necessario e vitale.
La nostra proposta di una Costituzione della Terra e l’organizzazione a tal fine di un movimento d’opinione e del maggior numero di scuole finalizzate alla sua elaborazione intendono contribuire a far crescere la consapevolezza della necessità di por fine a questa crescente divaricazione tra il “dover essere” disegnato dalle tante Carte dei diritti e l’“essere” effettivo del diritto internazionale. Questa distanza tra normatività ed effettività è il riflesso della divaricazione tra problemi globali e politiche locali, tra la crescente interdipendenza planetaria e il carattere ancora prevalentemente statale del diritto e delle istituzioni pubbliche, sia di governo che di garanzia. Oggi i problemi politici e sociali più gravi sono sicuramente globali: l’inquinamento atmosferico e il riscaldamento climatico; la dissipazione delle risorse energetiche disponibili; la produzione e la diffusione di armi sempre più micidiali che alimentano guerre e criminalità; la crescita esponenziale delle disuguaglianze in un mondo sempre più integrato che vede convivere enormi ricchezze e terribili povertà e il conseguente sviluppo di violenze, terrorismi e fondamentalismi; la mancanza, per centinaia di milioni di esseri umani, dell’alimentazione di base, dei farmaci salva-vita e dell’acqua potabile; lo sfruttamento illimitato del lavoro per la concorrenza al ribasso tra lavoratori dei Paesi ricchi e lavoratori in condizioni para-schiavistiche nei Paesi poveri; le diverse forme di criminalità organizzata, anch’essa sempre più globali; infine il dilagare a livello planetario delle pandemie, come quella ancora in atto del coronavirus. Ma questi problemi sono ignorati dalla politica degli Stati nazionali, ancorata al consenso popolare entro gli spazi ristretti delle circoscrizioni elettorali e nei tempi brevi delle elezioni o peggio brevissimi dei sondaggi. La democrazia odierna è affetta da localismo e da presentismo. Entra così in conflitto con la razionalità che oggi impone, nell’interesse di tutti, limiti e vincoli ai poteri selvaggi degli Stati sovrani e del mercati globali quali possono provenire soltanto da una Costituzione globale alla loro altezza.
Siamo peraltro convinti che la prospettiva di un costituzionalismo globale, logicamente conseguente ai diritti fondamentali stabiliti da tante Carte costituzionali e internazionali, apra un nuovo orizzonte alla cultura giuridica. Il costituzionalismo ha infatti mutato lo statuto epistemologico della scienza del diritto: non più la semplice descrizione del diritto esistente quale che sia, promossa dal vecchio metodo tecnico-giuridico, bensì la sua critica e la sua progettazione sulla base del carattere normativo dei principi di giustizia – l’uguaglianza, i diritti fondamentali, la dignità delle persone – in quelle tante Carte stipulati. La nostra ipotesi di un’estensione a livello globale del paradigma costituzionale allarga enormemente questi spazi della critica e della progettazione istituzionale e conferisce un fascino nuovo ai nostri studi. Il mio augurio agli studenti e ai docenti che frequenteranno la scuola e il laboratorio da voi istituiti è che essi avvertano questo fascino nuovo e vogliano perciò partecipare alla nostra impresa, impegnandosi nell’immaginazione e nell’elaborazione non solo del testo della Costituzione della Terra da noi ipotizzata ma anche, e soprattutto, delle funzioni e delle istituzioni di garanzia capaci di attuarla.

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Rinasci Sardegna! Un Nuovo Inizio. Patto per Tutti i Sardi

lampadadialadmicromicro133Riceviamo e volentieri pubblichiamo. La lettera è indirizzata ai firmatari dell’Appello del “Patto di sardi”, pubblicato nella nostra news, come invito al dibattito per proseguire nel percorso intrapreso. Crediamo che abbia una valenza che interessa e coinvolge tutti i sardi e non solo, per questa ragione riteniamo meriti la più ampia diffusione.
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filippo-figari-sardegna-industre-2Rinasci Sardegna! Un Nuovo Inizio. Patto per Tutti i Sardi

Alcuni di noi, tra i promotori dell’Appello del “Patto di Sardi”, hanno preso l’iniziativa di scrivere la lettera-messaggio che sotto si riporta, nella quale sono presentate alcune proposte per proseguire, non più solo come cattolici, ma come donne e uomini sardi di buona volontà, nel percorso di assunzione di responsabilità e partecipazione attiva alla costruzione di un nuovo futuro per la Sardegna. La nostra funzione di piccolo gruppo di servizio è terminata: ora andiamo in mare aperto con il coinvolgimento attivo di tutti, i 207 firmatari attuali e altri che si aggiungeranno. Avanti con convinzione e impegno!
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Lettera indirizzata ai firmatari del Manifesto-Appello alle istituzioni sarde

Care amiche e cari amici,
L’appello, firmato al momento da 207 sardi, cattolici e laici, ha raggiunto tutte le istituzioni sarde – comprese le forze sociali, sindacali, imprenditoriali – e la Conferenza Episcopale della Sardegna, che ha pubblicamente apprezzato l’iniziativa.
Numerose voci di vari orientamenti politico-culturali chiedono insistentemente di proseguire in un impegno finalizzato a ricercare – attraverso la mobilitazione di laici “responsabili e sensibili” – percorsi di speranza e di giustizia per le popolazioni sarde.
L’adesione suscitata dall’appello ci ha spinto a cercare di non disperdere questo patrimonio umano che incarna valori importanti capaci di incidere significativamente sul futuro della nostra società. Siamo convinti che in questo momento storico la Sardegna ha bisogno di tutti e che il bene dell’isola è interesse non solo dei partiti, delle forze economiche e delle lobby di ogni tipo e natura, ma dell’intero popolo sardo.
Da questo momento perciò, ci siamo proposti di aprire una riflessione tra quanti ritengono che si debba proseguire nel cammino iniziato con l’appello, chiarendo a noi stessi chi siamo, chi vogliamo rappresentare e cosa vogliamo fare nell’interesse della nostra gente sarda e in particolare di quella più colpita dalla crisi.

Chi siamo?
E’ stato scritto che inizialmente l’Appello era opera di un gruppo di cattolici sardi. Ma la nostra non vuole essere un’iniziativa confessionale. Siamo stati solamente i “propulsori” di un’iniziativa sottoscritta da 207 persone, e condivisa da tantissimi. Ma come proseguire e il da farsi è “consegnato” a tutte le donne e uomini di buona volontà. Noi cattolici ne siamo parte attiva, senza pretese di primogenitura, insieme con tutti.
La decisa e convinta adesione di numerose persone di vario orientamento ideale e culturale impone – per il bene dei sardi – la collaborazione tra quanti, come noi, credono nei fondamentali valori della centralità della dignità della persona umana, della solidarietà, della ricerca del dialogo sociale e della pace, della vicinanza alle “pietre scartate”.
Non abbiamo idea, al momento, se si sarà capaci di costruire questa prospettiva né si è riflettuto in maniera sufficiente su cosa potrà diventare questa aggregazione. Ciò che ci pare importante è che non possiamo rimanere silenti e non impegnarci perché le cose cambino. Siamo persone di provenienze le più diverse che si sono ritrovati in un documento che chiede un cambiamento radicale incisivo, considerando che fino a questo momento le condizioni delle popolazioni sono decisamente peggiorate e non solo a causa della pandemia.
Ciò che stiamo cercando di fare è svegliare le coscienze, rompere questo torpore che sembra avvolgere tutto, stimolare in maniera forte istituzioni, politica, forze sociali a non pensare esclusivamente agli interessi di parte ma alla ricerca del bene comune.

