Risultato della ricerca: Vanni Tola

Oggi martedì 1° maggio 2018 Festa dei Lavoratori – Cagliari festeggia Sant’Efisio

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lampada aladin micromicrodemocraziaoggisardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413filippo-figari-sardegna-industre-2img_4633Anpi logo nazimg_4939costat-logo-stef-p-c_2-2——————–Dibattiti&Commenti—————————
1-maggio181° maggio
Nel 1866 la rivendicazione “otto ore come limite legale dell’attività lavorativa” apriva la strada a lotte internazionali. Dal 1889 ogni 1° maggio si celebrano i diritti dei lavoratori. La data ricorda una manifestazione operaia a Chicago del 1886, repressa nel sangue. Su eddyburg, ripresa da aladinews.
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1° Maggio festa dei lavoratori: rileggiamo Karl Marx
1 Maggio 2018

Red su Democraziaoggi.
77c5304a-855a-4c74-abf5-cc4d9d31b374Caduta l’URSS e la vicenda del socialismo reale, intrisa dell’indelebile marchio dello stalinismo, Karl Marx riprende a giganteggiare in tutta la ricchezza del suo pensiero, piegato a una lettura e applicazione totalitaria, ma volto alla liberazione dell’uomo, all’affermazione della democrazia, come governo del popolo. Basta leggere le sue riflessioni su La Comune per capire che la sua “dittatura del proletariato”, non era la dittatura di un partito.
Ora, nel nuovo clima, prende luce il pensiero di Marx, che si ricostruisce da frammenti di opere e non ha mai avuto carattere monolitico, se non nelle pubblicasul sito Democraziaoggi] la nuova prospettiva, aperta, fra gli altri, da Marcello Musto, in un suo libro, recensito da Alfio Neri, di cui pubblichiamo una sintesi.
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sedia di VannitolaBUON 1 MAGGIO MA NON CHIAMATELO FESTA DEL LAVORO.
Il lavoro manca per i giovani e i meno giovani. I nostri figli, ancora precari a 35 anni, costretti a emigrare nelle città del nord come i nostri padri. I nostri figli che pagano oltre 500 euro dai loro miseri stipendi per un alloggio. I morti sul lavoro che sono diminuiti nelle statistiche soltanto perché si sono drasticamente ridotti i posti di lavoro. I diritti dei lavoratori umiliati, calpestati e ridotti dalle leggi sull’occupazione degli ultimi governi. L’affermarsi e il diffondersi delle politiche del neoliberismo estremo e della destra fascista. Ma quale Festa? Potremmo definirla al massimo giornata di riflessione e di lotta per cambiare qualcosa ma non prendeteci in giro con la retorica del mega concerto dei Sindacati a Roma. (V.T.)
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f3c557f2-422d-4ade-80de-076179f32533Sempre e ovunque Resistenza, anche a Mores
1 Maggio 2018

Luisa Sassu su Democraziaoggi.
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Bandire la guerra dalla faccia della Terra: ecco il vero grande programma!

pace bandieraUn grido d’allarme
I VENTI DI GUERRA CHE SOFFIANO SULLA SIRIA

Un appello per il movimento per la pace. Occorre lottare per il disarmo da attuarsi nel cuore del continente europeo e per una posizione fermamente contraria a ogni escalation militare.
di Franco Astengo su chiesadituttichiesadeipoveri

La situazione in Siria presenta elementi molto preoccupanti nella direzione di una guerra globale.
Forse non siamo mai stati così vicini al “pericolo totale” neppure nei momenti più drammatici della “guerra fredda” tra i grandi blocchi militari nella seconda metà del ‘900: la guerra di Corea, la crisi dei missili a Cuba, la fase di avvio della presidenza Reagan.
E’ certo che davvero la fase che era stata definita della “globalizzazione”, si è conclusa e, come si era avvertito già da tempo, si stanno riformando concentrazioni armate contrapposte già di fronte l’una all’altra nelle zone più calde, a partire dal Medio Oriente (non dimenticando gli altri possibili scenari).
Sicuramente le cose stanno in maniera molto più complessa di quanto sia possibile descriverle a questo punto, ma la sostanza degli atti pare proprio condurre alla necessità di lanciare un grido d’allarme.
Gli USA hanno ripreso il ruolo da “gendarme del mondo” ma non sono soli, anzi sono fronteggiati con forza.
Siamo di fronte alla costruzione di un nuovo bipolarismo tra le potenze imperiali o meglio a “vocazione imperiale”.
Naturalmente si tratta di uno scenario ben diverso da quello della “guerra fredda” post-secondo conflitto mondiale ma che, comunque, richiama due elementi molto importanti da valutare nel quadro di un’azione politica di sinistra da questa parte del continente, nell’Europa Occidentale: all’interno, cioè, di uno scenario nel quale agiscono le strutture economico-politiche dell’Unione Europea:
1) Il ritorno della geopolitica intesa come riassunzione di centralità del concetto di “spazio vitale” e di egemonia per l’accesso e l’utilizzo delle risorse energetiche;
2) Il riproporsi, proprio all’interno dello spazio vitale detenuto dall’Unione Europea, di una questione di vero e proprio schieramento che questa volta non comporta però l’opzione riguardante una scelta di civiltà. Non ci sono più a fronteggiarsi il capitalismo liberale di marca USA e il “socialismo reale” di stampo sovietico ma i due modelli del neo nazionalismo e della vocazione protezionistica USA e della “vocazione imperiale” russa (ben esplicitata del resto dal sistema di alleanze che si sta creando nella regione mediorientale), all’interno di un gioco molto complesso dal punto di vista dell’intreccio economico, produttivo e di scambio di capitali all’interno del quale andranno valutati anche altri fattori: dal ruolo della Cina a quello del livello di tensione complessiva nell’estremo Oriente a partire dal tema del nucleare in Corea del Nord.
La sinistra occidentale che non ha trovato una propria dimensione politica rispetto al tema dell’Unione Europea, del dominio delle banche, dell’egemonia tedesca sull’insieme dei principali punti della filiera produttiva, della moneta unica e del deficit di democrazia adesso è chiamata a muoversi sul terreno prevalente del rapporto con Oltreatlantico attraverso la compiuta acquisizione del richiesto meccanismo di ritorno alla subalternità.
Lo scenario incombente è quello di un conflitto globale di dimensioni e qualità ben diverse da quelli periferici, di natura neo-coloniale, che abbiamo vissuto nel corso di questi anni sugli scacchieri mediorientali, dell’Asia Centrale, dell’Africa, dell’Estremo Oriente e dell’Europa.
Mentre l’Italia appare completamente priva di una politica estera e le prospettive della formazione del nuovo governo fanno temere, sotto questo delicatissimo e cruciale aspetto, il peggio del peggio.
E’ proprio il caso allora di invitare con forza il movimento per la pace e i soggetti politici ancora presenti a sinistra perché riprendano a considerare la necessità di una mobilitazione immediata sul tema della pace e del disarmo.
Tra le tante proposte che possono essere lanciate in una visione di superamento dell’attuale assetto dell’Unione Europea (che appare anch’essa completamente priva di una propria politica al riguardo dei temi fin qui indicati) quello del disarmo da attuarsi nel cuore del Continente e di una posizione fermamente contraria a ogni escalation bellica dovrebbero trovarsi al centro dell’iniziativa politica, sia nella dimensione interna, sia in quella transnazionale (che un tempo avremmo definito come internazionalista).
Questi appena elencati costituiscono temi d’intervento che sicuramente sopravanzano quelli di natura più direttamente economica.
Franco Astengo
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Dedicato a Lorenzo Milani.
LORENZO MILANI
LA PACE OLTRE OGNI RAGIONE
Goya il sonno della ragione
Nei secoli la ragione è stata dalla parte della guerra, madre e regina del mondo, non solo evento ma criterio di tutta la realtà. Ripudiata poi come folle, la guerra è tornata come prostituta, venduta come sacra. La ragione della pace sta invece nella nonviolenza di Dio

di Raniero La Valle.

La seguente relazione è stata tenuta l’11 aprile 2018 all’Università di Messina in occasione di un seminario dedicato a don Lorenzo Milani:

Dobbiamo anzitutto metterci in situazione, sapere che parliamo di pace proprio qui, in quel centro del mondo dove la pace è massimamente negata, nel cuore del Mediterraneo, dove si stanno armando le propagande, le fake news, gli incrociatori e i missili per la guerra alla Siria, dove si spara nella striscia di Gaza e si attacca il paese dei Curdi, e dove si affollano i barconi dei profughi che le Marine si disputano e che a migliaia facciamo morire.
Il titolo dato a questo intervento, “La pace oltre ogni ragione”, introduce come tema sensibile il rapporto pace-ragione. È un binomio che rinvia e corrisponde a un altro binomio cruciale, quello fede-ragione. Come la fede appartiene alla ragione ma trascende la ragione, la supera e può perfino essere ogni oltre ragione, così la pace appartiene alla ragione, ma la trascende, la supera e può essere pensata anche contro e oltre ogni ragione.
Quand’è che la fede soffre a causa della ragione, e anzi può essere ferita o distrutta dalla ragione? Quando si pretende di ridurre la fede e mettere la religione nei limiti della sola ragione. È, com’è noto, l’assunto di Kant. Ma è anche la pretesa della modernità, e questo lo sappiamo e non ci spaventa. Purtroppo però questa è anche la tentazione di molti cristiani di oggi, anche dei più provveduti, e questo mi spaventa moltissimo. Io ho vissuto quest’anno con grande gioia, e quasi con accanimento, la veglia della notte di Pasqua, perché avevo visto e sentito amici cristiani a me carissimi, e anche teologi, che proponevano l’istanza di demitizzare la Resurrezione, di riportare anch’essa nei limiti della sola ragione per corrispondere alla mutata sensibilità dell’uomo moderno: e per farlo non solo avanzavano l’ovvio argomento che quando si interrompono tutte le sinassi del cervello non può esserci vita e tanto meno resurrezione nel senso biologico, e così la ragione è a posto, ma volevano riportare nei limiti della sola ragione anche il fatto straordinario che le prime apostole, Maria di Magdala, l’altra Maria, Giovanna, Salome, i primi discepoli, la prima Chiesa e poi tutte le generazioni successive fino ad ora abbiano visto e creduto che il Signore è risorto, che è veramente risorto. E anche esegeti cristiani, dell’una o dell’altra confessione, ci spiegano come la Resurrezione è un mito, che in realtà essa altro non è che l’idea soggettiva della Resurrezione, che Gesù non può essere il figlio di Dio, come del resto già dicevano quelli del Sinedrio, che il Dio del teismo non esiste, per cui non lo si chiama più per nome ma solo per grandi idee riassuntive; e allora si parla di lui come del Principio originario, dell’Amore primordiale, come di una Forza di vita, come di un confluire di tre tempi, passato presente e futuro e via astraendo. È la nuova gnosi, il logos che rifiuta di farsi carne. E così la ragione è salva, ma la fede è perduta, la croce come unica e suprema irragionevolezza di Dio è perduta, e allora non c’è più argine, non c’è più limite all’invasione delle ragionevoli croci che ormai coprono tutta la terra, questo immenso Golgota che si erge sulla collina dei rifiuti detta Gehenna, in cui la nostra generazione sta trasformando la terra.
In questo modo la ragione, nella pretesa di abbracciarla, diventa nemica della fede. Perciò, con questa esperienza, bisogna stare attenti anche quando si parla di pace e ragione. Perché nella storia mille e mille sono state le ragioni per cui la pace non è stata ritenuta possibile, e nemmeno desiderabile, mentre mille e mille sono state le ragioni messe in campo che hanno militato a favore della guerra. E allora se si vuole intendere la pace nei limiti della sola ragione, la pace è perduta.

