Risultato della ricerca: povertà
Oggi Giornata della Fratellanza Universale Umana
4 febbraio. Giornata della Fratellanza Umana. Il messaggio di Papa Francesco.
Documento sulla “Fratellanza Umana per la Pace Mondiale e la convivenza comune” firmato da Sua Santità Papa Francesco e il Grande Imam di Al-Azhar Ahamad al-Tayyib (Abu Dhabi, 4 febbraio 2019), 04.02.2019
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PREFAZIONE
La fede porta il credente a vedere nell’altro un fratello da sostenere e da amare. Dalla fede in Dio, che ha creato l’universo, le creature e tutti gli esseri umani – uguali per la Sua Misericordia –, il credente è chiamato a esprimere questa fratellanza umana, salvaguardando il creato e tutto l’universo e sostenendo ogni persona, specialmente le più bisognose e povere.
Partendo da questo valore trascendente, in diversi incontri dominati da un’atmosfera di fratellanza e amicizia, abbiamo condiviso le gioie, le tristezze e i problemi del mondo contemporaneo, al livello del progresso scientifico e tecnico, delle conquiste terapeutiche, dell’era digitale, dei mass media, delle comunicazioni; al livello della povertà, delle guerre e delle afflizioni di tanti fratelli e sorelle in diverse parti del mondo, a causa della corsa agli armamenti, delle ingiustizie sociali, della corruzione, delle disuguaglianze, del degrado morale, del terrorismo, della discriminazione, dell’estremismo e di tanti altri motivi.
Da questi fraterni e sinceri confronti, che abbiamo avuto, e dall’incontro pieno di speranza in un futuro luminoso per tutti gli esseri umani, è nata l’idea di questo » Documento sulla Fratellanza Umana « . Un documento ragionato con sincerità e serietà per essere una dichiarazione comune di buone e leali volontà, tale da invitare tutte le persone che portano nel cuore la fede in Dio e la fede nella fratellanza umana a unirsi e a lavorare insieme, affinché esso diventi una guida per le nuove generazioni verso la cultura del reciproco rispetto, nella comprensione della grande grazia divina che rende tutti gli esseri umani fratelli.
DOCUMENTO
In nome di Dio che ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli tra di loro, per popolare la terra e diffondere in essa i valori del bene, della carità e della pace.
In nome dell’innocente anima umana che Dio ha proibito di uccidere, affermando che chiunque uccide una persona è come se avesse ucciso tutta l’umanità e chiunque ne salva una è come se avesse salvato l’umanità intera.
In nome dei poveri, dei miseri, dei bisognosi e degli emarginati che Dio ha comandato di soccorrere come un dovere richiesto a tutti gli uomini e in particolar modo a ogni uomo facoltoso e benestante.
In nome degli orfani, delle vedove, dei rifugiati e degli esiliati dalle loro dimore e dai loro paesi; di tutte le vittime delle guerre, delle persecuzioni e delle ingiustizie; dei deboli, di quanti vivono nella paura, dei prigionieri di guerra e dei torturati in qualsiasi parte del mondo, senza distinzione alcuna.
In nome dei popoli che hanno perso la sicurezza, la pace e la comune convivenza, divenendo vittime delle distruzioni, delle rovine e delle guerre.
In nome della» fratellanza umana « che abbraccia tutti gli uomini, li unisce e li rende uguali.
In nome di questa fratellanza lacerata dalle politiche di integralismo e divisione e dai sistemi di guadagno smodato e dalle tendenze ideologiche odiose, che manipolano le azioni e i destini degli uomini.
In nome della libertà, che Dio ha donato a tutti gli esseri umani, creandoli liberi e distinguendoli con essa.
In nome della giustizia e della misericordia, fondamenti della prosperità e cardini della fede.
In nome di tutte le persone di buona volontà, presenti in ogni angolo della terra.
In nome di Dio e di tutto questo, Al-Azhar al-Sharif – con i musulmani d’Oriente e d’Occidente –, insieme alla Chiesa Cattolica – con i cattolici d’Oriente e d’Occidente –, dichiarano di adottare la cultura del dialogo come via; la collaborazione comune come condotta; la conoscenza reciproca come metodo e criterio.
Noi – credenti in Dio, nell’incontro finale con Lui e nel Suo Giudizio –, partendo dalla nostra responsabilità religiosa e morale, e attraverso questo Documento, chiediamo a noi stessi e ai Leader del mondo, agli artefici della politica internazionale e dell’economia mondiale, di impegnarsi seriamente per diffondere la cultura della tolleranza, della convivenza e della pace; di intervenire, quanto prima possibile, per fermare lo spargimento di sangue innocente, e di porre fine alle guerre, ai conflitti, al degrado ambientale e al declino culturale e morale che il mondo attualmente vive.
Ci rivolgiamo agli intellettuali, ai filosofi, agli uomini di religione, agli artisti, agli operatori dei media e agli uomini di cultura in ogni parte del mondo, affinché riscoprano i valori della pace, della giustizia, del bene, della bellezza, della fratellanza umana e della convivenza comune, per confermare l’importanza di tali valori come àncora di salvezza per tutti e cercare di diffonderli ovunque.
Questa Dichiarazione, partendo da una riflessione profonda sulla nostra realtà contemporanea, apprezzando i suoi successi e vivendo i suoi dolori, le sue sciagure e calamità, crede fermamente che tra le più importanti cause della crisi del mondo moderno vi siano una coscienza umana anestetizzata e l’allontanamento dai valori religiosi, nonché il predominio dell’individualismo e delle filosofie materialistiche che divinizzano l’uomo e mettono i valori mondani e materiali al posto dei principi supremi e trascendenti.
Noi, pur riconoscendo i passi positivi che la nostra civiltà moderna ha compiuto nei campi della scienza, della tecnologia, della medicina, dell’industria e del benessere, in particolare nei Paesi sviluppati, sottolineiamo che, insieme a tali progressi storici, grandi e apprezzati, si verifica un deterioramento dell’etica, che condiziona l’agire internazionale, e un indebolimento dei valori spirituali e del senso di responsabilità. Tutto ciò contribuisce a diffondere una sensazione generale di frustrazione, di solitudine e di disperazione, conducendo molti a cadere o nel vortice dell’estremismo ateo e agnostico, oppure nell’integralismo religioso, nell’estremismo e nel fondamentalismo cieco, portando così altre persone ad arrendersi a forme di dipendenza e di autodistruzione individuale e collettiva.
La storia afferma che l’estremismo religioso e nazionale e l’intolleranza hanno prodotto nel mondo, sia in Occidente sia in Oriente, ciò che potrebbe essere chiamato i segnali di una «terza guerra mondiale a pezzi», segnali che, in varie parti del mondo e in diverse condizioni tragiche, hanno iniziato a mostrare il loro volto crudele; situazioni di cui non si conosce con precisione quante vittime, vedove e orfani abbiano prodotto. Inoltre, ci sono altre zone che si preparano a diventare teatro di nuovi conflitti, dove nascono focolai di tensione e si accumulano armi e munizioni, in una situazione mondiale dominata dall’incertezza, dalla delusione e dalla paura del futuro e controllata dagli interessi economici miopi.
Affermiamo altresì che le forti crisi politiche, l’ingiustizia e la mancanza di una distribuzione equa delle risorse naturali – delle quali beneficia solo una minoranza di ricchi, a discapito della maggioranza dei popoli della terra – hanno generato, e continuano a farlo, enormi quantità di malati, di bisognosi e di morti, provocando crisi letali di cui sono vittime diversi paesi, nonostante le ricchezze naturali e le risorse delle giovani generazioni che li caratterizzano. Nei confronti di tali crisi che portano a morire di fame milioni di bambini, già ridotti a scheletri umani – a motivo della povertà e della fame –, regna un silenzio internazionale inaccettabile.
È evidente a questo proposito quanto sia essenziale la famiglia, quale nucleo fondamentale della società e dell’umanità, per dare alla luce dei figli, allevarli, educarli, fornire loro una solida morale e la protezione familiare. Attaccare l’istituzione familiare, disprezzandola o dubitando dell’importanza del suo ruolo, rappresenta uno dei mali più pericolosi della nostra epoca.
Attestiamo anche l’importanza del risveglio del senso religioso e della necessità di rianimarlo nei cuori delle nuove generazioni, tramite l’educazione sana e l’adesione ai valori morali e ai giusti insegnamenti religiosi, per fronteggiare le tendenze individualistiche, egoistiche, conflittuali, il radicalismo e l’estremismo cieco in tutte le sue forme e manifestazioni.
Il primo e più importante obiettivo delle religioni è quello di credere in Dio, di onorarLo e di chiamare tutti gli uomini a credere che questo universo dipende da un Dio che lo governa, è il Creatore che ci ha plasmati con la Sua Sapienza divina e ci ha concesso il dono della vita per custodirlo. Un dono che nessuno ha il diritto di togliere, minacciare o manipolare a suo piacimento, anzi, tutti devono preservare tale dono della vita dal suo inizio fino alla sua morte naturale. Perciò condanniamo tutte le pratiche che minacciano la vita come i genocidi, gli atti terroristici, gli spostamenti forzati, il traffico di organi umani, l’aborto e l’eutanasia e le politiche che sostengono tutto questo.
Altresì dichiariamo – fermamente – che le religioni non incitano mai alla guerra e non sollecitano sentimenti di odio, ostilità, estremismo, né invitano alla violenza o allo spargimento di sangue. Queste sciagure sono frutto della deviazione dagli insegnamenti religiosi, dell’uso politico delle religioni e anche delle interpretazioni di gruppi di uomini di religione che hanno abusato – in alcune fasi della storia – dell’influenza del sentimento religioso sui cuori degli uomini per portali a compiere ciò che non ha nulla a che vedere con la verità della religione, per realizzare fini politici e economici mondani e miopi. Per questo noi chiediamo a tutti di cessare di strumentalizzare le religioni per incitare all’odio, alla violenza, all’estremismo e al fanatismo cieco e di smettere di usare il nome di Dio per giustificare atti di omicidio, di esilio, di terrorismo e di oppressione. Lo chiediamo per la nostra fede comune in Dio, che non ha creato gli uomini per essere uccisi o per scontrarsi tra di loro e neppure per essere torturati o umiliati nella loro vita e nella loro esistenza. Infatti Dio, l’Onnipotente, non ha bisogno di essere difeso da nessuno e non vuole che il Suo nome venga usato per terrorizzare la gente.
Questo Documento, in accordo con i precedenti Documenti Internazionali che hanno sottolineato l’importanza del ruolo delle religioni nella costruzione della pace mondiale, attesta quanto segue:
· La forte convinzione che i veri insegnamenti delle religioni invitano a restare ancorati ai valori della pace; a sostenere i valori della reciproca conoscenza, della fratellanza umana e della convivenza comune; a ristabilire la saggezza, la giustizia e la carità e a risvegliare il senso della religiosità tra i giovani, per difendere le nuove generazioni dal dominio del pensiero materialistico, dal pericolo delle politiche dell’avidità del guadagno smodato e dell’indifferenza, basate sulla legge della forza e non sulla forza della legge.
· La libertà è un diritto di ogni persona: ciascuno gode della libertà di credo, di pensiero, di espressione e di azione. Il pluralismo e le diversità di religione, di colore, di sesso, di razza e di lingua sono una sapiente volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani. Questa Sapienza divina è l’origine da cui deriva il diritto alla libertà di credo e alla libertà di essere diversi. Per questo si condanna il fatto di costringere la gente ad aderire a una certa religione o a una certa cultura, come pure di imporre uno stile di civiltà che gli altri non accettano.
· La giustizia basata sulla misericordia è la via da percorrere per raggiungere una vita dignitosa alla quale ha diritto ogni essere umano.
· Il dialogo, la comprensione, la diffusione della cultura della tolleranza, dell’accettazione dell’altro e della convivenza tra gli esseri umani contribuirebbero notevolmente a ridurre molti problemi economici, sociali, politici e ambientali che assediano grande parte del genere umano.
· Il dialogo tra i credenti significa incontrarsi nell’enorme spazio dei valori spirituali, umani e sociali comuni, e investire ciò nella diffusione delle più alte virtù morali, sollecitate dalle religioni; significa anche evitare le inutili discussioni.
· La protezione dei luoghi di culto – templi, chiese e moschee – è un dovere garantito dalle religioni, dai valori umani, dalle leggi e dalle convenzioni internazionali. Ogni tentativo di attaccare i luoghi di culto o di minacciarli attraverso attentati o esplosioni o demolizioni è una deviazione dagli insegnamenti delle religioni, nonché una chiara violazione del diritto internazionale.
· Il terrorismo esecrabile che minaccia la sicurezza delle persone, sia in Oriente che in Occidente, sia a Nord che a Sud, spargendo panico, terrore e pessimismo non è dovuto alla religione – anche se i terroristi la strumentalizzano – ma è dovuto alle accumulate interpretazioni errate dei testi religiosi, alle politiche di fame, di povertà, di ingiustizia, di oppressione, di arroganza; per questo è necessario interrompere il sostegno ai movimenti terroristici attraverso il rifornimento di denaro, di armi, di piani o giustificazioni e anche la copertura mediatica, e considerare tutto ciò come crimini internazionali che minacciano la sicurezza e la pace mondiale. Occorre condannare un tale terrorismo in tutte le sue forme e manifestazioni.
· Il concetto di cittadinanza si basa sull’eguaglianza dei diritti e dei doveri sotto la cui ombra tutti godono della giustizia. Per questo è necessario impegnarsi per stabilire nelle nostre società il concetto della piena cittadinanza e rinunciare all’uso discriminatorio del termine minoranze, che porta con sé i semi del sentirsi isolati e dell’inferiorità; esso prepara il terreno alle ostilità e alla discordia e sottrae le conquiste e i diritti religiosi e civili di alcuni cittadini discriminandoli.
· Il rapporto tra Occidente e Oriente è un’indiscutibile reciproca necessità, che non può essere sostituita e nemmeno trascurata, affinché entrambi possano arricchirsi a vicenda della civiltà dell’altro, attraverso lo scambio e il dialogo delle culture. L’Occidente potrebbe trovare nella civiltà dell’Oriente rimedi per alcune sue malattie spirituali e religiose causate dal dominio del materialismo. E l’Oriente potrebbe trovare nella civiltà dell’Occidente tanti elementi che possono aiutarlo a salvarsi dalla debolezza, dalla divisione, dal conflitto e dal declino scientifico, tecnico e culturale. È importante prestare attenzione alle differenze religiose, culturali e storiche che sono una componente essenziale nella formazione della personalità, della cultura e della civiltà orientale; ed è importante consolidare i diritti umani generali e comuni, per contribuire a garantire una vita dignitosa per tutti gli uomini in Oriente e in Occidente, evitando l’uso della politica della doppia misura.
· È un’indispensabile necessità riconoscere il diritto della donna all’istruzione, al lavoro, all’esercizio dei propri diritti politici. Inoltre, si deve lavorare per liberarla dalle pressioni storiche e sociali contrarie ai principi della propria fede e della propria dignità. È necessario anche proteggerla dallo sfruttamento sessuale e dal trattarla come merce o mezzo di piacere o di guadagno economico. Per questo si devono interrompere tutte le pratiche disumane e i costumi volgari che umiliano la dignità della donna e lavorare per modificare le leggi che impediscono alle donne di godere pienamente dei propri diritti.