Ricostruire la Sardegna
Il programma di ricostruzione generale della Sardegna sul fronte socio economico è vastissimo perché richiama numerose problematiche di comparto, di settore e metodologie e strumenti d’attuazione sicuramente plurali. Ma due sono secondo noi i principi ispiratori di ogni scelta politica: 1) assicurare ai cittadini qualità della vita; 2) dignità della persona. Da questi principi ispiratori derivano alcune priorità, che elenchiamo senza pretesa di essere esaurienti:
- Diritto all’istruzione e alla formazione in tutte le forme e le articolazioni che il progresso scientifico e tecnologico oggi richiede per evitare qualsiasi forma di emarginazione.
- Cultura e rispetto dell’ambiente come bene da tutelare e risorsa da utilizzare
- Diritto al lavoro, strumento fondamentale perché la vita sia dignitosa
- Sussidiarietà tra diversi livelli istituzionali nel governo dei territori e nel rapporto tra istituzioni e le entità di partecipazione dei cittadini
- Diritto all’assistenza e alla cura per proteggere e promuovere, in tutte le età della vita, la dignità della persona

Impegno socio-politico dei cattolici
La ritirata della cultura sociale cattolica dalla scena politica non ha fatto bene alla nostra democrazia. Il suo ritorno, in una rinnovata prospettiva di apertura e inclusione, può contribuire a portare nuove idee, a ricostruire una politica che sembra orientata a raggiungere obiettivi di gruppi e/o di singoli piuttosto che avere l’idea che è necessario lavorare per tutti. San Paolo VI affermava che lo sviluppo o è per tutti o non è sviluppo. Anche i non cattolici sono in tutta evidenza fortemente interessati a un rinnovato impegno politico dei cattolici, con cui intraprendere comuni percorsi.

L’identità sarda
Il tema della sardità non può essere ignorato anche se le articolazioni di questo argomento sono tante e spesso divisive, e non da oggi. Il nostro obbiettivo è costruire un’autonomia vera, capace di autodeterminare bisogni, interessi, obiettivi sia di carattere sociale che di carattere economico. Da questo punto di vista l’interesse principale riguarda la rottura della dipendenza e assistenza che giova soltanto alle aree più ricche del paese, dalle quali provengono le merci che importiamo e che paghiamo grazie al contributo del cosi detto residuo fiscale. Non vogliamo essere un popolo di assistiti e dipendenti.

Nuovo Inizio per la Sardegna – Rinasci Sardegna! – Un Patto che unisca tutti i sardi. Forza Paris nei due significati di Insieme e Uguali.
Vogliamo essere soltanto un movimento popolare di opinione e di animazione – forte e incisivo – perché siamo a un cambiamento d’epoca che in Sardegna, se noi resteremo in silenzio e alla finestra, altri sicuramente hanno cominciato a scrivere.
Riflettiamo insieme anche sul nome, breve come uno slogan, ma emblematico e programmatico, per indicare il nuovo corso che economia, scienza, tecnologia, ambiente, anche pandemia hanno imposto, dentro il quale dobbiamo immettere valori ed etica. E decidiamo insieme.
Il vecchio approccio riformista non funziona più, l’economia liberista non sa più dove portare il mondo, l’ecologia integrale è la nuova salvezza. Certo anche la scienza giocherà un grande ruolo, lo dimostra la vicenda dei vaccini anti Covid-19. Ma non sarà sufficiente da sola, perché ci sarà bisogno di ridare senso a quasi tutti gli aspetti della nostra vita al punto che gli studiosi hanno coniato un termine che indica nuovo approccio a tutte le scienze sociali, quello “trasformazionale”.
La Sardegna ha urgente bisogno di un nuovo inizio per riprogettare la propria autonomia, riagganciarsi all’Europa (l’Europa dei popoli, solidale, unita e integrata nella valorizzazione delle diversità), uscire dall’arretratezza e dall’isolamento, per risalire le classifiche che ci vedono primi, tra i Paesi del Mediterraneo simili al nostro, per denatalità e abbandono scolastico, ultimi per occupazione giovanile, imprenditorialità, trasporti, speranza di futuro. Lo ribadiamo: dobbiamo dar vita ad una nuova cultura incentrata sull’ecologia integrale e un nuovo umanesimo. Lo dobbiamo ai giovani, alle donne e a tutti gli uomini di buona volontà, alla nostra gente sarda. Chi crede si ricordi delle parole “Io faccio nuove tutte le cose” e rimetta la speranza al centro dei nostri sogni e delle nostre sfide.

Gli strumenti per continuare a dialogare
Tutti sappiamo delle difficoltà di incontrarci personalmente e poiché siamo molto attenti al rispetto delle regole in tempo di pandemia , pensiamo che l’utilizzo dei nuovi media sia al momento l’opzione prevalente. Per questa ragione, ma anche perché questi strumenti sono efficaci, poco costosi e molto coinvolgenti pensiamo di attivare i social media più diffusi dal rafforzamento della esistente chat su whatsapp, alla realizzazione di una pagina fb e di un sito web dedicato. Dovremo anche prendere in considerazione l’opportunità di aprire un conto corrente bancario per fornirci di un agile strumento di autofinanziamento
Ciò ci potrebbe consentire di ampliare la partecipazione, di comunicare con efficacia, di raccogliere suggerimenti, idee da sviluppare insieme. Si tratta insomma di creare una rete la più ampia possibile sia rispetto alle organizzazioni sociali, professionali, ma anche di coinvolgere i territori della Sardegna.
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I promotori dell’Appello
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“Non ci si salva da soli”. Per battere il Covid in Sardegna è urgente la “buona politica; non quella asservita alle ambizioni individuali o alla prepotenza di fazioni o centri di interessi”.

Appello di cattolici sardi

Premessa.
Noi cittadini sardi, cattolici ispirati dai valori del Vangelo, fedeli agli insegnamenti del Concilio Vaticano II e della dottrina sociale della Chiesa, convintamente riproposti dalle ultime illuminanti encicliche di Papa Francesco, ci dichiariamo preoccupati e angosciati per il precipitare della situazione economica della Sardegna, con il portato di sofferenze materiali e psicologiche per un numero crescente di persone appartenenti a tutti gli strati della società sarda, specie dei meno abbienti. Chiediamo pertanto a tutti, a partire da quanti hanno responsabilità pubbliche, nelle Istituzioni e nelle altre organizzazioni della Società, e a tutti gli uomini e a tutte le donne di buona volontà, un impegno corale che, nel rispetto delle differenze delle diverse appartenenze politiche e culturali, ci renda solidali e attivi per uscire dalla situazione di crisi e difficoltà antiche e attuali della nostra regione.

1. Il momento della Sardegna.
La Sardegna nel momento in cui ha bisogno della più grande ricostruzione morale sociale ed economica della sua storia contemporanea – che può iniziare proprio dalla lotta al Coronavirus e ai suoi devastanti effetti – risulta paralizzata da un insieme di contraddizioni che si scaricano soprattutto sui più deboli.

La pandemia da Coronavirus ha ulteriormente aggravato le già precarie condizioni economiche e sociali della Regione. L’aggiornamento congiunturale dell’economia della Sardegna del novembre 2020, pubblicato dalla Banca d’Italia, sottolinea la forte negatività di tutte le variabili ( molto peggio di quanto accaduto a livello nazionale) dal PIL ai consumi, dalle esportazioni all’occupazione, dal fatturato agli ordinativi di tutti i settori dall’agricoltura all’industria, dal commercio, all’edilizia dal turismo ai servizi. Gli effetti di questa crisi strutturale avranno pesanti conseguenze oltrechè sul piano sociale anche su specifiche situazioni come l’emigrazione dei giovani istruiti, l’ulteriore spopolamento dei piccoli comuni, l’incremento dei livelli di povertà.

2. Principali emergenze
In diversi settori fondamentali le situazioni di crisi si sono aggravate negli anni.

– Nella scuola, nella formazione, nell’Università e nella Ricerca, comparti in cui si ampliano i divari tra i partecipanti a tutti i livelli – con esclusioni dettate in grande misura dalle condizioni economiche di partenza delle famiglie – oggi anche acuiti dalla formazione a distanza.

