Risultato della ricerca: Vanni Tola
Domusnovas. Una scelta che non può essere scaricata sulle spalle dei lavoratori.
Lavorare in una fabbrica di bombe che significa? Con un comunicato ufficiale i 270 lavoratori della fabbrica di bombe Rwm di Domusnovas insieme ad altri 104 colleghi di Brescia si schierano esplicitamente contro qualunque ipotesi di riconversione dello stabilimento verso altre produzioni. Al di là di considerazioni stereotipate o basate su moralismo spicciolo occorre interrogarsi sul dramma di chi è costretto a scegliere tra la perdita della propria fonte di reddito e l’avventura di una riconversione industriale dal futuro incerto. E’ il solito ricatto che tante volte ha visto i nostri lavoratori posti con le spalle al muro di fronte alla necessità di rinunciare alla tutela della propria salute per portare a casa qualche soldo. L’industria sarda contiene numerosi esempi. E non pensiamo di cavarcela immaginando che i 270 operai della Rwm siano tout court dei sostenitori della guerra e dei bombardamenti sulle popolazioni destinatarie delle bombe. Sicuramente anche loro disprezzano la guerra ma quello di produrre bombe è, a tutt’oggi, l’unico lavoro possibile nella loro area. Occorre costruire quindi nuove proposte realistiche ed eque. La Costituzione parla di ripudio della guerra come strumento di offesa. Va da se che ciò comporta, o dovrebbe comportare, anche il rifiuto di produrre armi che alla guerra sono destinati. E’ quindi una scelta politica quella che la realtà di Domusnovas richiede. Lo Stato italiano che trova il coraggio e la dignità di non produrre più armi in forma diretta o per conto terzi che operano nel proprio ambito territoriale. Soltanto così il mancato reddito dei lavoratori derivante dalla chiusura della fabbrica potrebbe legittimamente diventare un costo sociale del quale il Governo dovrà farsi carico nelle forme che riterrà più opportune (riconversione, sussidio ecc.). Penso che in un contesto simili anche i lavoratori di Domusnovas sarebbero ben felici di smettere di produrre bombe (v.t.)
Pastori Sardi: la Regione s’è desta?
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- Gli impegni presi dalla Regione, sul sito web della RAS
Pastorizia, su proposta del capogruppo del Consiglio regionale la Giunta e i capogruppo si impegnano a ricercare altri 30 milioni oltre ai 15 già stanziati per allevatori ovini.
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LE PECORE COME “BENE COMUNE” DEI SARDI. DAL VOLANTINO DISTRIBUITO NEL CORSO DELLA MANIFESTAZIONE:
“ …Occorre inoltre che la società e la politica sarda facciano un salto di qualità nella capacità di governo e di pianificazione del settore agro-pastorale.
Le crisi ricorrenti fanno comprendere che dobbiamo avere la capacità di ripensare il modo in cui in Sardegna la vocazione agro-pastorale deve integrarsi con il turismo e la cultura.
Il pastoralismo non è un semplice comparto economico ma parte centrale del tessuto sociale e culturale della Sardegna.
La società e la politica Sarda devono fare proprio questo concetto: il pastore ha e può avere una funzione centrale nella gestione del territorio, nella conservazione del paesaggio, nel controllo delle campagne.
Il pastoralismo è dunque un patrimonio della Sardegna che va salvaguardato e protetto e non lasciato in balia delle crisi del mercato globale e locale.
Tutti noi – come sardi, come amministratori, come pastori – possiamo crescere insieme se impariamo a considerare le greggi e le mandrie non come un mero capitale economico di proprietà esclusiva del pastore. Le pecore sono un capitale di storia e di cultura affidato ai pastori, un patrimonio di tutti i sardi da proteggere e salvaguardare.
Questa idea, da oggi, dovrà guidare le politiche agricole regionali…”
Il Movimento dei Pastori Sardi smuove il sonno della Regione
Imponente manifestazione a Cagliari del Movimento Pastori Sardi. La Regione Sardegna si impegna a reperire entro Agosto trentacinque milioni di aiuti per la pastorizia.
Oltre quattromila pastori in piazza in una manifestazione bella, pacifica ma determinata ad ottenere risultati concreti. Saltano agli occhi alcuni aspetti caratterizzanti. Intanto la presenza di oltre 60 sindaci a rappresentare il profondo malessere delle Comunità a prevalente economia pastorale. La composizione del corteo è caratterizzata dalla presenza di una prevalente componete di giovani pastori. La stessa età media dei partecipanti appare abbastanza bassa e in contrasto con il generale “invecchiamento della forza lavoro delle campagne”. Naturalmente non si può non evidenziare il grande lavoro di analisi e organizzativo del gruppo dirigente del Movimento Pastori Sardi e del suo leader Felice Floris che, in un momento di grave crisi economica, di incendi, di temperature meteo quasi proibitive riesce a far scendere in piazza oltre quattromila persone provenienti da tutta la Sardegna. E poi, naturalmente il successo politico di aver costretto la Regione Sardegna ad assumere impegni finanziari rilevanti e tali, se concretizzati, da rappresentare un reale sostegno alla pastorizia.
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Servizio fotografico di Vanni Tola
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La Sardegna è in lotta. Oggi migliaia di pastori e agricoltori in Piazza
Claudia Zuncheddu su fb.
Imponente manifestazione del Movimento Pastori Sardi a Cagliari per ribadire che il settore agropastorale sempre più in crisi non può morire sotto il cinismo e l’indifferenza della Politica.
La Sardegna non può e non deve morire.
Sotto i portici del palazzo del Consiglio della Regione Autonoma, ad attendere il corteo dei pastori dove erano presenti numerosi bambini, donne ed anziani, c’era un servizio d’ordine pubblico con un numero spropositato di agenti.
Considerare la disperazione delle nostre campagne e quindi un problema di sopravvivenza del settore e della gran parte dell’economia sarda, come un problema di ordine pubblico è grave e dimostra, da parte delle autorità, la non comprensione o addirittura la estraneità a queste tematiche. Le forze dell’ordine in assetto antisommossa tra la Piazza e il mondo ovattato della Politica sarda, non solo non è stato un bello spettacolo, ma è stata una manifestazione di disprezzo rispetto ai sardi che osano alzare la testa, manifestare il proprio disagio e il diritto alla propria dignità. – segue –
Eccoci!
Il palazzo del Consiglio è circondato dai manifestanti che attendono che la delegazione sia ricevuta dal Presidente della Giunta Regionale.
(g.m., CSS)
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- Su L’Unione Sarda.
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- La delegazione
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Il Palazzo della Regione, la casa dei Sardi. Aspettavano una delegazione di pastori di una manifestazione pacifica aperta da un tamburino di 10 anni e una schiera di bambini con bandiere. Seguivano 60 sindaci di paesi a prevalente economia pastorale e tanti uomini e donne della Sardegna, principalmente pastori. Perché se si invita una delegazione di cittadini per un confronto civile si sente il bisogno di blindarsi all’interno di un palazzo pubblico? (v.t.)
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Accordo dopo protesta pastori: da Regione 35mln in più per campagne. Su SardiniaPost
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- Un primo resoconto nel sito del MPS
La manifestazione prende corpo
Movimento Pastori Sardi (dal nostro inviato Vanni Tola).