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RECOVERY PLAN e ISTRUZIONE
Passi avanti da migliorare
di Fiorella Farinelli su Rocca.
Forse è chiedere troppo all’attuale classe politica. Ma è certo che nel Recovery Plan varato il 12 gennaio, non c’è un disegno convincente delle strategie e delle misure con cui innescare cambiamenti decisivi – un’autentica ricostruzione nazionale – in un Paese slabbrato ed esausto già prima della pandemia. È lungo, del resto, il cammino per la versione definitiva dei programmi e delle riforme (da attivare «contestualmente», indica saggiamente la Commissione europea, «perché le risorse non cadano come pioggia sul deserto»), con cui ottenere i 209 mld tra prestiti e trasferimenti destinati all’Italia nell’ambito di Next Generation Ue 2021-26. Ci si arriverà solo dopo confronti con le istituzioni regionali e locali, le forze economiche e sociali, il Terzo Settore e le reti di cittadinanza attiva, e ovviamente il Parlamento. C’è dunque da augurarsi che da qui alla scadenza di aprile ci siano significativi miglioramenti. Come è già successo con i passi avanti, parziali ma nella giusta direzione, dalle prime bozze a quest’ultima versione, grazie soprattutto al pressing di Italia Viva: ricalibrato il peso dei bonus a favore degli investimenti, cresciute le risorse per la sanità e l’istruzione, ottenuti più coordinamento e minore frammentazione. Ma con un testo così complesso e un piatto così ricco (310 mld il totale, per l’inclusione nel pacchetto di altri fondi Ue e di spese programmate nel bilancio ordinario), la cosa non è scontata. Non solo per possibili ostinazioni dell’uno o dell’altro padrone del vapore a tener fermi programmi-bandiera che ingoiano troppe risorse (è il caso, non unico, del superecobonus 110/100 per la proprietà edilizia) o per un taglio più modernizzatore che sociale che sembra ormai difficile modificare, ma perché il clima generale è sempre più pesante. Tra tensioni politiche che delegittimano le istituzioni, contrasti e distonie tra Stato, Regioni, Città, reazioni agli effetti immediati e futuri della pandemia (mentre la parte dedicata alle politiche attive e al lavoro, soprattutto dei più giovani, è del tutto inadeguata agli sconquassi che verranno). Tutto ciò accompagnato dall’incapacità di definire la cosiddetta «governance». Cioè il modello di gestione dell’operazione, rinviato a un futuro decreto «che identifichi le responsabilità della realizzazione, garantisca il coordinamento con i ministri competenti a livello nazionale e gli altri livelli di governo, monitori i progressi di avanzamento della spesa». Difficoltà della politica politicante, certo, ma anche un approccio centralista che non aiuta e in più la solita mancanza di cultura attuativa, quella che permette di aprire i cantieri. Un limite, quest’ultimo, che preoccupa e squalifica, essendo noto in ambito europeo che nell’ultimo settennio non siamo stati capaci di spendere più del 40 per cento dei Fondi assegnati. C’entrano, si sa, leggi e regolamenti che trasformano in estenuanti tormentoni ogni gara d’appalto, ogni concorso, ogni convenzione. Ma come si fa a spendere entro il 2026 quella montagna di soldi se non si trovano i soggetti, le procedure, i modi per rimediare alla crisi dell’asse decisionale tra Stato, Regioni, Città e per superare la «diserzione amministrativa»? Basterà la «digitalizzazione» per garantire semplificazione ed efficienza? E basterà quanto previsto dal Piano – al momento poco più di un titolo – per portare a casa la più difficile delle sfide, una riforma decente della Pubblica Amministrazione? Appare dunque ancora impervia la strada per trasformare il Piano in un investimento capace di scaldare i cuori e di attivare le intelligenze dell’insieme della società italiana. E anche questo non è un problema da poco.
un finanziamento notevole ma insufficiente
Istruzione e ricerca è la quarta delle sei Missioni (1) contenute nel Piano, articolate in 16 componenti e 47 progetti. Il finanziamento è 28,5 miliardi, di cui 16,7 per il «potenziamento delle competenze e il diritto allo studio» (scuola e università) e 11,7 per la linea «dalla ricerca all’impresa» (università). Pur essendo il più grande finanziamento pubblico in educazione dopo il piano di ricostruzione postbellica delle scuole e quello di sviluppo del sistema successivo alla riforma della scuola media (1962-63), i 16,7 mld sono insufficienti non solo rispetto alla gravità della situazione educativa del Paese, ma anche alla piena realizzazione di tutte le azioni previste. Anche i 6,8 mld aggiuntivi per l’edilizia scolastica (che vengono dall’«efficientamento energetico e cablaggio degli edifici pubblici» di un’altra Missione) costituiscono un investimento modesto, neppure 1/5 di quello che occorre per mettere in sicurezza, riqualificare, riadattare a modelli di apprendimento e di apertura allo sviluppo culturale e civile delle comunità, le circa 30.000 sedi scolastiche. Un patrimonio pubblico per lo più piuttosto vecchio, in parte costruito prima delle normative antisismiche, spesso in stato di cattiva manutenzione, quasi sempre strutturato secondo finalità educative e didattiche obsolete. Più in generale l’investimento complessivo è inadeguato a misurarsi con la quantità e qualità dei problemi che stanno dietro alle criticità più acute, non derivate solo da una lunga stagione di «tagli» ma anche dall’incapacità politica di affrontare temi scomodi, che scatenano contrarietà nella più numerosa ed irritabile categoria professionale, quella dei docenti. La minore efficacia del nostro sistema rispetto ad altri in ambito sia europeo che Ocse (i più alti tassi di dispersione esplicita e implicita, il minor numero di diplomati e laureati, i divari territoriali nella quantità e qualità dell’offerta e anche nei risultati, le diseguaglianze e i fenomeni di segregazione formativa, la distanza tra formazione scolastica e sfide del mondo del lavoro, l’esistenza nella popolazione adulta anche delle età più giovani di un’ampia area di senza-diplomi e senza-qualifiche, e perfino di 13 milioni di analfabeti funzionali e digitali privi delle competenze minime per il lavoro e per la cittadinanza attiva) non nasce da niente. E non dipende solo dalle tante e diverse «povertà» sociali e individuali che condizionano negativamente l’apprendimento. A pesare sulle difficoltà che la scuola non supera, tradendo quindi il suo stesso ruolo che non è solo di inclusione ma anche di promozione, ci sono troppe povertà culturali, organizzative, professionali intrinseche al sistema. Che riguardano la troppo variabile qualità professionale dei docenti, la rigidità dell’organizzazione del lavoro, degli orari, delle cattedre, le carriere basate sull’anzianità e non sui meriti. Un’autonomia scolastica non ancorata alle comunità di riferimento e non dotata delle figure necessarie al suo funzionamento. Un ordinamento, nel primo e nel secondo ciclo, che non risponde al diritto allo studio nella «scuola di tutti» (che dire, per esempio, di quel dispositivo tutt’altro che innocente rispetto agli abbandoni precoci che è l’esame di stato alla fine della scuola media nonostante la durata decennale dell’obbligo di istruzione? e di un’istruzione e formazione professionale, decisiva per il completamento dell’obbligo per centinaia di migliaia di ragazzi, che però funziona solo in metà del Paese, e non dove dispersione e abbandoni mordono di più?). Un insegnamento, nella secondaria, caratterizzato da separazione e gerarchizzazione delle discipline, che non valorizza il naturale altalenare dell’apprendimento tra teoria e pratica, tra formale e non formale, e non permette percorsi vocazionali e orientativi. E poi il buco enorme dell’assenza di un sistema per l’apprendimento permanente, pur strategico a fronte della crescente importanza per tutta la popolazione di buoni livelli di conoscenza e di capacità di apprendere lungo tutto il corso della vita, non solo in vista del lavoro che cambia ma della crescente complessità del vivere sociale. Di molto di tutto ciò – e quindi anche di una povertà educativa non solo «minorile» – non c’è traccia nel Recovery Plan, dove manca anche una contestualizzazione rispetto ai processi in corso. Cosa sarà la scuola italiana tra dieci anni, con 1 milione e 300.000 iscritti in meno per calo demografico, l’uscita per pensionamento del 40% del suo personale, un peso specifico crescente degli studenti con back ground migratorio, con problemi di integrazione, ma col vantaggio potenziale di un bilinguismo naturale e di un affaccio culturale su mondi diversi? Qual è il nuovo modello a cui guardiamo? Non sarà, speriamo, solo una scuola tornata «in presenza» il nostro nuovo paradiso.
il paradiso non sarà solo una scuola tornata in presenza
Ma bisognava scegliere. Il «Potenziamento delle competenze e diritto allo studio» si articola in tre aree di intervento. La prima è «Accesso all’istruzione e divari territoriali», con uno stanziamento di 9,45 miliardi. La seconda è «Competenze Stem-Scienza*, Tecnologia, Ingegneria, Matematica e Multilinguismo» (ma comprende anche attrezzature didattiche, laboratori, scuola 4.0), con 5,02 miliardi. La terza è «Istituti Professionali e Istruzione Tecnica Superiore» (ma comprende anche l’orientamento al post diploma) con 2,25 miliardi. A questo si aggiungono 9 riforme, che interessano anche l’Università, solo in parte collegate con le azioni e i progetti, e con contenuti per lo più da definire. Sono l’istituzione della Scuola di Alta formazione per il personale scolastico (Università-Indire) a frequenza obbligatoria; la riforma del reclutamento docenti (coincidenza dell’esame di laurea con l’esame di stato per l’accesso alla professione e tirocinio annuale); l’aggiunta nei curricoli di moduli Stem e per le competenze digitali; la riforma degli Istituti Tecnici Superiori; degli istituti tecnici e professionali; dell’orientamento al livello terziario; l’introduzione delle lauree abilitanti; la riforma delle classi di laurea; la riforma dei dottorati. Qual è, in sintesi, il perimetro degli interventi? Se da un lato si conferma un approccio che, per quanto attiene alla qualità del lavoro nella scuola si limita a mettere a fuoco la formazione iniziale e continua del personale e il reclutamento dei docenti, dall’altro si interviene sul pianeta istruzione circoscrivendo due principali ambiti. Il primo, riguardante soprattutto il primo ciclo e il comparto 0-6, consiste nella prevenzione precoce delle diseguaglianze, nel contrasto della povertà educativa minorile, nel rafforzamento delle competenze di base incluse quelle digitali e multilingue. Il secondo, che guarda al superamento del gap tra preparazione scolastica e competenze richieste dal mondo del lavoro, consiste nel rafforzamento del comparto tecnico professionalizzante di livello secondario e terziario, nella declinazione dei curricoli e della didattica in direzione dell’innovazione tecnologica, nonché nell’orientamento agli studi post-diploma. Non è tutto quel che servirebbe, ma sono comunque criticità vere su cui intervenire.
Ma come lo si fa?
c’è ancora da limare e riequilibrare
Non è un dettaglio, ovviamente, l’articolazione degli investimenti. Balza all’occhio, per esempio, l’incongruenza tra la generosità dei 5,2 mld della seconda linea d’azione («Competenze Stem* e multilingue») che ne stanzia ben 3 in laboratori e attrezzature per la «scuola 4.0», e i risicati 9,45 mld per l’articolatissimo programma della prima («Accesso all’istruzione e divari territoriali»). Tolti infatti i 2,35 mld per borse di studio e alloggi per gli studenti universitari, ne restano solo 7,10 per obiettivi tutti molto importanti e impegnativi. Che infatti, chi più chi meno, vengono dotati di investimenti insufficienti a una realizzazione compiuta. A partire dall’azione più importante per il contrasto precoce delle diseguaglianze educative e per il superamento dei divari territoriali, ovvero lo sviluppo omogeneo dei servizi educativi 0-3 cioè gli asili nido, in tutte le aree del Paese (copertura al 33% della domanda in ogni Regione, media nazionale al 55%). Lo sanno ormai anche le pietre, infatti, che il programma, finalizzato anche al contrasto della denatalità, alla conciliazione tra lavoro e genitorialità, all’occupazione femminile, costa almeno 4,8 mld, mentre nel Piano, dove varie oscillazioni, ci si assesta ora su 3,6. Assai peggio va all’altro ingrediente essenziale per il raggiungimento dell’obiettivo, cioè lo sviluppo del tempo pieno, dove si prevede 1 mld mentre la sua generalizzazione nella primaria costerebbe, solo di spesa per il personale (senza considerare quella degli Enti Locali), 2,8 mld annui. Completano il quadro 1 mld per il potenziamento della scuola per l’infanzia, che potrebbe essere un costo perfino sovrastimato considerato il forte impatto del calo demografico su questo comparto educativo (e l’assenza, viceversa, dell’obiettivo di una sua «generalizzazione»), e 1,5 mld per il contrasto degli abbandoni che potrebbe invece essere sensibilmente sottostimato rispetto alle complessità delle azioni e alla numerosità del target. Quanto alla terza linea d’azione («Istruzione Professionale e Its»), la parte del leone dei 2,25 mld la fa il potenziamento dell’istruzione tecnica superiore (1,50 mld), mentre all’orientamento scuola-università e alla collaborazione Università-Formazione professionale vanno 0,75 mld. C’è dunque ancora da limare, e soprattutto da riequilibrare. Zero assoluto, invece, per l’Istruzione e Formazione professionale per l’obbligo di istruzione e la qualifica professionale, che non compare né qui né dove ci si occupa di politiche formative per il lavoro, pur essendo un’alternativa preziosa, dove c’è, agli abbandoni precoci. E pur intercettando ogni anno migliaia di ragazzi in difficoltà, tra cui molti stranieri di prima e seconda generazione. C’è da chiedersi, con qualche amarezza, se gli estensori del testo sappiano sempre di che cosa stanno scrivendo. E anche questo, ovviamente, non è un problema da poco. Ma ci si dovrà tornare.
Fiorella Farinelli
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Nota
(1) Le altre sono digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura (46,1 mld); rivoluzione verde e transizione ecologica (68,9 mld); infrastrutture per la mobilità sostenibile (31,98 mld); inclusione sociale e coesione (27,62 mld); salute (19,72 mld).
* L’acronimo STEM, dall’inglese Science, Technology, Engineering and Mathematics è un termine utilizzato per indicare le discipline scientifico-tecnologiche (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) e i relativi corsi di studio.
ROCCA 1 FEBBRAIO 2021
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Sosteniamo Costituente Terra
“COSTITUENTE TERRA” FA SCUOLA
9 GENNAIO 2021 / COSTITUENTE TERRA / IL PROCESSO COSTITUENTE /
La crisi della democrazia americana, che si è sprigionata sotto gli occhi di tutti svelando il volto nascosto (e neanche troppo nascosto) di un fascismo americano in agguato, che ha trovato in Donald Trump un interprete fin troppo improbabile, ha posto con nuova drammaticità e urgenza il problema della democrazia nel mondo e della salvaguardia dei diritti fondamentali, a cui l’iniziativa di “Costituente Terra” ha inteso indicare una via di soluzione. È del tutto evidente che se non è proponibile un modello di democrazia valido per tutte le Nazioni (il tentativo di imporlo è finito nelle peggiori tragedie), è invece possibile concepire ed attuare un costituzionalismo globale che metta in sicurezza le libertà fondamentali, i diritti irrinunciabili, i beni comuni essenziali e la stessa sopravvivenza fisica della Terra. Questo progetto lanciato un anno fa da “Costituente Terra”, e che è in cantiere a partire dalla elaborazione teorica e dal magistero filosofico–giuridico del prof. Luigi Ferrajoli, sta facendo scuola e gettando semi in diverse parti del mondo.
