Risultato della ricerca: povertà

Sinodo e cammini sinodali

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10 AGOSTO 2021 di Silvio Minnetti su Città nuova.
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Che succede?

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I “NUOVI” CINQUESTELLE. LA GIUSTIZIA. LA POVERTA’. I PROFUGHI. IL SUD E L’EST
7 Agosto 2021 su C3dem.
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VARIANTE DELTA. LIBERTA’ E OBBLIGHI. GLI AZZURRI. IL CAMMINO DEL GOVERNO
7 Agosto 2021 su C3dem.
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Riflessioni e recensioni su “Abitare la terra” e “Pachamama”.

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Il sogno di Leonardo e Francesco: “Abitare la terra”
Riflessioni e recensioni su “Abitare la terra” e “Pachamama” (in lingua quechua “Madre Terra”)
6 Agosto 2021 by c3dem_admin | su C3dem.
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La visione del mondo come fraternità universale è al centro del piccolo libro, curato e introdotto da Pier Luigi Mele, che raccoglie tre scritti di Leonardo Boff. Ne emerge la profonda affinità tra il teologo brasiliano, già frate francescano, e papa Bergoglio che all’esempio di Francesco d’Assisi ha deciso di dedicare il suo pontificato, a cominciare dal nome prescelto per guidare in questi anni la chiesa. Fraternità universale che è cammino di liberazione

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boff
Pierluigi Mele, apprezzato giornalista di Rai News 24, ha recentemente curato un utile libretto che raccoglie tre preziosi interventi del teologo brasiliano Leonardo Boff, noto come uno dei padri della teologia della liberazione, ma anche uno degli autori più apprezzati da Papa Francesco.
Il volume, edito da Castelvecchi, si intitola: Abitare la terra. Quale via per la fraternità universale?
Il testo si apre, dopo l’affettuosa dedica dell’ex frate francescano al curatore, con un’introduzione di Pier Luigi Mele che mette subito in relazione le due figure di Boff e di papa Bergoglio, definiti “due fratelli universali”.
Mele parte da un evento che rimarrà per sempre nella storia e nella memoria collettiva: papa Francesco che, il 27 marzo 2020, sotto una pioggia scrosciante, prega da solo in una Piazza San Pietro deserta, durante l’esplodere della prima ondata della pandemia Covid-19. Una solitudine potentissima, ponte verso una moltitudine smarrita e impaurita e, allo stesso tempo, come scrive il giornalista di RaiNews, “assetata di vicinanza e di fiducia”. Il Papa che – ha scritto un vaticanista – “conosce l’odore della vita” non si limita a un “grido di preghiera”, ma, in un momento difficilissimo della storia del mondo globalizzato, invita l’umanità a una profonda “conversione”, a un cambiamento radicale di mentalità.
Il libro, anche nei testi di Boff (tradotti dal sindacalista-pacifista Gianni Alioti), non rinuncia a un dialogo serrato tra paura e speranza, quest’ultima intesa come fattore energetico, mobilitante; come entusiasmo fattivo, scriverebbe il filosofo tedesco Ernst Bloch, nell’attesa fervente dell’adempimento.
Il legame tra Francesco e Leonardo Boff, afferma Pierluigi Mele, sta proprio nel loro collocarsi nella corrente del dinamismo della storia umana, nella “corrente calda” della profezia che pone il pensiero vissuto come ideale storico concreto, inevitabilmente connesso ad una lotta di liberazione.
Ma di quale liberazione stiamo parlando?
L’orizzonte di papa Francesco e di Leonardo Boff è quello di una scelta tra una cosmologia della dominazione, della conquista, del potere, e una cosmologia della cura e della relazione. Sta qui il passaggio fondamentale tra l’enciclica Laudato si’ e l’enciclica
Fratelli tutti, firmata ad Assisi e trasmessa all’umanità proprio nel tempo della pandemia.
La visione del mondo come fraternità universale, l’ecologia integrale di cui si nutre è non solo il sogno di Francesco di Buenos Aires e di Leonardo di Concordia, è un cammino sulla scia di Francesco d’Assisi. Neoliberismo e capitalismo sono, infatti, il contrario della cosmologia della cura, così come l’emergenza Coronavirus appare come un contrattacco e un avvertimento della Terra di fronte allo sfruttamento vorace delle risorse finite del Pianeta.
Il messaggio del libro non si ferma, però, alla denuncia dello stato delle cose. L’opportunità che si apre oggi – ci dicono Papa Francesco e Boff – non può essere sprecata perché, come ha scritto il sociologo polacco Zygmunt Bauman, è finito il “secolo degli spettatori”.
Si tratta quindi di agire e di fare presto, senza farsi ingannare dal maquillage, dal grande trucco del Green Wash di un capitalismo truccato, fintamente “verde”.
Se la globalizzazione, come scrive Francesco nell’enciclica Fratelli tutti, “ci ha resi più vicini, ma non più fratelli”, la risposta, la speranza, si sviluppa attraverso il ruolo liberatorio e coscientizzante della fraternità nella sua realizzazione pubblica. Una fraternità evangelica, capace di diventare, scrive ancora Mele nell’introduzione, “amore politico” e per la quale anche il dialogo interreligioso può fare molto.
Senza costruire alibi per gli Stati e i potenti della Terra, l’attenzione di Boff e di papa Francesco non può non rivolgersi soprattutto alle comunità locali (ecclesiali e non), ad un protagonismo dal basso che è condizione necessaria proprio per andare oltre “il secolo degli spettatori”. Un protagonismo che si nutre, certamente, di una profonda, inclusiva spiritualità e di esempi che ci parlano attraverso il linguaggio della profezia, ma anche dell’impegno concreto.
È così che Francesco e Leonardo, sulla scia del santo universale di Assisi, incontrano nelle pagine curate da Mele, tra gli altri, Charles de Foucauld, il grande islamista francese Luis Massignon, il “sindaco santo” Giorgio La Pira, la dimensione planetaria di padre Ernesto Balducci, un testo fondamentale anche se in parte ingiustamente dimenticato come la “Carta della Terra” (anno 2000), il naturalista francese Theodore Monod, il poeta brasiliano Vinicius De Moraes, Gandhi, lo psicologo Carl Gustav Jung, Marthin Luther King, Desmond Tutu, l’imam Al Azhar Al Tayyeb, e, infine, uno dei più grandi conoscitori di Francesco d’Assisi: Eloi Le Clerc, sopravvissuto all’inferno dei campi di sterminio nazisti di Buchenwald e Dachau.
In mezzo all’agonia il testo ci ricorda, citando il Cantico delle Creature, ma anche la tentazione di San Francesco tra carisma e potere, che una presenza diversa nel mondo, una fraternità umana sono possibili.
“Abitare la terra” è, lo scopriranno meglio i lettori, un libro sui sogni. Sogni che non rappresentano esercizi ascetici o “notturni”, ma che vengono immaginati e perseguiti nella consapevolezza di essere accanto e non sopra a tutti gli esseri della natura, formando, insieme, come ci ha ribadito anche la pandemia, una comunità di destino.
Un sogno-scommessa, insomma, quello di papa Francesco e Leonardo Boff, che solo se verrà percorso sino in fondo, e insieme, potrà salvarci da una minaccia terribile.
Un sogno che ci rinfranca, proprio come il salmo che Boff pone alla fine del volume e che dovremmo recitare insieme, forse ogni giorno: “Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me”.