La guerra come ragione

La ragione non vuole affatto legarsi alla pace. Anzi è proprio quando la pace sembra l’unica cosa ragionevole, che la pace non c’è, è proprio quando la pace appare la sola alternativa razionale all’inutile strage, quando è l’unico antidoto all’istinto di sterminio, alla logica di Hiroshima, quando sarebbe il rimedio alla fame lasciata correre a briglie sciolte nel mondo, quando porrebbe fine al terrorismo vestito da imperialismo o da estremismo religioso, proprio allora la pace non c’è.
È per questo che si comprende tutta la forza di rovesciamento dell’affermazione di papa Giovanni XXIII nella Pacem in terris: non è la pace che è fuori dalla ragione, ma è la guerra che è fuori dalla ragione, bellum alienum a ratione. Sempre in verità essa è stata fuori dalla ragione, anche quando i teologi cattolici affastellavano i motivi che rendevano le guerre giuste, e papa Giovanni lo sapeva, come lo sapeva don Milani che nella sua lettera ai cappellani militari che avevano accusato l’obiezione di coscienza di viltà, aveva spiegato come fossero state ingiuste e folli tutte le guerre che avevamo combattuto, anche prima della bomba atomica. Ma papa Giovanni per non farsi dire, come oggi si dice a papa Francesco, di aprire una voragine con i pontificati precedenti, scrisse che il vero spartiacque oltre il quale mai più la guerra avrebbe potuto essere giustificata dalla ragione era l’essere entrati nell’età che si gloria della sua potenza atomica. Era una rivoluzione copernicana. Perché fino ad allora la guerra era stata considerata regina. Così l’aveva cantato Eraclito e così l’abbiamo considerata fino al 900; aveva detto infatti Eraclito fin dalla culla della nostra cultura che il “polemos” era il padre e il principio di tutte le cose, di tutti re, che gli uni disvela come uomini e gli altri come Dèi, ponendo così la guerra non solo come evento, ma come criterio ermeneutico di tutta la realtà, cioè come ragione. E tale era rimasta lungo tutta la storia. Per esempio, al momento della conquista dell’America, che noi però ci ostiniamo a chiamare “scoperta”, il diritto internazionale nascente assunse la guerra come criterio per identificare lo Stato, la guerra come emblema e prova della sovranità. Uno Stato intanto è uno Stato, un sovrano intanto è un sovrano, si argomentava, in quanto può fare la guerra, e anzi la guerra è la sola sua arma di giustizia. Il sovrano infatti è sovrano perché non ha alcun altro al di sopra di sé, “superiorem non recognoscens”, come diceva Marino da Caramanico, e dunque non ha neanche un giudice che possa rendergli giustizia; e se ci sono più sovrani, non c’è nessuno, tanto meno un giudice, che può porsi sopra di loro e giudicare delle loro controversie; perciò il solo giudice tra loro poteva essere la guerra. Ed è che fosse fatta dal sovrano, ciò che distingueva la guerra dalla violenza privata, dalle risse, dal crimine: come la definì Alberico Gentili, la guerra è “publicorum armorum iusta contentio”: un giusto scontro combattuto con armi pubbliche.
E talmente ciò era considerato secondo ragione, che uno dei più grandi giuspubblicisti del Novecento, il tedesco Carl Schmitt fece della guerra il criterio stesso del politico; come il criterio dell’etica è il confronto tra il bene e il male, e dell’estetica è il contrasto tra bello e brutto, così il criterio del politico, la sua ragione cioè, è il conflitto tra amico e nemico, che ha nella guerra la sua massima espressione.
Dunque la guerra fino al 900 è stata la nostra vera regina, non solo nei fatti ma nella dottrina, non solo nella realtà ma nel diritto, non solo nella prassi ma nell’etica, non solo nella mondanità ma nella religione.
E perciò la ragione non poteva stare con la pace perché la ragione era amica della guerra e mezzana del suo connubio con la storia e con il mondo.

La guerra ripudiata ripresa come prostituta sacra

Ma a un certo punto interviene la rottura del 900. Due guerre mondiali, il nazismo, la Shoà, cinquantaquattro milioni di morti, gli olocausti, e infine Hiroshima e Nagasaki rompono la relazione tra la ragione e la guerra, spezzano la sua unione indissolubile con il mondo e con la storia; i popoli si ravvedono, depongono la guerra dal trono e la ripudiano; essa viene esiliata dalla città e bandita come la regina Vasti era stata ripudiata e cacciata dalla reggia di Susa, che era il centro dell’Impero di allora.
Ma qui viene compiuto un fatale errore. Viene fatto un ripudio ma non un divorzio. Ripudiata la guerra, invece di sposare la pace, di farla sua sposa, di darle il potere ed il regno annunciato dal principe della pace, il mondo insedia al suo posto il terrore. Per essere sicuri che la guerra non tornasse gli Stati hanno messo contro di lei il terrore, hanno fatto del terrore un’istituzione totale e l’hanno chiamato deterrenza, o equilibrio del terrore, ed hanno trasferito al terrore la ragione il talamo e il regno. Il mondo ha preferito il terrore alla guerra, uno l’ha preso e l’altra l’ha lasciata.
Ed è stato a quel punto che dalla cattedra più alta è venuta la proclamazione. La guerra ha perso la ragione dice papa Giovanni, e anzi finalmente, grazie all’atomica, gli uomini si sono resi conto, e con loro anche la Chiesa, che la ragione essa non l’ha mai avuta; ed è fuori della ragione l’idea che la guerra possa essere un mezzo atto a risarcire i diritti violati. Ma inutilmente papa Giovanni offre l’alternativa e propone come vera sposa la pace, che, lui dice, deve essere fondata sulla verità, la libertà, la giustizia e l’amore.
È bastato infatti che l’Occidente smettesse di avere paura – perché il suo nemico aveva cessato di esistere – e la guerra se l’è ripresa in casa, l’ha rimessa al suo servizio; è bastato che finisse il comunismo, che con la caduta del muro venisse meno l’alternativa socialista, è bastato che il terrore perdesse i suoi costosi denti atomici per andare a rifugiarsi nelle povere carni dei terroristi suicidi, perché l’Occidente di tutta fretta rimettesse al suo posto la guerra, e lo ha fatto già nel 1991 con la prima guerra del Golfo.
Ma come poteva farlo dato che l’aveva screditata, svergognata, data per folle e ripudiata? Ci voleva una riabilitazione, un lavacro rigeneratore, quasi un nuovo battesimo. E questa fu la grande operazione mediatica messa su nel 1990 e 1991, l’imponente campagna d’opinione condotta da tutti i persuasori, mediatici e politici, grazie all’invenzione della guerra del Golfo. Ci voleva infatti una bella fantasia a fare una guerra, quasi una guerra mondiale, per il Kuwait, che in realtà non stava a cuore a nessuno, e che in ogni caso si poteva restituire alla sua sovranità mediante negoziati, e non con la guerra. Il Kuwait non era Danzica, e nessuno voleva morire per il Kuwait. Ma il fatto è che intanto la guerra aveva cambiato natura, perché ormai si moriva da una parte sola, e chi decideva di farla, credeva di farla ormai a buon mercato; ed è così che irresponsabilmente veniva inaugurato un tempo in cui, ripristinata la guerra, l’unica guerra possibile per i poveri fosse il terrorismo.
In ogni caso per quanto fossero ingenti le risorse impiegate per riabilitare e ripristinare la guerra, essa non poteva più essere richiamata come sposa, come regina; poteva essere ripresa solo come prostituta. Ripudiata come Vasti, sostituita col terrore, la guerra veniva recuperata come Rahab, la prostituta di Gerico che per salvare se stessa aveva tradito il suo popolo e l’aveva consegnato al genocidio. Ma poichè Rahab aveva finito per diventare la sola isola di salvezza in mezzo allo sterminio, era stata idealizzata e celebrata come la “casta meretrix”, la prostituta sacra, al punto che sant’Ambrogio orrendamente l’assimilò alla Chiesa, che perciò fu chiamata anch’essa “casta meretrix”.