È annunciato, dal Paraguay, un saggio, che pubblicheremo tra breve, della prof. María Inés Ramírez dal titolo: “Post pandemia: ¿Hacia donde se dirige elderechoconstitucional? Característicasesenciales del poderconstituyente con miras a una Constitución Planetaria “.
Nello stesso tempo l’Instituto Educativo Punta Mogotes di Mar del Plata (Provincia di Buenos Aires, Argentina) ha deciso di creare un Laboratorio di Diritto Costituzionale che porta il nome di “Laboratorio Luigi Ferrajoli”, in cui si lavorerà sulla proposta di una Costituzione della Terra. Tale iniziativa è stata riconosciuta dal Comune di Mar del Plata come un progetto di grande interesse culturale, per l’intera comunità, e in particolare per la promozione dell’educazione in materia di diritti costituzionali dei bambini e dei giovani.
All’Istituto, in occasione dell’inaugurazione dei corsi, il prof. Ferrajoli ha fatto pervenire questo messaggio che riepiloga, come una prolusione, il senso del lavoro da svolgere:
La vostra istituzione di una scuola e di un laboratorio sul tema della Costituzione della Terra è esattamente quanto auspicammo fin dall’appello e poi dalla nostra Assemblea di “Costituente Terra” dello scorso 21 febbraio.
Questa prospettiva del costituzionalismo globale equivale all’ipotesi di un vero salto di civiltà, tanto necessario ed urgente per il salvataggio della pace, della democrazia e della stessa abitabilità del nostro pianeta, quanto imposto, logicamente e giuridicamente, dalle tante Carte dei diritti, costituzionali e internazionali di cui sono dotati i nostri ordinamenti. Purtroppo queste Carte sono rimaste ineffettive perché non sono state istituite le loro garanzie e le relative funzioni e istituzioni globali di garanzia. Il nostro progetto di una Costituzione della Terra altro non è che il progetto dell’attuazione di quelle Carte, attraverso la rielaborazione dei principi comuni da esse espressi e la loro sistemazione in un unico testo, rigidamente sopra-ordinato – in accordo con il paradigma del costituzionalismo rigido sperimentato nei nostri ordinamenti dalle Costituzioni più avanzate – a tutte le altre fonti del diritto, sia statali che internazionali.
La necessità e l’urgenza di questo allargamento oltre gli Stati nazionali, del paradigma costituzionale, sono oggi imposte dalla banale, elementare consapevolezza dei pericoli senza precedenti che altrimenti incombono sull’umanità. E’ infatti inverosimile che 8 miliardi di persone, 196 Stati sovrani dieci dei quali dotati di armamenti nucleari, un capitalismo vorace e predatorio e un sistema industriale ecologicamente insostenibile possano a lungo sopravvivere senza andare incontro a catastrofi umanitarie, nucleari, economiche ed ecologiche. Di qui la necessità di uno sviluppo multi-livello del paradigma costituzionale, cioè della costruzione di un costituzionalismo sovranazionale, in grado di limitare i poteri globali oggi sregolati e selvaggi e perciò di colmare il vuoto di diritto pubblico prodotto dall’asimmetria tra il carattere globale degli odierni poteri extra-statali e il carattere ancora prevalentemente locale del costituzionalismo, della politica, del diritto e delle connesse funzioni di governo e di garanzia.
Non si tratta di un’ipotesi utopistica o avveniristica. Si tratta del dover essere giuridico della politica e del diritto medesimo, già formulato in quell’embrione di Costituzione del mondo che è formato dalla Carta dell’Onu e dalle tante Carte, dichiarazioni, convenzioni e patti internazionali sui diritti umani. A causa della miopia e dell’irresponsabilità della politica questa embrionale Costituzione del mondo è rimasta finora inattuata. Ma la sua attuazione è resa possibile dal carattere formale del paradigma costituzionale, consistente in un sistema di limiti e vincoli applicabile, grazie alla sua struttura a gradi, a qualunque apparato di poteri. E’ resa inoltre realisticamente necessaria ed urgente dalla gravità delle sfide globali. E’ infine resa giuridicamente obbligatoria dalla normatività dei diritti e dei principi di pace e di giustizia positivamente stabiliti nelle tante Carte internazionali e dai nessi di implicazione tra le aspettative nelle quali tali diritti e principi consistono e l’obbligo di introdurre le loro garanzie.
All’indomani della seconda guerra mondiale, infatti, non furono solo rifondati, nei Paesi liberati dai fascismi, i sistemi politici nazionali nelle forme della democrazia costituzionale. Fu anche rifondato il diritto internazionale, trasformato, dalla Carta dell’Onu e dalle tante Carte sui diritti umani, da sistema pattizio di relazioni tra Stati sovrani, basato su trattati bi- o multi-laterali, in un ordinamento giuridico entro il quale tutti gli Stati membri sono soggetti a un medesimo diritto, cioè al divieto della guerra e al rispetto dei diritti umani. Di questo nuovo ordinamento internazionale, basato sulla pace e sui diritti, si sta tuttavia verificando un processo decostituente, tanto vistoso quanto paradossale perché simultaneo alla globalizzazione che più che mai ne richiederebbe, al contrario, la costituzionalizzazione. Quelle Carte avrebbero richiesto – e tuttora impongono – norme di attuazione, dirette a introdurre le funzioni e le istituzioni di garanzia dei principi e dei diritti in esse stabiliti: garanzie della pace, tramite l’attuazione del capo VII della Carta dell’Onu e perciò l’istituzione del monopolio sovranazionale della forza, lo scioglimento degli eserciti nazionali e la messa al bando delle armi; garanzie dei diritti sociali, tramite adeguati finanziamenti di istituzioni globali di garanzia come l’Organizzazione mondiale della sanità e la Fao; garanzie dei beni comuni dell’ambiente naturale contro le loro terribili e crescenti devastazioni, tramite la creazione di demani sovranazionali e di rigidi limiti alle emissioni di gas inquinanti; garanzie giurisdizionali secondarie, a cominciare dal controllo di costituzionalità e di convenzionalità su tutte le fonti di diritto, statali e sovrastatali, in contrasto con i principi costituzionalmente stabiliti. Fatta eccezione per la Corte penale internazionale per i crimini contro l’umanità, il cui statuto fu approvato a Roma nel 1998 ma al quale non hanno aderito le maggiori potenze, poco o nulla è stato fatto. Si è anzi appannata la memoria dei “mai più” opposti nel quinquennio 1945-1949 agli orrori dei totalitarismi e delle guerre ed è tramontato il progetto, allora formulato, di una rifondazione costituzionale dell’ordine internazionale, proprio oggi che l’anomia dei poteri globali e la crescente interdipendenza mondiale hanno reso quel progetto più che mai necessario e vitale.
La nostra proposta di una Costituzione della Terra e l’organizzazione a tal fine di un movimento d’opinione e del maggior numero di scuole finalizzate alla sua elaborazione intendono contribuire a far crescere la consapevolezza della necessità di por fine a questa crescente divaricazione tra il “dover essere” disegnato dalle tante Carte dei diritti e l’“essere” effettivo del diritto internazionale. Questa distanza tra normatività ed effettività è il riflesso della divaricazione tra problemi globali e politiche locali, tra la crescente interdipendenza planetaria e il carattere ancora prevalentemente statale del diritto e delle istituzioni pubbliche, sia di governo che di garanzia. Oggi i problemi politici e sociali più gravi sono sicuramente globali: l’inquinamento atmosferico e il riscaldamento climatico; la dissipazione delle risorse energetiche disponibili; la produzione e la diffusione di armi sempre più micidiali che alimentano guerre e criminalità; la crescita esponenziale delle disuguaglianze in un mondo sempre più integrato che vede convivere enormi ricchezze e terribili povertà e il conseguente sviluppo di violenze, terrorismi e fondamentalismi; la mancanza, per centinaia di milioni di esseri umani, dell’alimentazione di base, dei farmaci salva-vita e dell’acqua potabile; lo sfruttamento illimitato del lavoro per la concorrenza al ribasso tra lavoratori dei Paesi ricchi e lavoratori in condizioni para-schiavistiche nei Paesi poveri; le diverse forme di criminalità organizzata, anch’essa sempre più globali; infine il dilagare a livello planetario delle pandemie, come quella ancora in atto del coronavirus. Ma questi problemi sono ignorati dalla politica degli Stati nazionali, ancorata al consenso popolare entro gli spazi ristretti delle circoscrizioni elettorali e nei tempi brevi delle elezioni o peggio brevissimi dei sondaggi. La democrazia odierna è affetta da localismo e da presentismo. Entra così in conflitto con la razionalità che oggi impone, nell’interesse di tutti, limiti e vincoli ai poteri selvaggi degli Stati sovrani e del mercati globali quali possono provenire soltanto da una Costituzione globale alla loro altezza.
Siamo peraltro convinti che la prospettiva di un costituzionalismo globale, logicamente conseguente ai diritti fondamentali stabiliti da tante Carte costituzionali e internazionali, apra un nuovo orizzonte alla cultura giuridica. Il costituzionalismo ha infatti mutato lo statuto epistemologico della scienza del diritto: non più la semplice descrizione del diritto esistente quale che sia, promossa dal vecchio metodo tecnico-giuridico, bensì la sua critica e la sua progettazione sulla base del carattere normativo dei principi di giustizia – l’uguaglianza, i diritti fondamentali, la dignità delle persone – in quelle tante Carte stipulati. La nostra ipotesi di un’estensione a livello globale del paradigma costituzionale allarga enormemente questi spazi della critica e della progettazione istituzionale e conferisce un fascino nuovo ai nostri studi. Il mio augurio agli studenti e ai docenti che frequenteranno la scuola e il laboratorio da voi istituiti è che essi avvertano questo fascino nuovo e vogliano perciò partecipare alla nostra impresa, impegnandosi nell’immaginazione e nell’elaborazione non solo del testo della Costituzione della Terra da noi ipotizzata ma anche, e soprattutto, delle funzioni e delle istituzioni di garanzia capaci di attuarla.
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Rinasci Sardegna! Un Nuovo Inizio. Patto per Tutti i Sardi
Riceviamo e volentieri pubblichiamo. La lettera è indirizzata ai firmatari dell’Appello del “Patto di sardi”, pubblicato nella nostra news, come invito al dibattito per proseguire nel percorso intrapreso. Crediamo che abbia una valenza che interessa e coinvolge tutti i sardi e non solo, per questa ragione riteniamo meriti la più ampia diffusione.
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Rinasci Sardegna! Un Nuovo Inizio. Patto per Tutti i Sardi
Alcuni di noi, tra i promotori dell’Appello del “Patto di Sardi”, hanno preso l’iniziativa di scrivere la lettera-messaggio che sotto si riporta, nella quale sono presentate alcune proposte per proseguire, non più solo come cattolici, ma come donne e uomini sardi di buona volontà, nel percorso di assunzione di responsabilità e partecipazione attiva alla costruzione di un nuovo futuro per la Sardegna. La nostra funzione di piccolo gruppo di servizio è terminata: ora andiamo in mare aperto con il coinvolgimento attivo di tutti, i 207 firmatari attuali e altri che si aggiungeranno. Avanti con convinzione e impegno!
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Lettera indirizzata ai firmatari del Manifesto-Appello alle istituzioni sarde
Care amiche e cari amici,
L’appello, firmato al momento da 207 sardi, cattolici e laici, ha raggiunto tutte le istituzioni sarde – comprese le forze sociali, sindacali, imprenditoriali – e la Conferenza Episcopale della Sardegna, che ha pubblicamente apprezzato l’iniziativa.
Numerose voci di vari orientamenti politico-culturali chiedono insistentemente di proseguire in un impegno finalizzato a ricercare – attraverso la mobilitazione di laici “responsabili e sensibili” – percorsi di speranza e di giustizia per le popolazioni sarde.
L’adesione suscitata dall’appello ci ha spinto a cercare di non disperdere questo patrimonio umano che incarna valori importanti capaci di incidere significativamente sul futuro della nostra società. Siamo convinti che in questo momento storico la Sardegna ha bisogno di tutti e che il bene dell’isola è interesse non solo dei partiti, delle forze economiche e delle lobby di ogni tipo e natura, ma dell’intero popolo sardo.
Da questo momento perciò, ci siamo proposti di aprire una riflessione tra quanti ritengono che si debba proseguire nel cammino iniziato con l’appello, chiarendo a noi stessi chi siamo, chi vogliamo rappresentare e cosa vogliamo fare nell’interesse della nostra gente sarda e in particolare di quella più colpita dalla crisi.
Chi siamo?
E’ stato scritto che inizialmente l’Appello era opera di un gruppo di cattolici sardi. Ma la nostra non vuole essere un’iniziativa confessionale. Siamo stati solamente i “propulsori” di un’iniziativa sottoscritta da 207 persone, e condivisa da tantissimi. Ma come proseguire e il da farsi è “consegnato” a tutte le donne e uomini di buona volontà. Noi cattolici ne siamo parte attiva, senza pretese di primogenitura, insieme con tutti.
La decisa e convinta adesione di numerose persone di vario orientamento ideale e culturale impone – per il bene dei sardi – la collaborazione tra quanti, come noi, credono nei fondamentali valori della centralità della dignità della persona umana, della solidarietà, della ricerca del dialogo sociale e della pace, della vicinanza alle “pietre scartate”.
Non abbiamo idea, al momento, se si sarà capaci di costruire questa prospettiva né si è riflettuto in maniera sufficiente su cosa potrà diventare questa aggregazione. Ciò che ci pare importante è che non possiamo rimanere silenti e non impegnarci perché le cose cambino. Siamo persone di provenienze le più diverse che si sono ritrovati in un documento che chiede un cambiamento radicale incisivo, considerando che fino a questo momento le condizioni delle popolazioni sono decisamente peggiorate e non solo a causa della pandemia.
Ciò che stiamo cercando di fare è svegliare le coscienze, rompere questo torpore che sembra avvolgere tutto, stimolare in maniera forte istituzioni, politica, forze sociali a non pensare esclusivamente agli interessi di parte ma alla ricerca del bene comune.
Ricostruire la Sardegna
Il programma di ricostruzione generale della Sardegna sul fronte socio economico è vastissimo perché richiama numerose problematiche di comparto, di settore e metodologie e strumenti d’attuazione sicuramente plurali. Ma due sono secondo noi i principi ispiratori di ogni scelta politica: 1) assicurare ai cittadini qualità della vita; 2) dignità della persona. Da questi principi ispiratori derivano alcune priorità, che elenchiamo senza pretesa di essere esaurienti:
- Diritto all’istruzione e alla formazione in tutte le forme e le articolazioni che il progresso scientifico e tecnologico oggi richiede per evitare qualsiasi forma di emarginazione.