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Oggi 2 agosto 2017 Palazzo del Consiglio Regionale in via Roma a Cagliari: aspettando i pastori. Perché la casa comune dei sardi è in assetto di guerra? (Giacomo Meloni, CSS)
—————————-Arrivano…—————————
———–…anche con i Sindaci———————–
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La Sardegna si mobilita al fianco dei pastori. Il Movimento Pastori Sardi in piazza a Cagliari mercoledì 2 Agosto. Pubblichiamo il documento del MPS invitando i nostri lettori ad aderire alla manifestazione. Concentramento a Cagliari in Piazza Marco Polo alle ore 9.
MOVIMENTO PASTORI SARDI
Pastori, Agricoltori, Cittadini, la situazione che il mondo delle campagne sta vivendo è drammatica, nell’arco di due anni abbiamo perso circa il 50% del valore del latte e il 40% dal valore delle carni e come se non bastasse, da due anni subiamo le conseguenze di una delle più gravi siccità. Come Pastori, con il latte a 50/60 centesimi, non siamo più in grado di continuare a soddisfare il fabbisogno dei nostri animali. Come Agricoltori, con il crollo dei prezzi e delle produzioni, siamo allo stremo e ormai impossibilitati ad affrontare l’inizio di una nuova campagna agraria. COSì NON SI PUO’ ANDARE AVANTI. E’ necessario che l’Amministrazione Regionale intervenga immediatamente per salvare il patrimonio zootecnico, destinando risorse immediate pari ad un quintale di mangime per capo e nel contempo, attivi tutte le procedure per il ristoro dei danni causati dalla calamità naturale, compreso il blocco delle cambiali agrarie, l’azzeramento dei pagamenti INPS e il blocco dei procedimenti di Equitalia. La Regione Sardegna dovrebbe, inoltre, in maniera urgente liquidare tutte le vecchie pratiche di PSR (Piano Sviluppo Rurale) ed anticipare al mese di Settembre-Ottobre il pagamento delle nuove pratiche PAC (Politica Agricola Comunitaria) e PSR come già fatto in passato da altre regioni più virtuose. Ma non ci basta! Chiederemo alla politica Regionale dove sono finite le promesse del 2014 in materia di infrastrutture come l’energia elettrica, la viabilità aziendale, l’acqua potabile e la creazione di centri di raccolta e refrigerazione latte diffusi nel territorio regionale. Chiederemmo una riforma radicale del sistema dell’Amministrazione Agricola. Su questi argomenti il Movimento Pastori Sardi ha convocato una Manifestazione con corteo Cagliari mercoledì 2 Agosto 2017 concentramento Piazza Marco Polo (antistante fiera Campionaria ) alle ore 9:00 conclusione Via Roma davanti al Consiglio Regionale. Siliqua, 19/07/2017.
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Meglio astenersi
Colpi di sole. Le alte temperature di queste giornate stanno riscaldando le menti degli uomini politici che si propongono, meglio si ripropongono, alla nostra attenzione in vista delle elezioni prossime venture. Giorno dopo giorno, se si ha la pazienza di leggerle, aumentano come in un crescendo rossiniano le promesse elettorali che nessuno manterrà mai. Dimenticate le dentiere nuove per tutti di berlusconiana memoria, si riparte con l’aumento delle pensioni, con la promessa di milioni di assunzioni, di abbassamento delle tasse, di risoluzione del problema dei migranti che starebbero invadendo il nostro paese ( i dati reali non lo confermano ma per Fantasyland va sempre bene). Intanto Renzi tira avanti di sconfitta in sconfitta, di promessa in promessa. Ora ha dichiarato “guerra” all’unione europea chiedendo denaro per aumentare gli investimenti. Detta cosi – come ha spiegato in tv il giornalista del Corriere Massimo Franco – sembrerebbe che a Bruxelles esista un forziere con del denaro che ci appartiene e che il giovane Don Chisciotte sta andando a prendere. In realtà ciò che Renzi sta chiedendo all’Unione è soltanto il permesso di superare ancora una volta il limite imposto per l’indebitamento dell’Italia, il permesso di incrementare il debito pubblico nazionale che andrà a pesare sulle tasche dei nostri figli. Ma va bene uguale, tanto in campagna elettorale si può dire di tutto. E visto che ci si trova il nostro ne spara anche un’altra. Porterà il PD al 40%, come Grillo che ha lo stesso identico obiettivo per il suo movimento, come Berlusconi che vuole fare altrettanto per lo schieramento di destra. Tutto va bene, tanto sotto gli ombrelloni non si presta molta attenzione alla discussione elettorale. C’è un dato del quale nessuno, proprio nessuno, parla. L’astensionismo. Cresce continuamente la tendenza degli italiani a non partecipare al voto. Lo hanno confermato le ultime consultazioni elettorali. Per le prossime elezioni regionali siciliane i sondaggi prevedono un astensionismo superiore al 55% e la tendenza è al rialzo. L’inconsistenza e la sostanziale poca credibilità delle proposte politiche in campo e dei “leader” che le supportano faranno il resto. All’elettore ormai non resta altra scelta che quella di riappropriarsi del diritto all’astensione dal voto come ultima forma di protesta contro un sistema politico che naviga verso l’iceberg. Non lo diranno nei dibattiti televisivi ma è un dato di fatto che il partito dell’astensione è attualmente e di gran lunga il maggiore partito italiano.
MA VIENE UN TEMPO ED È QUESTO
LA LEZIONE DI TORINO
C’è una decisione da prendere perché il terrorismo globale possa essere vinto e la storia possa riprendere: e tocca alle Nazioni Unite e a Stati Uniti, Russia, Cina, Inghilterra e Francia
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di Raniero La Valle*
Sabato 3 giugno la vigilia di Pentecoste sono successe diverse cose che ci parlano del presente e del futuro del mondo: la decisione di Trump di tradire gli obblighi assunti dagli Stati Uniti col trattato di Parigi sul clima, il nuovo attentato terroristico sul ponte di Londra, le bombe dei kamikaze contro un funerale eccellente nel cimitero di Kabul, la città di Marawi nelle Filippine occupata dai jihadisti islamici mentre si contano i morti della strage di Manila, a Torino, in una giornata di perfetta pace, un bambino in coma e 1527 feriti, in una folla in fuga che per la paura si è fatta male da sola. Quando poi si ascoltano le letture bibliche di Pentecoste, mentre tutte queste cose accadono insieme, sembra come se quel tempo nuovo che vi era annunciato non fosse mai cominciato.
Degli eventi di quel sabato 3 giugno la lezione più importante è quella di Torino. I cittadini e tifosi lì riuniti non avrebbero avuto nessuna ragione di fuggire, perfino se si fosse udito un petardo o qualche sconsiderato avesse gridato a una bomba. Ma avevano tutte le ragioni di aver paura per tutto ciò che era successo fino ad allora e per quello che stava succedendo a Londra, a Kabul, nelle Filippine, a Washington, in Africa e in Medio Oriente. In effetti a parte le vittime del clima, non quantificabili, quegli eventi in quelle ore hanno provocato centinaia di morti e migliaia di feriti in diverse parti del mondo.