La ragione di Stato come ideologia sacrificale

Non più come sposa ma come prostituta, la guerra non poteva più essere al servizio dei popoli, ma solo dei poteri che dominano i popoli. E infatti non più eserciti di leva, popoli in armi, la guerra meretrice non poteva che essere fatta da mercenari. E al suo servizio veniva messa di nuovo una ragione che non è solo una ragione, ma taglia corto a tutte le ragioni, la ragion di Stato.
Ho visto un film inglese di un regista sudafricano (Gavin Hood), “Il diritto di uccidere”, la cui protagonista è per l’appunto la ragion di Stato. Vi si esibivano le nuove modalità di violenza che sono rese possibili dalle attuali tecnologie, e in particolare la guerra che viene condotta con i droni e le uccisioni che vengono perpetrate da grandissima distanza. Il film racconta di un’operazione militare inglese, condotta dal Nevada, che coinvolge politica, diritto e Stati maggiori d’America e d’Inghilterra, operazione che consiste nell’uccidere a Nairobi con due missili lanciati da un aereo senza pilota quattro terroristi che in una casa stanno indossando i giubbotti esplosivi per andare a fare altrettanti attentati terroristici. Il problema è che davanti alla casa che dovrà essere distrutta c’è una bambina keniota che vende il pane. Un caso da manuale: quale ragion di Stato più forte che uccidere quattro terroristi che stanno per compiere chissà quali stragi? Ma c’è la bambina che non c’entra niente. C’è l’innocente. Che fare? Procedere con l’operazione o fermarla?
Ci si consulta in tempo reale attraverso mezzo mondo (siamo in tempo di globalizzazione), sono coinvolte cancellerie, sale operative, primi ministri, segretari di Stato, consulenti giuridici e procuratori, perché sia chiaro che a decidere non è una persona sola, magari un colonnello spietato, ma a decidere è tutta la catena di comando, è tutto il sistema, è il sistema mondo, o almeno è il sistema Occidente. E la decisione è per il sacrificio: è bene che la bambina innocente muoia perché il mondo sia salvato.
Messe così le cose è probabile che la maggior parte delle persone sia d’accordo, perché in quella ragion di Stato c’è implicita l’idea di un male minore, e perché che cosa si vuole di più dall’etica dell’Occidente, dalla sua nobiltà d’animo, dalla sua gloria? Prima di uccidere quattro terroristi assassini si è perfino preoccupato che di mezzo ci fosse una bambina di colore, si è chiesto se quel “danno collaterale” fosse più o meno accettabile. E la ragion di Stato ha risposto di sì.
Da questo apologo è chiaro che della guerra fatta dai grandi poteri che siedono nei loro uffici a migliaia di chilometri di distanza, sono i popoli a pagare le spese. Per questo è stato necessario che la nuova guerra fosse loro venduta come desiderabile, che fosse truccata, imbellettata, prostituta sì, ma prostituta sacra, innocente e casta. E così si è andata tessendo la grande apologia della guerra, dal primo al secondo Bush, dalla Thatcher a Sarkozy, da Netaniahu a Bin Laden, da Blair a D’Alema. E così abbiamo avuto le guerre umanitarie, le guerre giustizia infinita, le guerre per la democrazia, le guerre per punire i dittatori o gli infedeli; così nasceva la guerra per punire gli Stati canaglia, gli Stati zizzania come li chiamava il giovane Bush, che ogni sera diceva di piangere sulla spalla di Dio, e addirittura nasceva la guerra perpetua, cioè senza fine dei giorni, senza vincoli di legittimità, investita perciò degli stessi attributi di Dio. Prima ancora che Al Qaeda o lo pseudo califfato dell’ISIS indicessero la Jihad, la guerra santa era stata restaurata e rilanciata dall’Occidente.

La guerra come questione teologica

È a questo punto che la questione della guerra e delle sue ragioni diventava radicale. Non poteva più essere una questione solo politica, non poteva più essere una questione solo etica, non poteva essere una questione umanitaria. Diventava una questione teologica, un capitolo della Rivelazione. Se di valore in valore l’ultimo valore a cui la guerra era appesa era il valore di Dio, il Dio che nei secoli era stato invocato, acclamato e celebrato come il Dio della vittoria, il Dio degli eserciti, il Dio del giorno della vendetta, il Dio forte e terribile, il Dio sterminatore che aveva fatto il suo esordio uccidendo i primogeniti degli egiziani per mandare liberi gli ebrei, allora il modo per uscire radicalmente dalla guerra era quello di una nuova Rivelazione di Dio, era il purificare l’immagine di Dio, togliere Dio da qualsiasi giustificazione e legittimazione della guerra, era di fare in modo che mai più un vescovo di Ragusa potesse consacrare una chiesa in un campo di missili come a Comiso.
E ciò è appunto quello che è avvenuto con papa Francesco, che a Gerusalemme come a Redipuglia, in Albania come in Bangladesh, sulla tomba di don Milani come domani su quella di Tonino Bello, dichiara semplicemente, icasticamente, che il Dio della guerra non esiste. Rispetto al Dio della guerra noi siamo atei.
Egli ha potuto dirlo perché ha preso in mano il Vangelo, e ha preso sul serio la previsione fatta da Gesù a Pietro quando gli ha detto: ora non capisci, ma dopo capirai; e perciò Francesco cerca di capire e di far capire quello che prima non si era capito, anche delle Scritture, anche del Vangelo, anche da parte dei dottori e degli esegeti. Cioè ha tirato giù la rivelazione di Dio dagli archivi, e l’ha fatta diventare una realtà contemporanea, quotidiana, che avviene nell’oggi. Erano 1500 anni che non succedeva, da quando Gregorio Magno aveva detto che i divina eloquia, la Scrittura, cresce con chi la legge.
Per questo lo odiano. Per questo sabato scorso a Roma si è riunita l’antiChiesa, cento persone con due cardinali due vescovi e un diacono che gli hanno lanciato contro una specie di libello di ripudio, perché non vogliono che il Vangelo si muova, che l’ordine globale sia cambiato e non vogliono la libertà del cristiano. Ma era come un tentativo di evocare dal buio del passato una Chiesa che non c’è, una specie di rappresentazione in costumi d’altri tempi; perché né il cardinale Burke è un cardinale Caetani che può fare fuori un papa, né papa Francesco è un Celestino V sceso dal Morrione con la sua immensa pietà ma povero di teologia.

Se Dio è non violento, anche l’uomo può esserlo

In realtà papa Francesco non è arrivato a questa professione di fede da solo. C’era arrivata tutta la Chiesa, a partire da papa Giovanni, dal Concilio, dalla Chiesa di Bologna, da monsignor Romero, da Tonino Bello, fino al documento di altissimo valore teologico curato e firmato dal cardinale Muller, che segna un definitivo congedo dal pensiero della violenza di Dio. Vi si trova una formale presa di distanza da tante pagine della Scrittura, difficili a sopportarsi, che parlano di un Dio guerresco e violento, vendicatore e duce di un solo popolo. Si tratta di un documento della Commissione Teologica Internazionale intitolato “Il monoteismo cristiano contro la violenza”, pubblicato a Roma nel 2014, nei primi mesi del pontificato di Francesco, ma frutto di una lunga elaborazione precedente. È un documento che nasce con una intenzione apologetica, perché si trattava di difendere il monoteismo cristiano contro l’accusa che professando un Dio unico fosse causa di violenza. Esso ammetteva però che questa falsa immagine di Dio era veicolata da molte pagine della Scrittura, che erano tuttavia il prodotto di un fraintendimento umano. La ragione teologica profonda per cui questa rappresentazione di Dio andava congedata era che essa è in contrasto con il dogma fondamentale del cristianesimo, quello del rapporto trinitario tra il Padre, il Figlio e lo Spirito, che non può essere altro e non può esprimersi altrimenti che come amore. Al “kairós dell’irreversibile congedo del cristianesimo dalle ambiguità della violenza religiosa”, secondo il documento vaticano, bisognava riconoscere “il tratto di svolta epocale che esso è obiettivamente in grado di istituire nell’odierno universo globalizzato”; un trapasso d’epoca che comporta un cambiamento non solo del cristianesimo, ma dell’idea stessa di religione, e perciò di ogni religione.
Questo hanno scritto i teologi della Commissione Teologica Internazionale scelti da papa Ratzinger e incaricati di liberare il volto di Dio dalla maschera della violenza, e questo ha firmato il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede cardinale Muller, che pur oggi si vorrebbe contrapporre a Francesco e alla sua teologia.
Questa è dunque oggi la parola della Rivelazione, non solo di papa Francesco ma di tutta la Chiesa; la parola che ci dice che è avvenuto qualcosa, che per vincere la violenza, per fare della pace la sposa e la regina del mondo, oltre ogni ragione, sta cambiando lo stesso cristianesimo, e anzi cambia l’idea stessa di religione. Il cristianesimo certo, ma a questa conversione sono chiamati anche Israele, l’Islam e le altre religioni e antropologie dell’umanità. Se in Dio non c’è violenza, può non esserci violenza anche nella sua immagine, l’uomo e la donna fatti a somiglianza di lui.
Raniero La Valle.

Bandire la guerra dalla faccia della Terra: ecco il vero grande programma!

Dedicato a Lorenzo Milani.
LORENZO MILANI
LA PACE OLTRE OGNI RAGIONE
Goya il sonno della ragione
Nei secoli la ragione è stata dalla parte della guerra, madre e regina del mondo, non solo evento ma criterio di tutta la realtà. Ripudiata poi come folle, la guerra è tornata come prostituta, venduta come sacra. La ragione della pace sta invece nella nonviolenza di Dio

di Raniero La Valle.

La seguente relazione è stata tenuta l’11 aprile 2018 all’Università di Messina in occasione di un seminario dedicato a don Lorenzo Milani:

Dobbiamo anzitutto metterci in situazione, sapere che parliamo di pace proprio qui, in quel centro del mondo dove la pace è massimamente negata, nel cuore del Mediterraneo, dove si stanno armando le propagande, le fake news, gli incrociatori e i missili per la guerra alla Siria, dove si spara nella striscia di Gaza e si attacca il paese dei Curdi, e dove si affollano i barconi dei profughi che le Marine si disputano e che a migliaia facciamo morire.
Il titolo dato a questo intervento, “La pace oltre ogni ragione”, introduce come tema sensibile il rapporto pace-ragione. È un binomio che rinvia e corrisponde a un altro binomio cruciale, quello fede-ragione. Come la fede appartiene alla ragione ma trascende la ragione, la supera e può perfino essere ogni oltre ragione, così la pace appartiene alla ragione, ma la trascende, la supera e può essere pensata anche contro e oltre ogni ragione.
Quand’è che la fede soffre a causa della ragione, e anzi può essere ferita o distrutta dalla ragione? Quando si pretende di ridurre la fede e mettere la religione nei limiti della sola ragione. È, com’è noto, l’assunto di Kant. Ma è anche la pretesa della modernità, e questo lo sappiamo e non ci spaventa. Purtroppo però questa è anche la tentazione di molti cristiani di oggi, anche dei più provveduti, e questo mi spaventa moltissimo. Io ho vissuto quest’anno con grande gioia, e quasi con accanimento, la veglia della notte di Pasqua, perché avevo visto e sentito amici cristiani a me carissimi, e anche teologi, che proponevano l’istanza di demitizzare la Resurrezione, di riportare anch’essa nei limiti della sola ragione per corrispondere alla mutata sensibilità dell’uomo moderno: e per farlo non solo avanzavano l’ovvio argomento che quando si interrompono tutte le sinassi del cervello non può esserci vita e tanto meno resurrezione nel senso biologico, e così la ragione è a posto, ma volevano riportare nei limiti della sola ragione anche il fatto straordinario che le prime apostole, Maria di Magdala, l’altra Maria, Giovanna, Salome, i primi discepoli, la prima Chiesa e poi tutte le generazioni successive fino ad ora abbiano visto e creduto che il Signore è risorto, che è veramente risorto. E anche esegeti cristiani, dell’una o dell’altra confessione, ci spiegano come la Resurrezione è un mito, che in realtà essa altro non è che l’idea soggettiva della Resurrezione, che Gesù non può essere il figlio di Dio, come del resto già dicevano quelli del Sinedrio, che il Dio del teismo non esiste, per cui non lo si chiama più per nome ma solo per grandi idee riassuntive; e allora si parla di lui come del Principio originario, dell’Amore primordiale, come di una Forza di vita, come di un confluire di tre tempi, passato presente e futuro e via astraendo. È la nuova gnosi, il logos che rifiuta di farsi carne. E così la ragione è salva, ma la fede è perduta, la croce come unica e suprema irragionevolezza di Dio è perduta, e allora non c’è più argine, non c’è più limite all’invasione delle ragionevoli croci che ormai coprono tutta la terra, questo immenso Golgota che si erge sulla collina dei rifiuti detta Gehenna, in cui la nostra generazione sta trasformando la terra.
In questo modo la ragione, nella pretesa di abbracciarla, diventa nemica della fede. Perciò, con questa esperienza, bisogna stare attenti anche quando si parla di pace e ragione. Perché nella storia mille e mille sono state le ragioni per cui la pace non è stata ritenuta possibile, e nemmeno desiderabile, mentre mille e mille sono state le ragioni messe in campo che hanno militato a favore della guerra. E allora se si vuole intendere la pace nei limiti della sola ragione, la pace è perduta.