- Cultura e rispetto dell’ambiente come bene da tutelare e risorsa da utilizzare
- Diritto al lavoro, strumento fondamentale perché la vita sia dignitosa
- Sussidiarietà tra diversi livelli istituzionali nel governo dei territori e nel rapporto tra istituzioni e le entità di partecipazione dei cittadini
- Diritto all’assistenza e alla cura per proteggere e promuovere, in tutte le età della vita, la dignità della persona
Impegno socio-politico dei cattolici
La ritirata della cultura sociale cattolica dalla scena politica non ha fatto bene alla nostra democrazia. Il suo ritorno, in una rinnovata prospettiva di apertura e inclusione, può contribuire a portare nuove idee, a ricostruire una politica che sembra orientata a raggiungere obiettivi di gruppi e/o di singoli piuttosto che avere l’idea che è necessario lavorare per tutti. San Paolo VI affermava che lo sviluppo o è per tutti o non è sviluppo. Anche i non cattolici sono in tutta evidenza fortemente interessati a un rinnovato impegno politico dei cattolici, con cui intraprendere comuni percorsi.
L’identità sarda
Il tema della sardità non può essere ignorato anche se le articolazioni di questo argomento sono tante e spesso divisive, e non da oggi. Il nostro obbiettivo è costruire un’autonomia vera, capace di autodeterminare bisogni, interessi, obiettivi sia di carattere sociale che di carattere economico. Da questo punto di vista l’interesse principale riguarda la rottura della dipendenza e assistenza che giova soltanto alle aree più ricche del paese, dalle quali provengono le merci che importiamo e che paghiamo grazie al contributo del cosi detto residuo fiscale. Non vogliamo essere un popolo di assistiti e dipendenti.
Nuovo Inizio per la Sardegna – Rinasci Sardegna! – Un Patto che unisca tutti i sardi. Forza Paris nei due significati di Insieme e Uguali.
Vogliamo essere soltanto un movimento popolare di opinione e di animazione – forte e incisivo – perché siamo a un cambiamento d’epoca che in Sardegna, se noi resteremo in silenzio e alla finestra, altri sicuramente hanno cominciato a scrivere.
Riflettiamo insieme anche sul nome, breve come uno slogan, ma emblematico e programmatico, per indicare il nuovo corso che economia, scienza, tecnologia, ambiente, anche pandemia hanno imposto, dentro il quale dobbiamo immettere valori ed etica. E decidiamo insieme.
Il vecchio approccio riformista non funziona più, l’economia liberista non sa più dove portare il mondo, l’ecologia integrale è la nuova salvezza. Certo anche la scienza giocherà un grande ruolo, lo dimostra la vicenda dei vaccini anti Covid-19. Ma non sarà sufficiente da sola, perché ci sarà bisogno di ridare senso a quasi tutti gli aspetti della nostra vita al punto che gli studiosi hanno coniato un termine che indica nuovo approccio a tutte le scienze sociali, quello “trasformazionale”.
La Sardegna ha urgente bisogno di un nuovo inizio per riprogettare la propria autonomia, riagganciarsi all’Europa (l’Europa dei popoli, solidale, unita e integrata nella valorizzazione delle diversità), uscire dall’arretratezza e dall’isolamento, per risalire le classifiche che ci vedono primi, tra i Paesi del Mediterraneo simili al nostro, per denatalità e abbandono scolastico, ultimi per occupazione giovanile, imprenditorialità, trasporti, speranza di futuro. Lo ribadiamo: dobbiamo dar vita ad una nuova cultura incentrata sull’ecologia integrale e un nuovo umanesimo. Lo dobbiamo ai giovani, alle donne e a tutti gli uomini di buona volontà, alla nostra gente sarda. Chi crede si ricordi delle parole “Io faccio nuove tutte le cose” e rimetta la speranza al centro dei nostri sogni e delle nostre sfide.
Gli strumenti per continuare a dialogare
Tutti sappiamo delle difficoltà di incontrarci personalmente e poiché siamo molto attenti al rispetto delle regole in tempo di pandemia , pensiamo che l’utilizzo dei nuovi media sia al momento l’opzione prevalente. Per questa ragione, ma anche perché questi strumenti sono efficaci, poco costosi e molto coinvolgenti pensiamo di attivare i social media più diffusi dal rafforzamento della esistente chat su whatsapp, alla realizzazione di una pagina fb e di un sito web dedicato. Dovremo anche prendere in considerazione l’opportunità di aprire un conto corrente bancario per fornirci di un agile strumento di autofinanziamento
Ciò ci potrebbe consentire di ampliare la partecipazione, di comunicare con efficacia, di raccogliere suggerimenti, idee da sviluppare insieme. Si tratta insomma di creare una rete la più ampia possibile sia rispetto alle organizzazioni sociali, professionali, ma anche di coinvolgere i territori della Sardegna.
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I promotori dell’Appello
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“Non ci si salva da soli”. Per battere il Covid in Sardegna è urgente la “buona politica; non quella asservita alle ambizioni individuali o alla prepotenza di fazioni o centri di interessi”.
Appello di cattolici sardi
Premessa.
Noi cittadini sardi, cattolici ispirati dai valori del Vangelo, fedeli agli insegnamenti del Concilio Vaticano II e della dottrina sociale della Chiesa, convintamente riproposti dalle ultime illuminanti encicliche di Papa Francesco, ci dichiariamo preoccupati e angosciati per il precipitare della situazione economica della Sardegna, con il portato di sofferenze materiali e psicologiche per un numero crescente di persone appartenenti a tutti gli strati della società sarda, specie dei meno abbienti. Chiediamo pertanto a tutti, a partire da quanti hanno responsabilità pubbliche, nelle Istituzioni e nelle altre organizzazioni della Società, e a tutti gli uomini e a tutte le donne di buona volontà, un impegno corale che, nel rispetto delle differenze delle diverse appartenenze politiche e culturali, ci renda solidali e attivi per uscire dalla situazione di crisi e difficoltà antiche e attuali della nostra regione.
1. Il momento della Sardegna.
La Sardegna nel momento in cui ha bisogno della più grande ricostruzione morale sociale ed economica della sua storia contemporanea – che può iniziare proprio dalla lotta al Coronavirus e ai suoi devastanti effetti – risulta paralizzata da un insieme di contraddizioni che si scaricano soprattutto sui più deboli.
La pandemia da Coronavirus ha ulteriormente aggravato le già precarie condizioni economiche e sociali della Regione. L’aggiornamento congiunturale dell’economia della Sardegna del novembre 2020, pubblicato dalla Banca d’Italia, sottolinea la forte negatività di tutte le variabili ( molto peggio di quanto accaduto a livello nazionale) dal PIL ai consumi, dalle esportazioni all’occupazione, dal fatturato agli ordinativi di tutti i settori dall’agricoltura all’industria, dal commercio, all’edilizia dal turismo ai servizi. Gli effetti di questa crisi strutturale avranno pesanti conseguenze oltrechè sul piano sociale anche su specifiche situazioni come l’emigrazione dei giovani istruiti, l’ulteriore spopolamento dei piccoli comuni, l’incremento dei livelli di povertà.
2. Principali emergenze
In diversi settori fondamentali le situazioni di crisi si sono aggravate negli anni.
– Nella scuola, nella formazione, nell’Università e nella Ricerca, comparti in cui si ampliano i divari tra i partecipanti a tutti i livelli – con esclusioni dettate in grande misura dalle condizioni economiche di partenza delle famiglie – oggi anche acuiti dalla formazione a distanza.
– Nei trasporti perennemente incerti al punto di togliere ai sardi il diritto costituzionale alla mobilità. E’ dei giorni scorsi la dichiarazione relativa all’interruzione dal 1° dicembre di tutti i collegamenti navali in convenzione.
– Nella sanità, con i tagli sistematici agli organici, l’annuncio di riforme penalizzanti nei confronti dei territori, l’intasamento degli ospedali; il taglio delle borse di studio per le specializzazioni mediche. Questioni ben rappresentate in questo periodo dal malessere dei sindaci di fronte all’enormità dell’emergenza sanitaria disperatamente affrontata dai medici, dal personale sanitario, dagli operatori delle cooperative sociali e del volontariato a cui va la nostra solidarietà
– Nelle pubbliche amministrazioni, in tutte le diverse articolazioni, dove si aggrava la farraginosità burocratica al punto da compromettere i diritti dei cittadini, ma anche delle imprese, ostacolate anzichè sostenute nella funzione di creare lavoro per uno sviluppo economico eco-sostenibile.
Nella politica, segnata dal crollo della partecipazione dei cittadini sardi agli eventi elettorali e, spesso , da carenze programmatiche e attuative che rischiano di mettere a repentaglio i diritti della persona e perfino del rispetto della dignità umana. Nell’emergenza attuale, che riguarda tutti, ad essere maggiormente colpite sono, come sempre, le fasce sociali più deboli della popolazione: giovani, donne, anziani, poveri di ogni tipologia e, tra essi, ammalati, persone con basso livello culturale, analfabeti digitali, i residenti nei piccoli centri dell’interno, disoccupati.
Le famiglie che già vivevano in situazioni di disagio prima dell’inizio dell’emergenza sanitaria, versano oggi in situazioni di gravissima difficoltà, come testimoniano anche i recenti dati della Caritas sull’aumento della povertà assoluta e relativa.
La Sardegna ha bisogno, dunque, di interventi concreti sulle politiche per la famiglia, i giovani, il lavoro e le imprese, la questione ambientale, la sanità, la scuola, le infrastrutture, l’Università, la ricerca, le nuove tecnologie, la lotta alla corruzione.
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La Chiesa di Cagliari contro la localizzazione in Sardegna del Deposito di rifiuti radioattivi.
COMUNICATO
circa l’ipotesi di deposito di rifiuti radioattivi in Sardegna
L’Ufficio per la Pastorale Sociale e Lavoro, Pace e Salvaguardia del Creato della Diocesi di Cagliari, d’intesa con l’Arcivescovo, esprime profonda preoccupazione per l’individuazione, tra le aree potenzialmente idonee ad ospitare il deposito dei rifiuti radioattivi di tutta Italia, anche di 14 siti in Sardegna comprendenti, tra gli altri, territori ricadenti nella Diocesi di Cagliari (Nurri, Gergei, Villamar, Mandas, Siurgus Donigala, Segariu, Guasila e Ortacesus).
Si tratta di comunità locali già pesantemente colpite da annose criticità derivanti dalla condizione di insularità, dal crescente spopolamento e dalla mancanza di investimenti strutturali orientati alla ripresa e allo sviluppo socio-economico dei territori.
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Bisogno di Umanesimo
Come uscire dalla pandemia
LE NUOVE TECNICHE BASTANO A RIUMANIZZARE IL MONDO?
di Umberto Baldocchi.
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Su Chiesadituttichiesadeipoveri, 30 DICEMBRE 2020 / EDITORE / DICE LA STORIA /
Si parla sempre più spesso, in relazione al tanto atteso periodo post-Covid, dopo che l’esperienza pandemica ci ha fatto toccare con mano che la “mano invisibile” della globalizzazione non ci può salvare dai disastri, di un nuovo inizio, della impossibilità di un ritorno alla “normalità” che abbiamo conosciuto, della necessità di reinventare un mondo diverso nonché di costruire una società all’altezza delle sfide epocali, per la verità senza che si precisi meglio in cosa dovrebbe consistere questa diversità o questa novità. O meglio senza che si sciolga una ambiguità di fondo. Il presidente del Consiglio ha parlato di un “nuovo umanesimo” che metta al centro il valore dell’uomo e la promozione della dignità umana.
Ovviamente, se parliamo di finanziamenti che mirino ad un progresso “sostenibile, verde, digitale e inclusivo”, è possibile – non è garantito però – che questo sviluppo metta davvero al centro il valore dell’uomo e riesca a ricostruire una società fondata sulla promozione della dignità umana. E anche il riferimento alle tre P Persona Pianeta Prosperità, come nuovi obiettivi dell’era post Covid, fatto dal presidente del Consiglio, suggerisce l’idea di un nuovo umanesimo che sia un ritorno ai valori, certo in forme mutate, dell’Umanesimo classico, cui l’Italia aveva dato vita a suo tempo.
Ma su questo “nuovo inizio” e “nuovo umanesimo” ci sono in giro interpretazioni molto diverse, forse anche opposte, benché non tali in apparenza. Se il Covid-19 ha messo in luce la fragilità dell’essere umano e delle nostre società e se la persistenza del virus non ci permette ancora di uscire dalla fase del distanziamento sociale e non ce lo permetterà forse a lungo, si potrebbe configurare, sia pure in via emergenziale, un neo-umanesimo molto diverso da quanto sopra sostenuto. Un neo-umanesimo, plasmato dal lockdown, che si fondi non sulla ricostruzione della relazionalità umana, ma sul potenziamento tecnologico dell’individuo (scopertosi “piccolo” e ”fragile”) e del ”sistema” biotecnologico di cui il singolo è sempre più parte integrante, per costruire quella resilienza che permetta anche all’economia di funzionare. In fin dei conti sostenibilità, green economy, digitalizzazione e inclusività potrebbero essere anche più che compatibili con un potenziamento tecnologico dell’individuo singolo, connesso mediaticamente al contesto sociale, ma non con quella ricostruzione piena della relazionalità, senza mediazioni, che connota la persona nella dimensione umanistica. Si andrebbe invece nella direzione di un “umanesimo” post-umano, trans-umano o oltre-umano, compatibile con certe forme di lock-down, che potrebbe diventare una pratica da rinnovarsi di fronte ai rischi possibili. Di umano resterebbe solo il termine, però contraddetto dalla preposizione (post, trans o oltre).
Un neo-umanesimo non umano
Ed in effetti c’è un retroterra di riflessioni e iniziative che sembra suggerire proprio questa interpretazione del “nuovo” umanesimo. Il Grande Reset (o “grande riaggiustamento”) è un’iniziativa-parola d’ordine lanciata dal World Economic Forum – giugno 2020- così come l’annuncio di una quarta rivoluzione industriale fondata sulla fusione delle tecnologie e data come evento ormai in via di affermazione. Anzi come un evento non arrestabile. Che, per la verità non lascerebbe molto spazio all’umanesimo in senso proprio, fondata come questa “rivoluzione” è sul cosiddetto post-umanesimo cioè sul Digital, 5G, biotecnologia, nanotecnologia, Internet delle cose, robotica, intelligenza artificiale, biologia sintetica e simbiosi fra i vari organismi, ibridazione dell’uomo con le cose. Se agli strumenti si sostituiscono i sistemi di cui l’uomo è una semplice protesi – come osservava Ivan Illich – l’identità umana non potrà più essere quella dell’homo sapiens. L’uomo dovrà mutare. L’umanesimo nuovo avrà poco in comune con quello classico. Sarà un umanesimo inedito, si dice. Tanto inedito da essere un “non umanesimo” nei fatti.