Qualcuno sui giornali, sconsideratamente, ha scritto che ormai la gente si è abituata alle stragi, che c’è una specie di assuefazione, e non si sa se lo ha detto per rammaricarsene o per rallegrarsi del fatto che, nonostante salga il conto delle vittime, tutto, anche gli affari, continui come prima.
Invece è proprio l’assuefazione, la rassegnazione, il “non c’è niente da fare”, “la vita continua” e i concerti pure, che non sono ammissibili, occorre non rassegnarsi, non abbozzare, non fare come se niente fosse, occorre dire di no e fermare la discesa nel precipizio. E se la novità è che, a differenza di quanto avveniva con l’IRA (Irlanda), con le Brigate Rosse (Italia), con l’ETA (Paesi Baschi), con i Tupamaros (Uruguay), che avevano ciascuno le proprie ragioni, oggi il terrorismo è globale ed ha una centrale mondiale, vuol dire che va combattuto e interdetto a livello globale. E ci vorranno pure le armi, ma per mettere fine alla minaccia globale c’è un solo mezzo, ed è il solo mezzo che oggi non c’è, non c’è più, né si vuole che ci sia, e questo mezzo è la politica. E se la politica non provvede, e se il terrorismo globale non finisce, il tempo è bloccato, e la storia non può ricominciare.
C’è stato un altro momento in cui il mondo era totalmente preda della violenza e, se ciò non finiva, la storia non poteva ricominciare.
Fu nel 1945 quando la seconda guerra mondiale aveva già prodotto e stava ancora producendo immani dolori, e si decise di voltare pagina. Le Nazioni si unirono a San Francisco per organizzare un mondo “dopo la guerra”, cioè un’epoca senza più guerre, e ci furono cinque Nazioni che si assunsero il compito di vegliare e operare perché la pace fosse preservata e la storia potesse cominciare; i loro nomi erano Stati Uniti, Russia, Inghilterra, Francia e Cina. Erano di lingue, culture e religioni diverse, nessuno avrebbe potuto accusarli di essere crociati di una parte sola. Ma questo collettivo dei “5 Grandi” ha poi tradito il suo compito, si sono divisi e combattuti tra loro, e la guerra è tornata.
Oggi siamo in una situazione analoga. Il terrorismo globale va combattuto ma, come si è visto, se lo combattono Stati Uniti o Francia o l’Occidente intero da soli, invece di diminuire, aumenta. Anche perché prima di combatterlo l’hanno generato e forse addirittura finanziato ed armato, in ogni caso l’hanno usato, ciascuno cercando di volgerlo a favore della propria ragion di Stato.
E così la storia di nuovo si è fermata. Quei Cinque insieme devono ora tornare ai giorni della decisione comune. C’è il capitolo VII della Carta dell’ONU che dice che cosa devono fare. Devono creare un Comitato di Stato Maggiore formato dai Capi di Stato Maggiore dei loro cinque eserciti, devono formare un corpo di polizia internazionale comandato congiuntamente da loro e, invece di bombardare e massacrare inutilmente “terroristi” e civili innocenti, con gli aerei o coi droni, mandare un corpo di spedizione integrato a liberare Raqqa e Mosul, restituire secondo il diritto i loro territori strappati alla Siria di Assad e all’Iraq di Fuad Masum, e togliere all’ISIS o Daesh di Abu Bakr al-Baghdadi l’usurpata qualifica di soggetto internazionale e la struttura politica militare e territoriale di uno Stato. Ciò vuol dire, in un mondo dove tutto si privatizza ed è sottratto al pubblico, privatizzare e escludere da una dimensione pubblica la centrale terrorista, toglierle gli strumenti pubblici della comunicazione e del potere, impedirle di convocare, accogliere e addestrare terroristi kamikaze e foreign fighters per tutto il mondo, e insomma tagliare la testa del serpente.
È una guerra? Ebbene sì, ma è la guerra già in corso, finalmente convertita in un uso legittimo di una forza internazionale, regolata e organizzata da una Costituzione mondiale da tutti sottoscritta, insospettabile di mire imperiali o coloniali, spoglia di ogni connotazione ideologica o religiosa, aliena dalla totalità distruttiva e indiscriminata che è propria della guerra destinata alla distruzione del nemico, e mirante all’unico scopo di rimuovere il macigno che oggi incombe sul mondo e permettere che la storia del mondo di nuovo cominci.
Se questo non si vuole fare, se non lo si può fare (non tutto è possibile alla politica), se si vuole che il terrorismo resti globale, c’è la lezione di Torino: la gente non dovrà più temere solo gli altri, dovrà temere se stessa. E qui c’è un inconcepibile, pauroso rimedio: trasporre dal locale al globale quelle che in certe situazioni furono misure di emergenza di poteri totalitari: stabilire un coprifuoco mondiale, vietare assembramenti di più di tre persone, finirla con stadi, partite, concerti, comizi processioni e cortei. Forse si morirebbe in meno, ma la civiltà, e la vita stessa, sarebbero finite.
Perciò occorre tornare alla politica, quella grande, esercitare l’azione internazionale, fino all’uso della forza (proibito invece ai singoli Stati) contro le minacce alla pace, le violazioni della pace e gli atti di aggressione, a norma degli artt. 39 – 42 della Carta dell’ONU, e riprendere una cooperazione globale di tutti i membri della comunità giuridica mondiale.
Questa sarebbe una politica all’altezza dei problemi di oggi. Certo, si può continuare così, che ognuno pensi solo a se stesso, che la Carta dell’ONU resti inattuata, che il terrorismo prosperi e la gente sia sempre più impaurita, che gli stranieri anneghino e che aumentino gli scartati e gli esclusi. Ma che senso avrebbe lasciare che tutto vada secondo questo verso, l’inquinamento non meno del terrorismo, la strage di migranti e di profughi non meno che l’ingiustizia globale?
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* Raniero La Valle, lunedì 5 giugno 2017 sul suo blog.
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Perché la svolta profetica di Papa Francesco metta radici
Riceviamo da Tonio Dell’Olio, presidente della Pro Civitate Christiana di Assisi, e volentieri diffondiamo.
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Diamo futuro alla svolta profetica di Francesco
Di fronte al pontificato di Francesco c’è chi esulta ma c’è anche chi non vede l’ora che passi. Chi esulta si riconosce nella “chiesa in uscita” e nell’attenzione ai poveri e condivide non solo lo stile dell’annuncio con parresìa ma anche il coraggio della denuncia verso il sistema economico-politico che genera la miseria e le nuove forme di schiavitù. Chi storce la bocca contesta la mancanza di uno spessore teologico nell’insegnamento del Papa e un improprio superamento della dottrina secolare della chiesa. Sotto il fuoco incrociato c’è sicuramente il documento Amoris Laetitia frutto della discussione sinodale ma anche l’insistenza sul magistero sociale. Noi riteniamo che la vera rivoluzione non stia tanto nella riforma della Curia e dello IOR, pur importanti per rendere più spedito e trasparente il cammino e la presenza nella storia di una Chiesa secondo il Vangelo e il Concilio, ma soprattutto nell’immagine di Dio. Una riproposizione teologica che pone al cuore della fede il Dio della misericordia di cui i credenti sono chiamati ad essere eco e presenza nel mondo. Si tratta di una vera e propria svolta in un “cambiamento d’epoca” come quello che stiamo vivendo. Per queste ragioni la Pro Civitate Christiana, fedele alla propria storia che l’ha vista protagonista di dialogo, riflessioni e incontri, propone ad associazioni, gruppi, movimenti e singoli, credenti e non credenti, di riflettere e avanzare progetti tanto alle chiese locali, quanto alla chiesa e alla società italiane, perché la svolta in atto metta radici. Si tratta cioè di tradurre in scelte concrete e durature la proposta di cambiamento che sgorga profetica dal magistero di Francesco per non correre minimamente il rischio di voltare disinvoltamente pagina dopo questo pontificato. E allora per incarnare “la Chiesa in uscita” chiediamo di iniziare un percorso di riflessione sino ad elaborare proposte di cambiamento da avanzare innanzitutto alla chiesa italiana ma anche alle istituzioni civili sui seguenti temi:
- il modello teologico che emerge dal pontificato di Papa Francesco, ovvero quale immagine di Dio;
- la chiesa povera per i poveri;
- l’ecologia integrale;
- il dialogo ecumenico e interreligioso;
- le nuove schiavitù.