Francesco Lauria

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Leonardo Boff, Abitare la terra. Quale via per la fraternità universale?, Castelvecchi, Roma, 2021 (a cura di Pierluigi Mele).
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“Abitare la terra”. Quale via per la fraternità universale?
Riccardo Cristiano
20 Luglio 2021 su Articolo 21.
L’epoca della pandemia seguita a porci sfida ormai esistenziali e un grande teologo, dall’America Latina ci avverte: “Di fronte a questo drammatico scenario in cui è in ballo il destino comune della Terra e dell’umanità sono stati prodotti tre documenti seminali: la Carta della Terra (2003), nata da un’ampia consultazione e approvata dall’UNESCO, e le encicliche di Papa Francesco Laudato si’. Enciclica sulla cura della Casa Comune (2015) e Fratelli tutti (2020). Tutti questi testi, coscienti della grave situazione del pianeta e della vita su di esso, propongono alternative paradigmatiche, capaci di proiettarci verso un percorso diverso e salvifico. Come mai prima d’ora nella storia siamo obbligati a prenderci carico della nostra sopravvivenza e decidere se vogliamo prolungarla o se porvi drammaticamente fine”.
La storia della teologia della liberazione non può prescindere dalla storia dei cristiani marxisti, che Papa Francesco ha ricordato magnificamente dicendo di loro che pensavo di essere gli ultimi cristiani e invece erano gli ultimi marxisti. Ma la storia della teologia della liberazione non prescindere neanche dalla domanda se esista una teologia che non è di liberazione. Purtroppo abbiamo viste molte teologie smarrire questa necessità di liberazione dell’uomo. Per questo uno dei più grandi teologi viventi, Leonardo Boff, padre della teologia della liberazione, si è compromesso per tutta la sua con i poveri: “si è compromesso, secondo il paradigma centrale della teologia della liberazione, con i poveri e gli ultimi”. Eppure i teocon hanno diffuso un cattocapitalismo che legittima non solo il liberismo economico, ma anche il privilegiare i ricchi, perché così si creerebbe una ricaduta di benessere sui poveri. La fermezza della presa di distanza di Papa Francesco da queste visioni è divenuta esplicita con le sue ultime due encicliche, Laudato si’ e Fratelli tutti, citate da Boff come due dei tre documenti che ci indicano la strada della liberazione dalle secche in cui ci troviamo. In particolare a queste due encicliche e soprattutto a Fratelli tutti è dedicato il nuovo volume, pubblicato in Italia da Castelvecchi, di Leonardo Boff, “Abitare la terra”, aperta da una bellissima dedica al collega di Rainews Pierluigi Mele che ne ha scritto la prefazione.
Mele presenta con sintesi e visione il lavoro di Boff, indicandoci da subito il legame tra l’autore e i citati testi di Francesco, in una importante citazione del grande teologo brasiliano: “Ora l’ecologia integrale e la teologia della liberazione hanno qualcosa in comune: entrambe partono da un grido. L’ecologia nasce dal grido degli esseri viventi, delle foreste, delle acque […] specialmente dal grido della Terra. […] E all’interno della categoria dei poveri deve essere incluso il Grande Povero che è la Terra, nostra Madre, la Terra torturata e crocifissa che dobbiamo far scendere dalla croce”. E’ vero, tanto che Mele può concludere così la sua prefazione: “Per questa loro capacità di ascolto dei poveri e degli ultimi, Papa Francesco e Leonardo Boff sono diventati fratelli di tutti, fratelli universali”. Non è la tesi di un “bergoglista”, tanto è vero che l’umanista planetario Edgar Morin, compiendo un un secolo di vita, ha detto: “Rendo omaggio a Papa Francesco, perché è il solo ad avere la coscienza di tutta l’umanità. Serve un cambio di rotta al mondo”. Che questo cambio di rotta serva lo percepiamo tutti, ma è Francesco che sa esprimerlo con la forza della sua visione radicalmente evangelica e quindi la sua piena accettazione dell’altro. La digressione è fratelli tutti, mentre l’economia attuale o ci rende con il consumismo “clienti tutti” o ci fa con la finanza soci tutti, ma mai ci fa fratelli. Il racconto evangelico del buon samaritano è un po’ la bussola narrativa di questo rieorientamento nell’enciclica di Francesco. Scrive al riguardo Leonardo Boff: “Attraverso i personaggi che popolano la parabola del buon samaritano, Papa Francesco sferza un ulteriore attacco all’economia politica che si traduce in una domanda cruda, diretta e determinante: “Con chi ti identifichi?”. Il racconto è noto. Un viandante viene piccato per strada e lasciato così, sanguinante. Passano degli uomini di Dio, dei sacerdoti, ma non si fermano. Si ferma invece un samaritano, l’eretico del tempo. E soccorre il malcapitato. Il senso è forte, evidente: il buon samaritano diventa così il modello dell’amore sociale e politico e della solidarietà illimitata.
Per questo l’amicizia sociale è al centro del libro e della riflessione cosmica di Boff, che prima di arrivare ai rapporti con il creato setaccia quelli dell’umano, di noi uomini, per poi affermare che il reset che ci occorre è quella di una cosmologia, abbandonando quella del dominio, con gli altri e con la natura. Non può che essere una la cosmologia opposta, quella che ci serve. Ma Mele ci riporta ancora all’economia, alla concretezza del fare, tanto cara a uomo post-ideologico come Francesco. E così riproduce i 12 punti scaturiti dall’incontro mondiale di giovani economisti The Economy of Francis: è una tabella di marcia per il nuovo presente: “1.Le grandi potenze mondiali e le grandi istituzioni economico-finanziarie rallentino la loro corsa per lasciare respirare la Terra. Il Covid ci ha fatto rallentare, senza averlo scelto. Quando il Covid sarà passato, dobbiamo scegliere di rallentare la corsa sfrenata che sta asfissiando la Terra e i più deboli;

2. venga attivata una comunione mondiale delle tecnologie più avanzate perché anche nei Paesi a basso reddito si possano realizzare produzioni sostenibili; si superi la povertà energetica – fonte di disparità economica, sociale e culturale – per realizzare la giustizia climatica;

3. il tema della custodia dei beni comuni (specialmente quelli globali quali l’atmosfera, le foreste, gli oceani, la Terra, le risorse naturali, gli ecosistemi tutti, la biodiversità, le sementi) sia posto al centro delle agende dei governi e degli insegnamenti nelle scuole, università, business school di tutto il mondo;

4. mai più si usino le ideologie economiche per offendere e scartare i poveri, gli ammalati, le minoranze e svantaggiati di ogni tipo, perché il primo aiuto alla loro indigenza è il rispetto e la stima delle loro persone: la povertà non è maledizione, è solo sventura, e responsabilità di chi povero non è;

5. che il diritto al lavoro dignitoso per tutti, i diritti della famiglia e tutti i diritti umani vengano rispettati nella vita di ogni azienda, per ciascuna lavoratrice e ciascun lavoratore, garantiti dalle politiche sociali di ogni Paese e riconosciuti a livello mondiale con una carta condivisa che scoraggi scelte aziendali dovute al solo profitto e basate sullo sfruttamento dei minori e dei più svantaggiati;

6. vengano immediatamente aboliti i paradisi fiscali in tutto il mondo perché il denaro depositato in un paradiso fiscale è denaro sottratto al nostro presente e al nostro futuro e perché un nuovo patto fiscale sarà la prima risposta al mondo post-Covid;

si dia vita a nuove istituzioni finanziarie mondiali e si riformino, in senso democratico e inclusivo, quelle esistenti (Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale) perché aiutino il mondo a risollevarsi dalle povertà, dagli squilibri prodotti dalla pandemia; si premi e si incoraggi la finanza sostenibile ed etica, e si scoraggi con apposita tassazione la finanza altamente speculativa e predatoria; le imprese e le banche, soprattutto le grandi e globalizzate, introducano un comitato etico indipendente nella loro governance con veto in materia di ambiente, giustizia e impatto sui più poveri;

le istituzioni nazionali e internazionali prevedano premi a sostegno degli imprenditori innovatori nell’ambito della sostenibilità ambientale, sociale, spirituale e, non ultima, manageriale, perché solo ripensando la gestione delle persone dentro le imprese, sarà possibile una sostenibilità globale dell’economia;

gli Stati, le grandi imprese e le istituzioni internazionali si prendano cura di una istruzione di qualità per ogni bambina e bambino del mondo, perché il capitale umano è il primo capitale di ogni umanesimo;

le organizzazioni economiche e le istituzioni civili non si diano pace finché le lavoratrici non abbiano le stesse opportunità dei lavoratori, perché imprese e luoghi di lavoro senza una adeguata presenza del talento femminile non sono luoghi pienamente e autenticamente umani e felici;

chiediamo infine l’impegno di tutti perché si avvicini il tempo profetizzato da Isaia: «Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra» (Is 2, 4). Noi giovani non tolleriamo più che si sottraggano risorse alla scuola, alla sanità, al nostro presente e futuro per costruire armi e per alimentare le guerre necessarie a venderle. Vorremmo raccontare ai nostri figli che il mondo in guerra è finito per sempre.” Punti che Leonardo Boff sa ricapitolare culturalmente così: “Il paradigma del potere e la pretesa dell’essere umano di apparire come un dominus (signore e padrone) su tutto ciò che esiste e vive – piuttosto che essere frater (fratello) di tutti e con tutti – non rispondono ai gravi problemi che l’uomo stesso ha creato. Dobbiamo necessariamente cambiare e cercare un altro cammino, poiché questo ci porta su una strada senza ritorno.

Sia la Carta della Terra che le due encicliche di ecologia integrale di Papa Francesco si sforzano di presentare altri principi e nuovi valori che possono illuminarci a intraprendere un percorso di salvezza. […] L’ultima enciclica sociale Fratelli tutti rappresenta un appello di Papa Francesco angosciato e speranzoso al tempo stesso. Angosciato dalla chiara consapevolezza che siamo tutti «sulla stessa barca e che o ci salviamo tutti insieme o nessuno si salva». Speranzoso nella fiducia verso la creatività umana che può progettare un altro tipo di mondo non ancora conosciuto, basato cioè su quanto di più umano c’è nell’uomo: l’amore, la solidarietà, la cura, il senso di una fratellanza universale non solo tra gli esseri umani, ma anche con tutti gli altri esseri della natura e una totale apertura all’Infinito, al Dio che si è presentato come un appassionato «amante della vita» che abita dentro di noi”.