Una riflessione su questo può essere agevolata dalla considerazione comparativa degli aspetti dell’altro GRANDE RESET storico, quello del 1348, quello dell’Europa dopo la grande pandemia della peste nera. Anche quell’evento fu vissuto all’epoca come evento insieme straordinario e provvidenziale, in quanto decisivo per mettere alla prova le strutture sociali su cui si reggeva la società dell’epoca. Ed anche allora quella “prova” aveva dato risultati inquietanti. La società, nonostante conoscesse da tempo immemorabile le pestilenze, non si trovò “preparata” a rispondere.
Lo sguardo lungo di Boccaccio
E nella letteratura italiana abbiamo un testo straordinario che documenta e illustra questo passaggio, il Decameron di Giovanni Boccaccio, che nella sua Introduzione descrive proprio la peste del 1348 a Firenze di cui l’autore era stato testimone oculare. Gli effetti della pandemia del 1348 erano stati anche per Boccaccio sconvolgenti ed “apocalittici”, in un certo senso. Basti dire che in quel contesto anche “la reverenda autorità delle leggi, così divine come umana era quasi caduta e dissoluta” (Decameron, Introduzione), la società si era destrutturata, la vita umana era regredita a caratteri mai visti di animalità.
Si trattava di rispondere, anche allora, alla destrutturazione sociale portata alla luce dalla pandemia, ma già carsicamente presente nel mondo medioevale, un mondo in cui le istituzioni di governo, l’Impero e la Chiesa erano in grave crisi da tempo, e forze nuove emergevano dal basso, alterando e modificando un ordine sociale che non riusciva a trovare un nuovo equilibrio. Dentro la società che si stava disgregando in effetti nasceva qualcosa di nuovo. Se l’Impero universale si disfaceva e la Chiesa non svolgeva più la sua funzione di guida morale – come Dante aveva già denunciato – nascevano però nuove compagini europee, si affermavano culture nuove, le armi pacifiche dei mercanti e banchieri dell’epoca, la lettera di cambio e il fiorino, unificavano o avvicinavano le diverse aree europee, scavalcando i poteri territoriali, e cominciavano a dare unità economica all’Europa e al Mediterraneo. Potremmo dire che la mercatura e il mondo bancario nascente, insieme allo spirito di impresa delle nascenti borghesie, erano le nuove “tecniche” che consentivano di riordinare e resettare la società. Ma, dopo la pandemia, le nuove tecniche potevano bastare a ri-umanizzare il mondo?
La “commedia umana” del Decameron ci dice una verità piuttosto diversa. Non si trattava solo di rivolgersi al nuovo spirito mercantile o di ricorrere alle nuove tecniche monetarie per accrescere la ricchezza e la sua circolazione, se si voleva davvero ri-umanizzare il mondo. Si trattava di “fare società” laddove c’era conflitto, contrapposizione, individualismo o isolamento, così come avevano fatto nel piccolo i dieci giovani fiorentini riunitisi nella villa campagnola per fuggire la peste. La moneta poteva servire certo a fare unità, ma poteva servire anche a dividere, a contrapporre, a negare valori di umanità, ad alterare la giustizia, il culto religioso e così via. Nella affollata galleria dei personaggi del Decameron accanto al mercante coraggioso che affronta i rischi del mare, il regno della “fortuna”, c’erano infatti, grazie al nuovo uso del denaro, anche l’usuraio o il notaio falsario, il predicatore ciarlatano, l’inquisitore falso e ipocrita, il prete astuto e opportunista.
Ci vuole qualcosa di più della tecnologia per “fare società”. Sono necessari ingegno e intelligenza, ma neppure essi bastano. L’ingegno e l’intelligenza possono servire ad avvicinare ed unire le persone, a superare le barriere di classe e quelle culturali, a far convivere le idee e le fedi diverse, a fronteggiare i rischi della vita sociale, iniziando da quelli sanitari. Come tante novelle del Decameron mostrano. Ma ingegno e intelligenza non bastano, per due motivi diversi. Prima di tutto non bastano perché l’uomo non è buono per natura, non può recuperare una sua presunta innocenza originaria. La persona umana può servirsi dell’ingegno e dell’intelligenza – che pure non è sapienza – in modi molto diversi, secondo una scala di valori che ha gradi molto diversi. L’ingegno può essere usato per migliorare la realtà, ma anche per ingannare gli altri, per prevaricare sugli altri, per affermare il proprio io contro gli altri, per usare strumentalmente gli altri nella beffa, può essere identificato con l’astuzia e la furbizia che danno vita ad una sorta di “epos” degli sciocchi che si credono astuti, i mille Calandrini che incontriamo sempre nelle vicende umane.
In secondo luogo ingegno e intelligenza non bastano perché ci vuole una forza addizionale che spinga all’azione. Non basta pensare ciò che è giusto, bisogna volerlo. E il pensare non include il volere, diversamente da quanto aveva pensato tutta la filosofia classica.
Ci vuole l’amore
Ci vuole quel trasporto umano, quella forza “…che sovrasta la tempesta e non vacilla mai, che è la stella guida di ogni barca perduta… che non è soggetta al tempo… che non muta in poche ore o settimane” ( William Shakespeare) e che si chiama comunemente “amore” in senso profondo.
Quel sentire cioè che sublima sentimenti e doti che sono naturali, che è presente a livelli diversi in ciascuno, ma si realizza pienamente solo nelle personalità più elevate spiritualmente. Se l’amore umano, specie nella sua versione fisica e sessuale, non è negato a nessuno, c’è però una amplissima gradazione della passione d’amore, che fa la differenza fra le persone. In Lisabetta da Messina, in Griselda, in Federigo degli Alberighi e in pochi altri casi l’amore si manifesta come forza che vince tutti gli ostacoli, qualcosa che è “forte come la morte”. Amor vincit omnia vale solo per questi casi. Ma questa forza, che pure è posseduta da pochi, pervade tutta la società e la umanizza. E’ allora forse un anacronistico ritorno alla società cortese e cavalleresca, che delinea una via d’uscita nostalgica e passatistica dalla crisi pandemica, come mi pare riconosca nella sua ipotesi interpretativa, sia pure circondata da cautela e da riserve autocritiche, Franco Cardini nella sua interessante “incursione” storico-letteraria entro il Decameron visto in relazione alla pandemia? (Franco Cardini, Le cento novelle contro la morte- Leggendo Boccaccio: epidemia, catarsi, amore, Roma, Salerno editrice, 2020). Forse no, forse è qualcosa di più o di diverso.
Forse Boccaccio è molto più consapevole della realtà storica e dei suoi condizionamenti, per poter pensare davvero ad un ritorno al passato. Semplicemente ha scoperto una sorta di regolarità sociologica, qualcosa che non tocca solo la sua epoca, e cioè ha scoperto che ingegno e razionalità, pur necessari, non bastano a umanizzare la società. Attraverso una dedizione, sostenuta da questo slancio misterioso, occorre ricostruire i legami profondi della fides che lega tra loro le persone e consente di “fare comunità” e quindi “fare società”, o di costruire gli essenziali “beni relazionali” per usare termini oggi più alla moda. In questo modo Boccaccio afferma le esigenze di un vero umanesimo, che può essere sì sostenuto, oltre che dall’ingegno, anche dalla tecnica (nel suo caso quella borghese e mercantile che aveva potuto conoscere e sperimentare personalmente nella sua giovinezza) ma non può essere surrogato da essa.
Come ci fa capire il DECAMERON, la vera e decisiva risposta alla crisi pandemica non fu e non poteva essere una risposta emergenziale. L’isolamento sociale rappresentato, nel racconto, dal rifugiarsi dei giovani in una villa della campagna toscana – in realtà quell’isolamento era concepito come un fenomeno temporaneo, e comunque non era un fenomeno di asocialità, ma uno strumento per ricostruire una nuova convivenza – non era la soluzione, che invece poteva trovarsi solo nel ricorso alle grandi risorse della cultura umanistica esplicitato dai contenuti delle cento novelle. Si trattava di contrastare la destrutturazione sociale, la degenerazione e il degrado che la “emergenza” pandemica aveva portato alla luce, ma non aveva creato; esse c’erano già, anche se nessuno o quasi le percepiva. La vera e decisiva risposta fu quindi, in un certo senso, il grande umanesimo italiano nella sua stagione rinascimentale, che elaborò un modello culturale che fu ed è ancora un essenziale referente unificante per l’ Europa di oggi.
Una lezione per oggi
Al disfacimento sociale e morale che si accompagna alla peste delineato all’inizio dell’opera, Boccaccio contrappone infatti il ricorso all’intelligenza umana impiegata su scala sociale ed ai legami affettivi profondi, con l’amore al suo punto più alto, i veri strumenti per contrastare la disumanizzazione emersa nella pandemia e per combattere il “rischio”, ovvero l’imprevedibilità delle vicende in cui l’uomo è inserito, da lui denominato “fortuna” e quindi anche il rischio pandemico. Sono elementi entrambi che consentono di abbracciare pienamente la complessità del reale (questo il senso profondo del “realismo” del Decameron, che riesce a rappresentare l’ideale continuità tra i cavalieri della spada, o dell’ingegno e dell’industria umana e gli altri uomini tutti calati e assorti nei loro istinti e nelle loro passioni, senza i quali la rappresentazione del reale sarebbe mutila) e quindi di evitare quella cecità della conoscenza che anche oggi ci rende tanto soggetti a errori ed illusioni. L’intuizione umanistica di Boccaccio è in modo sorprendente perfettamente adeguata anche e proprio alla realtà che ci troviamo oggi di fronte. Come ha osservato Edgar Morin “l’intelligenza parcellare, compartimentata, meccanicista, disgiuntiva, riduzionista, spezza il complesso del mondo in frammenti disgiunti, fraziona i problemi, separa ciò che è legato, unidimensionalizza il multidimensionale. E’ un’intelligenza miope che il più delle volte finisce per essere cieca…. Così, più i problemi diventano multidimensionali [il Covid-19 oggi ne è un esempio], più si è incapaci di pensare la loro multidimensionalità; più progredisce la crisi, più progredisce l’incapacità di pensare la crisi; più i problemi diventano planetari, più diventano impensati. Incapace di considerare il contesto e il complesso planetario, l’intelligenza cieca rende incoscienti e irresponsabili…. Di fatto la falsa razionalità ossia la razionalizzazione astratta e unidimensionale, trionfa su tutte le terre… Da tutto ciò derivano catastrofi umane, le cui vittime e conseguenze, non sono riconosciute né contabilizzate, come lo sono invece le vittime delle catastrofi naturali… Il XX secolo ha generato progressi giganteschi in tutti gli ambiti della conoscenza scientifica, così come in tutti i campi della tecnica. Nel contempo ha prodotto una nuova cecità verso i problemi globali, fondamentali e complessi, e questa cecità ha prodotto innumerevoli errori ed illusioni. ”. (Edgar Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Milano, Cortina, 2001, p. 43, 44, 45,46).
[segue]
Recovery Fund
ECONOMIE
Recovery: i soldi ci sono, manca la “svolta”
Su Volerelaluna, 14-12-2020 –
di Luigi Pandolfi*
Dopo le incertezze e i veti delle settimane scorse, il pacchetto di risorse che l’Unione europea ha messo a disposizione dei Paesi membri per il rilancio dell’economia ha ricevuto, finalmente, il definitivo via libera. La Germania ha fatto valere nella trattativa tutto il suo peso politico, ma per le condizionalità sul rispetto dello Stato di diritto – questione sulla quale si erano messi di traverso Polonia e Ungheria – la partita è stata chiusa con classico bizantinismo: le clausole non decadono, ma saranno accompagnate da una “dichiarazione interpretativa” nella quale tutti potranno riconoscersi, buoni e cattivi.
Ora è il tempo dei soldi, non si può fare “filosofia” sui diritti.
I soldi, infatti, sono un bel po’, «mai così tanti» si è detto da più parti: 1800 miliardi tra Next Generation UE e bilancio dell’Unione 2021-2027. E la novità sta nel fatto che i 750 miliardi del cosiddetto Recovery fund saranno raccolti sul mercato con l’emissione di obbligazioni europee. Non è la “rivoluzione”, ma certamente un passo avanti nel processo di integrazione. Una situazione nuova rispetto alla gestione della crisi precedente, con la BCE che sta svolgendo con più coerenza il proprio lavoro per la stabilità delle finanze pubbliche, tenuto conto anche della loro sensibile quanto necessaria dilatazione in questa fase. Il prossimo passo? Dovrebbe essere quello della sterilizzazione da parte di Francoforte del debito contratto dai Paesi membri per la pandemia, trasformando i titoli acquistati sul mercato secondario in perpetuals bonds. Cosa bisognerebbe invece buttare nella spazzatura? Certamente il MES, perché nell’epoca del denaro creato “dal nulla” è inammissibile che gli Stati debbano accettare ipoteche sui diritti dei cittadini per il loro approvvigionamento finanziario. Ma questa storia meriterebbe una trattazione a parte.
Torniamo al cosiddetto Recovery fund.
Per l’Italia il plafond, nella sua dimensione massima ammissibile, dovrebbe essere di 193 miliardi di euro, di cui 65,4 miliardi di euro di sovvenzioni e 127,6 miliardi di euro di prestiti (con altre risorse specifiche di bilancio si arriva a un totale di 208,6 miliardi, in pratica i famosi «209 miliardi» di cui si parla dall’inizio di questa partita), che il Governo dice di voler «utilizzare appieno». Ma a che punto stiamo con la programmazione? C’è una bozza di piano (Piano nazionale per la ripresa e la resilienza), ma non è quella definitiva sulla quale Bruxelles dovrà fare il suo lavoro di “limatura” prima della pronuncia definitiva dell’Ecofin, il Consiglio dei ministri dell’economia e delle finanze di tutti gli Stati membri. I tempi? Se tutto andrà bene, ma proprio bene, i primi soldi potrebbero arrivare nella seconda metà del 2021. Non proprio «tempi europei», per usare una nota espressione riferita alla durata degli interventi nei consessi dell’Unione.
Ma cosa c’è dentro la bozza preparata dal Governo? Innanzitutto che il Paese deve correre di più, perché «la crescita economica dell’Italia negli ultimi vent’anni è stata nettamente inferiore alla media europea e, più in generale, a quella delle altre economie avanzate». Quindi, più investimenti e meno tasse (riforme di contesto). Ma meno tasse a chi? A chi guadagna da 40 a 60 mila euro lordi all’anno e, naturalmente, alle imprese. E per i disoccupati, i precari, i poveri assoluti, per la lotta alle disuguaglianze, per tutti quelli che non hanno il problema delle tasse perché non hanno reddito o non ne hanno a sufficienza?