– Nei trasporti perennemente incerti al punto di togliere ai sardi il diritto costituzionale alla mobilità. E’ dei giorni scorsi la dichiarazione relativa all’interruzione dal 1° dicembre di tutti i collegamenti navali in convenzione.

– Nella sanità, con i tagli sistematici agli organici, l’annuncio di riforme penalizzanti nei confronti dei territori, l’intasamento degli ospedali; il taglio delle borse di studio per le specializzazioni mediche. Questioni ben rappresentate in questo periodo dal malessere dei sindaci di fronte all’enormità dell’emergenza sanitaria disperatamente affrontata dai medici, dal personale sanitario, dagli operatori delle cooperative sociali e del volontariato a cui va la nostra solidarietà

– Nelle pubbliche amministrazioni, in tutte le diverse articolazioni, dove si aggrava la farraginosità burocratica al punto da compromettere i diritti dei cittadini, ma anche delle imprese, ostacolate anzichè sostenute nella funzione di creare lavoro per uno sviluppo economico eco-sostenibile.

Nella politica, segnata dal crollo della partecipazione dei cittadini sardi agli eventi elettorali e, spesso , da carenze programmatiche e attuative che rischiano di mettere a repentaglio i diritti della persona e perfino del rispetto della dignità umana. Nell’emergenza attuale, che riguarda tutti, ad essere maggiormente colpite sono, come sempre, le fasce sociali più deboli della popolazione: giovani, donne, anziani, poveri di ogni tipologia e, tra essi, ammalati, persone con basso livello culturale, analfabeti digitali, i residenti nei piccoli centri dell’interno, disoccupati.

Le famiglie che già vivevano in situazioni di disagio prima dell’inizio dell’emergenza sanitaria, versano oggi in situazioni di gravissima difficoltà, come testimoniano anche i recenti dati della Caritas sull’aumento della povertà assoluta e relativa.

La Sardegna ha bisogno, dunque, di interventi concreti sulle politiche per la famiglia, i giovani, il lavoro e le imprese, la questione ambientale, la sanità, la scuola, le infrastrutture, l’Università, la ricerca, le nuove tecnologie, la lotta alla corruzione.
[segue]

La Chiesa di Cagliari contro la localizzazione in Sardegna del Deposito di rifiuti radioattivi.

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logo-ufficio-pastorale-lavoro-cagliariCOMUNICATO
circa l’ipotesi di deposito di rifiuti radioattivi in Sardegna

L’Ufficio per la Pastorale Sociale e Lavoro, Pace e Salvaguardia del Creato della Diocesi di Cagliari, d’intesa con l’Arcivescovo, esprime profonda preoccupazione per l’individuazione, tra le aree potenzialmente idonee ad ospitare il deposito dei rifiuti radioattivi di tutta Italia, anche di 14 siti in Sardegna comprendenti, tra gli altri, territori ricadenti nella Diocesi di Cagliari (Nurri, Gergei, Villamar, Mandas, Siurgus Donigala, Segariu, Guasila e Ortacesus).
Si tratta di comunità locali già pesantemente colpite da annose criticità derivanti dalla condizione di insularità, dal crescente spopolamento e dalla mancanza di investimenti strutturali orientati alla ripresa e allo sviluppo socio-economico dei territori.
[segue]

Bisogno di Umanesimo

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Come uscire dalla pandemia
LE NUOVE TECNICHE BASTANO A RIUMANIZZARE IL MONDO?
di Umberto Baldocchi.
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Su Chiesadituttichiesadeipoveri, 30 DICEMBRE 2020 / EDITORE / DICE LA STORIA /