Volerelaluna

uscire-dalla-crisi-o-dal-capitalismo-in-crisi-199x300_2La lotta di classe l’hanno vinta i ricchi. Però…
28-07-2021 – di: Amedeo Cottino
volerelaluna-testata-2
Come ogni fenomeno epocale – dalle guerre alle rivoluzioni, dai terremoti agli tsunami ‒ la pandemia che ha fatto irruzione nella nostra vita non soltanto ci obbliga, come ammonisce papa Francesco (Fratelli tutti, Libreria Editrice Vaticana, 2020, p. 7) a rivedere le nostre false sicurezze, ma ci disvela l’esito di uno scontro, l’esito di una lotta di classe che ha visto uscire vincenti i potenti. Che lo scontro fosse in atto e che i vincitori sarebbero stati loro, l’aveva capito uno dei più noti miliardari del mondo, Warren Buffett, che già nel 2006, intervistato dal New York Times, aveva affermato: «Certo che c’è guerra di classe, ma è la mia classe, la classe ricca che la sta conducendo, e noi stiamo vincendo» (M. D’Eramo, Dominio, Feltrinelli, 2020, p. 10). E pochi anni dopo, ricorda ancora D’Eramo, lo stesso Buffett «ribadiva il concetto non più che i ricchi questa guerra di classe la “stavano vincendo” ma che “l’avevano già vinta”». Una lotta dunque conclusa con successo e vinta non dal basso ma dall’alto, il cui inizio si può collocare, grosso modo, circa cinquant’anni fa. Eppure di questa sconfitta pochi se ne sono accorti. Come mai? Il sottotitolo del volume di D’Eramo ci fornisce una prima risposta: La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi. Fermiamoci sulle due parole: “guerra” e “invisibile”. “Guerra”, perché, come scrive l’autore, «la metafora militare è appropriata, poiché di una vera e propria guerra si è trattato, ma di una guerra condotta in larga misura senza l’impiego delle armi». “Invisibile”, in quanto «non sono state, in primo luogo, le armi a farla uscire vincente bensì l’affermarsi di una precisa rappresentazione del mondo attraverso un capillare lavoro che, poco a poco, ha indotto la maggioranza degli umani ad accettare come vere alcune menzogne spacciate come fatti, come dati empiricamente confermati» (p. 40). Così, ad esempio, ci hanno convinti che il mercato costituisce un fenomeno naturale che possiede il talento di sapersi autoregolare; convinzione di fatto smentita dalle ricorrenti crisi. Nel 2005 e nel 2007 le economie dei singoli paesi occidentali infatti non si sarebbero salvate dal tracollo senza gli interventi pubblici. Come è parimenti falsa l’idea che non esistano alternative all’attuale sistema economico e che, pertanto, il capitalismo finanziario globale costituisca l’unico futuro pensabile. Ma forse è più appropriato parlare di miti più che di idee, e cioè di rappresentazioni che, da transitorie, contingenti a una determinata situazione, diventano immutabili, eterne. Basti pensare al mito dei vantaggi che la società ricava dalla riduzione delle tasse! Uno sguardo anche frettoloso alle economie mondiali rivela senza ombra di dubbio che i Paesi più poveri sono quelli dove è più bassa la pressione fiscale.

Dunque è con questa sconfitta che tutti noi, nessuno escluso, dobbiamo fare i conti. E fare i conti significa innanzitutto aprire gli occhi, vedere il frutto dissennato di decenni di neoliberismo, vale a dire dell’ideologia che ha posto al centro il Dio mercato e la sua merce, l’umano. Che ha affermato, contro ogni logica e ogni evidenza, che del costante, crescente aumento di ricchezza dei ricchi avrebbero beneficiato anche i poveri. E che se questi sono aumentati la colpa è delle politiche di welfare! Un dato è certo: secondo l’ISTAT, nel giro di pochi anni, il loro numero è salito nel nostro Paese da cinque a quasi sei milioni. Parlo di persone in condizione di povertà assoluta, cioè di umani a cui non è garantito neppure il minimo indispensabile per vivere, dal cibo all’abitazione, alla salute. Di persone dunque che devono lottare quotidianamente per non soccombere. E pure i ricchi sono in crescita: in Italia, i miliardari, che erano poco più di una decina nel 2009, oggi sono una quarantina!

Ma l’invisibilità della guerra che ha a lungo celato la nostra sconfitta, va a sua volta spiegata. Bisogna capire in che modo i potenti sono riusciti a prenderci per il naso, a fare in modo che noi interiorizzassimo i valori che ci hanno poi resi subalterni. E il concetto chiave è la violenza culturale, vale a dire quell’insieme di rappresentazioni e di messaggi che nascondono la violenza del sistema e ne permettono la riproduzione. Sono precisamente loro a svolgere quel capillare lavoro di costruzione della menzogna di cui parlava D’Eramo. E la parte del leone è svolta dal linguaggio che, come ben sappiamo, non è soltanto l’espressione ma la realizzazione del pensiero. Così, ad esempio, chiamare clandestini o extra-comunitari o sans-papier le persone che giungono da noi, in fuga da fame, da guerre, da persecuzioni di ogni ordine e grado, significa cambiare il prisma attraverso il quale li guardiamo. Significa ridefinire radicalmente il nostro rapporto con loro. Non siamo più noi quelli a cui incombe il dovere morale e giuridico di accoglienza. Sono invece loro che hanno l’obbligo di giustificare ciò che sono o ciò che a loro manca. Umani, per così dire devianti, incompleti, alla fine inferiori. Talvolta basta l’uso di un termine come ad esempio la parola “risparmio” a coprire la violenza che viene esercitata. Ché è all’insegna del risparmio, risparmio di personale assistenziale, risparmio di farmaci, più in generale risparmio di cure, che tanti anziani sono stati lasciati morire nelle cosiddette case di riposo (RSA). Ricordiamoci che le loro morti in Lombardia, nel periodo più acuto della mortalità per Covid-19 hanno rappresentato, nel solo marzo 2020, il 42% del totale dei decessi. Le bocche inutili le chiama Alberto Gaino nel suo libro (Sensibili alle foglie, 2021) appunto con questo titolo. Inutili sì, ma fino a un certo punto, fino a quando non sono più fonte di profitto perché, come ricorda Gaino, con il progressivo ritiro dello Stato dall’assistenza diretta alle persone non autosufficienti, la loro cura è diventata un investimento per importanti gruppi imprenditoriali come il gruppo Kos, fondato dalla famiglia De Benedetti, naturalmente con un occhio di riguardo all’analisi costi-benefici. Ciò è molto chiaro al presidente della Regione Liguria, Giovanni Toti, quando, il primo novembre del 2020, non esita ad affermare: «Per quanto ci addolori ogni vittima del Covid-19, dobbiamo tenere conto di questo dato: solo ieri tra i venticinque decessi della Liguria, ventidue erano pazienti molto anziani. Persone per lo più in pensione, non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese che vanno però tutelate» (Gaino, p. 20, mio corsivo). E la tutela non può certamente consistere nell’imporre loro «delle giornate in strutture enormi, per garantire l’economia di scala, con ritmi di sonno e di veglia programmati […] una semplice triste sopravvivenza, dimostratasi nemmeno sicura» (Gaino, p.84, mio corsivo).

Ma come penetrare questa invisibilità? Ché, per vedere che il re è nudo non basta, semplicemente, alzare le palpebre. C’è un primo passo da compiere, ed è la presa di coscienza, non soltanto con la mente ma anche con le viscere, di ciò che un numero crescente di noi è diventato: questo essere sempre meno disposti o capaci a quel movimento interiore dell’umano che «scopre fuori di sé un altro essere umano, apparentemente simile e tuttavia differente, [e che] entra in contatto con quest’altro, gli fa domande e ascolta le risposte» (C. Todorov, Memoria del male, tentazione del bene, Garzanti, 2009, p. 36). Abbiamo cioè sempre più spesso ceduto alla fatica della compassione, come è toccato a me, ricoverato in terapia intensiva per Covid-19. Ché lì, a fronte di un altro ricoverato, un corpo immobile avvolto in uno scafandro di plastica lucente, io non seppi fare altro che distogliere lo sguardo. Quando, una notte, morì, il corpo venne rinchiuso in un sacco, ma il letto con il quale gli infermieri lo trasportavano urtò, per la fretta, il mio. Fu l’unico contatto tra noi due. Ero diventato uno dei tanti individui trasformati da umani sociali a individui isolati, incapaci appunto di entrare in contatto con l’Altro.