Per rendere l’idea delle proporzioni, basta dire che la parola «disuguaglianza» è presente soltanto due volte in un testo di 125 pagine, e solo con riferimento alla «disuguaglianza di genere». La parola «povertà» sette volte, «assunzioni» una sola volta, ma a tempo determinato e solo nel capitolo sulla giustizia, «precari» e «precarietà» non pervenuti. Diversamente, la parola «competitività» è presente quaranta volte e l’aggettivo «fiscale» (riferito a Irpef, sgravi, tassazione sulle imprese) venti. Potremmo fermarci qui, per quanto riguarda la filosofia di fondo: il problema rimane la “resilienza” del sistema, senza cambiamenti significativi dei paradigmi socioeconomici dominanti. Crescita della ricchezza nazionale, ma guai a sindacare sulla sua distribuzione sociale, che richiederebbe interventi diretti dello Stato e specifiche “riforme di contesto” con finalità redistributive. Questione ben più importante del “chi gestirà” l’attuazione di questi programmi. Bello e romantico richiamare il “primato della politica”, del Parlamento, dei vertici politici dei ministeri. Ma questa politica, questo Parlamento, che idee hanno sul futuro del Paese, diverse, si intende, da quelle che anonimi poteri tecnocratici, lobby economiche ed “esperti” mainstream ci propinano da anni? La verità è che tra gli “esperti” non abbiamo un Paolo Sylos Labini o un Pasquale Saraceno (l’autore del famoso “Rapporto” che aprì la strada alla programmazione economica dei primi anni Sessanta) e tra i “politici” non c’è nessun Riccardo Lombardi o Antonio Giolitti, o anche un Ugo La Malfa. Ci vorrebbe una mobilitazione dal basso, ma dove sono le forze?
Qualche numero: su 193 miliardi di euro, alle politiche occupazionali sono riservati 3,2 miliardi (l’1,6%), dai quali vanno comunque tolte quelle per le politiche “giovanili” tout court. Non va meglio per l’inclusione sociale, 5,9 miliardi (il 3%), e nel plafond è calcolata anche la quota spettante al terzo settore. E per la sanità e il Sud? Rispettivamente, 9 e 3,8 miliardi. Mancano all’appello oltre 170 miliardi di euro, qual è il loro impiego? Oltre 120 miliardi sono destinati alla transizione verde e digitale, il resto alle infrastrutture, alla manutenzione stradale, alla ricerca e all’istruzione («Dall’istruzione all’impresa» è il titolo associato a questa missione).
Beninteso, gli interventi destinati alle transizioni verde e digitale, la cui ampiezza, in termini monetari, è espressamente stabilita dall’Europa, sono importanti per la modernizzazione del Paese e nell’ottica del contrasto ai cambiamenti climatici, ma «semplificazione» da un lato e riduzione degli impatti ambientali dall’altro non implicano di per sé la transizione verso una società più giusta e umana, a misura d’uomo anche per quanto riguarda l’accesso al benessere, ai servizi essenziali, a un lavoro dignitoso e adeguatamente retribuito, alle cure. Chiariamo meglio questo concetto. Il digitale può servire (soltanto) a migliorare la “competitività” delle imprese, ma può anche favorire la riduzione e la distribuzione dei tempi di lavoro. La profezia di J.M. Keynes: «Nel giro di pochissimi anni, intendo dire nell’arco della nostra vita, potremmo essere in grado di compiere tutte le operazioni dei settori agricolo, minerario, manifatturiero con un quarto dell’energia umana che eravamo abituati a impegnarvi». Stesso discorso per la gli interventi green. Perché sia un vero Green New Deal l’idea della sostenibilità ambientale deve essere coniugata con quella di sostenibilità sociale, elevando tutte le condizioni di benessere delle persone, nel campo della sicurezza sociale, della salute, dell’istruzione, della democrazia.
Solo in questo modo si uscirebbe da questa crisi in maniera diversa da come ci siamo entrati. Diversamente, avremo più computer, più banda larga, (forse) cieli più puliti, ma continueremo a dividerci tra chi ha tutto, chi ha poco e i troppi, ormai, che non hanno niente.
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* Luigi Pandolfi, laureato in scienze politiche, giornalista pubblicista, scrive di politica ed economia su vari giornali, riviste e web magazine, tra cui “Il Manifesto”, “Micromega”, “Economia e Politica”. Tra i suoi libri più recenti: “Metamorfosi del denaro” (manifestolibri, 2020).
Pace sulla Terra
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Messaggio del Santo Padre Francesco per la celebrazione della 54.ma Giornata Mondiale della Pace (1° gennaio 2021).
La cultura della cura come percorso di pace
1. Alle soglie del nuovo anno, desidero porgere i miei più rispettosi saluti ai Capi di Stato e di Governo, ai responsabili delle Organizzazioni internazionali, ai leader spirituali e ai fedeli delle varie religioni, agli uomini e alle donne di buona volontà. A tutti rivolgo i miei migliori auguri, affinché quest’anno possa far progredire l’umanità sulla via della fraternità, della giustizia e della pace fra le persone, le comunità, i popoli e gli Stati.
Il 2020 è stato segnato dalla grande crisi sanitaria del Covid-19, trasformatasi in un fenomeno multisettoriale e globale, aggravando crisi tra loro fortemente interrelate, come quelle climatica, alimentare, economica e migratoria, e provocando pesanti sofferenze e disagi. Penso anzitutto a coloro che hanno perso un familiare o una persona cara, ma anche a quanti sono rimasti senza lavoro. Un ricordo speciale va ai medici, agli infermieri, ai farmacisti, ai ricercatori, ai volontari, ai cappellani e al personale di ospedali e centri sanitari, che si sono prodigati e continuano a farlo, con grandi fatiche e sacrifici, al punto che alcuni di loro sono morti nel tentativo di essere accanto ai malati, di alleviarne le sofferenze o salvarne la vita. Nel rendere omaggio a queste persone, rinnovo l’appello ai responsabili politici e al settore privato affinché adottino le misure adeguate a garantire l’accesso ai vaccini contro il Covid-19 e alle tecnologie essenziali necessarie per assistere i malati e tutti coloro che sono più poveri e più fragili.[1]
Duole constatare che, accanto a numerose testimonianze di carità e solidarietà, prendono purtroppo nuovo slancio diverse forme di nazionalismo, razzismo, xenofobia e anche guerre e conflitti che seminano morte e distruzione.
Questi e altri eventi, che hanno segnato il cammino dell’umanità nell’anno trascorso, ci insegnano l’importanza di prenderci cura gli uni degli altri e del creato, per costruire una società fondata su rapporti di fratellanza. Perciò ho scelto come tema di questo messaggio: La cultura della cura come percorso di pace. Cultura della cura per debellare la cultura dell’indifferenza, dello scarto e dello scontro, oggi spesso prevalente.
2. Dio Creatore, origine della vocazione umana alla cura
In molte tradizioni religiose, vi sono narrazioni che si riferiscono all’origine dell’uomo, al suo rapporto con il Creatore, con la natura e con i suoi simili. Nella Bibbia, il Libro della Genesi rivela, fin dal principio, l’importanza della cura o del custodire nel progetto di Dio per l’umanità, mettendo in luce il rapporto tra l’uomo (’adam) e la terra (’adamah) e tra i fratelli. Nel racconto biblico della creazione, Dio affida il giardino “piantato nell’Eden” (cfr Gen 2,8) alle mani di Adamo con l’incarico di “coltivarlo e custodirlo” (cfr Gen 2,15). Ciò significa, da una parte, rendere la terra produttiva e, dall’altra, proteggerla e farle conservare la sua capacità di sostenere la vita.[2] I verbi “coltivare” e “custodire” descrivono il rapporto di Adamo con la sua casa-giardino e indicano pure la fiducia che Dio ripone in lui facendolo signore e custode dell’intera creazione.
La nascita di Caino e Abele genera una storia di fratelli, il rapporto tra i quali sarà interpretato – negativamente – da Caino in termini di tutela o custodia. Dopo aver ucciso suo fratello Abele, Caino risponde così alla domanda di Dio: «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9).[3] Sì, certamente! Caino è il “custode” di suo fratello. «In questi racconti così antichi, ricchi di profondo simbolismo, era già contenuta una convinzione oggi sentita: che tutto è in relazione, e che la cura autentica della nostra stessa vita e delle nostre relazioni con la natura è inseparabile dalla fraternità, dalla giustizia e dalla fedeltà nei confronti degli altri».[4]
3. Dio Creatore, modello della cura
La Sacra Scrittura presenta Dio, oltre che come Creatore, come Colui che si prende cura delle sue creature, in particolare di Adamo, di Eva e dei loro figli. Lo stesso Caino, benché su di lui ricada la maledizione a motivo del crimine che ha compiuto, riceve in dono dal Creatore un segno di protezione, affinché la sua vita sia salvaguardata (cfr Gen 4,15). Questo fatto, mentre conferma la dignità inviolabile della persona, creata ad immagine e somiglianza di Dio, manifesta anche il piano divino per preservare l’armonia della creazione, perché «la pace e la violenza non possono abitare nella stessa dimora».[5]
Proprio la cura del creato è alla base dell’istituzione dello Shabbat che, oltre a regolare il culto divino, mirava a ristabilire l’ordine sociale e l’attenzione per i poveri (Gen 1,1-3; Lv 25,4). La celebrazione del Giubileo, nella ricorrenza del settimo anno sabbatico, consentiva una tregua alla terra, agli schiavi e agli indebitati. In questo anno di grazia, ci si prendeva cura dei più fragili, offrendo loro una nuova prospettiva di vita, così che non vi fosse alcun bisognoso nel popolo (cfr Dt 15,4).
Degna di nota è anche la tradizione profetica, dove il vertice della comprensione biblica della giustizia si manifesta nel modo in cui una comunità tratta i più deboli al proprio interno. È per questo che Amos (2,6-8; 8) e Isaia (58), in particolare, alzano continuamente la loro voce a favore della giustizia per i poveri, i quali, per la loro vulnerabilità e mancanza di potere, sono ascoltati solo da Dio, che si prende cura di loro (cfr Sal 34,7; 113,7-8).
4. La cura nel ministero di Gesù
La vita e il ministero di Gesù incarnano l’apice della rivelazione dell’amore del Padre per l’umanità (Gv 3,16). Nella sinagoga di Nazaret, Gesù si è manifestato come Colui che il Signore ha consacrato e «mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi» (Lc 4,18). Queste azioni messianiche, tipiche dei giubilei, costituiscono la testimonianza più eloquente della missione affidatagli dal Padre. Nella sua compassione, Cristo si avvicina ai malati nel corpo e nello spirito e li guarisce; perdona i peccatori e dona loro una vita nuova. Gesù è il Buon Pastore che si prende cura delle pecore (cfr Gv 10,11-18; Ez 34,1-31); è il Buon Samaritano che si china sull’uomo ferito, medica le sue piaghe e si prende cura di lui (cfr Lc 10,30-37).
Al culmine della sua missione, Gesù suggella la sua cura per noi offrendosi sulla croce e liberandoci così dalla schiavitù del peccato e della morte. Così, con il dono della sua vita e il suo sacrificio, Egli ci ha aperto la via dell’amore e dice a ciascuno: “Seguimi. Anche tu fa’ così” (cfr Lc 10,37).
5. La cultura della cura nella vita dei seguaci di Gesù
Le opere di misericordia spirituale e corporale costituiscono il nucleo del servizio di carità della Chiesa primitiva. I cristiani della prima generazione praticavano la condivisione perché nessuno tra loro fosse bisognoso (cfr At 4,34-35) e si sforzavano di rendere la comunità una casa accogliente, aperta ad ogni situazione umana, disposta a farsi carico dei più fragili. Divenne così abituale fare offerte volontarie per sfamare i poveri, seppellire i morti e nutrire gli orfani, gli anziani e le vittime di disastri, come i naufraghi. E quando, in periodi successivi, la generosità dei cristiani perse un po’ di slancio, alcuni Padri della Chiesa insistettero sul fatto che la proprietà è intesa da Dio per il bene comune. Ambrogio sosteneva che «la natura ha riversato tutte le cose per gli uomini per uso comune. [...] Pertanto, la natura ha prodotto un diritto comune per tutti, ma l’avidità lo ha reso un diritto per pochi».[6] Superate le persecuzioni dei primi secoli, la Chiesa ha approfittato della libertà per ispirare la società e la sua cultura. «La miseria dei tempi suscitò nuove forze al servizio della charitas christiana. La storia ricorda numerose opere di beneficenza. […] Furono eretti numerosi istituti a sollievo dell’umanità sofferente: ospedali, ricoveri per i poveri, orfanotrofi e brefotrofi, ospizi, ecc.».[7]
6. I principi della dottrina sociale della Chiesa come base della cultura della cura
La diakonia delle origini, arricchita dalla riflessione dei Padri e animata, attraverso i secoli, dalla carità operosa di tanti testimoni luminosi della fede, è diventata il cuore pulsante della dottrina sociale della Chiesa, offrendosi a tutte le persone di buona volontà come un prezioso patrimonio di principi, criteri e indicazioni, da cui attingere la “grammatica” della cura: la promozione della dignità di ogni persona umana, la solidarietà con i poveri e gli indifesi, la sollecitudine per il bene comune, la salvaguardia del creato.
* La cura come promozione della dignità e dei diritti della persona.
«Il concetto di persona, nato e maturato nel cristianesimo, aiuta a perseguire uno sviluppo pienamente umano. Perché persona dice sempre relazione, non individualismo, afferma l’inclusione e non l’esclusione, la dignità unica e inviolabile e non lo sfruttamento».[8] Ogni persona umana è un fine in sé stessa, mai semplicemente uno strumento da apprezzare solo per la sua utilità, ed è creata per vivere insieme nella famiglia, nella comunità, nella società, dove tutti i membri sono uguali in dignità. È da tale dignità che derivano i diritti umani, come pure i doveri, che richiamano ad esempio la responsabilità di accogliere e soccorrere i poveri, i malati, gli emarginati, ogni nostro «prossimo, vicino o lontano nel tempo e nello spazio».[9]
* La cura del bene comune.
Ogni aspetto della vita sociale, politica ed economica trova il suo compimento quando si pone al servizio del bene comune, ossia dell’«insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono sia alle collettività sia ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più celermente».[10] Pertanto, i nostri piani e sforzi devono sempre tenere conto degli effetti sull’intera famiglia umana, ponderando le conseguenze per il momento presente e per le generazioni future. Quanto ciò sia vero e attuale ce lo mostra la pandemia del Covid-19, davanti alla quale «ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme»[11], perché «nessuno si salva da solo»[12] e nessuno Stato nazionale isolato può assicurare il bene comune della propria popolazione.[13]
* La cura mediante la solidarietà.
La solidarietà esprime concretamente l’amore per l’altro, non come un sentimento vago, ma come «determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché tutti siamo veramente responsabili di tutti».[14] La solidarietà ci aiuta a vedere l’altro – sia come persona sia, in senso lato, come popolo o nazione – non come un dato statistico, o un mezzo da sfruttare e poi scartare quando non più utile, ma come nostro prossimo, compagno di strada, chiamato a partecipare, alla pari di noi, al banchetto della vita a cui tutti sono ugualmente invitati da Dio.
* La cura e la salvaguardia del creato.