Ciascuno, a partire dalle proprie competenze ed esperienze sul tema, cercherà di elaborare riflessioni e proposte che farà confluire ad Assisi dal 24 al 28 agosto in occasione della 75ma edizione del Corso di Studi Cristiani dove anche con l’aiuto di esperti si potranno consegnare alla chiesa e alla società italiana alcune linee guida o una proposta articolata che ci aiutino a trasformare in scelte concrete, in prassi, in itinerari formativi…, la ricchezza e la profondità dell’insegnamento di Francesco. Perché dobbiamo riconoscere che in questo siamo stati alquanto carenti e che l’adesione e l’entusiasmo da soli non bastano. Con buona pace dei denigratori del Papa a suon di manifesti anonimi e di edizioni falsificate de L’Osservatore Romano, di dubbi sollevati apertamente e di mormorazioni nascoste, c’è un popolo vasto che non si rassegna al tentativo di frenare il vento del Concilio e ritiene maturo il tempo per una sua completa applicazione sotto l’egida dell’aggiornamento necessario per questo tempo inedito. Per rispondere soprattutto al grido dei poveri che poi è lo stesso del Vangelo di Cristo.
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martedì 30 maggio 2017
MA VIENE UN TEMPO ED È QUESTO
“Chiesa di tutti Chiesa dei poveri” mette a tema il cambiamento d’epoca in atto proponendo un percorso di riflessione che culminerà in un’Assemblea nazionale convocata a Roma per il prossimo 2 dicembre
di Raniero La Valle
Cari Amici,
a cinquant’anni dal Concilio Vaticano II, una rete di associazioni e di cristiani qualunque volle richiamare in vita quell’evento e rilanciarne la ricezione nella Chiesa, in quattro successive assemblee annuali che si tennero a Roma dal 2012 al 2015. Quella vasta iniziativa di base, in controtendenza rispetto al clima ecclesiale di allora, si chiamò “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri”. Essa concluse il suo ciclo con l’Assemblea del 9 maggio 2015 che, richiamando la “Gaudium et Spes”, aveva come tema: “Gioia e speranza, misericordia e lotta”. Quel titolo già risentiva di una novità: era successo infatti che nella sede di Pietro avesse fatto irruzione papa Francesco, che proprio dal Concilio aveva preso le mosse per rimettere in cammino la Chiesa e riaprire, nel cuore di una modernità che la stava archiviando, la questione di Dio.
Proprio all’inizio del pontificato, dinanzi a una platea che non poteva essere più universale, essendo formata dai 6000 giornalisti che avevano seguito il Conclave, il papa svelò il suo programma dicendo: “Come vorrei una Chiesa povera per i poveri!”.
Sembra naturale che quanti come lui volevano e vorrebbero una Chiesa così, continuino a lavorare per questo scopo. Perciò dopo una pausa di parecchi mesi, dal 7 marzo di quest’anno abbiamo rinnovato e rilanciato il sito intitolato alla “Chiesadituttichiesadeipoveri”, l’abbiamo alimentato ogni settimana e abbiamo intrapreso l’ invio regolare di una newsletter che giunge a tutti i richiedenti come notizie@dachiesadituttichiesadeipoveri. Stabilita tale base operativa, abbiamo ora convenuto di aprire una riflessione che ci conduca fino al prossimo incontro. Il tema che intendiamo proporre è: “Ma viene un tempo ed è questo”, tema che vorremmo portare a un primo confronto pubblico il 2 dicembre prossimo a Roma in un’Assemblea promossa dai gruppi già partecipi delle precedenti iniziative e aperta a tutte le persone interessate (a cominciare dai teologi, ma anche da quei teologi che sono i semplici cristiani, fino a quanti non si ritengono o non sono né teologi né cristiani).
Naturalmente sotto questa proposta di riflessione e di Assemblea c’è un’idea, o se si vuole un’ipotesi, che appunto si tratta di valutare; un’ipotesi abbastanza importante da apparire meritevole di essere esplorata, perfino se fosse infondata.
L’idea, o l’ipotesi, è che il tempo non si è fermato, che il progresso storico non è ricacciato indietro dalla tempesta della crisi e che, nonostante tutto, viene un tempo nuovo ed è questo (sempre se gli lasciamo aperto anche un piccolo varco per il quale possa entrare).
C’è un simbolo, di grande impatto popolare, di questo nuovo tempo che viene, ed è il pontificato di papa Francesco. Non si tratta di fare paragoni incresciosi tra questo e altri pontificati; il fatto è che questo pontefice ha rimesso nel cuore della Chiesa il tema messianico. Aprendo ogni giorno il vangelo al popolo, egli ha ristabilito un continuo rimando, che si era perduto, dal Messia al Padre, ha scrostato dal volto di Dio la patina di errate dottrine onde si credeva di rendergli onore, ha annunciato un Dio non violento ed è arrivato a proporre la non violenza come stile radicale di vita agli uomini e agli ordinamenti. In tal modo egli si è ricongiunto al grande tema messianico di Isaia e di Michea delle lanci trasformate in falci, oltrepassando i confini della Chiesa istituita e mettendo la misericordia, contro i falsi messianismi, al centro della storia del mondo e della salvaguardia del creato.
Ma se questo è il simbolo e forse il volano che introduce all’epoca nuova, molti altri segni ci sono che un tempo è finito e un altro preme alle porte.
Non era mai successo che il mondo fosse materialmente unito come è adesso, quando tutte le cose dell’esistenza ormai sono globali e comuni, denaro e debito, armi e materie prime, ponti e muri, onde elettromagnetiche e blackout, inquinamento ed energia; ed anche la guerra è globale e comune, sparsa dovunque, oltremare e sulle soglie di casa.
Non era mai successo che popoli interi, famiglie con bambini e bambini non accompagnati, a migliaia e a milioni, migrassero e si muovessero da una patria all’altra, non per conquistare nuove terre ma per andare ad abitarle, e ne fossero ricacciati e affogati.
Non era mai successo che ognuno, in tempo reale, potesse avere notizia e fare esperienza di tutto.