Tuttavia, la transizione dal mondo della menzogna al mondo della verità non può essere semplicemente il frutto di “un cuore informato”. Pertanto, l’altro passo da compiere è quello di prendere atto del fatto che noi, i sudditi, in realtà, un po’ di potere ce l’abbiamo e che dunque è venuto il momento di esercitarlo. Certo, non dobbiamo condividere il pessimismo di uno studioso come Luciano Gallino, che, una decina di anni fa (ma le sue considerazioni continuano ad essere attuali) non esitava a dichiarare che «è arduo attendersi che dal seno di una popolazione così capillarmente governata emergano forme estese e non effimere, di dissenso o di opposizione aperta» (Finanzcapitalismo, 2011, p. 322). Piuttosto, potendo scegliere, facciamo nostro l’invito di D’Eramo che, citando Machiavelli ‒ «Le buone leggi nascono dai tumulti» ‒, ci incoraggia alla protesta e al dissenso. Salvo poi precisare che, «per convincere i nostri simili bipedi umani di questa verità il lavoro da fare è immenso, titanico, da mettere spavento», ed aggiungere: «Ma ricordiamoci che nel 1947 i fautori del neoliberismo dovevano quasi riunirsi in clandestinità; sembravano predicare nel deserto proprio come noi; ora loro però tanto hanno creduto nelle proprie idee, tanto hanno persistito, che, alla fine, hanno vinto» (D’Eramo, p. 206).

Il compito è indubbiamente enorme, ma lo era anche quello dei danesi che, nel 1943, in piena occupazione tedesca e senza armi, salvarono migliaia di loro concittadini ebrei dai campi di sterminio, traghettandoli in Svezia. E forse i dominanti non si sentono così sicuri del loro potere se si riflette sull’accanimento con il quale, da decenni, stanno cercando di soffocare il dissenso e alla crescita di tecnologie di controllo come i dispositivi di riconoscimento facciale. Forse noi, singoli e movimenti, un po’ di paura la facciamo. Altrimenti come spiegare la militarizzazione di un’intera vallata ‒ la Valle di Susa ‒ che si oppone alla costruzione della TAV e la criminalizzazione del dissenso dei suoi abitanti? Come rendere ragione dello spietato accanimento politico e giudiziario nei confronti di Mimmo Lucano, sindaco di Riace e del suo progetto di una comunità dell’accoglienza, se non in termini di espressione del timore che quell’esperimento di vita comune fondata sul riconoscimento dell’Altro e sulla solidarietà potesse essere di esempio per altre iniziative ispirate agli stessi valori? Onde la necessità di statuire un esempio? E non si tratta di casi isolati. Anche la persecuzione alle ONG costringendone la maggioranza a restare ferme nei porti, riflette la stessa paura. Perché ‒ e qui Gallino coglieva nel segno ‒ «nulla deve turbare il mondo del finanzcapitalismo».

Le ONG lo turbano, i No-Tav pure. Può altresì turbarlo il fruttivendolo che, nella metafora di Vaclav Havel (Il potere dei senza potere, Castelvecchi, 2013), nella società post-totalitaria, decide di non più esporre tra i suoi prodotti il cartello che recita «proletari di tutto il mondo unitevi». Con quel gesto egli fa sapere che non è più disposto a vivere nella menzogna. A questo punto una cliente che sta facendo la spesa da lui, nota l’assenza del cartello e quando ritorna in ufficio, decide pure lei di togliere dalla porta ciò che vi è affisso. E forse pure il collega della stanza accanto rimuoverà il suo cartello. E forse…
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Oggi domenica 18 luglio 2021

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——————-Opinioni, Commenti e Riflessioni—————————
Carbonia. Da Portella della Ginestra alla fine dei governi di unità nazionale: in città la protesta si salda alla lotta per la difesa delle miniere e contro l’aumento dei prezzi
18 Luglio 2021
Gianna Lai su Democraziaoggi.
Oggi domenica consueto appuntamento con la storia di Carbonia dal 1° settembre 2019.
11 morti e 65 feriti. Leggiamo su Ernesto Ragionieri, “Portella della ginestra, 1 maggio 1947, barbara risposta degli agrari siciliani all’affermazione del Blocco del popolo, nelle elezioni regionali di pochi giorni prima”. Ed ancora Turone, “uno dei più agghiaccianti episodi di […]
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Un’intervista (video) molto interessante a Enzo Bianchi, che si sofferma sui problemi della vecchiaia/anzianità, sul rapporto con i giovani, sulla crisi della Chiesa italiana (durata 1 ora e 47 min). Monferrato Web TV – 13/06/2021.
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caritas-italiaRapporto Caritas. Lotta alla povertà: imparare dall’esperienza, migliorare le risposte. Un monitoraggio plurale del Reddito di cittadinanza EXECUTIVE SUMMARY [segue]

Agenda Onu 2030 in Italia

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La spesa dello Stato secondo l’Agenda 2030
Maria Letizia D’Autilia

sbilanciamoci-20Su Sbilanciamoci! 15 Luglio 2021 | Sezione: Apertura, Economia e finanza
Un ottimo studio sperimentale pubblicato dalla Corte dei conti riclassifica il bilancio dello Stato in funzione degli obiettivi e dei target dell’Agenda 2030 dell’Onu. Nel 2020 segnato dalla pandemia, molta la spesa pubblica su disuguaglianze e povertà, poca quella su ambiente, clima e sostenibilità.

La pandemia e gli Obiettivi dell’Agenda 2030

Nel preambolo dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, l’Organizzazione delle Nazioni Unite dichiara che il programma d’azione universale tracciato nei 17 Obiettivi e 169 traguardi mira a “fare passi audaci e trasformativi”, necessari a “portare il mondo sulla strada della sostenibilità e della resilienza”. L’Agenda si presenta quindi come lo strumento per qualificare in modo immediato obiettivi di policy interconnessi e indivisibili che, declinati in azioni più specifiche, possano bilanciare le tre dimensioni dello sviluppo sostenibile: quella economica, sociale e ambientale.

La Corte dei conti, nell’ambito della Relazione sul Rendiconto generale dello Stato 2020, ha individuato nell’Agenda 2030 una nuova chiave di lettura per rappresentare la varietà dei fenomeni che incidono sulle decisioni di bilancio dell’operatore pubblico. Il bilancio dello Stato riclassificato per Obiettivi/target dell’Agenda potrebbe consentire, in prospettiva, di interpretare – come si rileva nella presentazione del lavoro – i risultati delle politiche di spesa adottate dal legislatore anche alla luce dell’incidenza che queste avranno sul conseguimento degli stessi target e obiettivi dell’Agenda 2030. Anche per questo motivo, lo studio sperimentale avviato dalla Corte nell’ambito della programmazione dei controlli per il 2021, apre una prospettiva nuova, sotto il profilo metodologico, a tutti quegli enti delle amministrazioni pubbliche, soprattutto Regioni ed enti locali, che hanno inserito l’Agenda nella loro attività di programmazione finanziaria.

L’impiego di classificazioni condivise permette, del resto, di rendere confrontabili i risultati delle politiche di bilancio adottate sia dalle diverse istituzioni pubbliche che operano sul territorio e a livello centrale, sia tra i diversi Paesi che hanno scelto di riconoscersi negli obiettivi dell’Agenda. Si tratta di un confronto ancora più necessario in questa particolare fase della crisi determinata dalla pandemia.

Va segnalato, in tal senso, che secondo le Nazioni Unite impegnate nel monitoraggio dell’Agenda 2030, sarà proprio la strategia scelta da ciascun Paese per superare la crisi a determinare le politiche di bilancio dei prossimi anni nel segno della sostenibilità. Gli Stati avranno la possibilità di superare gli effetti sociali ed economici della pandemia se sapranno individuare una via d’uscita fondata su interventi rivolti soprattutto a incrementare e rendere accessibili i sistemi sanitari nazionali a tutti (Goal 3), a predisporre misure coordinate di politica monetaria e finanziaria a sostegno del lavoro (Goal 8), a rafforzare i sistemi nazionali di protezione sociale (Goal 10).

In perfetta sintonia con le Nazioni Unite, l’atto appena assunto (il 22 giugno scorso) dal Consiglio dell’Unione Europea afferma che la crisi generata dal Covid-19 non permette più di scegliere se perseguire gli Obiettivi dell’Agenda 2030, ma rende necessaria un’accelerazione delle politiche di investimento verso il loro raggiungimento anche attraverso il varo di riforme strutturali urgenti.

Cresce, pertanto, il livello di responsabilità degli Stati membri per l’attuazione dell’Agenda e aumenta contestualmente – come auspicato dal Consiglio europeo – la necessità di integrarla negli strumenti di pianificazione nazionale, nelle strategie di sviluppo, nonché nei quadri di bilancio.