La guerra come ragione

La ragione non vuole affatto legarsi alla pace. Anzi è proprio quando la pace sembra l’unica cosa ragionevole, che la pace non c’è, è proprio quando la pace appare la sola alternativa razionale all’inutile strage, quando è l’unico antidoto all’istinto di sterminio, alla logica di Hiroshima, quando sarebbe il rimedio alla fame lasciata correre a briglie sciolte nel mondo, quando porrebbe fine al terrorismo vestito da imperialismo o da estremismo religioso, proprio allora la pace non c’è.
È per questo che si comprende tutta la forza di rovesciamento dell’affermazione di papa Giovanni XXIII nella Pacem in terris: non è la pace che è fuori dalla ragione, ma è la guerra che è fuori dalla ragione, bellum alienum a ratione. Sempre in verità essa è stata fuori dalla ragione, anche quando i teologi cattolici affastellavano i motivi che rendevano le guerre giuste, e papa Giovanni lo sapeva, come lo sapeva don Milani che nella sua lettera ai cappellani militari che avevano accusato l’obiezione di coscienza di viltà, aveva spiegato come fossero state ingiuste e folli tutte le guerre che avevamo combattuto, anche prima della bomba atomica. Ma papa Giovanni per non farsi dire, come oggi si dice a papa Francesco, di aprire una voragine con i pontificati precedenti, scrisse che il vero spartiacque oltre il quale mai più la guerra avrebbe potuto essere giustificata dalla ragione era l’essere entrati nell’età che si gloria della sua potenza atomica. Era una rivoluzione copernicana. Perché fino ad allora la guerra era stata considerata regina. Così l’aveva cantato Eraclito e così l’abbiamo considerata fino al 900; aveva detto infatti Eraclito fin dalla culla della nostra cultura che il “polemos” era il padre e il principio di tutte le cose, di tutti re, che gli uni disvela come uomini e gli altri come Dèi, ponendo così la guerra non solo come evento, ma come criterio ermeneutico di tutta la realtà, cioè come ragione. E tale era rimasta lungo tutta la storia. Per esempio, al momento della conquista dell’America, che noi però ci ostiniamo a chiamare “scoperta”, il diritto internazionale nascente assunse la guerra come criterio per identificare lo Stato, la guerra come emblema e prova della sovranità. Uno Stato intanto è uno Stato, un sovrano intanto è un sovrano, si argomentava, in quanto può fare la guerra, e anzi la guerra è la sola sua arma di giustizia. Il sovrano infatti è sovrano perché non ha alcun altro al di sopra di sé, “superiorem non recognoscens”, come diceva Marino da Caramanico, e dunque non ha neanche un giudice che possa rendergli giustizia; e se ci sono più sovrani, non c’è nessuno, tanto meno un giudice, che può porsi sopra di loro e giudicare delle loro controversie; perciò il solo giudice tra loro poteva essere la guerra. Ed è che fosse fatta dal sovrano, ciò che distingueva la guerra dalla violenza privata, dalle risse, dal crimine: come la definì Alberico Gentili, la guerra è “publicorum armorum iusta contentio”: un giusto scontro combattuto con armi pubbliche.
E talmente ciò era considerato secondo ragione, che uno dei più grandi giuspubblicisti del Novecento, il tedesco Carl Schmitt fece della guerra il criterio stesso del politico; come il criterio dell’etica è il confronto tra il bene e il male, e dell’estetica è il contrasto tra bello e brutto, così il criterio del politico, la sua ragione cioè, è il conflitto tra amico e nemico, che ha nella guerra la sua massima espressione.
Dunque la guerra fino al 900 è stata la nostra vera regina, non solo nei fatti ma nella dottrina, non solo nella realtà ma nel diritto, non solo nella prassi ma nell’etica, non solo nella mondanità ma nella religione.
E perciò la ragione non poteva stare con la pace perché la ragione era amica della guerra e mezzana del suo connubio con la storia e con il mondo.

La guerra ripudiata ripresa come prostituta sacra

Ma a un certo punto interviene la rottura del 900. Due guerre mondiali, il nazismo, la Shoà, cinquantaquattro milioni di morti, gli olocausti, e infine Hiroshima e Nagasaki rompono la relazione tra la ragione e la guerra, spezzano la sua unione indissolubile con il mondo e con la storia; i popoli si ravvedono, depongono la guerra dal trono e la ripudiano; essa viene esiliata dalla città e bandita come la regina Vasti era stata ripudiata e cacciata dalla reggia di Susa, che era il centro dell’Impero di allora.
Ma qui viene compiuto un fatale errore. Viene fatto un ripudio ma non un divorzio. Ripudiata la guerra, invece di sposare la pace, di farla sua sposa, di darle il potere ed il regno annunciato dal principe della pace, il mondo insedia al suo posto il terrore. Per essere sicuri che la guerra non tornasse gli Stati hanno messo contro di lei il terrore, hanno fatto del terrore un’istituzione totale e l’hanno chiamato deterrenza, o equilibrio del terrore, ed hanno trasferito al terrore la ragione il talamo e il regno. Il mondo ha preferito il terrore alla guerra, uno l’ha preso e l’altra l’ha lasciata.
Ed è stato a quel punto che dalla cattedra più alta è venuta la proclamazione. La guerra ha perso la ragione dice papa Giovanni, e anzi finalmente, grazie all’atomica, gli uomini si sono resi conto, e con loro anche la Chiesa, che la ragione essa non l’ha mai avuta; ed è fuori della ragione l’idea che la guerra possa essere un mezzo atto a risarcire i diritti violati. Ma inutilmente papa Giovanni offre l’alternativa e propone come vera sposa la pace, che, lui dice, deve essere fondata sulla verità, la libertà, la giustizia e l’amore.
È bastato infatti che l’Occidente smettesse di avere paura – perché il suo nemico aveva cessato di esistere – e la guerra se l’è ripresa in casa, l’ha rimessa al suo servizio; è bastato che finisse il comunismo, che con la caduta del muro venisse meno l’alternativa socialista, è bastato che il terrore perdesse i suoi costosi denti atomici per andare a rifugiarsi nelle povere carni dei terroristi suicidi, perché l’Occidente di tutta fretta rimettesse al suo posto la guerra, e lo ha fatto già nel 1991 con la prima guerra del Golfo.
Ma come poteva farlo dato che l’aveva screditata, svergognata, data per folle e ripudiata? Ci voleva una riabilitazione, un lavacro rigeneratore, quasi un nuovo battesimo. E questa fu la grande operazione mediatica messa su nel 1990 e 1991, l’imponente campagna d’opinione condotta da tutti i persuasori, mediatici e politici, grazie all’invenzione della guerra del Golfo. Ci voleva infatti una bella fantasia a fare una guerra, quasi una guerra mondiale, per il Kuwait, che in realtà non stava a cuore a nessuno, e che in ogni caso si poteva restituire alla sua sovranità mediante negoziati, e non con la guerra. Il Kuwait non era Danzica, e nessuno voleva morire per il Kuwait. Ma il fatto è che intanto la guerra aveva cambiato natura, perché ormai si moriva da una parte sola, e chi decideva di farla, credeva di farla ormai a buon mercato; ed è così che irresponsabilmente veniva inaugurato un tempo in cui, ripristinata la guerra, l’unica guerra possibile per i poveri fosse il terrorismo.
In ogni caso per quanto fossero ingenti le risorse impiegate per riabilitare e ripristinare la guerra, essa non poteva più essere richiamata come sposa, come regina; poteva essere ripresa solo come prostituta. Ripudiata come Vasti, sostituita col terrore, la guerra veniva recuperata come Rahab, la prostituta di Gerico che per salvare se stessa aveva tradito il suo popolo e l’aveva consegnato al genocidio. Ma poichè Rahab aveva finito per diventare la sola isola di salvezza in mezzo allo sterminio, era stata idealizzata e celebrata come la “casta meretrix”, la prostituta sacra, al punto che sant’Ambrogio orrendamente l’assimilò alla Chiesa, che perciò fu chiamata anch’essa “casta meretrix”.

La ragione di Stato come ideologia sacrificale

Non più come sposa ma come prostituta, la guerra non poteva più essere al servizio dei popoli, ma solo dei poteri che dominano i popoli. E infatti non più eserciti di leva, popoli in armi, la guerra meretrice non poteva che essere fatta da mercenari. E al suo servizio veniva messa di nuovo una ragione che non è solo una ragione, ma taglia corto a tutte le ragioni, la ragion di Stato.
Ho visto un film inglese di un regista sudafricano (Gavin Hood), “Il diritto di uccidere”, la cui protagonista è per l’appunto la ragion di Stato. Vi si esibivano le nuove modalità di violenza che sono rese possibili dalle attuali tecnologie, e in particolare la guerra che viene condotta con i droni e le uccisioni che vengono perpetrate da grandissima distanza. Il film racconta di un’operazione militare inglese, condotta dal Nevada, che coinvolge politica, diritto e Stati maggiori d’America e d’Inghilterra, operazione che consiste nell’uccidere a Nairobi con due missili lanciati da un aereo senza pilota quattro terroristi che in una casa stanno indossando i giubbotti esplosivi per andare a fare altrettanti attentati terroristici. Il problema è che davanti alla casa che dovrà essere distrutta c’è una bambina keniota che vende il pane. Un caso da manuale: quale ragion di Stato più forte che uccidere quattro terroristi che stanno per compiere chissà quali stragi? Ma c’è la bambina che non c’entra niente. C’è l’innocente. Che fare? Procedere con l’operazione o fermarla?
Ci si consulta in tempo reale attraverso mezzo mondo (siamo in tempo di globalizzazione), sono coinvolte cancellerie, sale operative, primi ministri, segretari di Stato, consulenti giuridici e procuratori, perché sia chiaro che a decidere non è una persona sola, magari un colonnello spietato, ma a decidere è tutta la catena di comando, è tutto il sistema, è il sistema mondo, o almeno è il sistema Occidente. E la decisione è per il sacrificio: è bene che la bambina innocente muoia perché il mondo sia salvato.
Messe così le cose è probabile che la maggior parte delle persone sia d’accordo, perché in quella ragion di Stato c’è implicita l’idea di un male minore, e perché che cosa si vuole di più dall’etica dell’Occidente, dalla sua nobiltà d’animo, dalla sua gloria? Prima di uccidere quattro terroristi assassini si è perfino preoccupato che di mezzo ci fosse una bambina di colore, si è chiesto se quel “danno collaterale” fosse più o meno accettabile. E la ragion di Stato ha risposto di sì.
Da questo apologo è chiaro che della guerra fatta dai grandi poteri che siedono nei loro uffici a migliaia di chilometri di distanza, sono i popoli a pagare le spese. Per questo è stato necessario che la nuova guerra fosse loro venduta come desiderabile, che fosse truccata, imbellettata, prostituta sì, ma prostituta sacra, innocente e casta. E così si è andata tessendo la grande apologia della guerra, dal primo al secondo Bush, dalla Thatcher a Sarkozy, da Netaniahu a Bin Laden, da Blair a D’Alema. E così abbiamo avuto le guerre umanitarie, le guerre giustizia infinita, le guerre per la democrazia, le guerre per punire i dittatori o gli infedeli; così nasceva la guerra per punire gli Stati canaglia, gli Stati zizzania come li chiamava il giovane Bush, che ogni sera diceva di piangere sulla spalla di Dio, e addirittura nasceva la guerra perpetua, cioè senza fine dei giorni, senza vincoli di legittimità, investita perciò degli stessi attributi di Dio. Prima ancora che Al Qaeda o lo pseudo califfato dell’ISIS indicessero la Jihad, la guerra santa era stata restaurata e rilanciata dall’Occidente.