Ciò che non è globale, ciò che non si è messo in comune è invece lo spirito di cui vive il mondo; non sono patrimonio comune la giustizia e il diritto, la condiscendenza e l’accoglienza, i saperi e gli aneliti, l’amore di Dio e l’amore del prossimo.
In questa contraddizione c’è l’alternativa tra l’epoca nuova e la catastrofe.
Nel decidersi di questa alternativa l’unica cosa che non si può dire è che la religione non c’entri. L’artificio cristiano su cui si è costruita la modernità, “facciamo come se Dio non ci fosse e il mondo lo costruiamo lo stesso”, oggi non è più possibile. Sono gli altri che non ci stanno. Si può decidere che Dio non c’è, e promuovere una società che gli sia indifferente, come è nel segreto pensiero dell’Occidente, ma non si può immaginare che sia così per tutti, che se ne spenga il fuoco sulla terra, e che perfino le religioni facciano a meno di Dio, quando invece è proprio in suo nome che anche oggi vengono perpetrati i peggiori delitti o scattano i più alti antidoti per la salvezza del mondo. In altre parole il retaggio religioso è troppo potente per non avere impatto, nel bene o nel male, sulla crisi epocale in atto. E perché questo impatto non sia per il male (come si teme dal fanatismo islamista e non solo), ma sia per la pace e per il bene, non basta che la conversione sia del cristianesimo (dove pure recalcitra), occorre che sia di tutte le religioni. Non si tratta solo di dialogo, ma di una nuova creazione. Il Dio nonviolento non è solo il Dio inedito ora annunciato dalla Chiesa, è il Dio nascosto da portare alla luce in ogni religione o fede teista; la lettura storico-critica e sapienziale delle Scritture non deve essere solo della Bibbia, ma deve esserlo del Corano e di ogni testo sacro; il discernimento tra il Dio dell’ira e della vendetta e il Dio della misericordia e del perdono deve essere non solo dei battezzati, ma dei confessanti di ogni fede, pur ciascuno restando un tassello del poliedro.
Questo sembra il tempo nuovo che la Chiesa ripartita dal Concilio e fatta scendere in strada da Francesco ha oggi il compito di annunciare e di far accadere. Sì, le cose del mondo vanno male: Ma…. Sì, i tempi sembrano brutti: Ne viene un altro. Sì, ma quando mai sarà questo tempo? È questo. Come dice Gesù alla donna samaritana, indicando il momento e la sostanza della svolta: “Ma è venuto il tempo, ed è questo, in cui i veri adoratori non lo faranno su questo monte o a Gerusalemme ma adoreranno il Padre in spirito e verità”.
Che cosa voglia dire questo, da quali Gerusalemme o santuari si debba uscire per dare avvio al tempo nuovo, e come il suo avvento possa essere il programma del terzo millennio non sappiamo. Questo è tuttavia l’oggetto della riflessione cui sono chiamati oggi i discepoli di Gesù, e questo è pure il tema dell’assemblea del 2 dicembre. Il sito chiesadituttichiesadeipoveri è al servizio di questa impresa.
Con cordiali saluti
Per “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri”: Vittorio Bellavite, Monica Cantiani, Emma Cavallaro, Giovanni Cereti, Franco Ferrari, Valerio Gigante, Raniero La Valle, Serena Noceti, Enrico Peyretti, Stefano Toppi, Renato Sacco, Rosa Siciliano, Rosanna Virgili.
Roma 30 maggio 2017
Oggi mercoledì 24 maggio 2017
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“Oltre ogni muro”. Guardiamo con ottimismo della volontà alle buone pratiche: Milano e Villamassargia esemplari.
La sedia di Vanni Tola.
“Oltre ogni muro”. Guardiamo con ottimismo della volontà alle buone pratiche: Milano e Villamassargia esemplari
La sedia
di Vanni Tola
Superare la logica dei grandi centri di raccolta e smistamento dei migranti con la pratica dell’accoglienza diffusa. Grande manifestazione a Milano per l’accoglienza diffusa.
La straordinaria manifestazione di Milano, contro il razzismo e l’accoglienza dei migranti ha rappresentato, innanzitutto, una ferma risposta democratica, pacifica e di massa alle provocazioni delle destre e di coloro che cavalcano la questione del respingimento dei migranti esclusivamente per scopi elettorali. Che poi tutto ciò sia avvenuto nella città di Milano, nel fulcro della propaganda leghista, non fa che accrescere il valore dell’iniziativa. Con lo slogan “Oltre ogni muro” oltre 100mila persone hanno dato gambe all’unica proposta alternativa per la questione dei migranti che comincia a farsi strada nell’opinione pubblica e in una parte sempre più vasta di politici e amministratori nel paese. E’ necessario riuscire a coniugare una giusta accoglienza di migranti con l’esigenza di non creare impatti problematici e devastanti con le comunità accoglienti. La proposta che si va concretizzando è quella di rifiutare fermamente la costituzione di grandi centri di accoglienza dei profughi e di contrapporre a tale procedura quella della accoglienza diffusa nel territorio di piccoli gruppi per i quali le comunità ospitanti predisporranno adeguati progetti per l’inserimento e l’integrazione reale degli ospiti. Una risposta intelligente contro i razzismi, i seminatori di odio, di diffidenza e di paure che operano in direzione contraria a qualsiasi ipotesi di accoglienza e integrazione che la Storia e le vicende internazionali ci impongono. Alle centinaia di associazioni di volontariato che curano la prima accoglienza dei migranti e dei richiedenti asili si affiancano gruppi di cittadini, associazioni e amministrazioni comunali che sperimentano nel concreto buone pratiche di accoglienza diffusa. Mi limito a segnalare soltanto due esempi tra i tanti possibili. In Sardegna, il Comune di Villamassargia, aderendo ufficialmente al sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati si è candidato a entrare nella rete dei centri di seconda accoglienza destinata ai richiedenti asilo e ai titolari di protezione internazionale. Con il progetto “Tutti giù per terra” i cittadini di Villamassargia intendono operare per accogliere e integrare (con servizi e professionalità specifiche per tale compito) una ventina di minori non accompagnati in famiglie affidatarie residenti nel comune e nei centri limitrofi. L’amministrazione ha già realizzato l’anagrafe delle famiglie affidatarie (20 nuclei di accoglienza e 3 di supporto). “Tutti giù per terra” è un progetto triennale per il quale è stato richiesta un finanziamento di 936mila euro sulla base di una spesa giornaliera per minore pari a 128 euro. Un progetto seguito con interesse anche dall’Anci Sardegna e da numerosi altri comuni che intendono operare nella medesima direzione. Esiste già un “Fronte comune” di amministrazioni locali che ha manifestato una ferma opposizione alla realizzazione di grandi centri di raccolta dei profughi proponendo in alternativa la pratica dell’accoglienza diffusa per piccoli gruppi nei Comuni della Sardegna. Notizie altrettanto confortanti giungono dall’area metropolitana di Milano. Una parte del paese che i media continuano a dipingere schierata contro l’immigrazione e sostanzialmente intollerante anche in conseguenza della martellante propaganda di organizzazioni xenofobe e razziste, si rivela essere la fucina di un nuovo modello di accoglienza e integrazione diffusa che viene proposta al Paese e all’Europa come modello vincente per confrontarsi con una problematica, quella dei grandi flussi migratori che rappresenterà una costante nel futuro prossimo. Risale a pochi giorni fa la notizia che a Milano Prefettura, Città Metropolitana e Sindaci, hanno sottoscritto un accordo che ridefinisce i ruoli dello Stato e degli Enti locali nella gestione delle migrazioni. Una alleanza strategica tra Stato e Amministrazioni comunali dalla quale è scaturito un protocollo per l’accoglienza diffusa dei migranti richiedenti asilo che impegna Prefettura, Città metropolitana e Comuni delle zone omogenee dell’area di Milano. L’obiettivo principale è quello di coniugare l’accoglienza e l’integrazione con le esigenze di sicurezza delle comunità ospitanti. I sindaci dell’area interessata dall’accordo diventano «protagonisti di una nuova idea strategica di sicurezza nazionale» con la pratica dell’accoglienza diffusa che diventa «la chiave dell’integrazione» e sarà attuata garantendo la massima trasparenza degli atti pubblici. E’ opinione diffusa tra i promotori del protocollo che «Integrare mentre si accoglie permette di creare politiche di sicurezza per il presente e il futuro, perché chi è integrato difficilmente diventa un punto di rottura della società». Il ruolo degli attori dell’intesa è codificato fin nei minimi particolari. I sindaci si impegneranno a trovare insieme alle associazioni di settore gli immobili, a dialogare con la cittadinanza e a mobilitare il volontariato per quanto riguarda i percorsi di integrazione. La prefettura «farà da stazione appaltante e organizzerà un tavolo mensile di monitoraggio», operando affinché l’ampliamento dell’accoglienza sia una priorità da estendere nel territorio. Un importante passo avanti nella giusta direzione.