Si parla sempre più spesso, in relazione al tanto atteso periodo post-Covid, dopo che l’esperienza pandemica ci ha fatto toccare con mano che la “mano invisibile” della globalizzazione non ci può salvare dai disastri, di un nuovo inizio, della impossibilità di un ritorno alla “normalità” che abbiamo conosciuto, della necessità di reinventare un mondo diverso nonché di costruire una società all’altezza delle sfide epocali, per la verità senza che si precisi meglio in cosa dovrebbe consistere questa diversità o questa novità. O meglio senza che si sciolga una ambiguità di fondo. Il presidente del Consiglio ha parlato di un “nuovo umanesimo” che metta al centro il valore dell’uomo e la promozione della dignità umana.
Ovviamente, se parliamo di finanziamenti che mirino ad un progresso “sostenibile, verde, digitale e inclusivo”, è possibile – non è garantito però – che questo sviluppo metta davvero al centro il valore dell’uomo e riesca a ricostruire una società fondata sulla promozione della dignità umana. E anche il riferimento alle tre P Persona Pianeta Prosperità, come nuovi obiettivi dell’era post Covid, fatto dal presidente del Consiglio, suggerisce l’idea di un nuovo umanesimo che sia un ritorno ai valori, certo in forme mutate, dell’Umanesimo classico, cui l’Italia aveva dato vita a suo tempo.
Ma su questo “nuovo inizio” e “nuovo umanesimo” ci sono in giro interpretazioni molto diverse, forse anche opposte, benché non tali in apparenza. Se il Covid-19 ha messo in luce la fragilità dell’essere umano e delle nostre società e se la persistenza del virus non ci permette ancora di uscire dalla fase del distanziamento sociale e non ce lo permetterà forse a lungo, si potrebbe configurare, sia pure in via emergenziale, un neo-umanesimo molto diverso da quanto sopra sostenuto. Un neo-umanesimo, plasmato dal lockdown, che si fondi non sulla ricostruzione della relazionalità umana, ma sul potenziamento tecnologico dell’individuo (scopertosi “piccolo” e ”fragile”) e del ”sistema” biotecnologico di cui il singolo è sempre più parte integrante, per costruire quella resilienza che permetta anche all’economia di funzionare. In fin dei conti sostenibilità, green economy, digitalizzazione e inclusività potrebbero essere anche più che compatibili con un potenziamento tecnologico dell’individuo singolo, connesso mediaticamente al contesto sociale, ma non con quella ricostruzione piena della relazionalità, senza mediazioni, che connota la persona nella dimensione umanistica. Si andrebbe invece nella direzione di un “umanesimo” post-umano, trans-umano o oltre-umano, compatibile con certe forme di lock-down, che potrebbe diventare una pratica da rinnovarsi di fronte ai rischi possibili. Di umano resterebbe solo il termine, però contraddetto dalla preposizione (post, trans o oltre).
Un neo-umanesimo non umano
Ed in effetti c’è un retroterra di riflessioni e iniziative che sembra suggerire proprio questa interpretazione del “nuovo” umanesimo. Il Grande Reset (o “grande riaggiustamento”) è un’iniziativa-parola d’ordine lanciata dal World Economic Forum – giugno 2020- così come l’annuncio di una quarta rivoluzione industriale fondata sulla fusione delle tecnologie e data come evento ormai in via di affermazione. Anzi come un evento non arrestabile. Che, per la verità non lascerebbe molto spazio all’umanesimo in senso proprio, fondata come questa “rivoluzione” è sul cosiddetto post-umanesimo cioè sul Digital, 5G, biotecnologia, nanotecnologia, Internet delle cose, robotica, intelligenza artificiale, biologia sintetica e simbiosi fra i vari organismi, ibridazione dell’uomo con le cose. Se agli strumenti si sostituiscono i sistemi di cui l’uomo è una semplice protesi – come osservava Ivan Illich – l’identità umana non potrà più essere quella dell’homo sapiens. L’uomo dovrà mutare. L’umanesimo nuovo avrà poco in comune con quello classico. Sarà un umanesimo inedito, si dice. Tanto inedito da essere un “non umanesimo” nei fatti.
Una riflessione su questo può essere agevolata dalla considerazione comparativa degli aspetti dell’altro GRANDE RESET storico, quello del 1348, quello dell’Europa dopo la grande pandemia della peste nera. Anche quell’evento fu vissuto all’epoca come evento insieme straordinario e provvidenziale, in quanto decisivo per mettere alla prova le strutture sociali su cui si reggeva la società dell’epoca. Ed anche allora quella “prova” aveva dato risultati inquietanti. La società, nonostante conoscesse da tempo immemorabile le pestilenze, non si trovò “preparata” a rispondere.
Lo sguardo lungo di Boccaccio
E nella letteratura italiana abbiamo un testo straordinario che documenta e illustra questo passaggio, il Decameron di Giovanni Boccaccio, che nella sua Introduzione descrive proprio la peste del 1348 a Firenze di cui l’autore era stato testimone oculare. Gli effetti della pandemia del 1348 erano stati anche per Boccaccio sconvolgenti ed “apocalittici”, in un certo senso. Basti dire che in quel contesto anche “la reverenda autorità delle leggi, così divine come umana era quasi caduta e dissoluta” (Decameron, Introduzione), la società si era destrutturata, la vita umana era regredita a caratteri mai visti di animalità.
Si trattava di rispondere, anche allora, alla destrutturazione sociale portata alla luce dalla pandemia, ma già carsicamente presente nel mondo medioevale, un mondo in cui le istituzioni di governo, l’Impero e la Chiesa erano in grave crisi da tempo, e forze nuove emergevano dal basso, alterando e modificando un ordine sociale che non riusciva a trovare un nuovo equilibrio. Dentro la società che si stava disgregando in effetti nasceva qualcosa di nuovo. Se l’Impero universale si disfaceva e la Chiesa non svolgeva più la sua funzione di guida morale – come Dante aveva già denunciato – nascevano però nuove compagini europee, si affermavano culture nuove, le armi pacifiche dei mercanti e banchieri dell’epoca, la lettera di cambio e il fiorino, unificavano o avvicinavano le diverse aree europee, scavalcando i poteri territoriali, e cominciavano a dare unità economica all’Europa e al Mediterraneo. Potremmo dire che la mercatura e il mondo bancario nascente, insieme allo spirito di impresa delle nascenti borghesie, erano le nuove “tecniche” che consentivano di riordinare e resettare la società. Ma, dopo la pandemia, le nuove tecniche potevano bastare a ri-umanizzare il mondo?
La “commedia umana” del Decameron ci dice una verità piuttosto diversa. Non si trattava solo di rivolgersi al nuovo spirito mercantile o di ricorrere alle nuove tecniche monetarie per accrescere la ricchezza e la sua circolazione, se si voleva davvero ri-umanizzare il mondo. Si trattava di “fare società” laddove c’era conflitto, contrapposizione, individualismo o isolamento, così come avevano fatto nel piccolo i dieci giovani fiorentini riunitisi nella villa campagnola per fuggire la peste. La moneta poteva servire certo a fare unità, ma poteva servire anche a dividere, a contrapporre, a negare valori di umanità, ad alterare la giustizia, il culto religioso e così via. Nella affollata galleria dei personaggi del Decameron accanto al mercante coraggioso che affronta i rischi del mare, il regno della “fortuna”, c’erano infatti, grazie al nuovo uso del denaro, anche l’usuraio o il notaio falsario, il predicatore ciarlatano, l’inquisitore falso e ipocrita, il prete astuto e opportunista.
Ci vuole qualcosa di più della tecnologia per “fare società”. Sono necessari ingegno e intelligenza, ma neppure essi bastano. L’ingegno e l’intelligenza possono servire ad avvicinare ed unire le persone, a superare le barriere di classe e quelle culturali, a far convivere le idee e le fedi diverse, a fronteggiare i rischi della vita sociale, iniziando da quelli sanitari. Come tante novelle del Decameron mostrano. Ma ingegno e intelligenza non bastano, per due motivi diversi. Prima di tutto non bastano perché l’uomo non è buono per natura, non può recuperare una sua presunta innocenza originaria. La persona umana può servirsi dell’ingegno e dell’intelligenza – che pure non è sapienza – in modi molto diversi, secondo una scala di valori che ha gradi molto diversi. L’ingegno può essere usato per migliorare la realtà, ma anche per ingannare gli altri, per prevaricare sugli altri, per affermare il proprio io contro gli altri, per usare strumentalmente gli altri nella beffa, può essere identificato con l’astuzia e la furbizia che danno vita ad una sorta di “epos” degli sciocchi che si credono astuti, i mille Calandrini che incontriamo sempre nelle vicende umane.
In secondo luogo ingegno e intelligenza non bastano perché ci vuole una forza addizionale che spinga all’azione. Non basta pensare ciò che è giusto, bisogna volerlo. E il pensare non include il volere, diversamente da quanto aveva pensato tutta la filosofia classica.
Ci vuole l’amore
Ci vuole quel trasporto umano, quella forza “…che sovrasta la tempesta e non vacilla mai, che è la stella guida di ogni barca perduta… che non è soggetta al tempo… che non muta in poche ore o settimane” ( William Shakespeare) e che si chiama comunemente “amore” in senso profondo.
Quel sentire cioè che sublima sentimenti e doti che sono naturali, che è presente a livelli diversi in ciascuno, ma si realizza pienamente solo nelle personalità più elevate spiritualmente. Se l’amore umano, specie nella sua versione fisica e sessuale, non è negato a nessuno, c’è però una amplissima gradazione della passione d’amore, che fa la differenza fra le persone. In Lisabetta da Messina, in Griselda, in Federigo degli Alberighi e in pochi altri casi l’amore si manifesta come forza che vince tutti gli ostacoli, qualcosa che è “forte come la morte”. Amor vincit omnia vale solo per questi casi. Ma questa forza, che pure è posseduta da pochi, pervade tutta la società e la umanizza. E’ allora forse un anacronistico ritorno alla società cortese e cavalleresca, che delinea una via d’uscita nostalgica e passatistica dalla crisi pandemica, come mi pare riconosca nella sua ipotesi interpretativa, sia pure circondata da cautela e da riserve autocritiche, Franco Cardini nella sua interessante “incursione” storico-letteraria entro il Decameron visto in relazione alla pandemia? (Franco Cardini, Le cento novelle contro la morte- Leggendo Boccaccio: epidemia, catarsi, amore, Roma, Salerno editrice, 2020). Forse no, forse è qualcosa di più o di diverso.
Forse Boccaccio è molto più consapevole della realtà storica e dei suoi condizionamenti, per poter pensare davvero ad un ritorno al passato. Semplicemente ha scoperto una sorta di regolarità sociologica, qualcosa che non tocca solo la sua epoca, e cioè ha scoperto che ingegno e razionalità, pur necessari, non bastano a umanizzare la società. Attraverso una dedizione, sostenuta da questo slancio misterioso, occorre ricostruire i legami profondi della fides che lega tra loro le persone e consente di “fare comunità” e quindi “fare società”, o di costruire gli essenziali “beni relazionali” per usare termini oggi più alla moda. In questo modo Boccaccio afferma le esigenze di un vero umanesimo, che può essere sì sostenuto, oltre che dall’ingegno, anche dalla tecnica (nel suo caso quella borghese e mercantile che aveva potuto conoscere e sperimentare personalmente nella sua giovinezza) ma non può essere surrogato da essa.
Come ci fa capire il DECAMERON, la vera e decisiva risposta alla crisi pandemica non fu e non poteva essere una risposta emergenziale. L’isolamento sociale rappresentato, nel racconto, dal rifugiarsi dei giovani in una villa della campagna toscana – in realtà quell’isolamento era concepito come un fenomeno temporaneo, e comunque non era un fenomeno di asocialità, ma uno strumento per ricostruire una nuova convivenza – non era la soluzione, che invece poteva trovarsi solo nel ricorso alle grandi risorse della cultura umanistica esplicitato dai contenuti delle cento novelle. Si trattava di contrastare la destrutturazione sociale, la degenerazione e il degrado che la “emergenza” pandemica aveva portato alla luce, ma non aveva creato; esse c’erano già, anche se nessuno o quasi le percepiva. La vera e decisiva risposta fu quindi, in un certo senso, il grande umanesimo italiano nella sua stagione rinascimentale, che elaborò un modello culturale che fu ed è ancora un essenziale referente unificante per l’ Europa di oggi.
Una lezione per oggi
Al disfacimento sociale e morale che si accompagna alla peste delineato all’inizio dell’opera, Boccaccio contrappone infatti il ricorso all’intelligenza umana impiegata su scala sociale ed ai legami affettivi profondi, con l’amore al suo punto più alto, i veri strumenti per contrastare la disumanizzazione emersa nella pandemia e per combattere il “rischio”, ovvero l’imprevedibilità delle vicende in cui l’uomo è inserito, da lui denominato “fortuna” e quindi anche il rischio pandemico. Sono elementi entrambi che consentono di abbracciare pienamente la complessità del reale (questo il senso profondo del “realismo” del Decameron, che riesce a rappresentare l’ideale continuità tra i cavalieri della spada, o dell’ingegno e dell’industria umana e gli altri uomini tutti calati e assorti nei loro istinti e nelle loro passioni, senza i quali la rappresentazione del reale sarebbe mutila) e quindi di evitare quella cecità della conoscenza che anche oggi ci rende tanto soggetti a errori ed illusioni. L’intuizione umanistica di Boccaccio è in modo sorprendente perfettamente adeguata anche e proprio alla realtà che ci troviamo oggi di fronte. Come ha osservato Edgar Morin “l’intelligenza parcellare, compartimentata, meccanicista, disgiuntiva, riduzionista, spezza il complesso del mondo in frammenti disgiunti, fraziona i problemi, separa ciò che è legato, unidimensionalizza il multidimensionale. E’ un’intelligenza miope che il più delle volte finisce per essere cieca…. Così, più i problemi diventano multidimensionali [il Covid-19 oggi ne è un esempio], più si è incapaci di pensare la loro multidimensionalità; più progredisce la crisi, più progredisce l’incapacità di pensare la crisi; più i problemi diventano planetari, più diventano impensati. Incapace di considerare il contesto e il complesso planetario, l’intelligenza cieca rende incoscienti e irresponsabili…. Di fatto la falsa razionalità ossia la razionalizzazione astratta e unidimensionale, trionfa su tutte le terre… Da tutto ciò derivano catastrofi umane, le cui vittime e conseguenze, non sono riconosciute né contabilizzate, come lo sono invece le vittime delle catastrofi naturali… Il XX secolo ha generato progressi giganteschi in tutti gli ambiti della conoscenza scientifica, così come in tutti i campi della tecnica. Nel contempo ha prodotto una nuova cecità verso i problemi globali, fondamentali e complessi, e questa cecità ha prodotto innumerevoli errori ed illusioni. ”. (Edgar Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Milano, Cortina, 2001, p. 43, 44, 45,46).
[segue]