La guerra come questione teologica

È a questo punto che la questione della guerra e delle sue ragioni diventava radicale. Non poteva più essere una questione solo politica, non poteva più essere una questione solo etica, non poteva essere una questione umanitaria. Diventava una questione teologica, un capitolo della Rivelazione. Se di valore in valore l’ultimo valore a cui la guerra era appesa era il valore di Dio, il Dio che nei secoli era stato invocato, acclamato e celebrato come il Dio della vittoria, il Dio degli eserciti, il Dio del giorno della vendetta, il Dio forte e terribile, il Dio sterminatore che aveva fatto il suo esordio uccidendo i primogeniti degli egiziani per mandare liberi gli ebrei, allora il modo per uscire radicalmente dalla guerra era quello di una nuova Rivelazione di Dio, era il purificare l’immagine di Dio, togliere Dio da qualsiasi giustificazione e legittimazione della guerra, era di fare in modo che mai più un vescovo di Ragusa potesse consacrare una chiesa in un campo di missili come a Comiso.
E ciò è appunto quello che è avvenuto con papa Francesco, che a Gerusalemme come a Redipuglia, in Albania come in Bangladesh, sulla tomba di don Milani come domani su quella di Tonino Bello, dichiara semplicemente, icasticamente, che il Dio della guerra non esiste. Rispetto al Dio della guerra noi siamo atei.
Egli ha potuto dirlo perché ha preso in mano il Vangelo, e ha preso sul serio la previsione fatta da Gesù a Pietro quando gli ha detto: ora non capisci, ma dopo capirai; e perciò Francesco cerca di capire e di far capire quello che prima non si era capito, anche delle Scritture, anche del Vangelo, anche da parte dei dottori e degli esegeti. Cioè ha tirato giù la rivelazione di Dio dagli archivi, e l’ha fatta diventare una realtà contemporanea, quotidiana, che avviene nell’oggi. Erano 1500 anni che non succedeva, da quando Gregorio Magno aveva detto che i divina eloquia, la Scrittura, cresce con chi la legge.
Per questo lo odiano. Per questo sabato scorso a Roma si è riunita l’antiChiesa, cento persone con due cardinali due vescovi e un diacono che gli hanno lanciato contro una specie di libello di ripudio, perché non vogliono che il Vangelo si muova, che l’ordine globale sia cambiato e non vogliono la libertà del cristiano. Ma era come un tentativo di evocare dal buio del passato una Chiesa che non c’è, una specie di rappresentazione in costumi d’altri tempi; perché né il cardinale Burke è un cardinale Caetani che può fare fuori un papa, né papa Francesco è un Celestino V sceso dal Morrione con la sua immensa pietà ma povero di teologia.

Se Dio è non violento, anche l’uomo può esserlo

In realtà papa Francesco non è arrivato a questa professione di fede da solo. C’era arrivata tutta la Chiesa, a partire da papa Giovanni, dal Concilio, dalla Chiesa di Bologna, da monsignor Romero, da Tonino Bello, fino al documento di altissimo valore teologico curato e firmato dal cardinale Muller, che segna un definitivo congedo dal pensiero della violenza di Dio. Vi si trova una formale presa di distanza da tante pagine della Scrittura, difficili a sopportarsi, che parlano di un Dio guerresco e violento, vendicatore e duce di un solo popolo. Si tratta di un documento della Commissione Teologica Internazionale intitolato “Il monoteismo cristiano contro la violenza”, pubblicato a Roma nel 2014, nei primi mesi del pontificato di Francesco, ma frutto di una lunga elaborazione precedente. È un documento che nasce con una intenzione apologetica, perché si trattava di difendere il monoteismo cristiano contro l’accusa che professando un Dio unico fosse causa di violenza. Esso ammetteva però che questa falsa immagine di Dio era veicolata da molte pagine della Scrittura, che erano tuttavia il prodotto di un fraintendimento umano. La ragione teologica profonda per cui questa rappresentazione di Dio andava congedata era che essa è in contrasto con il dogma fondamentale del cristianesimo, quello del rapporto trinitario tra il Padre, il Figlio e lo Spirito, che non può essere altro e non può esprimersi altrimenti che come amore. Al “kairós dell’irreversibile congedo del cristianesimo dalle ambiguità della violenza religiosa”, secondo il documento vaticano, bisognava riconoscere “il tratto di svolta epocale che esso è obiettivamente in grado di istituire nell’odierno universo globalizzato”; un trapasso d’epoca che comporta un cambiamento non solo del cristianesimo, ma dell’idea stessa di religione, e perciò di ogni religione.
Questo hanno scritto i teologi della Commissione Teologica Internazionale scelti da papa Ratzinger e incaricati di liberare il volto di Dio dalla maschera della violenza, e questo ha firmato il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede cardinale Muller, che pur oggi si vorrebbe contrapporre a Francesco e alla sua teologia.
Questa è dunque oggi la parola della Rivelazione, non solo di papa Francesco ma di tutta la Chiesa; la parola che ci dice che è avvenuto qualcosa, che per vincere la violenza, per fare della pace la sposa e la regina del mondo, oltre ogni ragione, sta cambiando lo stesso cristianesimo, e anzi cambia l’idea stessa di religione. Il cristianesimo certo, ma a questa conversione sono chiamati anche Israele, l’Islam e le altre religioni e antropologie dell’umanità. Se in Dio non c’è violenza, può non esserci violenza anche nella sua immagine, l’uomo e la donna fatti a somiglianza di lui.
Raniero La Valle.

Siamo realisti, cerchiamo l’impossibile

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Dall’utopia a un programma di governo
di Roberta Carlini.

«Perché dovrebbe importarmene delle generazioni future? Cosa hanno fatto loro per me?». Inizia così, con una battuta di Groucho Marx, un libro sul quale è bene spostare l’attenzione, distraendola dal copione delle trattative preliminari alla formazione dei futuri equilibri di potere, e spostandola sui contenuti di un’azione di governo. Il libro si intitola «L’utopia sostenibile», l’autore è Enrico Giovannini (Laterza 2018).
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Economista, statistico, già presidente dell’Istat e già ministro del lavoro (nella breve parentesi del governo Letta, quella chiusa dallo scampanellio arrembante di Renzi: sembra un secolo fa), Giovannini ha legato gran parte della sua attività nell’ultimo quindicennio al tema della sostenibilità. Lavorando, dall’Istat e dall’Onu, sulla revisione degli indicatori, poiché sono i numeri che spesso ci indicano quel che dobbiamo fare oppure ci delimitano i sentieri per farlo: dall’Istat, ha posto le basi per il passaggio dalla misurazione del Pil (prodotto interno lordo) a quella del Bes (benessere equo e sostenibile). Ha fondato l’Alleanza italiana per lo sviluppo equo e sostenibile, che diffonde la cultura della sostenibilità, tra le altre cose con un festival annuale – che quest’anno si svolgerà dal 22 maggio al 7 giugno, con eventi sparsi in tutt’Italia.
L’utopia è un non luogo, un’aspirazione, una tendenza continua che, per definizione secolare, è destinata a non realizzarsi ma a seminare futuro. Eppure, il libro di Giovannini è un programma concreto per l’utopia. È difficile che gli economisti, alle prese con i vincoli legati alle risorse scarse, si occupino di utopie. Eppure necessario, visto che – ha spiegato Giovannini qualche giorno fa nel corso di una presentazione romana del suo libro, nella sede di una biblioteca comunale intitolata a Tullio De Mauro – «la vera utopia sarebbe pensare di poter restare nella situazione in cui siamo». A quarantasei anni dall’evento che introdusse lo sviluppo sostenibile nel dibattito pubblico e istituzionale, il Club di Roma del 1972 sui limiti ambientali allo sviluppo, molte cose sono cambiate. Vertici e trattati internazionali hanno via via fissato princìpi, individuato obiettivi, vincolato i governi su carte e trattati. Nei contenuti, il salto più importante è stato nel passaggio a una concezione ampia della sostenibilità: non ci si riferisce più al solo tema ambientale. L’insostenibilità del saccheggio del pianeta è scientificamente provata, il cambiamento climatico obbliga ad azioni immediate e concrete, dunque l’ambiente resta al primo posto nell’agenda della sostenibilità. Ma questa si arricchisce di altri pilastri necessari: quello sociale, quello economico e quello istituzionale. Non è insostenibile solo il fatto che – per stare solo ai numeri italiani – ogni anno muoiono 60mila persone a causa dell’inquinamento; ma anche il fatto che 4,7 milioni di persone vivono al di sotto della soglia della povertà, oltre 2 milioni di giovani non lavorano né studiano né fanno formazione, che il 5% delle famiglie più abbienti detiene la stessa ricchezza del 75% delle famiglie meno abbienti, che il 18% delle case esistenti è abusivo e che l’80% delle specie ittiche è in condizioni di sovrasfruttamento.