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La priorità del Lavoro
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IL LAVORO CHE VOGLIAMO
LIBERO, CREATIVO,
PARTECIPATIVO E SOLIDALE
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Il Primo Maggio di Giuseppe Di Vittorio
Il Primo maggio e la priorità del lavoro in un discorso ancora attuale di Giuseppe Di Vittorio
(dal numero 17 del «Lavoro» pubblicato il 26 aprile 1953)
Se la celebrazione del Primo maggio diviene, ogni anno, più grandiosa nel mondo gli è perché il suo significato esprime le aspirazioni più profonde e più vive dell’uomo. Il Primo maggio, infatti, esalta la potenza del lavoro e le priorità e la nobiltà della sua funzione nella vita d’ogni società umana. In pari tempo, questa giusta esaltazione pone in maggior luce l’ingiustizia rivoltante del fatto che, in tanta parte del mondo, il lavoro non è libero, essendo sottoposto al giogo del capitale e subordinato alla legge barbarica del profitto di pochi, a detrimento di tutti. Non essendo libero, il lavoro non può espandersi, secondo i crescenti bisogni dell’uomo; non può utilizzare tutta la sua potenza creatrice, per soddisfare le incessanti esigenze di vita e di progresso dell’umanità. Ogni possibilità di lavoro e di produzione è condizionata e limitata dalla convenienza o meno dei detentori del capitale, dei loro trust, dei loro monopoli.
Di qui, le mostruosità inumane del sistema capitalistico: immense estensioni di terre incolte o malcoltivate e masse enormi di braccianti disoccupati; fabbriche che si chiudono e milioni di famiglie prive dei prodotti più necessari; tonnellate di grano buttate a mare – per mantenere elevati i prezzi – e milioni di uomini e di donne e di bambini che scarseggiano o mancano del pane.Da questo sistema di predominio del capitale, da questo sistema di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sorgono le crisi, la disoccupazione, la miseria, di cui soffrono le popolazioni.
Da questo sistema d’ingiustizia e di sopraffazione, sorgono le cupidigie e le brame di rapina dei grandi monopoli su altri Paesi, su altri mercati, su altre fonti di materie prime. Di qui, sorgono le guerre imperialistiche, coi loro inseparabili e terribili cortei di massacri, di distruzioni, di lutto, di carestia. Il Primo maggio, pertanto, i lavoratori del mondo intero, celebrando la potenza invincibile del lavoro, rivendicando il loro diritto alla conquista di migliori condizioni di vita riaffermano la loro volontà collettiva di accelerare la marcia verso l’emancipazione del lavoro, che libererà tutta l’umanità dal timore delle crisi, dalla paura della fame, dall’incubo della guerra, ed aprirà ad essa la via radiosa del benessere crescente e d’un più alto livello di civiltà.
Il lavoro è creatore di beni; il lavoro eleva gli uomini, li rende migliori e li affratella; il lavoro è pace. Il Primo maggio, i lavoratori d’Italia e del mondo, esaltando il lavoro, ribadiscono la loro volontà di pace e riconfermano solennemente il Patto della loro solidarietà internazionale al disopra d’ogni frontiera di nazioni, di sistemi politici e sociali di razze e di religioni. Tutti fratelli gli uomini e le donne del lavoro.
All’alba di Maggio sorridono, quest’anno, fondate speranze di distensione internazionale e di costruzione d’una pace stabile. Ma i grandi monopoli, profittatori di guerra, non disarmano. Essi confessano d’aver paura della pace, avendo fondato le loro fortune sulla guerra. Di fronte a questi vampiri, che vogliono dividere ad ogni costo il mondo in blocchi nemici, per fomentare l’odio e la guerra, i lavoratori d’Italia manifestano il Primo maggio la loro volontà di difendere ad ogni costo la pace e di rinsaldare la loro fraternità coi lavoratori dell’Unione Sovietica e di tutti i Paesi del mondo.
Il Primo maggio è anche una giornata di rassegna delle forze organizzate del lavoro, di bilancio dei risultati conseguiti dalle loro lotte, di precisazione delle prospettive della loro marcia in avanti. ue fatti positivi sono da registrare: le forze della grande CGIL sono intatte e in pieno sviluppo; nuovi miglioramenti, anche se lievi, sono stati strappati, in favore dei lavoratori.
Ma è troppo poco. Le condizioni di vita dei lavoratori italiani sono tuttora misere, intollerabili. Bassi salari, insufficienti prestazioni previdenziali e il flagello della disoccupazione, sono tuttora i principali fattori delle privazioni e della miseria di cui soffrono i lavoratori, e che continuano a restringere il mercato interno, a ripercuotersi negativamente sulla produzione, ad intristire l’economia nazionale.
I ceti privilegiati e il Governo, lungi dall’accogliere le proposte concrete avanzate dal Congresso confederale di Napoli, dirette a promuovere un grande sviluppo della produzione e la piena occupazione, si sono posti sulla via del loro predominio assolutista sulla vita del Paese, sulla via della reazione e della guerra.
L’attacco sferrato dal grande padronato e dal Governo contro il diritto di sciopero e contro tutte le libertà democratiche del popolo; la disciplina terrorista imposta ai lavoratori in numerose fabbriche, hanno lo scopo di curvare i lavoratori e di sottoporli ad uno sfruttamento sempre più intenso, per addossare loro le crescenti spese improduttive del riarmo e della crisi economica.
Ma su questa via, il Governo e le classi dirigenti non potranno che aggravare la situazione economica e politica, e acutizzare i contrasti, esporsi ad amare delusioni. I lavoratori italiani non si piegano.