Recovery Fund

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ECONOMIE
Recovery: i soldi ci sono, manca la “svolta”

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Su Volerelaluna, 14-12-2020
di Luigi Pandolfi*

Dopo le incertezze e i veti delle settimane scorse, il pacchetto di risorse che l’Unione europea ha messo a disposizione dei Paesi membri per il rilancio dell’economia ha ricevuto, finalmente, il definitivo via libera. La Germania ha fatto valere nella trattativa tutto il suo peso politico, ma per le condizionalità sul rispetto dello Stato di diritto – questione sulla quale si erano messi di traverso Polonia e Ungheria – la partita è stata chiusa con classico bizantinismo: le clausole non decadono, ma saranno accompagnate da una “dichiarazione interpretativa” nella quale tutti potranno riconoscersi, buoni e cattivi.

Ora è il tempo dei soldi, non si può fare “filosofia” sui diritti.

I soldi, infatti, sono un bel po’, «mai così tanti» si è detto da più parti: 1800 miliardi tra Next Generation UE e bilancio dell’Unione 2021-2027. E la novità sta nel fatto che i 750 miliardi del cosiddetto Recovery fund saranno raccolti sul mercato con l’emissione di obbligazioni europee. Non è la “rivoluzione”, ma certamente un passo avanti nel processo di integrazione. Una situazione nuova rispetto alla gestione della crisi precedente, con la BCE che sta svolgendo con più coerenza il proprio lavoro per la stabilità delle finanze pubbliche, tenuto conto anche della loro sensibile quanto necessaria dilatazione in questa fase. Il prossimo passo? Dovrebbe essere quello della sterilizzazione da parte di Francoforte del debito contratto dai Paesi membri per la pandemia, trasformando i titoli acquistati sul mercato secondario in perpetuals bonds. Cosa bisognerebbe invece buttare nella spazzatura? Certamente il MES, perché nell’epoca del denaro creato “dal nulla” è inammissibile che gli Stati debbano accettare ipoteche sui diritti dei cittadini per il loro approvvigionamento finanziario. Ma questa storia meriterebbe una trattazione a parte.

Torniamo al cosiddetto Recovery fund.

Per l’Italia il plafond, nella sua dimensione massima ammissibile, dovrebbe essere di 193 miliardi di euro, di cui 65,4 miliardi di euro di sovvenzioni e 127,6 miliardi di euro di prestiti (con altre risorse specifiche di bilancio si arriva a un totale di 208,6 miliardi, in pratica i famosi «209 miliardi» di cui si parla dall’inizio di questa partita), che il Governo dice di voler «utilizzare appieno». Ma a che punto stiamo con la programmazione? C’è una bozza di piano (Piano nazionale per la ripresa e la resilienza), ma non è quella definitiva sulla quale Bruxelles dovrà fare il suo lavoro di “limatura” prima della pronuncia definitiva dell’Ecofin, il Consiglio dei ministri dell’economia e delle finanze di tutti gli Stati membri. I tempi? Se tutto andrà bene, ma proprio bene, i primi soldi potrebbero arrivare nella seconda metà del 2021. Non proprio «tempi europei», per usare una nota espressione riferita alla durata degli interventi nei consessi dell’Unione.

Ma cosa c’è dentro la bozza preparata dal Governo? Innanzitutto che il Paese deve correre di più, perché «la crescita economica dell’Italia negli ultimi vent’anni è stata nettamente inferiore alla media europea e, più in generale, a quella delle altre economie avanzate». Quindi, più investimenti e meno tasse (riforme di contesto). Ma meno tasse a chi? A chi guadagna da 40 a 60 mila euro lordi all’anno e, naturalmente, alle imprese. E per i disoccupati, i precari, i poveri assoluti, per la lotta alle disuguaglianze, per tutti quelli che non hanno il problema delle tasse perché non hanno reddito o non ne hanno a sufficienza?