Classificare e misurare per riconoscere le politiche

Entrando nel merito del lavoro della Corte dei conti si rileva che l’esercizio di riclassificazione è stato svolto sui dati di spesa (stanziamenti definitivi) del Rendiconto generale dello Stato per il 2020. Le linee guida del metodo utilizzato possono essere riepilogate in pochi punti.

Va detto, in premessa, che lo schema classificatorio dell’Agenda 2030 per Obiettivi/target è stato utilizzato per individuare specifiche aree di policy al primo livello (Obiettivi) e puntuali azioni di policy al secondo livello (Target). Trattandosi di una prima sperimentazione, il metodo utilizzato ha “filtrato” la descrizione degli Obiettivi/target da specifici riferimenti a misurazioni, scadenze e target finalizzando l’operazione a individuare esclusivamente l’area di policy.

Le questioni connesse alla misurazione e valutazione delle politiche da realizzare con l’attuazione degli Obiettivi/target saranno affrontate – come viene spiegato nel lavoro – solo in una fase successiva, con la messa a punto di metodologie, strumenti e indicatori specifici di carattere sia quantitativo che qualitativo.

La Spesa primaria finale del Rendiconto 2020 ha costituito il campo di osservazione per la riclassificazione, che ha tuttavia riguardato soltanto le funzioni cosiddette istituzionali delle amministrazioni, ossia quelle relative alla loro attività caratteristica, mentre le spese per il personale e il funzionamento degli uffici (escluse, quindi, dalla spesa primaria finale) saranno analizzate e attribuite nella seconda fase della sperimentazione una volta consolidato il metodo.

Le spese del bilancio dello Stato secondo l’Agenda 2030

Il primo risultato che emerge dalla riclassificazione secondo l’Agenda 2030 mostra che il metodo utilizzato ha consentito di intercettare circa il 60 per cento della spesa primaria finale impiegata per la realizzazione delle attività caratteristiche dei Ministeri.

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Fonte: Corte dei conti, Relazione sul Rendiconto generale dello Stato 2020

Si tratta di oltre 470 miliardi di euro di stanziamenti definitivi di spesa che si concentrano (circa 153 miliardi, come si vede nel grafico qui sopra) in particolare nell’Obiettivo 10-Ridurre le disuguaglianze. Guardando, poi, al livello dei target, emerge che il 90 per cento della somma è stata destinata a finanziare “Politiche salariali e di protezione sociale” (target 10-4).

In un anno caratterizzato da interventi di sostegno a gran parte dei settori economici e di aiuti alle famiglie, gli Obiettivi dell’Agenda hanno permesso di rappresentare in modo particolarmente efficace l’orientamento della spesa pubblica. I riflessi finanziari dei provvedimenti adottati dal legislatore per fronteggiare, con misure straordinarie di spesa, l’emergenza sociale ed economica generata dalla crisi, si possono cogliere infatti in modo immediato attraverso lo schema di classificazione dell’Agenda 2030 così fortemente caratterizzato da traguardi di sostenibilità, inclusione, protezione sociale.

Le diverse misure varate per attenuare gli effetti determinati dal blocco delle attività produttive hanno, del resto, modificato in modo profondo, nel 2020, il Bilancio dello Stato nel corso della sua gestione. L’emanazione di numerosi e specifici provvedimenti legislativi emergenziali (dl 18/2020 “Cura Italia”, dl 23/2020 “Liquidità, dl 34/2020 “Rilancio”, dl 104/2020 “Agosto”, dl 137/2020 “Ristori”) hanno comportato, infatti, l’individuazione di nuovi capitoli o piani gestionali, nonché l’introduzione di variazioni, anche significative, sulle dotazioni già previste.

Si è trattato di interventi che hanno inciso in modo significativo sulla distribuzione della spesa corrente e di quella in conto capitale, sottolineando il carattere assolutamente straordinario dell’esercizio finanziario, nonché lo sforzo effettuato dalle amministrazioni centrali per dare effettività e concretezza alle notevoli risorse stanziate.

Lo sforzo finanziario, nel complesso, si è concentrato in poche missioni di spesa riconducibili ad alcuni Obiettivi “Pilastro” dell’Agenda. Come la riclassificazione mette bene in evidenza, oltre a concentrarsi nell’Obiettivo 10 mirato alla riduzione delle disuguaglianze (con il 32,6% di risorse stanziate), le risorse statali hanno alimentato con ulteriori 180 miliardi di euro i target relativi all’Obiettivo 3 “Assicurare la salute e il benessere per tutti e per tutte le età” (19,1%) e 8 “Incentivare una crescita economica, duratura, inclusiva e sostenibile, un’occupazione piena e produttiva ed un lavoro dignitoso per tutti” (18,9%).

La straordinarietà della crisi pandemica, a cui è stata data risposta con misure altrettanto straordinarie, ha pertanto fortemente indirizzato l’esercizio di riclassificazione verso tali Obiettivi, influenzando di conseguenza anche il punto di osservazione iniziale. Sarà pertanto necessario continuare a svolgere l’esercizio anche per gli anni successivi per verificare l’effettivo orientamento dei governi verso gli Obiettivi di sostenibilità.

Sul versante opposto, la residualità che si osserva per gli stanziamenti nel settore della sostenibilità climatica e ambientale (Goal 14) e di gestione delle acque e delle strutture igienico-sanitarie (Goal 6), oltre a mettere in evidenza quali siano state le priorità assegnate alle politiche nel 2020, segnala quanto sia importante provare a individuare nell’orizzonte del legislatore i legami e le strette interconnessioni tra le dimensioni economiche, ambientali e sociali delle misure di policy emanate.

Un’angolazione, questa, che potrebbe essere introdotta, in prospettiva, anche allo scopo di individuare, nelle politiche di spesa attuate dalle amministrazioni, le trasversalità e le interconnessioni tra le dimensioni citate. Ricostruire il quadro sistemico sottostante a tali decisioni permetterebbe infatti di interpretare in modo più approfondito gli obiettivi di policy collegati all’Agenda 2030 e consentirebbe di corredare i dati di bilancio anche con gli indicatori per la misurazione dello sviluppo sostenibile e il monitoraggio dei suoi obiettivi prodotti dall’Istat (in coerenza con l’Inter-agency and Expert Group on SDG Indicators, IAEG-SDGs).

Il quadro fornito dall’Istat, nel maggio 2020, nel momento più drammatico della pandemia, era riuscito in tal senso a descrivere – seppure sulla base delle prime informazioni disponibili a quella data – le interconnessioni tra gli Obiettivi dell’Agenda 2030 e la pandemia. Gli indicatori statistici facevano emergere i forti i legami tra gli Obiettivi economici e ambientali: a partire dalla Salute e benessere (Obiettivo 3), le interconnessioni osservate mostravano che gli effetti della pandemia si iniziavano a osservare soprattutto nell’aumento della Povertà (Obiettivo 1) e delle Disuguaglianze (Obiettivo 10). Gli stessi Obiettivi su cui si rilevano, nella sperimentazione svolta dalla Corte dei conti sul Rendiconto dello Stato, gli interventi di spesa più consistenti attuati nel 2020. Gli stanziamenti di bilancio riconducono, infatti, alle “Politiche di protezione sociale” (10.4) gran parte dei provvedimenti, varati nel corso del 2020, finalizzati a trasferire le risorse per finanziare misure previdenziali e di protezione speciale “straordinarie” per mitigare gli effetti della crisi sui lavoratori.

La classificazione proposta dalla Corte dei conti segnala, in conclusione, che è stato individuato un metodo da cui si potrebbe partire per integrare gli Obiettivi dell’Agenda 2030 nelle diverse fasi del ciclo del bilancio, a partire dal momento della programmazione fino alla fase della rendicontazione.

Riconoscere in modo immediato con quali priorità le risorse pubbliche vengono destinate a realizzare politiche sostenibili e orientate al benessere collettivo, permette di comprendere i processi decisionali di bilancio e di svolgere monitoraggi trasparenti e accessibili anche in vista dell’avvio del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. L’invito della Commissione Europea a integrare gli Obiettivi dell’Agenda 2030 nel semestre europeo, nel quadro finanziario pluriennale (QFP) e nello strumento per la ripresa Next Generation EU potrebbe rappresentare l’occasione per consolidare un metodo di monitoraggio.

* Maria Letizia D’Autilia, ricercatrice Istat distaccata presso la Corte dei conti.
** Il lavoro riflette esclusivamente le opinioni dell’autrice, senza impegnare la responsabilità delle istituzioni di appartenenza.
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Clima e Green Deal, la Commissione accelera a metà
Monica Frassoni

Su Sbilanciamoci! 16 Luglio 2021 | Sezione: Ambiente, Apertura
Rischi e omissioni nelle 12 proposte legislative chiamate “Fit for 55” con cui Ursula von del Leyen e la Commissione europea hanno aggiornato gli obiettivi del Green Deal per ridurre le emissioni del 55% entro il 2030 istituendo un Fondo sociale per ridurre l’impatto della transizione.