Mentre tutte le bandiere dei nostri sindacati unitari sventolano al sole di maggio, i lavoratori dei settori decisivi del lavoro italiano – dell’industria, dell’agricoltura, del pubblico impiego, ecc. – sono in agitazione, per una serie di rivendicazioni economiche, urgenti e improrogabili. A queste, sono intimamente legate la difesa del diritto di sciopero e di tutte le libertà democratiche garantite dalla Costituzione.
Il Primo maggio, ribadendo le proprie rivendicazioni più urgenti, una parola d’ordine si leverà da tutte le piazze: Avanti, sempre più avanti, sulla via della conquista di migliori condizioni di vita e della difesa vigorosa e inflessibile del diritto di sciopero, del lavoro, della libertà, della pace, verso la conquista d’un avvenire migliore, per il popolo e per l’Italia!
Un’occasione non frequente si presenta prossimamente ai lavoratori italiani per sconfiggere la reazione e la guerra: le elezioni politiche del 7 giugno. Il Comitato direttivo della CGIL ha fissato la sua posizione, sulle prossime elezioni. Fate che una copia della nostra risoluzione giunga in ogni casa. La posta in giuoco è grossa.
Nella misura in cui i lavoratori d’ogni opinione politica e fede religiosa comprenderanno il significato di queste elezioni, voteranno con noi, contro i partiti della coalizione governativa e contro i partiti neo fascisti e monarchici che rappresentano la coalizione del grande padronato, schierata contro le rivendicazioni più sentite e le aspirazioni più profonde del popolo. Tutti i lavoratori voteranno con noi, coi partiti del lavoro, della libertà e della pace.
La festa del lavoro sia la festa dell’unità, dell’amicizia, della fiducia. L’avvenire è del lavoro e dei lavoratori. L’umanità vuoi vivere e progredire nella pace, nella libertà, nella fraternità. Solamente il trionfo delle forze del lavoro potrà soddisfare appieno queste esigenze imperiose dell’umanità.
Da tutte le piazze d’Italia parta, il Primo maggio, il saluto fraterno dell’Italia che lavora ai lavoratori del mondo intero, quale pegno di solidarietà e di pace!
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LAVOROxIL LAVORO DIBATTITO. Lavorare gratis: un nuovo modello di sviluppo e una provocazione
Il tema del lavoro è fondamentale per ogni ipotesi di sviluppo in generale e – per quanto ci riguarda e considerato il nostro specifico ambito di intervento – con particolare riferimento alla Sardegna. Aladinews ne ha fatto un argomento di interesse prioritario e in tale direzione supporta il Gruppo di Lavoro per il Lavoro (Lavoro al Quadrato) costituitosi di recente nell’ambito del Comitato d’Iniziativa Sociale Costituzionale e Statutaria. Lo facciamo pubblicando documenti prodotti dallo stesso Gruppo e altra documentazione pertinente, prevalentemente reperita in rete e, ancora, dando tribuna sull’argomento a esperti e cittadini interessati, e pubblicizzando iniziative convegnistiche, seminariali e comunque di dibattito.
LAVORO
un nuovo modello di sviluppo e una provocazione
di Roberta Carlini, su Rocca
Gratis. È questa la parola, contenuta nel titolo dell’ultimo libro del sociologo Domenico De Masi – «Lavorare gratis, lavorare tutti» – che più disturba e che più attrae. Lavorare gratis? «Bella novità», potrebbero rispondere irritati in molti, pensando a se stessi: quante volte, soprattutto ai più giovani, e in particolare nei lavori intellettuali e/o creativi, è stato chiesto di lavorare senza stipendio né compenso alcuno, come stagista, come cultore della materia, come biglietto d’ingresso e modo per farsi conoscere? La parte dei lettori che ha queste esperienze, o le ha ascoltate da figli, amici, fratelli e sorelle, può reagire male, e pensare: qui c’è un sociologo che ci propone di farci piacere quello che già succede e non ci piace per niente. Un’altra parte dei lettori può invece essere più attratta, o addolcita, dal «lavorare tutti», esaltando il ritorno di una visione ottimista, utopica, programmatica del futuro, contro la rassegnazione all’andazzo delle cose.
La piena occupazione è stata un obbiettivo della politica economica per larga parte del ’900, che poi è andato in soffitta insieme ai tanti attrezzi della cassetta degli economisti che l’avevano studiata: finalmente torna in primo piano, e per di più ad opera di un intellettuale che è molto ascoltato da un partito – il M5S – che, a stare ai sondaggi, è il primo partito italiano e potrebbe trovarsi al governo in un futuro non lontano.
provocazione visione possibilità
L’intervista di De Masi a Rocca, nel numero 8/2017 [ripresa da Aladinews] , ci consente di andare oltre il titolo e cogliere, nelle parole dell’autore, le intenzioni, le riflessioni e le proposte del saggio, che ovviamente dà sostanza a quel doppio slogan che ricorda l’antico (sempre per tornare al Novecento) «lavorare meno, lavorare tutti». In realtà, De Masi avrebbe potuto riprendere anche, semplicemente, quello slogan degli anni Settanta: in fondo, il nocciolo della sua tesi è che «c’è sempre meno lavoro mentre aumentano quelli che vorrebbero lavorare». E dunque che il poco lavoro che c’è si deve redistribuire tra i tanti che lo vorrebbero, attraverso la riduzione dell’orario: esattamente quello che si teorizzava e proponeva negli anni ’70 e che fu alla base della legge francese sulle 35 ore settimanali, ma anche dell’esperimento della Volkswagen che addirittura ridusse la settimana lavorativa a ventotto ore.
Ma se De Masi non ha scelto il glorioso e polveroso «lavorare meno, lavorare tutti», non è solo per distanziarsi da un immaginario di conflittualità novecentesca; né solo perché il «gratis», nell’era di internet, è un pilastro, una condizione diffusa, un grimaldello passpartout; ma anche, e soprattutto, perché la redistribuzione dell’orario di lavoro, nella sua proposta, si dovrebbe realizzare tecnicamente non già per un’imposizione dall’alto, di contratto o di legge, ma in virtù della rivolta degli esclusi, cioè i disoccupati, e della loro irruzione sul mercato del lavoro: milioni di disoccupati che offrono gratis la propria prestazione, per «costringere i lavoratori che hanno 40 ore a cederne un poco a chi non ne ha». Una provocazione, una visione, una possibilità?
in discussione il «lavorare per vivere»
Prima di arrivare alle conclusioni – la riduzione dell’orario di lavoro, nel contesto di un programma con altri dieci punti più o meno imponenti, che vanno dall’armonizzazione dei dati sul lavoro alla creazione di una piattaforma per mettere in contatto chi cerca lavoro e chi lo dà e – chiediamoci: sono vere le premesse, ossia che non c’è e non ci sarà mai più lavoro per
tutti?
La discussione è molto accesa e approfondita, nel mondo dell’economia e della tecnologia, dai pensatoi della Silicon Valley alla Banca d’Inghilterra, dalla ricerca accademica al mondo degli affari. Di recente ha fatto molto rumore un saggio di due dei più ottimisti tra gli esperti, Daron Acemoglu e Pascual Restrepo, nel quale hanno corretto in senso molto meno roseo le loro previsioni sulla «corsa delle macchine». Ci sono prove del fatto che la sostituzione degli umani con i robot e l’intelligenza artificiale distrugga più lavori di quanti non ne crei, hanno scritto di recente i due in un lavoro accademico.