Per rendere l’idea delle proporzioni, basta dire che la parola «disuguaglianza» è presente soltanto due volte in un testo di 125 pagine, e solo con riferimento alla «disuguaglianza di genere». La parola «povertà» sette volte, «assunzioni» una sola volta, ma a tempo determinato e solo nel capitolo sulla giustizia, «precari» e «precarietà» non pervenuti. Diversamente, la parola «competitività» è presente quaranta volte e l’aggettivo «fiscale» (riferito a Irpef, sgravi, tassazione sulle imprese) venti. Potremmo fermarci qui, per quanto riguarda la filosofia di fondo: il problema rimane la “resilienza” del sistema, senza cambiamenti significativi dei paradigmi socioeconomici dominanti. Crescita della ricchezza nazionale, ma guai a sindacare sulla sua distribuzione sociale, che richiederebbe interventi diretti dello Stato e specifiche “riforme di contesto” con finalità redistributive. Questione ben più importante del “chi gestirà” l’attuazione di questi programmi. Bello e romantico richiamare il “primato della politica”, del Parlamento, dei vertici politici dei ministeri. Ma questa politica, questo Parlamento, che idee hanno sul futuro del Paese, diverse, si intende, da quelle che anonimi poteri tecnocratici, lobby economiche ed “esperti” mainstream ci propinano da anni? La verità è che tra gli “esperti” non abbiamo un Paolo Sylos Labini o un Pasquale Saraceno (l’autore del famoso “Rapporto” che aprì la strada alla programmazione economica dei primi anni Sessanta) e tra i “politici” non c’è nessun Riccardo Lombardi o Antonio Giolitti, o anche un Ugo La Malfa. Ci vorrebbe una mobilitazione dal basso, ma dove sono le forze?

Qualche numero: su 193 miliardi di euro, alle politiche occupazionali sono riservati 3,2 miliardi (l’1,6%), dai quali vanno comunque tolte quelle per le politiche “giovanili” tout court. Non va meglio per l’inclusione sociale, 5,9 miliardi (il 3%), e nel plafond è calcolata anche la quota spettante al terzo settore. E per la sanità e il Sud? Rispettivamente, 9 e 3,8 miliardi. Mancano all’appello oltre 170 miliardi di euro, qual è il loro impiego? Oltre 120 miliardi sono destinati alla transizione verde e digitale, il resto alle infrastrutture, alla manutenzione stradale, alla ricerca e all’istruzione («Dall’istruzione all’impresa» è il titolo associato a questa missione).

Beninteso, gli interventi destinati alle transizioni verde e digitale, la cui ampiezza, in termini monetari, è espressamente stabilita dall’Europa, sono importanti per la modernizzazione del Paese e nell’ottica del contrasto ai cambiamenti climatici, ma «semplificazione» da un lato e riduzione degli impatti ambientali dall’altro non implicano di per sé la transizione verso una società più giusta e umana, a misura d’uomo anche per quanto riguarda l’accesso al benessere, ai servizi essenziali, a un lavoro dignitoso e adeguatamente retribuito, alle cure. Chiariamo meglio questo concetto. Il digitale può servire (soltanto) a migliorare la “competitività” delle imprese, ma può anche favorire la riduzione e la distribuzione dei tempi di lavoro. La profezia di J.M. Keynes: «Nel giro di pochissimi anni, intendo dire nell’arco della nostra vita, potremmo essere in grado di compiere tutte le opera­zioni dei settori agricolo, minerario, manifatturiero con un quarto dell’energia umana che eravamo abituati a impegnarvi». Stesso discorso per la gli interventi green. Perché sia un vero Green New Deal l’idea della sostenibilità ambientale deve essere coniugata con quella di sostenibilità sociale, elevando tutte le condizioni di benessere delle persone, nel campo della sicurezza sociale, della salute, dell’istruzione, della democrazia.

Solo in questo modo si uscirebbe da questa crisi in maniera diversa da come ci siamo entrati. Diversamente, avremo più computer, più banda larga, (forse) cieli più puliti, ma continueremo a dividerci tra chi ha tutto, chi ha poco e i troppi, ormai, che non hanno niente.

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* Luigi Pandolfi, laureato in scienze politiche, giornalista pubblicista, scrive di politica ed economia su vari giornali, riviste e web magazine, tra cui “Il Manifesto”, “Micromega”, “Economia e Politica”. Tra i suoi libri più recenti: “Metamorfosi del denaro” (manifestolibri, 2020).

Pace sulla Terra

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Per iscriversi: https://www.sardegnasolidale.it/34-marcia-della-pace-la-chiesa-la-caritas-il-volontariato-ospedali-da-campo-in-tempo-di-covid/
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Messaggio del Santo Padre Francesco per la celebrazione della 54.ma Giornata Mondiale della Pace (1° gennaio 2021).

Pubblichiamo di seguito il testo del Messaggio del Santo Padre Francesco per la 54.ma Giornata Mondiale della Pace, che si celebra il 1° gennaio 2021 sul tema “La cultura della cura come percorso di pace”: Messaggio del Santo Padre

La cultura della cura come percorso di pace

1. Alle soglie del nuovo anno, desidero porgere i miei più rispettosi saluti ai Capi di Stato e di Governo, ai responsabili delle Organizzazioni internazionali, ai leader spirituali e ai fedeli delle varie religioni, agli uomini e alle donne di buona volontà. A tutti rivolgo i miei migliori auguri, affinché quest’anno possa far progredire l’umanità sulla via della fraternità, della giustizia e della pace fra le persone, le comunità, i popoli e gli Stati.

Il 2020 è stato segnato dalla grande crisi sanitaria del Covid-19, trasformatasi in un fenomeno multisettoriale e globale, aggravando crisi tra loro fortemente interrelate, come quelle climatica, alimentare, economica e migratoria, e provocando pesanti sofferenze e disagi. Penso anzitutto a coloro che hanno perso un familiare o una persona cara, ma anche a quanti sono rimasti senza lavoro. Un ricordo speciale va ai medici, agli infermieri, ai farmacisti, ai ricercatori, ai volontari, ai cappellani e al personale di ospedali e centri sanitari, che si sono prodigati e continuano a farlo, con grandi fatiche e sacrifici, al punto che alcuni di loro sono morti nel tentativo di essere accanto ai malati, di alleviarne le sofferenze o salvarne la vita. Nel rendere omaggio a queste persone, rinnovo l’appello ai responsabili politici e al settore privato affinché adottino le misure adeguate a garantire l’accesso ai vaccini contro il Covid-19 e alle tecnologie essenziali necessarie per assistere i malati e tutti coloro che sono più poveri e più fragili.[1]

Duole constatare che, accanto a numerose testimonianze di carità e solidarietà, prendono purtroppo nuovo slancio diverse forme di nazionalismo, razzismo, xenofobia e anche guerre e conflitti che seminano morte e distruzione.

Questi e altri eventi, che hanno segnato il cammino dell’umanità nell’anno trascorso, ci insegnano l’importanza di prenderci cura gli uni degli altri e del creato, per costruire una società fondata su rapporti di fratellanza. Perciò ho scelto come tema di questo messaggio: La cultura della cura come percorso di pace. Cultura della cura per debellare la cultura dell’indifferenza, dello scarto e dello scontro, oggi spesso prevalente.

2. Dio Creatore, origine della vocazione umana alla cura

In molte tradizioni religiose, vi sono narrazioni che si riferiscono all’origine dell’uomo, al suo rapporto con il Creatore, con la natura e con i suoi simili. Nella Bibbia, il Libro della Genesi rivela, fin dal principio, l’importanza della cura o del custodire nel progetto di Dio per l’umanità, mettendo in luce il rapporto tra l’uomo (’adam) e la terra (’adamah) e tra i fratelli. Nel racconto biblico della creazione, Dio affida il giardino “piantato nell’Eden” (cfr Gen 2,8) alle mani di Adamo con l’incarico di “coltivarlo e custodirlo” (cfr Gen 2,15). Ciò significa, da una parte, rendere la terra produttiva e, dall’altra, proteggerla e farle conservare la sua capacità di sostenere la vita.[2] I verbi “coltivare” e “custodire” descrivono il rapporto di Adamo con la sua casa-giardino e indicano pure la fiducia che Dio ripone in lui facendolo signore e custode dell’intera creazione.