La presidente della Commissione europea Ursula Von Der Leyen insieme ai Commissari Timmermans, Gentiloni, Simson, Aldean, Wojciechowski ha presentato il 14 luglio quello che è uno dei più consistenti pacchetti legislativi mai completati nella sua storia. Il pacchetto di proposte legislative si chiama “Fit for 55”. Si tratta di 8 proposte di revisione di direttive e regolamenti esistenti e di 4 nuove iniziative in materia soprattutto energetica che rappresentano un pezzo centrale del Green Deal europeo, il programma partito due anni fa per portare la UE a essere il primo continente a emissioni zero nel 2050 attraverso una lunga lista di norme in tutti i settori dell’economia, industria, ambiente, accompagnate dal riorientamento e dall’aumento delle risorse a disposizione della UE. Il Green Deal è un elemento chiave di Next Generation EU ed è quindi integrato anche nello sforzo di uscita dalla crisi pandemica intrapreso a livello europeo.

La decisione di aumentare dal 40% al 55% gli obiettivi di riduzione delle emissioni al 2030 e di raggiungere la neutralità climatica nel 2050, racchiusi nella Legge sul Clima che entra in vigore questo mese, sono una conseguenza diretta dei richiami incessanti di scienziati ed esperti, delle grandi mobilitazioni dei “Friday for Future” e della crescente consapevolezza dell’estrema minaccia rappresentata dai cambiamenti climatici non solo per l’ambiente, ma anche per l’economia e la vita tout court. L’idea è cioè che il Green deal sia una “strategia per la crescita” alternativa a quella attuale ancora fondata sui combustibili fossili. Il piano ha anche l’obbiettivo di portarci fuori dalla crisi, di dare nuove prospettive di lavoro e di inclusione sociale, di ridisegnare il nostro modo di muoverci, di abitare, di consumare, il tutto riducendo le diseguaglianze e il nostro impatto su risorse e ambiente.

Un sogno? Forse, e come vedremo i problemi non mancano. Bisogna però riconoscere che al di là del merito, il grande lavoro fatto dalla Commissione europea, con il suo scarso (in termini numerici) e spesso criticato staff, è stato davvero straordinario e rappresenta il senso e l’utilità del progetto europeo. In questi mesi c’è stato anche uno sforzo reale di ascolto dei vari attori in campo, dalle ONG all’industria, anche se ovviamente alcune voci sono forse state più ascoltate di altre.
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Pausa per pensare

albero orto capMai da soli, sempre insieme
11 luglio 2021

XV domenica del tempo Ordinario

Bianchi Enzo prioredi Enzo Bianchi

Mc 6,7-13
⁷Chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. ⁸E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ⁹ma di calzare sandali e di non portare due tuniche. ¹⁰E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. ¹¹Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro». ¹²Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, ¹³scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.

Quando un profeta è rifiutato a casa sua, dai suoi, dalla sua gente (cf. Mc 6,4), può solo andarsene e cercare altri uditori. Hanno fatto così i profeti dell’Antico Testamento, andando addirittura a soggiornare tra i gojim, le genti non ebree, e rivolgendo loro la parola e l’azione portatrice di bene (si pensi solo a Elia e ad Eliseo; cf., rispettivamente, 1Re 17 e 2Re 5). Lo stesso Gesù non può fare altro, perché comunque la sua missione di “essere voce” della parola di Dio deve essere adempiuta puntualmente, secondo la vocazione ricevuta.

Rifiutato e contestato dai suoi a Nazaret, Gesù percorre i villaggi d’intorno per predicare la buona notizia (cf. Mc 6,6) in modo instancabile, ma a un certo momento decide di allargare questo suo “servizio della parola” anche ai Dodici, alla sua comunità. Per quali motivi? Certamente per coinvolgerli nella sua missione, in modo che siano capaci un giorno di proseguirla da soli; ma anche per prendersi un po’ di tempo in cui non operare, restare in disparte e così poter pensare e rileggere ciò che egli desta con il suo parlare e il suo operare. Per questo li invia in missione nei villaggi della Galilea, con il compito di annunciare il messaggio da lui inaugurato: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete alla buona notizia” (Mc 1,15). Li manda “a due a due”, perché neppure la missione può essere individuale, ma deve sempre essere svolta all’insegna della condivisione, della corresponsabilità, dell’aiuto e della vigilanza reciproca. In particolare, per gli inviati essere in due significa affidarsi alla dimensione della condivisione di tutto ciò che si fa e si ha, perché si condivide tutto ciò che si è in riferimento all’unico mandante, il Signore Gesù Cristo.

Ma se la regola della missione è la condivisione, la comunione visibile, da sperimentarsi e manifestare nel quotidiano, lo stile della missione è molto esigente. Il messaggio, infatti, non è isolato da chi lo dona e dal suo modo di vivere. Come d’altronde sarebbe possibile trasmettere un messaggio, una parola che non è vissuta da chi la pronuncia? Quale autorevolezza avrebbe una parola detta e predicata, anche con abile arte oratoria, se non trovasse coerenza di vita in chi la proclama? L’autorevolezza di un profeta – riconosciuta a Gesù fin dagli inizi della sua vita pubblica (cf. Mc 1,22.27) – dipende dalla sua coerenza tra ciò che dice e ciò che vive: solo così è affidabile, altrimenti proprio chi predica diventa un inciampo, uno scandalo per l’ascoltatore. In questo caso sarebbe meglio tacere e di-missionare, cioè dimettersi dalla missione!

Per queste ragioni Gesù non si attarda sul contenuto del messaggio da predicare, mentre entra addirittura nei dettagli sul “come” devono mostrarsi gli inviati e gli annunciatori. Povertà, precarietà, mitezza e sobrietà devono essere lo stile dell’inviato, perché la missione non è conquistare anime ma essere segno eloquente del regno di Dio che viene, entrando in una relazione con quelli che sono i primi destinatari del Vangelo: poveri, bisognosi, scartati, ultimi, peccatori… Per Gesù la testimonianza della vita è più decisiva della testimonianza della parola, anche se questo non l’abbiamo ancora capito. In questi ultimi trent’anni, poi, abbiamo parlato e parlato di evangelizzazione, di nuova evangelizzazione, di missione – e non c’è convegno ecclesiale che non tratti di queste tematiche! –, mentre abbiamo dedicato poca attenzione al “come” si vive ciò che si predica. Sempre impegnati a cercare come si predica, fermandoci allo stile, al linguaggio, a elementi di comunicazione (quanti libri, articoli e riviste “pastorali” moltiplicati inutilmente!), sempre impegnati a cercare nuovi contenuti della parola, abbiamo trascurato la testimonianza della vita: e i risultati sono leggibili, sotto il segno della sterilità!

Attenzione però: Gesù non dà delle direttive perché le riproduciamo tali e quali. Prova ne sia il fatto che nei vangeli sinottici queste direttive mutano a seconda del luogo geografico, del clima e della cultura in cui i missionari sono immersi. Nessun idealismo romantico, nessun pauperismo leggendario, già troppo applicato al “somigliantissimo a Cristo” Francesco d’Assisi, ma uno stile che permetta di guardare non tanto a se stessi come a modelli che devono sfilare e attirare l’attenzione, bensì che facciano segno all’unico Signore, Gesù. È uno stile che deve esprimere innanzitutto decentramento: non dà testimonianza sul missionario, sulla sua vita, sul suo operare, sulla sua comunità, sul suo movimento, ma testimonia la gratuità del Vangelo, a gloria di Cristo. Uno stile che non si fida dei mezzi che possiede, ma anzi li riduce al minimo, affinché questi, con la loro forza, non oscurino la forza della parola del “Vangelo, potenza di Dio” (Rm 1,16). Uno stile che fa intravedere la volontà di spogliazione, di una missione alleggerita di troppi pesi e bagagli inutili, che vive di povertà come capacità di condivisione di ciò che si ha e di ciò che viene donato, in modo che non appaia come accumulo, riserva previdente, sicurezza. Uno stile che non confida nella propria parola seducente, che attrae e meraviglia ma non converte nessuno, perché soddisfa gli orecchi ma non penetra fino al cuore. Uno stile che accetta quella che forse è la prova più grande per il missionario: il fallimento. Tanta fatica, tanti sforzi, tanta dedizione, tanta convinzione,… e alla fine il fallimento. È ciò che Gesù ha provato nell’ora della passione: solo, abbandonato, senza più i discepoli e senza nessuno che si prendesse cura di lui. E se la Parola di Dio venuta nel mondo ha conosciuto rifiuto, opposizione e anche fallimento (cf. Gv 1,11), la parola del missionario predicatore potrebbe avere un esito diverso?