L’Enciclica Laudato si’ prende atto pienamente dell’interconnessione di tutta la realtà creata e pone in risalto l’esigenza di ascoltare nello stesso tempo il grido dei bisognosi e quello del creato. Da questo ascolto attento e costante può nascere un’efficace cura della terra, nostra casa comune, e dei poveri. A questo proposito, desidero ribadire che «non può essere autentico un sentimento di intima unione con gli altri esseri della natura, se nello stesso tempo nel cuore non c’è tenerezza, compassione e preoccupazione per gli esseri umani».[15] «Pace, giustizia e salvaguardia del creato sono tre questioni del tutto connesse, che non si potranno separare in modo da essere trattate singolarmente, a pena di ricadere nuovamente nel riduzionismo».[16]
7. La bussola per una rotta comune
In un tempo dominato dalla cultura dello scarto, di fronte all’acuirsi delle disuguaglianze all’interno delle Nazioni e fra di esse,[17] vorrei dunque invitare i responsabili delle Organizzazioni internazionali e dei Governi, del mondo economico e di quello scientifico, della comunicazione sociale e delle istituzioni educative a prendere in mano questa “bussola” dei principi sopra ricordati, per imprimere una rotta comune al processo di globalizzazione, «una rotta veramente umana».[18] Questa, infatti, consentirebbe di apprezzare il valore e la dignità di ogni persona, di agire insieme e in solidarietà per il bene comune, sollevando quanti soffrono dalla povertà, dalla malattia, dalla schiavitù, dalla discriminazione e dai conflitti. Mediante questa bussola, incoraggio tutti a diventare profeti e testimoni della cultura della cura, per colmare tante disuguaglianze sociali. E ciò sarà possibile soltanto con un forte e diffuso protagonismo delle donne, nella famiglia e in ogni ambito sociale, politico e istituzionale.
La bussola dei principi sociali, necessaria a promuovere la cultura della cura, è indicativa anche per le relazioni tra le Nazioni, che dovrebbero essere ispirate alla fratellanza, al rispetto reciproco, alla solidarietà e all’osservanza del diritto internazionale. A tale proposito, vanno ribadite la tutela e la promozione dei diritti umani fondamentali, che sono inalienabili, universali e indivisibili.[19]
Va richiamato anche il rispetto del diritto umanitario, soprattutto in questa fase in cui conflitti e guerre si susseguono senza interruzione. Purtroppo molte regioni e comunità hanno smesso di ricordare un tempo in cui vivevano in pace e sicurezza. Numerose città sono diventate come epicentri dell’insicurezza: i loro abitanti lottano per mantenere i loro ritmi normali, perché vengono attaccati e bombardati indiscriminatamente da esplosivi, artiglieria e armi leggere. I bambini non possono studiare. Uomini e donne non possono lavorare per mantenere le famiglie. La carestia attecchisce dove un tempo era sconosciuta. Le persone sono costrette a fuggire, lasciando dietro di sé non solo le proprie case, ma anche la storia familiare e le radici culturali.
Le cause di conflitto sono tante, ma il risultato è sempre lo stesso: distruzione e crisi umanitaria. Dobbiamo fermarci e chiederci: cosa ha portato alla normalizzazione del conflitto nel mondo? E, soprattutto, come convertire il nostro cuore e cambiare la nostra mentalità per cercare veramente la pace nella solidarietà e nella fraternità?
Quanta dispersione di risorse vi è per le armi, in particolare per quelle nucleari,[20] risorse che potrebbero essere utilizzate per priorità più significative per garantire la sicurezza delle persone, quali la promozione della pace e dello sviluppo umano integrale, la lotta alla povertà, la garanzia dei bisogni sanitari. Anche questo, d’altronde, è messo in luce da problemi globali come l’attuale pandemia da Covid-19 e dai cambiamenti climatici. Che decisione coraggiosa sarebbe quella di «costituire con i soldi che s’impiegano nelle armi e in altre spese militari un “Fondo mondiale” per poter eliminare definitivamente la fame e contribuire allo sviluppo dei Paesi più poveri»![21]
8. Per educare alla cultura della cura
La promozione della cultura della cura richiede un processo educativo e la bussola dei principi sociali costituisce, a tale scopo, uno strumento affidabile per vari contesti tra loro correlati. Vorrei fornire al riguardo alcuni esempi.
- L’educazione alla cura nasce nella famiglia, nucleo naturale e fondamentale della società, dove s’impara a vivere in relazione e nel rispetto reciproco. Tuttavia, la famiglia ha bisogno di essere posta nelle condizioni per poter adempiere questo compito vitale e indispensabile.
- Sempre in collaborazione con la famiglia, altri soggetti preposti all’educazione sono la scuola e l’università, e analogamente, per certi aspetti, i soggetti della comunicazione sociale.[22] Essi sono chiamati a veicolare un sistema di valori fondato sul riconoscimento della dignità di ogni persona, di ogni comunità linguistica, etnica e religiosa, di ogni popolo e dei diritti fondamentali che ne derivano. L’educazione costituisce uno dei pilastri di società più giuste e solidali.
- Le religioni in generale, e i leader religiosi in particolare, possono svolgere un ruolo insostituibile nel trasmettere ai fedeli e alla società i valori della solidarietà, del rispetto delle differenze, dell’accoglienza e della cura dei fratelli più fragili. Ricordo, a tale proposito, le parole del Papa Paolo VI rivolte al Parlamento ugandese nel 1969: «Non temete la Chiesa; essa vi onora, vi educa cittadini onesti e leali, non fomenta rivalità e divisioni, cerca di promuovere la sana libertà, la giustizia sociale, la pace; se essa ha qualche preferenza, questa è per i poveri, per l’educazione dei piccoli e del popolo, per la cura dei sofferenti e dei derelitti».[23]
- A quanti sono impegnati al servizio delle popolazioni, nelle organizzazioni internazionali, governative e non governative, aventi una missione educativa, e a tutti coloro che, a vario titolo, operano nel campo dell’educazione e della ricerca, rinnovo il mio incoraggiamento, affinché si possa giungere al traguardo di un’educazione «più aperta ed inclusiva, capace di ascolto paziente, di dialogo costruttivo e di mutua comprensione».[24] Mi auguro che questo invito, rivolto nell’ambito del Patto educativo globale, possa trovare ampia e variegata adesione.
9. Non c’è pace senza la cultura della cura
La cultura della cura, quale impegno comune, solidale e partecipativo per proteggere e promuovere la dignità e il bene di tutti, quale disposizione ad interessarsi, a prestare attenzione, alla compassione, alla riconciliazione e alla guarigione, al rispetto mutuo e all’accoglienza reciproca, costituisce una via privilegiata per la costruzione della pace. «In molte parti del mondo occorrono percorsi di pace che conducano a rimarginare le ferite, c’è bisogno di artigiani di pace disposti ad avviare processi di guarigione e di rinnovato incontro con ingegno e audacia».[25]
In questo tempo, nel quale la barca dell’umanità, scossa dalla tempesta della crisi, procede faticosamente in cerca di un orizzonte più calmo e sereno, il timone della dignità della persona umana e la “bussola” dei principi sociali fondamentali ci possono permettere di navigare con una rotta sicura e comune. Come cristiani, teniamo lo sguardo rivolto alla Vergine Maria, Stella del mare e Madre della speranza. Tutti insieme collaboriamo per avanzare verso un nuovo orizzonte di amore e di pace, di fraternità e di solidarietà, di sostegno vicendevole e di accoglienza reciproca. Non cediamo alla tentazione di disinteressarci degli altri, specialmente dei più deboli, non abituiamoci a voltare lo sguardo,[26] ma impegniamoci ogni giorno concretamente per «formare una comunità composta da fratelli che si accolgono reciprocamente, prendendosi cura gli uni degli altri».[27]
Dal Vaticano, 8 dicembre 2020
FRANCESCO
Il messaggio di Papa Francesco
Per Gianfranco
Antonio Sassu ricorda Gianfranco Sabattini economista
di Antonio Sassu
Gianfranco Sabattini era nato a Comacchio, non in Sardegna, ma si sentiva profondamente sardo.
Una volta laureato a Cagliari in Economia e Commercio diventò in breve tempo assistente alla cattedra di Politica Economica e Finanziaria col professore Esposito De Falco. Qui a Cagliari svolse la sua attività didattica e di ricerca, partecipando attivamente alla vita della città e al dibattito culturale anche sulla stampa quotidiana.
Aveva molto a cuore la Facoltà, il suo funzionamento, le sue risorse che dovevano essere acquisite ex novo, in quanto la Facoltà era stata costituita da poco. Sulla base dei modelli di alcune Università italiane riorganizzò i servizi, in particolare la biblioteca e a tal fine si fece nominare direttore del personale, incarico inesistente sulla carta, così da giustificare di fronte ai dipendenti le sue disposizioni, mettere ordine e costituire le premesse per il buon funzionamento dell’organizzazione della Facoltà stessa.
Ma il suo interesse principale era la ricerca. Gran parte delle sue pubblicazioni sono relative all’economia, alla sociologia e alla storia sulla Sardegna di cui era grande conoscitore. Gli argomenti trattati sono vari, tutti molti rilevanti, mai banali anche quando non c’è stata grande originalità. Sempre alla ricerca di uno sviluppo isolano stabile e continuo, recentemente si era dedicato con passione ad elaborare gli spunti di una nuova politica economica dopo aver assistito alle forti delusioni delle precedenti strategie a cui la classe nostrana ci aveva esposto. La Sardegna, diceva sempre, ha competenze valoriali, professionali e intellettuali in grado di garantire uno sviluppo sociale e civile al pari di altre regioni se sono supportate bene dalle istituzioni.
Lo Statuto regionale del 1948 ha attribuito alla Sardegna una democrazia formale, non sostanziale. Non vi è stata una integrazione sociale ed economica a livello internazionale, con le altre regioni italiane, e neppure all’interno dello stesso territorio regionale, anche per via del centralismo del governo. Una democrazia allargata in cui i cittadini fossero coinvolti nella partecipazione alle scelte nazionali e regionali dal basso assicurerebbe un governo effettivo e una maggiore responsabilità. Oggi, il principio di sussidiarietà, previsto a livello italiano ed europeo, dovrebbe pretenderlo. Perseguire una politica di integrazione sociale ed economica senza una definizione di questo principio, quindi, è impensabile.
Già l’economista Acemoglu e lo scienziato politico Robinson hanno studiato con grande successo, non solo mediatico, i temi relativi alle istituzioni e allo sviluppo economico. Essi si pongono una domanda cruciale: perché alcune nazioni falliscono e altre, invece, diventano sempre più ricche?
La risposta la trovano nella qualità e nel valore delle istituzioni che i paesi si danno. Ci sono paesi che elaborano e applicano istituzioni inclusive, in cui tutti partecipano alla produzione e alla distribuzione della ricchezza, e paesi che predispongono e attuano istituzioni estrattive, cioè, “estraggono” il beneficio della ricchezza a vantaggio di pochi, senza che di esso ne goda la popolazione che rimane ai margini della società. Nel caso di istituzioni estrattive il beneficio, cioè, il reddito che viene ricavato dalle attività del paese, è ripartito in modo iniquo fra due gruppi sociali: molto del beneficio va ad una parte minoritaria della popolazione, e poco del beneficio agli altri membri della società. Siccome il reddito viene consumato e sperperato nel primo caso, e utilizzato per la sopravvivenza nel secondo caso, manca l’accumulazione del capitale, quindi, le nazioni non progrediscono e decadono.
Bisogna distinguere istituzioni economiche e istituzioni politiche. Queste ultime, facendo leva sui pubblici poteri, possono assicurare per tutti l’esistenza dei diritti che le istituzioni economiche garantiscono, nei casi concreti e secondo le dovute modalità. Esiste un circolo virtuoso fra le istituzioni economiche e politiche, così, allo stesso modo esiste un circolo vizioso fra le istituzioni, o fra le istituzioni economiche e alcuni gruppi sociali, che potrebbero far leva sulle istituzioni politiche a diversi livelli.
La caratteristica più importante delle società inclusive è che queste sono dinamiche, culturalmente vivaci e imprenditorialmente attive, hanno l’obiettivo della innovazione e della concorrenza e, pertanto, conseguono normalmente una continua crescita.
Nelle società “estrattive”, invece, la gran parte della popolazione, non avendo alcun interesse a far crescere solo una parte piccola della società, non avendo alcun beneficio dalla concorrenza, dalla innovazione, dai servizi e spesso dalla scelta del lavoro o dei diritti fondamentali, sarà meno propensa a fare ulteriori sacrifici per risparmiare e per far crescere la nazione. Le società estrattive, pertanto, prima o poi saranno destinate al declino e al fallimento.
Sabattini sostiene che la nostra società regionale è essenzialmente estrattiva, soprattutto a causa dei governi che abbiamo avuto e che alla Sardegna non hanno concesso nulla, quindi è necessario porre mano ad una revisione dello Statuto. Secondo Sabattini una revisione del testo della Carta Costituzionale che potrebbe venire incontro alle esigenze dei nostri territori, in particolare di quelli dell’interno, potrebbe essere quella che prevede un federalismo. A questo fine si è spesso battuto per una modifica del rapporto con lo Stato e dello Statuto regionale.
Ma non basta. Il principio di sussidiarietà richiede anche la partecipazione dei cittadini alla scelta e alla distribuzione delle risorse. Esistono grandi disparità all’interno della regione e certamente i comuni e le autonomie locali non partecipano alla ripartizione della ricchezza secondo criteri più equitativi.
L’obiettivo della politica economica regionale dovrebbe essere quello di superare la parzialità che l’ha sempre caratterizzata: cioè, superare la staticità delle condizioni economiche dei territori, “attraverso la mobilitazione di tutte le risorse materiali e personali in essi presenti” . Si tratta di considerazioni che vanno ben al di là delle semplici riforme burocratiche e anche una maggiore maturità di tutti. In Sardegna sono le istituzioni estrattive che prevalgono e che si impongono. Sarebbe necessario ripensare ad un nuovo modello di governance per evitare lo spopolamento e la povertà delle popolazioni.
Il motivo per cui lo sviluppo locale continuerà a non avere l’attenzione che meriterebbe è che la classe politica locale continuerebbe a praticare una politica economica che le permette di “estrarre” il maggior beneficio elettorale e non di migliorare le condizioni di vita, di lasciare in continuazione le cose come stanno.
Migliorare la vita civile e sociale della Sardegna era il più grande desiderio di Gianfranco Sabattini, non solo una richiesta di politica economica, tanto meno, solo per dire.
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Articolo pubblicato in contemporanea su Democraziaoggi, il manifesto sardo, Aladinpensiero: le tre testate online di cui Gianfranco Sabattini è stato negli ultimi anni prestigioso e infaticabile editorialista.
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- Su Democraziaoggi.
- Su il manifesto sardo.
Enciclica di Papa Francesco Fratelli tutti
CAPITOLO TERZO
PENSARE E GENERARE UN MONDO APERTO
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Luci di carità in tempi di pandemia
Lunedì 21 dicembre, puntuale ed efficiente come sempre, la Caritas della Diocesi di Cagliari ha presentato il X Dossier 2020 “Luci di carità in tempi di pandemia”. Il volume è stato presentato da don Marco Lai, direttore Caritas, Franco Manca, economista, mons. Giuseppe Baturi, arcivescovo di Cagliari. Contiamo nel corso delle prossime settimane di pubblicare alcuni contributi presenti nel
libro, in versioni integrali o riassuntive. Per praticità, già disponendo della versione digitale, iniziamo con il contributo del direttore di Aladinpensiero.
Fratelli tutti e Laudato si’: strumenti per la costruzione di un mondo migliore.