La nascita di Caino e Abele genera una storia di fratelli, il rapporto tra i quali sarà interpretato – negativamente – da Caino in termini di tutela o custodia. Dopo aver ucciso suo fratello Abele, Caino risponde così alla domanda di Dio: «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9).[3] Sì, certamente! Caino è il “custode” di suo fratello. «In questi racconti così antichi, ricchi di profondo simbolismo, era già contenuta una convinzione oggi sentita: che tutto è in relazione, e che la cura autentica della nostra stessa vita e delle nostre relazioni con la natura è inseparabile dalla fraternità, dalla giustizia e dalla fedeltà nei confronti degli altri».[4]

3. Dio Creatore, modello della cura

La Sacra Scrittura presenta Dio, oltre che come Creatore, come Colui che si prende cura delle sue creature, in particolare di Adamo, di Eva e dei loro figli. Lo stesso Caino, benché su di lui ricada la maledizione a motivo del crimine che ha compiuto, riceve in dono dal Creatore un segno di protezione, affinché la sua vita sia salvaguardata (cfr Gen 4,15). Questo fatto, mentre conferma la dignità inviolabile della persona, creata ad immagine e somiglianza di Dio, manifesta anche il piano divino per preservare l’armonia della creazione, perché «la pace e la violenza non possono abitare nella stessa dimora».[5]

Proprio la cura del creato è alla base dell’istituzione dello Shabbat che, oltre a regolare il culto divino, mirava a ristabilire l’ordine sociale e l’attenzione per i poveri (Gen 1,1-3; Lv 25,4). La celebrazione del Giubileo, nella ricorrenza del settimo anno sabbatico, consentiva una tregua alla terra, agli schiavi e agli indebitati. In questo anno di grazia, ci si prendeva cura dei più fragili, offrendo loro una nuova prospettiva di vita, così che non vi fosse alcun bisognoso nel popolo (cfr Dt 15,4).

Degna di nota è anche la tradizione profetica, dove il vertice della comprensione biblica della giustizia si manifesta nel modo in cui una comunità tratta i più deboli al proprio interno. È per questo che Amos (2,6-8; 8) e Isaia (58), in particolare, alzano continuamente la loro voce a favore della giustizia per i poveri, i quali, per la loro vulnerabilità e mancanza di potere, sono ascoltati solo da Dio, che si prende cura di loro (cfr Sal 34,7; 113,7-8).

4. La cura nel ministero di Gesù

La vita e il ministero di Gesù incarnano l’apice della rivelazione dell’amore del Padre per l’umanità (Gv 3,16). Nella sinagoga di Nazaret, Gesù si è manifestato come Colui che il Signore ha consacrato e «mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi» (Lc 4,18). Queste azioni messianiche, tipiche dei giubilei, costituiscono la testimonianza più eloquente della missione affidatagli dal Padre. Nella sua compassione, Cristo si avvicina ai malati nel corpo e nello spirito e li guarisce; perdona i peccatori e dona loro una vita nuova. Gesù è il Buon Pastore che si prende cura delle pecore (cfr Gv 10,11-18; Ez 34,1-31); è il Buon Samaritano che si china sull’uomo ferito, medica le sue piaghe e si prende cura di lui (cfr Lc 10,30-37).

Al culmine della sua missione, Gesù suggella la sua cura per noi offrendosi sulla croce e liberandoci così dalla schiavitù del peccato e della morte. Così, con il dono della sua vita e il suo sacrificio, Egli ci ha aperto la via dell’amore e dice a ciascuno: “Seguimi. Anche tu fa’ così” (cfr Lc 10,37).

5. La cultura della cura nella vita dei seguaci di Gesù

Le opere di misericordia spirituale e corporale costituiscono il nucleo del servizio di carità della Chiesa primitiva. I cristiani della prima generazione praticavano la condivisione perché nessuno tra loro fosse bisognoso (cfr At 4,34-35) e si sforzavano di rendere la comunità una casa accogliente, aperta ad ogni situazione umana, disposta a farsi carico dei più fragili. Divenne così abituale fare offerte volontarie per sfamare i poveri, seppellire i morti e nutrire gli orfani, gli anziani e le vittime di disastri, come i naufraghi. E quando, in periodi successivi, la generosità dei cristiani perse un po’ di slancio, alcuni Padri della Chiesa insistettero sul fatto che la proprietà è intesa da Dio per il bene comune. Ambrogio sosteneva che «la natura ha riversato tutte le cose per gli uomini per uso comune. [...] Pertanto, la natura ha prodotto un diritto comune per tutti, ma l’avidità lo ha reso un diritto per pochi».[6] Superate le persecuzioni dei primi secoli, la Chiesa ha approfittato della libertà per ispirare la società e la sua cultura. «La miseria dei tempi suscitò nuove forze al servizio della charitas christiana. La storia ricorda numerose opere di beneficenza. […] Furono eretti numerosi istituti a sollievo dell’umanità sofferente: ospedali, ricoveri per i poveri, orfanotrofi e brefotrofi, ospizi, ecc.».[7]

6. I principi della dottrina sociale della Chiesa come base della cultura della cura

La diakonia delle origini, arricchita dalla riflessione dei Padri e animata, attraverso i secoli, dalla carità operosa di tanti testimoni luminosi della fede, è diventata il cuore pulsante della dottrina sociale della Chiesa, offrendosi a tutte le persone di buona volontà come un prezioso patrimonio di principi, criteri e indicazioni, da cui attingere la “grammatica” della cura: la promozione della dignità di ogni persona umana, la solidarietà con i poveri e gli indifesi, la sollecitudine per il bene comune, la salvaguardia del creato.

* La cura come promozione della dignità e dei diritti della persona.

«Il concetto di persona, nato e maturato nel cristianesimo, aiuta a perseguire uno sviluppo pienamente umano. Perché persona dice sempre relazione, non individualismo, afferma l’inclusione e non l’esclusione, la dignità unica e inviolabile e non lo sfruttamento».[8] Ogni persona umana è un fine in sé stessa, mai semplicemente uno strumento da apprezzare solo per la sua utilità, ed è creata per vivere insieme nella famiglia, nella comunità, nella società, dove tutti i membri sono uguali in dignità. È da tale dignità che derivano i diritti umani, come pure i doveri, che richiamano ad esempio la responsabilità di accogliere e soccorrere i poveri, i malati, gli emarginati, ogni nostro «prossimo, vicino o lontano nel tempo e nello spazio».[9]

* La cura del bene comune.

Ogni aspetto della vita sociale, politica ed economica trova il suo compimento quando si pone al servizio del bene comune, ossia dell’«insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono sia alle collettività sia ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più celermente».[10] Pertanto, i nostri piani e sforzi devono sempre tenere conto degli effetti sull’intera famiglia umana, ponderando le conseguenze per il momento presente e per le generazioni future. Quanto ciò sia vero e attuale ce lo mostra la pandemia del Covid-19, davanti alla quale «ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme»[11], perché «nessuno si salva da solo»[12] e nessuno Stato nazionale isolato può assicurare il bene comune della propria popolazione.[13]

* La cura mediante la solidarietà.

La solidarietà esprime concretamente l’amore per l’altro, non come un sentimento vago, ma come «determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché tutti siamo veramente responsabili di tutti».[14] La solidarietà ci aiuta a vedere l’altro – sia come persona sia, in senso lato, come popolo o nazione – non come un dato statistico, o un mezzo da sfruttare e poi scartare quando non più utile, ma come nostro prossimo, compagno di strada, chiamato a partecipare, alla pari di noi, al banchetto della vita a cui tutti sono ugualmente invitati da Dio.

* La cura e la salvaguardia del creato.