Proprio per questa consapevolezza, l’inviato sa che qua e là non sarà accettato ma respinto, così come altrove potrà avere successo. Non c’è da temere; rifiutati ci si rivolge ad altri, si va altrove e si scuote la polvere dai piedi per dire: “Ce ne andiamo, ma non vogliamo neanche portarci via la polvere che si è attaccata ai nostri piedi. Non vogliamo proprio nulla!”. E così si continua a predicare qua e là, fino ai confini del mondo, facendo sì che la chiesa nasca e rinasca sempre. E questo avviene se i cristiani sanno vivere, non se sanno soltanto annunciare il Vangelo con le parole… Ciò che è determinante, oggi più che mai, non è un discorso, anche ben fatto, su Dio; non è la costruzione di una dottrina raffinata ed espressa ragionevolmente; non è uno sforzarsi di rendere cristiana la cultura, come molti si sono illusi.

No, ciò che è determinante è vivere, semplicemente vivere con lo stile di Gesù, come lui ha vissuto: semplicemente essere uomini come Gesù è stato uomo tra di noi, dando fiducia e mettendo speranza, aiutando gli uomini e le donne a camminare, a rialzarsi, a guarire dai loro mali, chiedendo a tutti di comprendere che solo l’amore salva e che la morte non è più l’ultima parola. Così Gesù toglieva terreno al demonio (“cacciava i demoni”) e faceva regnare Dio su uomini e donne che grazie a lui conoscevano la straordinaria forza del ricominciare, del vivere, dello sperare, dell’amare e dunque vivere ancora… L’invio in missione da parte di Gesù non crea militanti e neppure propagandisti, ma forgia testimoni del Vangelo, uomini e donne capaci di far regnare il Vangelo su loro stessi a tal punto da essere presenza e narrazione di colui che li ha inviati. Attesta uno scritto cristiano delle origini, la Didaché: “L’inviato del Signore non è tanto colui che dice parole ispirate ma colui che ha i modi del Signore” (11,8).

Noi cristiani dobbiamo sempre interrogarci: viviamo il Vangelo oppure lo proclamiamo a parole senza renderci conto della nostra schizofrenia tra parola e vita? La vita cristiana è una vita umana conforme alla vita di Gesù, non innanzitutto una dottrina, non un’idea, non una spiritualità terapeutica, non una religione finalizzata alla cura del proprio io!
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RIFLESSIONI ESSENZIALI: «La differenza più importante non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa ai grandi interrogativi dell’esistenza»
Una riflessione condivisa dal filosofo Norberto Bobbio e dal cardinale Carlo Maria Martini. «La differenza più importante non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa ai grandi interrogativi dell’esistenza»

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Una riflessione condivisa dal filosofo Norberto Bobbio e dal cardinale Carlo Maria Martini.
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Online il nuovo blog di Enzo Bianchi

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Eccolo: https://www.ilblogdienzobianchi.it/
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Costituente Terra

costituente-terra-logouna Terra
un popolo
una Costituzione
una scuola

Newsletter n. 41 del 6 luglio 2021

L’ultima guerra

Carissimi,
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Che succede?

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EUROPA, I DIRITTI TRADITI. EUROPA, BIDEN E LA CINA
29 Giugno 2021 su C3dem.
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I PARTITI E LA SPACCATURA GRILLINA. L’APPELLO DELLA POVERTA’
29 Giugno 2021 su C3dem.
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Che succede?

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CONSIGLIO EUROPEO: LA SEVERITA’ CON ORBAN, MA L’IPOCRISIA SUI MIGRANTI
27 Giugno 2021 su C3dem.

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GLI ESAMI DA SUPERARE. FINEVITA. DDL ZAN. DUELLO CONTE-GRILLO. VOTO A MILANO
27 Giugno 2021 su C3dem.
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Il Vaticano e il disegno di legge Zan: una nota stonata.
25-06-2021 – di: Domenico Gallo

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La povertà in Italia in forte aumento

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La povertà in Italia nel 2020
22-06-2021 – di: ISTAT

Nel mese di giugno di ogni anno l’Istat diffonde il report La povertà in Italia nel quale sono contenute le stime riferite all’anno precedente. Il report diffuso nei giorni scorsi, e relativo alla situazione del 2020, contiene dati interessanti e fonte di estrema preoccupazione. In sintesi: la povertà assoluta e quella relativa continuano a crescere. (Volerelaluna: la redazione).

L’Italia dispone di un quadro articolato di indicatori di povertà la cui varietà consente di cogliere le molte dimensioni del fenomeno, specie in un anno come il 2020, segnato da una congiuntura economica particolarmente difficile e anomalo da molti punti di vista. Le diverse linee di povertà e i relativi indicatori mostrano la situazione secondo prospettive differenti.

La soglia di povertà assoluta fa riferimento a un paniere di beni e servizi che vengono considerati essenziali per una determinata famiglia per conseguire uno standard di vita minimamente accettabile. Non si tratta quindi di una unica soglia, ma di molte soglie che variano, per costruzione, in base alla dimensione della famiglia, alla sua composizione per età, alla ripartizione geografica e alla dimensione del comune di residenza (vedi il Prospetto in Nota Metodologica che mostra le soglie mensili di povertà assoluta per le principali tipologie familiari, ripartizione geografica e tipo di comune). La soglia di povertà relativa, invece,varia di anno in anno a causa della variazione della spesa per consumi delle famiglie o, in altri termini, dei loro comportamenti di consumo. Tale soglia, infatti, deriva da un calcolo interno alla distribuzione delle spese (è pari infatti alla spesa per consumi media pro-capite per una famiglia composta da due persone). La misura di povertà relativa fornisce,quindi,una valutazione della disuguaglianza nella distribuzione della spesa per consumi e individua le famiglie povere tra quelle che presentano una condizione di svantaggio rispetto alle altre. Nel 2020, per una famiglia di due componenti, la soglia è risultata pari a 1.001,86 euro, cioè oltre 93 euro meno della linea del 2019.

Per tenere conto dei cambiamenti nei comportamenti di spesa, ogni anno si calcola anche una linea di povertà dell’anno corrente rivalutando quella dell’anno precedente con la variazione dei prezzi. La soglia 2019, rivalutata al 2020 in base all’indice dei prezzi al consumo per l’intera collettività (pari a -0,2%), è risultata pari a 1.092,76 euro (90,90 euro in più della soglia standard). L’incidenza di povertà relativa 2020, calcolata rispetto alla soglia 2019 rivalutata, è, di conseguenza, molto più elevata ed è pari al 13,4% (3.484mila famiglie povere, ossia circa 847mila in più). Le due diverse stime permettono di individuare le famiglie che nel 2020, pur avendo conseguito dei livelli di spesa inferiori a quelli del 2019, non risultano povere per effetto della considerevole riduzione dei consumi e delle condizioni medie di vita nell’anno segnato dalle misure restrittive per il contenimento della pandemia.

I dati sono univoci. Sono in povertà assoluta 5,6 milioni di persone, record dal 2005. Per quanto riguarda la povertà relativa, le famiglie sotto la soglia sono poco più di 2,6 milioni.

Nel 2020, sono in condizione di povertà assoluta poco più di due milioni di famiglie (7,7% del totale da 6,4% del 2019) e oltre 5,6 milioni di individui (9,4% da 7,7%). Dopo il miglioramento del 2019, nell’anno della pandemia la povertà assoluta aumenta raggiungendo il livello più elevato dal 2005 (inizio delle serie storiche). Per quanto riguarda la povertà relativa, le famiglie sotto la soglia sono poco più di 2,6 milioni (10,1%, da 11,4% del 2019).

Per scaricare il rapporto integrale: https://www.istat.it/it/files/2021/06/REPORT_POVERTA_2020.pdf el 2020
22-06-2021 – di: ISTAT
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Newsletter ASviS – Sulle migrazioni serve una strategia europea che guardi al medio termine

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Don Lorenzo Milani

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54 ANNI DA QUEL GIORNO:
26 GIUGNO 1967 DON LORENZO CI LASCIO’

di Arcangelo Riccardi, su fb.