retroutopia
agenda-svil-sostQuesti non sono giudizi morali o politici, ma scostamenti, statisticamente individuati e misurati, dagli obiettivi che noi stessi, come comunità, ci siamo dati: i Millennium Goals, gli obiettivi per il 2030 firmati nel 2015 nella conferenza di Parigi. Se le tendenze restano quel che sono, mancheremo la gran parte degli obiettivi. Siamo già adesso indietro quasi su tutti, in particolare per l’aggravamento della diseguaglianza sociale ereditata dalla crisi e per il nulla di fatto per la difesa dell’ecosistema e dell’acqua. Eppure, non se ne parla, come se quelle carte fossero solo un belletto messo in occasioni ufficiali, e la vera politica, i veri programmi, le cose davvero importanti si svolgessero altrove. La stessa Europa, che «è stata finora la campionessa mondiale dello sviluppo sostenibile» per gli impegni presi e scritti nelle sedi internazionali, al suo interno ha aggravato l’insostenibilità, e procede con grandissime differenze da Stato a Stato. Dando così ragione alla versione scettica e banalizzante della parola «utopia»: bei propositi, ma nel mondo dei sogni; la realtà è un’altra. E negando che, invece, proprio la realtà ci mostra la necessità e l’urgenza di muoversi. Anzi, ci siamo già mossi, però in direzione opposta a quella dell’utopia: quella che Bauman ha chiamato la «retrotopia», ossia la tendenza a cercare rifugio nel passato; di fronte all’aumento del disagio sociale, dell’incertezza sul futuro, della povertà materiale e dei dissesti ambientali, della tecnologia che crea disoccupazione e della globalizzazione che taglia le fabbriche, invocare e sognare il ritorno a un’età dell’oro che forse non è mai esistita. Un’età spesso collegata a un mondo più facile, più chiuso, nel quale si possono presidiare i confini da persone e merci, nel quale la propria Nazione era grande (l’America first di Trump e i sogni della grandezza imperiale della Brexit), e difendere un’identità rassicurante di fronte a cambiamenti tutti vissuti in modo negativo.

l’appello alla ragione contro quello alla pancia
Qui arriva la parte più interessante del libro, che è politica. Dopo aver ripercorso le tappe istituzionali e storiche della evoluzione delle «utopie sostenibili», aver chiarito e raccontato il ruolo della statistica, del potere dei numeri nel tracciare le politiche, Giovannini entra nel mezzo della questione che sta invadendo e scuotendo le nostre democrazie, mettendone a rischio la tenuta anche dal punto di vista istituzionale. Succede ogni volta che, in nome di una «retrotopia», vince chi parla al cuore (alla pancia, si dice spesso) delle tante persone danneggiate, o solamente impaurite, dagli enormi cambiamenti che tutti insieme ci sono precipitati addosso. Non si vince contro queste tendenze difendendo lo status quo o continuando a proporre ricette basate su un modello economico-politico che non funziona più, dai punti di Pil che risalgono alle spinte vecchio stile all’economia. «Mi rendo perfettamente conto – scrive Giovannini – che non si vincono le campagne elettorali spaventando gli elettori con scenari catastrofici senza indicare le possibili soluzioni, ma credo sia altrettanto evidente che vincere una campagna elettorale con promesse mirabolanti basate sul ‘vecchio paradigma’ non seguite da un significativo e duraturo miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini renderebbe estremamente difficile non solo la rielezione, ma la stessa ‘tenuta’ delle società democratiche: infatti, la sfiducia nelle istituzioni e in chiunque abbia governato in passato, a tutto beneficio di ‘facce’ o ‘storie’ nuove, comprese quelle basate su messaggi cosiddetti ‘populismi’ o ‘antisistema’, non farebbe che aumentare, con significativi rischi per l’assetto faticosamente costruito in Europa negli ultimi sessant’anni».

trasformare l’utopia
in programma di governo

Difficile non vedere in queste parole, scritte prima delle elezioni italiane di marzo, una sceneggiatura di quel che poi è successo. L’appello alla «ragione» contro quello alla «pancia» non ha perso solo perché difficile, complesso, a suo modo elitario; ma perché ha invocato una ragione smentita dai fatti, un accompagnamento dell’esistente – che basterebbe solo raccontare e gestire meglio, nell’idea della ex-sinistra che ha perso il governo – che non ne ha compreso l’insostenibilità.
Quale l’alternativa allora, per chi non vuole limitarsi ad agitare catastrofi e cavalcare paure? Nel libro, scritto per la divulgazione e non come saggio scientifico, Giovannini si sforza di trasformare l’utopia in un programma di governo, individuare obiettivi raggiungibili e i percorsi per arrivarci, chiarire quello che si può fare in una singola nazione e quello che deve necessariamente essere fatto a livello sovranazionale, europeo per cominciare. Ci sono passi concreti, politiche specifiche e passaggi con valore simbolico – come nella proposta di introdurre il principio della sostenibilità in Costituzione. Ma soprattutto quello che ci serve, scrive Giovannini, è un cambiamento di mentalità, senza il quale «non potremo realizzare la trasformazione necessaria del nostro mondo al tempo dell’Antropocene. Essere diventati così potenti da determinare addirittura le caratteristiche di un’era geologica richiede a tutti noi di assumere una piena responsabilità per la gestione comune della nuova condizione in cui ci troviamo. D’altra parte – aggiunge – questo è esattamente ciò che papa Francesco intende quando si richiama alla necessità di una ‘ecologia integrale’ in grado di tenere insieme l’ecosistema e quello che ho chiamato ‘sociosistema’». Dunque, «sviluppare tecnologie ri- solutive, migliorare la governance delle nostre società, cambiare mentalità. Difficile, ma non impossibile».
Roberta Carlini

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Sullo stesso tema
pandora-22-2
Da Pandora: recensione di Giulio Andrea Del Boccio.

Settimana Santa

giovedi-santo-liciaGesù lava i piedi ai discepoli.
Ford Madox Brown, 1851 (Pittore preraffaellita).

lampadadialadmicromicro133Riflessioni: Ci vuole “spirito di servizio” a partire da chi sta più in alto.
Ci vuole “spirito di servizio” a partire da chi sta più in alto.

di Franco Meloni, su Aladinews di giovedì santo del 4 aprile 2012.

Dal Vangelo secondo Giovanni 13, 4-54 si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. 5 Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto. 

La chiesa cattolica nella liturgia del giovedì santo, nella messa in coena Domini, rivive il gesto della lavanda dei piedi riportato nel testo dell’evangelista Giovanni. L’episodio è significativo di un atteggiamento di umiltà del Maestro nei confronti dei suoi discepoli e possiamo correttamente ricondurlo simbolicamente ad un atteggiamento “di servizio”, come si diceva un tempo. Ma il concetto è purtroppo in disuso, proprio nel momento in cui sarebbe salutare farvi ricorso. Riportando questo quadro nelle organizzazioni, il Maestro può correttamente simboleggiare il “superiore gerarchico” (il presidente, il rettore, il direttore, il dirigente, etc), mentre i discepoli possono rappresentare i suoi collaboratori o i cittadini-utenti tutti (qui però tralasciamo questa possibile ulteriore estensione). Perchè ci piace fare questa trasposizione, evidentemente apprezzando il gesto della lavanda dei piedi e di tutto quanto può rappresentare nel rapporto capo-collaboratori? Perchè crediamo che oggi vi sia necessità di recuperare un concetto fondamentale: chi per nomina, elezione o eredità si trovi ai vertici di un’organizzazione, sia essa un’impresa, una pubblica amministrazione, un partito politico, un’associazione, una famiglia o quant’altro, deve sentirsi e comportarsi non come un padrone al di sopra di tutto e di tutti, ma piuttosto come titolare di una funzione di servizio verso la stessa organizzazione e la società in generale. Al contrario, purtroppo, si verifica troppo spesso che chi si trova in posizioni di comando in un’organizzazione pensa di poterne disporre a suo piacimento, quasi come l’avesse “vinta al lotto” e si comporta nei confronti dei collaboratori adottando lo schema padrone-servo.  E invece oggi più che mai abbiamo bisogno di “spirito di servizio”, che si traduce in disponibilità all’ascolto, rispetto e valorizzazione delle persone, coinvolgimento di tutti nel perseguimento delle missioni e degli obbiettivi delle organizzazioni. Nella scala delle responsabilità in tutte le organizzazioni più si è in alto nelle posizioni gerarchiche più si ha il dovere di farsi carico dei problemi o, com’è pertinente dire nella settimana di Passione, di portare la croce.

IL PAPATO SI RINNOVA ED È DI NUOVO PROTESTA

dicono-le-donneimg_4810di Raniero La Valle
Scegliete oggi chi volete servire (Gs 24,15)