L’Enciclica Laudato si’ prende atto pienamente dell’interconnessione di tutta la realtà creata e pone in risalto l’esigenza di ascoltare nello stesso tempo il grido dei bisognosi e quello del creato. Da questo ascolto attento e costante può nascere un’efficace cura della terra, nostra casa comune, e dei poveri. A questo proposito, desidero ribadire che «non può essere autentico un sentimento di intima unione con gli altri esseri della natura, se nello stesso tempo nel cuore non c’è tenerezza, compassione e preoccupazione per gli esseri umani».[15] «Pace, giustizia e salvaguardia del creato sono tre questioni del tutto connesse, che non si potranno separare in modo da essere trattate singolarmente, a pena di ricadere nuovamente nel riduzionismo».[16]

7. La bussola per una rotta comune

In un tempo dominato dalla cultura dello scarto, di fronte all’acuirsi delle disuguaglianze all’interno delle Nazioni e fra di esse,[17] vorrei dunque invitare i responsabili delle Organizzazioni internazionali e dei Governi, del mondo economico e di quello scientifico, della comunicazione sociale e delle istituzioni educative a prendere in mano questa “bussola” dei principi sopra ricordati, per imprimere una rotta comune al processo di globalizzazione, «una rotta veramente umana».[18] Questa, infatti, consentirebbe di apprezzare il valore e la dignità di ogni persona, di agire insieme e in solidarietà per il bene comune, sollevando quanti soffrono dalla povertà, dalla malattia, dalla schiavitù, dalla discriminazione e dai conflitti. Mediante questa bussola, incoraggio tutti a diventare profeti e testimoni della cultura della cura, per colmare tante disuguaglianze sociali. E ciò sarà possibile soltanto con un forte e diffuso protagonismo delle donne, nella famiglia e in ogni ambito sociale, politico e istituzionale.

La bussola dei principi sociali, necessaria a promuovere la cultura della cura, è indicativa anche per le relazioni tra le Nazioni, che dovrebbero essere ispirate alla fratellanza, al rispetto reciproco, alla solidarietà e all’osservanza del diritto internazionale. A tale proposito, vanno ribadite la tutela e la promozione dei diritti umani fondamentali, che sono inalienabili, universali e indivisibili.[19]

Va richiamato anche il rispetto del diritto umanitario, soprattutto in questa fase in cui conflitti e guerre si susseguono senza interruzione. Purtroppo molte regioni e comunità hanno smesso di ricordare un tempo in cui vivevano in pace e sicurezza. Numerose città sono diventate come epicentri dell’insicurezza: i loro abitanti lottano per mantenere i loro ritmi normali, perché vengono attaccati e bombardati indiscriminatamente da esplosivi, artiglieria e armi leggere. I bambini non possono studiare. Uomini e donne non possono lavorare per mantenere le famiglie. La carestia attecchisce dove un tempo era sconosciuta. Le persone sono costrette a fuggire, lasciando dietro di sé non solo le proprie case, ma anche la storia familiare e le radici culturali.

Le cause di conflitto sono tante, ma il risultato è sempre lo stesso: distruzione e crisi umanitaria. Dobbiamo fermarci e chiederci: cosa ha portato alla normalizzazione del conflitto nel mondo? E, soprattutto, come convertire il nostro cuore e cambiare la nostra mentalità per cercare veramente la pace nella solidarietà e nella fraternità?

Quanta dispersione di risorse vi è per le armi, in particolare per quelle nucleari,[20] risorse che potrebbero essere utilizzate per priorità più significative per garantire la sicurezza delle persone, quali la promozione della pace e dello sviluppo umano integrale, la lotta alla povertà, la garanzia dei bisogni sanitari. Anche questo, d’altronde, è messo in luce da problemi globali come l’attuale pandemia da Covid-19 e dai cambiamenti climatici. Che decisione coraggiosa sarebbe quella di «costituire con i soldi che s’impiegano nelle armi e in altre spese militari un “Fondo mondiale” per poter eliminare definitivamente la fame e contribuire allo sviluppo dei Paesi più poveri»![21]

8. Per educare alla cultura della cura

La promozione della cultura della cura richiede un processo educativo e la bussola dei principi sociali costituisce, a tale scopo, uno strumento affidabile per vari contesti tra loro correlati. Vorrei fornire al riguardo alcuni esempi.

- L’educazione alla cura nasce nella famiglia, nucleo naturale e fondamentale della società, dove s’impara a vivere in relazione e nel rispetto reciproco. Tuttavia, la famiglia ha bisogno di essere posta nelle condizioni per poter adempiere questo compito vitale e indispensabile.

- Sempre in collaborazione con la famiglia, altri soggetti preposti all’educazione sono la scuola e l’università, e analogamente, per certi aspetti, i soggetti della comunicazione sociale.[22] Essi sono chiamati a veicolare un sistema di valori fondato sul riconoscimento della dignità di ogni persona, di ogni comunità linguistica, etnica e religiosa, di ogni popolo e dei diritti fondamentali che ne derivano. L’educazione costituisce uno dei pilastri di società più giuste e solidali.

- Le religioni in generale, e i leader religiosi in particolare, possono svolgere un ruolo insostituibile nel trasmettere ai fedeli e alla società i valori della solidarietà, del rispetto delle differenze, dell’accoglienza e della cura dei fratelli più fragili. Ricordo, a tale proposito, le parole del Papa Paolo VI rivolte al Parlamento ugandese nel 1969: «Non temete la Chiesa; essa vi onora, vi educa cittadini onesti e leali, non fomenta rivalità e divisioni, cerca di promuovere la sana libertà, la giustizia sociale, la pace; se essa ha qualche preferenza, questa è per i poveri, per l’educazione dei piccoli e del popolo, per la cura dei sofferenti e dei derelitti».[23]

- A quanti sono impegnati al servizio delle popolazioni, nelle organizzazioni internazionali, governative e non governative, aventi una missione educativa, e a tutti coloro che, a vario titolo, operano nel campo dell’educazione e della ricerca, rinnovo il mio incoraggiamento, affinché si possa giungere al traguardo di un’educazione «più aperta ed inclusiva, capace di ascolto paziente, di dialogo costruttivo e di mutua comprensione».[24] Mi auguro che questo invito, rivolto nell’ambito del Patto educativo globale, possa trovare ampia e variegata adesione.

9. Non c’è pace senza la cultura della cura

La cultura della cura, quale impegno comune, solidale e partecipativo per proteggere e promuovere la dignità e il bene di tutti, quale disposizione ad interessarsi, a prestare attenzione, alla compassione, alla riconciliazione e alla guarigione, al rispetto mutuo e all’accoglienza reciproca, costituisce una via privilegiata per la costruzione della pace. «In molte parti del mondo occorrono percorsi di pace che conducano a rimarginare le ferite, c’è bisogno di artigiani di pace disposti ad avviare processi di guarigione e di rinnovato incontro con ingegno e audacia».[25]

In questo tempo, nel quale la barca dell’umanità, scossa dalla tempesta della crisi, procede faticosamente in cerca di un orizzonte più calmo e sereno, il timone della dignità della persona umana e la “bussola” dei principi sociali fondamentali ci possono permettere di navigare con una rotta sicura e comune. Come cristiani, teniamo lo sguardo rivolto alla Vergine Maria, Stella del mare e Madre della speranza. Tutti insieme collaboriamo per avanzare verso un nuovo orizzonte di amore e di pace, di fraternità e di solidarietà, di sostegno vicendevole e di accoglienza reciproca. Non cediamo alla tentazione di disinteressarci degli altri, specialmente dei più deboli, non abituiamoci a voltare lo sguardo,[26] ma impegniamoci ogni giorno concretamente per «formare una comunità composta da fratelli che si accolgono reciprocamente, prendendosi cura gli uni degli altri».[27]

Dal Vaticano, 8 dicembre 2020

FRANCESCO

[seguono le note]

Il messaggio di Papa Francesco

743e3766-50f8-4c52-8a00-5be1d25218dbMessaggio del Santo Padre Francesco per la celebrazione della 54.ma Giornata Mondiale della Pace (1° gennaio 2021).

Pubblichiamo di seguito il testo del Messaggio del Santo Padre Francesco per la 54.ma Giornata Mondiale della Pace, che si celebra il 1° gennaio 2021 sul tema “La cultura della cura come percorso di pace”

Messaggio del Santo Padre
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