I numeri girano vorticosamente in questi studi e le forchette sono ampissime: ma più che calcolare effettivamente quanti lavoratori perderanno il loro posto o quanti giovani non ne troveranno uno, le varie ricerche si concentrano sulle singole figure professionali a rischio: vuoi perché proprio non servono più, vuoi perché l’affiancamento della tecnologia permette di svolgere lo stesso lavoro con una produttività enormemente più alta, e dunque alla fine servono meno persone per produrre lo stesso output. Naturalmente, ci sono anche lavori nuovi che nascono: quelli necessari per produrre le stesse macchine che «mangiano» gli altri lavori, e quelli corrispondenti ai nuovi bisogni che emergono. E lo stesso De Masi nel suo libro ammette che «l’introduzione delle macchine, soprattutto di quelle digitali, è solo una delle cause che possono rendere superfluo il lavoro umano» (ci sono altre potenti cause, dalla riduzione dei consumi alla carenza di capitali d’investimento, dalla ritirata degli Stati dai rischi dell’investimento ai difetti e alle scelte sbagliate dei manager).
Ma poi la descrive come talmente potente da ricordare l’Holomodor staliniano, il genocidio di 5 milioni di contadini ucraini. In poche pagine questa terribile catastrofe si trasforma in una grande opportunità, nientemeno che nella possibilità di realizzare quell’utopia che nei secoli ha accompagnato la storia umana, ma che mette in discussione le basi del capitalismo degli ultimi duecento anni: la necessità di lavorare per vivere. In discussione, per riprendere l’espressione di Keynes e delle sue «prospettive economiche per i nostri nipoti», c’è «il superamento della questione economica».
il reddito di base universale
Una prospettiva del genere implica un totale ribaltamento delle nostre attuali prospettive e inevitabilmente si presta all’accusa di essere visionari o utopisti o pazzi; eppure, negli ultimi tempi ha acquistato una certa dose di buon senso, dato che la tendenza naturale delle forze dell’economia e dei sistemi che fin qui abbiamo inventato per gestirla o migliorarla ci porta dritti verso una crescente disoccupazione, l’aumento delle diseguaglianze e l’insopportabilità sociale. «Utopie per realisti», è il titolo di un altro libro (ancora non pubblicato in Italia), stavolta con una sostanziosa prospettiva storica, dello storico e giornalista olandese Rutger Bregman. Mentre alcuni governi cominciano a sperimentare, in piccolissime dosi, una delle ricette per redistribuire il lavoro – il reddito di base universale e incondizionato –, che anche secondo De Masi dovrebbe essere uno degli ingredienti del nuovo menu economico. Nel quale, per tutti questi motivi, il lavoro non è più il valore fondante della nostra partecipazio- ne alla società.
un rischioso ideale di liberazione
In questo contesto, il «lavorare gratis» può essere visto come la provocazione fondamentale e come il modo per far irrompere i disoccupati sul pianeta del lavoro. Analizzata alla lettera, però, la provocazione avrebbe un solo impatto economico: mettere in concorrenza l’esercito di riserva dei disoccupati con gli altri, e dunque far scendere – ancora – il loro salario, più che il loro orario. Cosa che in effetti già avviene, dai fattorini di Foodora agli stagisti nelle redazioni dei giornali. Letta nel contesto più ampio delle undici proposte del libro, e della generale ripresa di discussione sul tema della redistribuzione del lavoro, la «provocazione» assume un altro senso. In un mondo nel quale siamo riusciti a sganciare il lavoro dalle necessità di sopravvivenza, e redistribuirlo insieme al dividendo sociale che la ricchezza delle nuove tecnologie ci consegna, in effetti il lavoro gratuito diventa uno dei valori della società (e in parte già lo è, quando scelto liberamente e non per costrizione o mancanza di alternative).
Ma nella transizione, può succedere anche che alcune utopie avanzate per un ideale di liberazione si trasformino nel loro opposto. Nella storia, purtroppo, si contano diversi episodi del genere.
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Oggi 1° maggio 2017 lunedì Festa del Lavoro – A Cagliari Sagra di Sant’Efisio
!° maggio a Cagliari.
Oi sa bissira de Efis.
I servizi fotografici per la 361a Sagra di Sant’Efisio saranno curati per la nostra News da Renato d’Ascanio Ticca. La gran parte degli scatti fotografici saranno ospitati dalla sua pagina fb.
Tutte le manifestazioni in programma nel sito web del Comune di Cagliari.
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Aladinews su Sant’Efisio (al 30 aprile 2017)
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Gli editoriali di Aladinews. Dov’è finita la ragione? La follia della guerra.
E’ indispensabile recuperare le ragioni della pace contro le pseudo ragioni della guerra. E’ fondamentale che torni a farsi sentire la voce del movimento pacifista mondiale in tutte le sedi e in tutte le occasioni per arrestare la barbarie dei conflitti, delle persecuzioni e dei massacri di individui inermi. Non basta più limitarsi a pensare la pace, occorre mobilitarsi per imporla, per farla diventare il tema principale nell’agenda dei rappresentanti politici. La guerra deve tornare ad essere, o essere finalmente, un tabù per i popoli del mondo.
di Vanni Tola
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S. Efisio, S. Antioco… Renzi
1 Maggio 2017
Andrea Pubusa
Perché i cagliaritani e i sardi amano Efisio? E perché hanno questo sentimento anche verso Antioco? Perché erano degli intellettuali schierati dalla parte delle classi subalterne e popolari fino al martirio. Efiso veniva dall’esercito, Antioco era un medico di pelle scura. Due storie diverse, due vicende accomunate dall’amore verso il popolo, da una netta […]
[Leggi su Democraziaoggi]
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Il Primo Maggio di Giuseppe Di Vittorio
Il Primo maggio e la priorità del lavoro in un discorso ancora attuale di Giuseppe Di Vittorio.
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Dal numero 17 del «Lavoro» pubblicato il 26 aprile 1953, ripreso oggi da Democraziaoggi
Se la celebrazione del Primo maggio diviene, ogni anno, più grandiosa nel mondo gli è perché il suo significato esprime le aspirazioni più profonde e più vive dell’uomo. Il Primo […]
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Il nostro 28 aprile. Sa Die de sa Sardinia
Giacomo Meloni su il manifesto sardo (online dal primo maggio 2017)
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SOCIETÀ E POLITICA »EVENTI» 2017 – ACCOGLIENZA ITALIA
Le ONG, lord Jim e i soliti sospetti
di Barbara Spinelli, su Il fatto quotidiano, ripreso da eddyburg.
Nessuna persona sensata che legga con attenzione queste chiarissime informazioni può continuare a pensare che le ONG accusate dal procuratore Zuccaro abbia torto marcio, e con lui quanti si allineano alle posizioni dei grillini italiani, di Matteo Salvini e del governo renziano. il Fatto quotidiano, 30 aprile 2017
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SOCIETÀ E POLITICA »TEMI E PRINCIPI» LAVORO
Il lavoro oggi, 1° maggio 2017
di Edoardo Salzano su eddyburg.