Notizie da
Chiesa di tutti Chiesa dei poveri
Newsletter n. 76 del 20 marzo 2018

QUESTI PAPI

Cari Amici,
per gli arruolati al partito antipapista la testimonianza dell’ex papa Benedetto XVI a sostegno di papa Francesco, a conferma della sua sapienza teologica e della continuità del suo pontificato con quello precedente, è arrivata come una sciagura. Così hanno cercato di azzerarla, svelando che nella lettera dell’ex papa c’era anche una riserva per uno dei teologi che aveva collaborato alla collana pubblicata dalla Libreria Editrice Vaticana per i primi cinque anni di pontificato. Ma per quanto la critica a uno degli autori della collana potesse essere fondata, ciò nulla toglie alla notizia principale, che sta nel rifiuto del precedente pontefice di prendere le parti o addirittura la guida della fazione anti-Bergoglio. La quale, dalla casamatta del blog dell’Espresso, annuncia ora per il 7 aprile a Roma una specie di Convenzione antagonista per pubblicare le Tesi di una nuova Protesta.
Tornando alla Chiesa, c’è da dire che questo strascico polemico seguito alla limpida presa di posizione dell’ex papa Benedetto, ha avuto il merito di portare alla ribalta, come oggetto di riflessione, la natura stessa del papato, anche al di là del giudizio sull’oggi. E ciò proprio perché è stato papa Benedetto a far cadere l’ostacolo che impediva un ripensamento della natura e del modo di esercizio del primato petrino, e perciò impediva la riforma del papato, condizione e volano della riforma della Chiesa.
L’ostacolo era che nel corso del secondo millennio cristiano il papato era stato fortemente mitizzato, quasi messo al posto di Dio. La manifestazione più vistosa nel Novecento se ne ebbe nella figura ieratica di Pio XII, il “Pastor Angelicus”; poi, dopo la parentesi di Giovanni XXIII, la mitizzazione giunse ai fasti di papa Wojtyla, che si disse avesse sconfitto da solo il comunismo e che le folle plaudenti volevano “santo subito!”.
Ma è in Paolo VI che il mito giunse alla sua massima crisi. Egli se ne era fatto custode, quando al Vaticano II aveva imposto (e aggiunto in via “previa”) una sua interpretazione restrittiva al documento conciliare sulla collegialità episcopale, per toglierne qualsiasi ombra che potesse offuscare la dottrina del primato e scolorire la figura del papa; e il 1 settembre 1966 in una sosta ad Anagni dove Bonifacio VIII aveva ricevuto il mitico schiaffo francese, rivendicò i meriti di quel ruvido papa “che più degli altri aveva affermato la più piena e solenne autorità pontificia” nel quadro concettuale “dei due poteri, uno spirituale l’altro temporale” disposti però su una “scala dei valori” per cui lo spirituale doveva prevalere sugli altri, e infiammò i fedeli così: “Questa comunità (la Chiesa) è organizzata e non può vivere senza l’innervazione di una organizzazione precisa e potente che si chiama la Gerarchia. Figlioli miei, è la Gerarchia che vi sta parlando, è il Vicario di Cristo che oggi è davanti a voi… Posso domandarvi, figlioli carissimi, questa grazia che voi certamente non mi rifiutate: amate il Papa, amate il Papa, perché senza alcun suo merito e senza certamente alcuna sua ricerca gli è capitata questa strana singolare vocazione di rappresentare Nostro Signore. Non guardate a noi, guardate il Signore di cui rappresentiamo…”, e la frase non finì per gli applausi. Ed è certamente per la forte coscienza di questa rappresentanza ricapitolata in lui che papa Montini compì i suoi gesti più estremi, come la Humanae Vitae, disattesa dalla Chiesa, o la decapitazione e riduzione al silenzio della Chiesa di Bologna.
Ma il mito si rovescia in tragedia quando Aldo Moro, nonostante la supplica montiniana alle Brigate Rosse che lo hanno rapito, viene ucciso. E nella preghiera agli agghiaccianti funerali di Stato che Moro aveva detto di non volere, Paolo VI si mostra sgomento perché lo scambio con Dio non ha funzionato, e lo interpella con un lamento che assomiglia più al “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” di Gesù, che alle rimostranze di Giona a Dio che si era pentito di voler distruggere Ninive e non l’aveva fatto. In tale lamento Paolo VI rompe nel grido e nel pianto la sua voce e si duole, quasi incredulo, con Dio: “Tu, o Dio della vita e della morte, Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, quest’uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico”; e tanto ne fu il dolore, che dopo pochi mesi Paolo VI morì.
E infine giunge Benedetto XVI, “il papa teologo”, che pone soavemente l’atto più eversivo del mito, con le sue dimissioni da papa, demitizzando in tal modo il papato. E proprio da lì comincia la riforma della Chiesa.
Ma in quale direzione? La disputa intorno alla lettera di Ratzinger su Bergoglio è stata su chi fosse il papa più teologo, o sul negare che Francesco fosse teologo. L’errore di questa disputa stava nel presupposto secondo cui il necessario predicato del papa è “professione teologo”. Certo deve saperne di teologia, però la professione di Pietro non era teologo, ma pescatore. Così lo prese Gesù, e con lui anche gli altri. Del resto anche come pescatori lasciavano a desiderare, e se non era per Gesù che faceva gettare le reti e distribuire i pesci, le folle restavano digiune.
Il papa non è lo scienziato di Dio, ma ne è il messaggero. Il termine stesso “teologia” del resto è esagerato. Non c’è una “scienza” di Dio, Dio non si può racchiudere nella nostra conoscenza, non sta lì, sta “in una brezza leggera”. Dice il vangelo di Giovanni: Dio nessuno l’ha mai visto, è il Figlio che lo svela, che lo racconta, che ne fa “l’esegesi”. Dunque a rigore c’è un solo teologo, che è Gesù, come un solo maestro, che è lui.
Perciò papa Francesco non deve passare al vaglio di un’accademia, e non sono su questo piano la continuità e le differenze col suo predecessore. Per questo è così affascinante la domanda su chi è veramente Francesco, e per quale forza sta cambiando, presso l’uomo moderno, l’idea stessa di religione.
Sono questi i temi dell’articolo che pubblichiamo, “Professione teologo o pescatore”, sui quali dovremmo continuare a discutere. Inoltre riprendendo il tema dell’innovarsi nel tempo dell’annuncio messianico cristiano, pubblichiamo un articolo di Carlo Molari sulla Parola che “non si conserva in naftalina”. Di papa Francesco pubblichiamo uno stralcio dell’ultimo discorso ai giovani.
Intanto, per la politica, la cosa più urgente da fare è di abolire, vista la perversione in corso, il reato di favoreggiamento all’immigrazione clandestina (art. 11 della legge Bossi-Fini).

Con i più cordiali saluti
www.chiesadituttichiesadeipoveri.it
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Su la Repubblica.it 2018
LA CONTINUITÀ DELLA FEDE
di Enzo Bianchi
Poche righe, essenziali nella loro schietta semplicità, per far tacere uno «stolto pregiudizio» e riaffermare una verità profondamente cattolica. Benedetto XVI ha voluto mettere nero su bianco quello che il sensus fidei presente nel popolo di Dio aveva capito da subito e che invece i pochi ma agguerriti oppositori di papa Francesco si ostinano a negare: «La continuità interiore tra i due pontificati». Sottolineare i cambiamenti, gli accenti, le differenze, le novità degli ormai cinque anni del pontificato di papa Francesco non implica una critica né tantomeno una contrapposizione rispetto a Benedetto XVI: solo una lettura distorta del ministero petrino, infatti, non riesce a vedere come la continuità riguardi la fede professata, mentre gli stili, i modi di presiedere, di essere pastore e manifestare la sollecitudine per le urgenze dell’umanità possono e, in certa misura, devono essere diversissimi, perché i doni del Signore sono diversi tra loro.
Nella sempre lucida e attenta sollecitudine per la Chiesa che lo anima anche dopo la rinuncia al ministero petrino, Benedetto XVI ha ritenuto urgente e doveroso far sentire la sua voce per il bene del popolo di Dio e la sua unità attorno al vescovo di Roma: come pastore che non cessa di avere a cuore il suo gregge, ha usato la sapienza teologica sua e degli autori dei saggi sul pensiero di papa Francesco per «opporsi e reagire» a fronde pretestuose di chi confonde la trasmissione del messaggio evangelico da una generazione all’altra con la nostalgia per forme che hanno perso l’aderenza alla sostanza dell’annuncio cristiano.
Così, nella lettera che Benedetto XVI indirizza al prefetto della Segreteria della Comunicazione del Vaticano non vi è cedimento alla bassa polemica dei detrattori di Bergoglio, bensì la conferma di come ogni vescovo di Roma presiede alla carità usando al meglio la policroma varietà di carismi che ha avuto in dono. Tra le righe si può tuttavia leggere anche una velata ironia da parte di Benedetto XVI che ricorda come la pretesa contrapposizione tra i due papi finisca non solo per negare autorevolezza teologica a Francesco, ma anche per considerare il suo predecessore « un teorico della teologia che poco avrebbe capito della vita concreta di un cristiano oggi».
Questa profonda lettura della continuità del magistero papale — che in termini di fede altro non significa che la certezza che lo Spirito santo non abbandona mai il popolo di Dio — era del resto emersa nell’intervista che Benedetto XVI aveva concesso ad Avvenire due anni fa e su un tema, quello della misericordia, che tanto preoccupa gli odierni «profeti di sventura». Papa Francesco è entrato nella «continuità interiore» dell’annuncio della misericordia proclamato solennemente da papa Giovanni XXIII nel discorso di apertura del Concilio, riaffermato da Paolo VI e da Giovanni Paolo II e ribadito dal cardinal Ratzinger prima e dopo la sua elezione al soglio di Pietro: Benedetto XVI, come papa Francesco, sa guardare all’umanità con occhi profetici, discernendola in attesa di chi la guardi, se ne prenda cura, la perdoni, la rialzi, le dia speranza. Questo magistero pontificio, in piena continuità, vuole incontrare gli uomini e le donne di oggi che sono in attesa soprattutto di misericordia perché questa sembra mancare nelle relazioni umane, sembra affievolirsi e non far più parte della grammatica umana. Ciò non significa negare o sottacere il retroterra teologico e accademico diverso tra i due papi, né la diversità di approccio nel rinnovare la tradizione cristiana, nell’applicare l’aggiornamento auspicato da papa Giovanni e dal Concilio. La differenza non deve fare paura, bensì mostrare la bellezza delle diverse sfaccettature che la Chiesa assume nel corso della storia e nel suo essere comunione che abbraccia comunità di fede sparse nei cinque continenti. Con buona pace di chi semina zizzania e si diletta a contrapporre la «formazione teologica o filosofica» alla capacità di comprensione della «vita concreta del cristiano» di oggi e di sempre. E con profonda gratitudine per «tutte le differenze di stile e di temperamento » che caratterizzano Benedetto XVI e Francesco.
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Elezioni. Dichiarazioni di voto. Ma, ovviamente, ciascuno decida come più crede: votare, non votare, scegliere…

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AutodetermiNatzione
img_4633 marco-meloniMarco Meloni img_4614
Voterò AUTODETERMINATZIONE
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Liberi e Uguali
img_4633 gianni-pisanu-costatleuGianni Pisanu.
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Voterò LIBERI e UGUALI
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Movimento 5 Stelle
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il-nuovo-logo-del-movimento
Pino Calledda.
Voterò Movimento 5 Stelle
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Potere al Popolo
img_4633 piero-carta-toscanoPiero Cartapap_tondo
Voterò POTERE AL POPOLO
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disperazione Aladin[Vanni Tola su fb] IO NON VOTO.
Programma di sopravvivenza per domani. Dalle 7 alle 23 si vota (si può anche non votare, io farò così). (Segue)