Riflessioni su alcune tematiche “laiche” così come trattate dalle due encicliche: IL LAVORO, POLITICA ed ECONOMIA, BENI COMUNI e PROPRIETA’ PRIVATA*
di Franco Meloni
PREMESSA
L’enciclica “Fratelli tutti. Sulla fraternità e l’amicizia sociale” ci fa sentire partecipi della grande famiglia umana, abitanti della Terra, casa comune, che Papa Francesco ha ben descritto nella precedente enciclica Laudato si’. I due documenti si integrano e si completano, fornendoci strumenti per la costruzione di un mondo migliore. Ma non cerchiamo in essi ricette preconfezionate: le scelte in definitiva competono a noi, come singoli, come membri di aggregazioni comunitarie, e, per quanti lo sono, come rappresentanti istituzionali.
Veniamo al tema, la fraternità: è un valore assoluto, di cui disponiamo tutti, almeno in teoria, senza averla in nessun modo conquistata e meritata. Per i credenti “la nostra volontà non c’entra: siamo fratelli non perché lo vogliamo, ma perché siamo figli di Dio che è, di tutti noi, padre” (1). Anche i non credenti, almeno molti tra loro, pur senza coinvolgere Dio, ci credono! (2) Tanto è che la fraternità costituisce il terzo grande valore della triade della Rivoluzione francese «Libertà, uguaglianza e fraternità», bandiera del pensiero laico (3).
Se siamo fratelli e sorelle, come siamo, spetta a ciascuno di noi comportarci di conseguenza, per godere effettivamente di questo status naturale. Ma il mondo non va esattamente in tale giusta direzione. A moltissime persone su questa Terra non è riconosciuto il diritto alla fraternità. Un virtuoso programma mondiale dovrebbe tendere a renderlo effettivo, rimuovendo tutte le cause che lo impediscono.
E, invece… Addirittura nel tempo, soprattutto nel nostro tempo, la fraternità è stata quasi dimenticata. Perché? “Forse la causa sarà stata una confusione – errata confusione – tra fraternità e uguaglianza sociale. E dunque, fallite le forme di realizzazione storicamente date di tale uguaglianza (fallito cioè il cosiddetto socialismo reale), si è preferito non pensarci più. Qualunque sia la causa, resta il fatto che si è trattato – e si tratta – di una disattenzione imperdonabile” (1bis).
In sostanza così pensa anche il Papa che nella sua enciclica esalta la fraternità, sostenendone l’importanza fino a capovolgere la gerarchia tra i tre valori, dando alla fraternità la funzione di dare senso agli altri due (4): “La fraternità non è solo il risultato di condizioni di rispetto per le libertà individuali, e nemmeno di una certa regolata equità. (…) ha qualcosa di positivo da offrire alla libertà e all’uguaglianza. Che cosa accade senza la fraternità consapevolmente coltivata, senza una volontà politica di fraternità, tradotta in un’educazione alla fraternità, al dialogo, alla scoperta della reciprocità e del mutuo arricchimento come valori? Succede che la libertà si restringe, risultando così piuttosto una condizione di solitudine, di pura autonomia per appartenere a qualcuno o a qualcosa, o solo per possedere e godere. Questo non esaurisce affatto la ricchezza della libertà, che è orientata soprattutto all’amore. Neppure l’uguaglianza si ottiene definendo in astratto che «tutti gli esseri umani sono uguali», bensì è il risultato della coltivazione consapevole e pedagogica della fraternità” [FT 103, 104]. La fraternità dimenticata da tutti? Sì, ma per fortuna non dai poeti – ricordate la poesia Fratelli di Giuseppe Ungaretti? (5) – e dagli artisti in generale. Un esempio lo fornisce lo stesso Papa quando nell’enciclica cita un verso della canzone Samba delle Benedizioni di Vinicius de Moraes [FT 215], che rende magnificamente l’invito a far crescere una cultura dell’incontro, laddove si pratica la fraternità: «La vita è l’arte dell’incontro, anche se tanti scontri ci sono nella vita». E prosegue il Papa nella proposizione di un “modello di riferimento di società aperta ed inclusiva” ben rappresentato dalla figura geometrica del poliedro “che ha molte facce, moltissimi lati, ma tutti compongono un’unità ricca di sfumature, perché «il tutto è superiore alla parte». Il poliedro rappresenta una società in cui le differenze convivono integrandosi, arricchendosi e illuminandosi a vicenda (…). Da tutti, infatti, si può imparare qualcosa, nessuno è inutile, nessuno è superfluo” [FT 215 e LS 237] (6).
Tornando alla fraternità: dunque è un dono e personalmente ne sento l’afflato consolatorio nella sua pratica negli ambienti comunitari, ma ho la consapevolezza che si tratti di un privilegio, considerato che molta parte dell’umanità non ne può godere i benefici, in tutta la loro possibile estensione, a causa della difficile, per tanti drammatica, situazione in cui versa il nostro Pianeta, sia sul versante ambientale, sia su quello sociale ad esso strettamente connesso. Non esiste benessere della Terra senza che sussista contemporaneamente quello dei suoi abitanti, nell’accezione di “ecologia integrale”, concetto profondo dell’enciclica Laudato si’, che, come mi piace rimarcare, trova una “corrispondenza laica” nell’Agenda Onu 2030 (7).
Rifletto sul quadro che l’enciclica Laudato si’ mostra con crudo realismo: 1) il Pianeta è in pericolo, ma comunque sopravvivrà; chi rischia l’estinzione è l’umanità intera con gli altri esseri viventi, travolta da sconvolgimenti ambientali che non si vogliono adeguatamente contrastare; 2) nonostante la pandemia, purtroppo ancora in atto, continuano le guerre in tutto il mondo, una «terza guerra mondiale a pezzi», mentre crescono dappertutto le diseguaglianze e le povertà in un contesto mondiale “dominato dall’incertezza, dalla delusione e dalla paura del futuro e controllato dagli interessi economici miopi”.
E cerco allora possibili vie d’uscita, non solamente sul piano dell’impegno intellettuale, ma concretamente sulla modifica dei comportamenti (la “conversione ecologica”) perché mi sento pienamente coinvolto e perfino in qualche misura responsabile dell’attuale situazione, anche con riferimento alle realtà di impegno civile in cui sono inserito.
Nessuno deve tirarsi indietro per piccolo possa essere il contributo di ciascuno.
Ci aiutano in questa impresa proprio le due ultime encicliche di Papa Francesco.
Individuo alcune connessioni tra le stesse che mi aiutino a comprendere la situazione e che m’illuminino rispetto al “che fare?”. E’ un percorso che mi/ci impegna come cattolici, ma che può coinvolgere tutti. Proprio secondo gli intendimenti del Papa: [FT 6] “Consegno questa Enciclica sociale come un umile apporto alla riflessione affinché (…) siamo in grado di reagire con un nuovo sogno di fraternità e di amicizia sociale che non si limiti alle parole. Pur avendola scritta a partire dalle mie convinzioni cristiane, che mi animano e mi nutrono, ho cercato di farlo in modo che la riflessione si apra al dialogo con tutte le persone di buona volontà”. Intendimenti ormai nella consuetudine dei Papi, da Giovanni XXIII (Pacem in terris, 1963) in poi.
L’enciclica “Fratelli tutti” richiama esplicitamente la “Laudato si’” in 23 note, sulle quali opero un’arbitraria selezione, riconducendo i contenuti a tre grandi tematiche, che schematizzo nei titoli seguenti: IL LAVORO, POLITICA ed ECONOMIA, BENI COMUNI e PROPRIETA’ PRIVATA.
IL LAVORO
Alla questione il Papa dà molta enfasi, situandola nel solco tradizionale della Dottrina sociale della Chiesa, evitando di portarsi avanti nel dibattito sul rapporto tra lavoro e reddito, che pur aveva trattato in un precedente sorprendente intervento (8)
Dice il Papa [FT 162]: “Il grande tema è il lavoro. Ciò che è veramente popolare – perché promuove il bene del popolo – è assicurare a tutti la possibilità di far germogliare i semi che Dio ha posto in ciascuno, le sue capacità, la sua iniziativa, le sue forze. Questo è il miglior aiuto per un povero, la via migliore verso un’esistenza dignitosa. Perciò insisto sul fatto che «aiutare i poveri con il denaro dev’essere sempre un rimedio provvisorio per fare fronte a delle emergenze”. Ecco il passaggio in cui il Papa non insiste sulle teorie del «reddito universale di base» se non nel proporlo per le fasi emergenziali. Sostiene infatti che “Il vero obiettivo dovrebbe sempre essere di consentire loro una vita degna mediante il lavoro. Per quanto cambino i sistemi di produzione, la politica non può rinunciare all’obiettivo di ottenere che l’organizzazione di una società assicuri ad ogni persona un modo di contribuire con le proprie capacità e il proprio impegno. Infatti, non esiste peggiore povertà di quella che priva del lavoro e della dignità del lavoro». In una società realmente progredita, il lavoro è una dimensione irrinunciabile della vita sociale, perché non solo è un modo di guadagnarsi il pane, ma anche un mezzo per la crescita personale, per stabilire relazioni sane, per esprimere sé stessi, per condividere doni, per sentirsi corresponsabili nel miglioramento del mondo e, in definitiva, per vivere come popolo“. Riprende pertanto quanto scritto nella LS [128]: “Siamo chiamati al lavoro fin dalla nostra creazione. Non si deve cercare di sostituire sempre più il lavoro umano con il progresso tecnologico: così facendo l’umanità danneggerebbe sé stessa. Il lavoro è una necessità, è parte del senso della vita su questa terra, via di maturazione, di sviluppo umano e di realizzazione personale.(…) Il vero obiettivo dovrebbe sempre essere di consentire loro una vita degna mediante il lavoro”. Il Papa ha ben presente le radicali trasformazioni del lavoro e mette in guardia da pericolose derive, nel momento in cui “l’orientamento dell’economia ha favorito un tipo di progresso tecnologico finalizzato a ridurre i costi di produzione in ragione della diminuzione dei posti di lavoro, che vengono sostituiti dalle macchine. È un ulteriore modo in cui l’azione dell’essere umano può volgersi contro sé stesso. La riduzione dei posti di lavoro «ha anche un impatto negativo sul piano economico, attraverso la progressiva erosione del «capitale sociale», ossia di quell’insieme di relazioni di fiducia, di affidabilità, di rispetto delle regole, indispensabili ad ogni convivenza civile. In definitiva «i costi umani sono sempre anche costi economici e le disfunzioni economiche comportano sempre anche costi umani». Rinunciare ad investire sulle persone per ottenere un maggior profitto immediato è un pessimo affare per la società”.
Ancora sulla FT [168]: “ Il mercato da solo non risolve tutto, benché a volte vogliano farci credere questo dogma di fede neoliberale. Si tratta di un pensiero povero, ripetitivo, che propone sempre le stesse ricette di fronte a qualunque sfida si presenti. Il neoliberismo riproduce sé stesso tale e quale, ricorrendo alla magica teoria del «traboccamento» o del «gocciolamento» – senza nominarla – come unica via per risolvere i problemi sociali (9). Non ci si accorge che il presunto traboccamento non risolve l’inequità, la quale è fonte di nuove forme di violenza che minacciano il tessuto sociale. Da una parte è indispensabile una politica economica attiva, orientata a «promuovere un’economia che favorisca la diversificazione produttiva e la creatività imprenditoriale», perché sia possibile aumentare i posti di lavoro invece di ridurli. La speculazione finanziaria con il guadagno facile come scopo fondamentale continua a fare strage. D’altra parte, «senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica. Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare». La fine della storia non è stata tale, e le ricette dogmatiche della teoria economica imperante hanno dimostrato di non essere infallibili. La fragilità dei sistemi mondiali di fronte alla pandemia ha evidenziato che non tutto si risolve con la libertà di mercato e che, oltre a riabilitare una politica sana non sottomessa al dettato della finanza, «dobbiamo rimettere la dignità umana al centro e su quel pilastro vanno costruite le strutture sociali alternative di cui abbiamo bisogno»“.
Riprendendo la LS [129]: “ Perché continui ad essere possibile offrire occupazione, è indispensabile promuovere un’economia che favorisca la diversificazione produttiva e la creatività imprenditoriale. Per esempio, vi è una grande varietà di sistemi alimentari agricoli e di piccola scala che continua a nutrire la maggior parte della popolazione mondiale, utilizzando una porzione ridotta del territorio e dell’acqua e producendo meno rifiuti, sia in piccoli appezzamenti agricoli e orti, sia nella caccia e nella raccolta di prodotti boschivi, sia nella pesca artigianale. Le economie di scala, specialmente nel settore agricolo, finiscono per costringere i piccoli agricoltori a vendere le loro terre o ad abbandonare le loro coltivazioni tradizionali. I tentativi di alcuni di essi di sviluppare altre forme di produzione, più diversificate, risultano inutili a causa della difficoltà di accedere ai mercati regionali e globali o perché l’infrastruttura di vendita e di trasporto è al servizio delle grandi imprese. Le autorità hanno il diritto e la responsabilità di adottare misure di chiaro e fermo appoggio ai piccoli produttori e alla diversificazione della produzione. Perché vi sia una libertà economica della quale tutti effettivamente beneficino, a volte può essere necessario porre limiti a coloro che detengono più grandi risorse e potere finanziario. La semplice proclamazione della libertà economica, quando però le condizioni reali impediscono che molti possano accedervi realmente, e quando si riduce l’accesso al lavoro, diventa un discorso contraddittorio che disonora la politica. L’attività imprenditoriale, che è una nobile vocazione orientata a produrre ricchezza e a migliorare il mondo per tutti, può essere un modo molto fecondo per promuovere la regione in cui colloca le sue attività, soprattutto se comprende che la creazione di posti di lavoro è parte imprescindibile del suo servizio al bene comune”.
Da quanto messo in evidenza, risulta esplicita la critica del Papa (ripetuta in molte occasioni) alle teorie economiche dominanti, quelle di stampo neoliberista, che mettono al centro la realizzazione del profitto, piuttosto che del benessere delle persone, generando privilegi e ricchezze per pochi, forti diseguaglianze e povertà per molti. Per converso il Papa incoraggia lo studio e la pratica di economie diverse, quali quelle cosiddette circolari o che si rifanno ai principi dell’economia civile. Afferma Papa Francesco in altra circostanza (10): “l’economia, nel suo senso umanistico di “legge della casa del mondo”, è un campo privilegiato per il suo stretto legame con le situazioni reali e concrete di ogni uomo e di ogni donna. Essa può diventare espressione di “cura”, che non esclude ma include, non mortifica ma vivifica, non sacrifica la dignità dell’uomo agli idoli della finanza, non genera violenza e disuguaglianza, non usa il denaro per dominare ma per servire (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 53-60)”.
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Che succede?
LA CURA, LA GENTILEZZA, IL RIGORE, LA VERIFICA, LA LIBIA, IL CARCERE
18 Dicembre 2020 by Giampiero Forcesi |su C3dem.
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X Dossier Caritas 2020 “Luci di Carità in tempi di pandemia”
Conferenza stampa di presentazione del X Dossier 2020 “Luci di Carità in tempi di pandemia”
Lunedì 21 dicembre 2020 alle ore 10 nell’aula magna del Seminario arcivescovile di Cagliari (via mons. Cogoni 9) si svolgerà la conferenza stampa di presentazione del X Dossier 2020 della Caritas diocesana di Cagliari “Luci di Carità in tempi di pandemia”. [segue]