Il suo testamento: “Cari ragazzi, ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto. Un abbraccio, vostro Lorenzo”.
Lorenzo Milani nasce a Firenze il 27 maggio 1923 da Albano e Alice Weiss in una famiglia benestante e colta. Intellettuali e scienziati gli ascendenti Milani, veronesi d’origine ma trapiantati in Toscana. Di cultura mitteleuropea gli ascendenti materni, boemi d’origine, emigrati nella Trieste asburgica, ebrei di etnia, ma quasi tutti lontani da osservanze religiose e agnostici. Nel 1930 la famiglia Milani, coi figli Adriano, Lorenzo ed Elena, si trasferisce da Firenze a Milano, dove il padre, laureato in chimica, ha trovato un lavoro.
Lorenzo compie gli studi fino alla maturità classica, conseguita il 21 maggio 1941. Con sorpresa e rammarico dei genitori, che però non lo contrastano, rifiuta di iscriversi all’università: vuol fare il pittore. Il padre allora lo manda alla scuola di un bravo artista tedesco che vive a Firenze: Hans Joachim Staude. Ci resta pochi mesi, ma ne subisce una forte influenza culturale ed etica. In autunno, tornato a Milano, si iscrive all’Accademia di Brera e lavora con foga nello studio che il padre gli ha preso in una elegante zona della città. Nella primavera del 1943, dopo i primi pesanti bombardamenti aerei, la famiglia si trasferisce ancora a Firenze. Qui, nel giro di pochi mesi, Lorenzo matura una radicale svolta esistenziale: si converte al cattolicesimo e decide di farsi prete, entrando in seminario l’8 novembre di quello stesso anno.
Ordinato sacerdote il 13 luglio del 1947, don Lorenzo Milani viene nominato cappellano a San Donato di Calenzano, dove ci resta per oltre sette anni. Appena arrivato, impianta in canonica una scuola serale aperta a tutti i giovani, senza discriminazioni politiche, purché di estrazione popolare e operaia. Un prete giovane che invece dei tornei di calcio, di ping-pong e bigliardino offre ai giovani una scuola, usando come libri di testo la Costituzione, i codici, i contratti collettivi di lavoro, i giornali. Che esorta gli operai a iscriversi al sindacato e a difendere i propri diritti con le due armi irrinunciabili dello sciopero e del voto.
In breve tempo si tira addosso prima la diffidenza, poi l’aperta ostilità dei benpensanti e di molti preti della zona. Si arriva così al dicembre del 1954, quando don Lorenzo viene “esiliato” a Barbiana, una parrocchia sperduta sull’Appennino, formata da nemmeno un centinaio di anime sparse sui monti. Pier Paolo Pasolini scriverà più tardi che questa punizione “in realtà è stato il più bel dono che gli si potesse fare”. E don Milani lo riconosce per primo e subito. Ad un suo allievo di San Donato risponde: ”Non mi commiserate troppo, perché io devo aver avuto qualche antenato montanino. Mi par d’esser qui da sempre. Ormai sono completamente rincivilito e se per disgrazia mi portassero la luce elettrica, avrei paura di prendere la scossa. Ma il più bello è che anche qui m’hanno accolto come un vecchio amico che torna”.
E lì don Lorenzo organizza una nuova scuola a misura dei bisogni dei suoi montanari. Lucio, uno dei suoi alunni, che doveva accudire le mucche nella stalla, scriverà più tardi nella famosa Lettera ad una professoressa: “La scuola sarà sempre meglio della merda”. A Barbiana tutti i ragazzi vanno a scuola dal priore. Dalla mattina presto fino a sera, estate e inverno. Nessuno “è negato per gli studi”. Non c’è ricreazione e non è vacanza nemmeno la domenica. Nella lettera ai giudici don Lorenzo racconta che “Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande ”I care”. E’ il motto intraducibile dei giovani americani migliori. “Me ne importa, mi sta a cuore”. E’ il contrario esatto del motto fascista “Me ne frego”.
L’obiettivo di don Milani è quello di educare i suoi ragazzi ad essere responsabili delle loro azioni, cittadini sovrani, capaci di usare la parola: “Perché è solo la lingua che fa uguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basta che parli”.
In una lettera inviata ai ragazzi di Piadena e al loro maestro Mario Lodi, i ragazzi di Barbiana descrivono la loro esperienza educativa: “Questa scuola, senza paure, più profonda e ricca, dopo pochi giorni ha appassionato ognuno di noi a venirci. Non solo: dopo pochi mesi ognuno di noi si è affezionato anche al sapere in sé. Il priore ci propone un ideale più alto: cercare il sapere solo per usarlo al servizio del prossimo, per esempio dedicarsi da grandi all’insegnamento, alla politica, al sindacato, all’apostolato o simili. Per questo qui si rammentano spesso e ci si schiera sempre dalla parte dei più deboli: africani, asiatici, meridionali italiani, operai, contadini, montanari. Ma il priore dice che non potremo far nulla per il prossimo, finché non sapremo comunicare. Perciò qui le lingue sono la materia principale. Prima l’italiano perché sennò non si riesce a imparare nemmeno le lingue straniere. Poi più lingue possibile, perché al mondo non ci siamo soltanto noi. Vorremmo che tutti i poveri del mondo studiassero lingue per potersi intendere e organizzare tra loro. Così non ci sarebbero più oppressori, né patrie, né guerre”.
Alla sorella Elena che gli annuncia il proprio matrimonio civile don Lorenzo risponde:”Sono contentissimo che tu ti sposi e non ho nessun motivo di dolermi che tu lo faccia in Comune. Esser cristiani è una fortuna, non un obbligo. Mi può dispiacere che tu non abbia questa fortuna, non che tu compia un atto in armonia con quello che pensi”.
A Barbiana, in una canonica senza acqua corrente e luce elettrica, la scelta di povertà austera di don Milani si radicalizza, fino al rifiuto di gestire il podere della parrocchia. Campa della sola “congrua”, il magro stipendio statale per i parroci. Dalla famiglia e dagli amici accetta solo aiuti per la scuola e la salute dei suoi ragazzi, spesso minata dalla miseria della montagna. Gli servono libri, enciclopedie, atlanti, dischi, calcolatrici, cancelleria, utensili… Ha bisogno di medicine, analisi ed esami medici, vitamine, cure dentarie. Denari, ne chiede per i viaggi all’estero, quando d’estate manda i ragazzi ad imparare le lingue e la vita degli altri popoli. Ma devono provvedere da soli, lavorando.
Nel 1958 esce “Esperienze pastorali”, il suo primo e unico libro, del quale pochi mesi dopo il Sant’Uffizio, giudicandolo inopportuno, ordina il ritiro dal commercio e vieta ristampe e traduzioni.
Nel 1960 avverte i primi sintomi del morbo di Hodgkin, che gli procurerà sofferenza e disagi per sette lunghi anni. Nel 1965 replica pubblicamente agli insulti rivolti da un gruppo di cappellani militari agli obiettori di coscienza e viene rinviato a giudizio per apologia di reato. Impossibilitato dalla malattia a presentarsi in tribunale, scrive la propria autodifesa, resa pubblica alla prima udienza del processo. E’ la “Lettera ai giudici” con la famosa frase, oggetto di tante polemiche: “Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene fare scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto”.
Serenamente consapevole della sua scelta, ormai gravemente ammalato, ebbe a dire: “Non ho paura di non fare a tempo a dire tutto quello che mi rimane da dire… Non importa che io lo dica… La verità si fa strada da sola”.
Assolto con formula piena, resta imputato, per il ricorso del pubblico ministero. Ma non arriva a ricevere la condanna d’appello, che colpirà comunque il suo scritto. Il 26 giugno 1967, all’età di 44 anni, muore di leucemia a Firenze, in casa della madre. Un mese prima esce “Lettera a una professoressa”, il libro scritto dai ragazzi della scuola di Barbiana sotto la sua regia ”da povero vecchio moribondo”. Ora la scuola è chiusa. I “ragazzi” sono sparsi per l’Italia e anche all’estero, impegnati nel sindacato, nella scuola, nelle associazioni.
A 54 anni dalla morte di don Milani, la testimonianza di fede del Priore di Barbiana, l’amore indicibile per un Dio che ha il volto povero dei suoi ragazzi, la sua obbedienza disobbediente, la rettitudine morale, la coerente laicità, la sete di cultura, lo studio come cosa seria e processo educativo collettivo, il rispetto del valore primario della coscienza, la concezione nobile della politica, l’amore ai poveri, l’impegno per la Costituzione e l’antifascismo, i valori in cui don Lorenzo credeva ci interessano ancor assai. Anche se egli, oggi, è più scomodo che mai. Non ci si può rivolgere al suo pensiero con l’intenzione di annetterlo o edulcorarlo, ma solo con quello di mettersi in discussione.
Non importa di prenderlo a modello od elevarlo a mito: piuttosto importa di rifarci a lui per riproporre l’irriducibilità di alcuni temi. Anche per questo noi lo amiamo e ne onoriamo la memoria.
26 giugno 2021 Arcangelo Riccardi
P.S.: vd. Giorgio Pecorini “Don Milani! Chi era costui?” Baldini & Castoldi.
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Papa Francesco e don Milani.
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