Elezioni

sedia di VannitolaLa sedia
di Vanni Tola
img_4633Elezioni: arma di distrazione di massa? La sorpresa potrebbe essere una diffusa diserzione del voto.
Entro certi limiti appare ovvio e scontato che le elezioni politiche siano l’argomento principale dei Media. Da lì a cancellare quasi totalmente tutto ciò che accade intorno a noi c’è una bella differenza. E non sono fatti di poco conto. Una piattaforma petrolifera dell’Eni diretta in una parte del mediterraneo importantissima per i suoi giacimenti di petrolio, è bloccata in alto mare circondata da navi militari che mettono in discussione i contratti che l’Eni ha ottenuto per le trivellazioni in quell’area geografica. Una vasta parte del Mediterraneo nella quale si trovano vastissimi giacimenti petroliferi che attribuiscono a quella parte di mare un valore strategico per i paesi limitrofi. Un luogo intorno al quale soffiano crescenti venti di guerra, una miccia accesa che se non disinnescata immediatamente potrebbe determinare l’avvio di un conflitto bellico a due passi da casa nostra. E noi tutti li, davanti ai televisori, ad assistere alle rappresentazioni del teatrino della politica con i vari Di Maio, Renzi, Salvini e l’immarcescibile ex cavaliere che continua a scendere e riscendere in campo in una sorta di moto perpetuo. Trump, il funambolico presidente americano, ha appena annunciato che intende rilanciare la corsa all’armamento nucleare e convenzionale facendo carta straccia di tutti gli accordi internazionali per il disarmo e la progressiva distruzione delle armi nucleari e promettendo la realizzazione di “mini” atomiche più facilmente trasportabili e meglio impiegabili nei conflitti “locali”. Quasi nessuno se ne preoccupa pur sapendo che tali decisioni del presidente Trump comporteranno, per conseguenza diretta, una generalizzata ripresa della corsa agli armamenti in molti altri paesi del mondo accrescendo il pericolo di conflitti internazionali dalle conseguenze inimmaginabili. Il traffico di migranti e gli sbarchi in Italia sono ripresi e crescono nonostante i dati governativi parlino di un consistente calo degli stessi. Si sa ma non si dice. Motivazioni di carattere elettorale impongono di blindare la cosi detta vittoria della linea Minniti e il suo scellerato patto sull’immigrazione con la Libia almeno fino al dopo elezioni. Analoga scelta è stata fatta per la discussione sullo Jus Soli, accantonata in attesa di “tempi migliori” per puro calcolo elettoralistico. Va bene cosi alla sinistra renziana ma anche alla destra fascista e xenofoba che dal permanere di tale condizione trae linfa per la propria campagna elettorale. L’Italia continua a essere un paese in guerra – come ha puntualmente denunciato Gino Strada – e nessuno dei partiti impegnati nella campagna elettorale fa sentire parole di denuncia contro questa palese violazione di uno dei punti fermi della nostra Costituzione, il ripudio della guerra per la risoluzione di conflitti tra popoli e nazioni. Partono i nostri soldati, questa volta verso l’Africa. Risolviamo tutto definendo tali azioni “missioni di pace” e ciò basta per rendere tutto lecito perfino la produzione nella nostra Isola di bombe da destinare ai belligeranti. A noi, o meglio a molti di noi, sembra interessare soltanto la conclusione della campagna elettorale e andare al voto. Tutto concorre a farci credere che questo sarà il nostro unico scopo di vita per le prossime settimane. Circolano con abbondanza i soliti e poco attendibili sondaggi che ci dicono perfino quale sarà il risultato del voto con un largo anticipo. Votare è bello, votare è giusto, votare é doveroso, non si ammettono obiezioni in proposito. L’informazione nel suo complesso e quella televisiva in particolare, insistono su questo, stanno sulla notizia, dando per scontato che l’unico comportamento possibile, quello atteso, sarà il voto. Poco ci si sofferma sul fatto che un buon trenta per cento degli elettori (forse anche più) non andrà a votare esercitando un diritto di scelta legittimo almeno quanto quello al voto. (segue)

Gli editoriali (e altro) di Aladinews

lampadadialadmicromicroimg_4794Il 68 dei cattolici
di Dolores Deidda, su Rocca, ripreso da Aladinews.
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Faber Faber Bomeluzo testonesedia di Vannitola
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democrazia-economica-510 Lo Stato non si abbatte, si cambia! Verso la ricerca instancabile di democrazia. La politica non sempre è garante della natura libertaria del “paternalismo” dello Stato. Gianfranco Sabattini su Aladinews.
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Faber

Faber Bomeluzo testonesedia di VannitolaDe André, la Messa è finita, andate in pace. Abbiamo celebrato il rito della visione della fiction sulla vita di Fabrizio De André. Non potevamo non farlo, per molti di noi ha rappresentato e rappresenta ancora oggi una sorta di colonna sonora della nostra vita, ne conosciamo le canzoni, lo ascoltiamo spesso, lo rapportiamo ai nostri ricordi, a episodi della nostra vita. La fiction, era inevitabile, evidenzia alcuni aspetti della sua vita, delle sue scelte, delle sue paure e fragilità, del suo grande impegno creativo. E’ naturale che si riaprano discussioni, che ci siano elogi e critiche per il filmato, delusione, nostalgia. Perché allora l’invito iniziale “andate in pace”. Penso che ciascuno di noi conservi un’impressione, un’idea molto personale, un modo originale di interpretare l’opera e le scelte di questo grande personaggio che è compositore, musicista e poeta. Teniamoci la nostra personale lettura di Fabrizio e continuiamo a viverlo come abbiamo sempre fatto. Lasciamo ad altri le disquisizioni inutili.
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Il 68 dei cattolici

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di Dolores Deidda, su Rocca.

1. Il 68 è stato un fenomeno incubato a lungo nella società italiana a causa delle crescenti contraddizioni che hanno accompagnato il boom economico del Paese ma certamente connesso con il movimento internazionale che, fin dalla metà degli anni ’60, prese piede negli USA e in Europa dove l’apice fu raggiunto dal maggio francese.
Epicentro del movimento – di quello racchiuso nel periodo di tempo che va dal dicembre del 1967 al maggio del 1668 – è l’università. A Milano, Torino, Trento e Pisa maturano le prime iniziative.
Nei primi mesi dell’anno le lotte si estendono all’insieme delle Università italiane ed alle scuole superiori. La richiesta degli studenti dell’abolizione della lezione cattedratica e la sua sostituzione con seminari di studio e di ricerca, diventa, la principale rivendicazione. Vengono proposti “controlezioni”, “occupazioni bianche”, “controcorsi”. La protesta all’inizio si concentra contro i principi autoritari, paternalistici, conformisti ed il modello di vita consumistico. I giovani rifiutano di lasciarsi integrare nelle strutture dell’apparato socio-politico dominante e arrivano a proporsi come forza sociale autonoma, con una propria identità.
Le istituzioni scolastiche sono chiaramente inadeguate a sostenere la scolarizzazione di massa verificatasi in quegli anni ma ancor più sono inadeguate ad interpretare le esigenze delle giovani generazioni.
In un quadro crescente di effervescenza politico-ideologica la contestazione diviene globale, rivolta contro tutte le organizzazioni istituzionalizzate, estendendosi alle grandi questioni internazionali dell’imperialismo e del bellicismo americano esasperato dalla guerra nel Vietnam. La scoperta della classe operaia come soggetto antagonista del sistema porta poi a ricercare un collegamento con la fabbrica interessata da un nuovo e straordinario ciclo di lotte operaie che culminerà nell’ “autunno caldo” del 69. Ma qui comincia un’altra fase del 68 italiano che lo vedrà distinguersi da altre esperienze, in particolare da quella francese, sia per le sue caratteristiche che per la sua durata e i suoi esiti.

2. Divergenti rimangono le valutazioni sul significato e la portata generale della contestazione studentesca. C’è chi sostiene, senza mezzi termini, che la rivolta sessantottina sia stata illusoria, una grande «sbornia» in una fase turbolenta della nostra storia, condividendo la stigmatizzazione di Pierpaolo Pasolini nei confronti della “ rivoluzione dei figli di papà” e la critica del sociologo tedesco Jurgen Habermas sull’incapacità degli studenti di andare oltre la fase provocatoria. C’è chi ritiene che il desiderio di “cambiare il mondo” fosse un buon proposito naufragato con le utopie marxiste o rivoluzionarie che hanno finito con il prevalere. C’è chi definisce quegli anni “formidabili” per il protagonismo assunto dalle nuove generazioni, capaci di far emergere le storture della società e di modificare in profondità i rapporti pubblici e privati. Da allora, “i rapporti tra padroni e operai, studenti e insegnanti, perfino tra figli e genitori, non sarebbero mai più stati gli stessi”, ha scritto Umberto Eco. Un processo capace, dunque, di segnare un prima e un dopo nella storia sia per il modo di porsi del mondo giovanile in rapporto alle istituzioni, sia per l’essere stato momento di avvio di una lunga stagione di azione collettiva destinata a mettere in discussione in modo radicale gli apparati di potere esistenti.

3. Sulle origini italiane del 68 sono in molti a riconoscere che una delle principali componenti va ricercata nel sommovimento che ha attraversato il mondo cattolico nella stagione post-conciliare, caratterizzata da ansie profetiche e spirito di radicale cambiamento portato dall’emergere di una coscienza nuova e contestativa negli ambienti più vivaci della cattolicità italiana, tesa a riscoprire la categoria terrena della costruzione della “città di Dio” in questo mondo.
Sui rapporti tra Concilio e Sessantotto cattolico, il giornalista Roberto Beretta sostiene che sostanzialmente si confrontano due tesi: “Quella più di destra sostiene che il Concilio ha fatto nascere direttamente il Sessantotto, rimuovendo certe solidità dogmatiche o liturgiche tradizionali della Chiesa. In pratica avrebbe scoperto una pentola dentro la quale stavano un sacco di venti nocivi che hanno creato la contestazione. La tesi più di sinistra, sostiene invece che il Sessantotto non è figlio del Concilio quanto piuttosto di una sua mancata applicazione”. Ma la sua tesi si colloca nel mezzo. “Non si può negare che ci sia stata una raccolta di linfe nel mondo cattolico, soprattutto quello intellettualmente e culturalmente più preparato che il Concilio aveva facilitato. C’era un’attesa, uno studio di testi, una circolazione di libri, di idee e di maestri, che il Concilio aveva messo in giro nel corpo della Chiesa italiana e che all’inizio soprattutto sembravano poter trovare l’applicazione migliore attraverso i moti del Sessantotto cattolico. Quindi è vero, che all’inizio è nato “conciliare”. Ma poi ha preso una sua strada. Più avanti ha scelto una strada che non era più sempre conciliare, a volte non era più neanche ecclesiale, e neppure più cristiana e religiosa”.
In effetti nel 68 italiano confluiscono altre componenti intellettuali, in particolare quelle legate a riviste quali Quaderni Rossi di Raniero Panzeri (chiusa nel 1966), capostipite di una serie di gruppi e movimenti politico-culturali, Classe Operaia di Padova, La Voce Operaia di Torino che, pur rappresentando esperienze minoritarie, si propongono l’impresa ambiziosa di revisionare la cultura della sinistra e assumono fondamentale importanza per la formazione politico-culturale della nuova sinistra.
4. I cattolici sono protagonisti fin della nascita del movimento studentesco a Milano, quando il 17 novembre 1967 viene occupata la Cattolica, l’ateneo fondato da padre Gemelli. Miglia di studenti sfilano per la città. È un fatto senza precedenti. Si avvia un dialogo tra gli studenti e le gerarchie. Il presidente dell’assemblea studentesca della Cattolica viene ricevuto in Segreteria di Stato dal Sostituto Giovanni Benelli. Ma lo strappo arriva inevitabilmente. Vengono espulsi gli studenti contestatori, a cominciare da Mario Capanna, il leader che guida l’occupazione e che, come altri leader del movimento studentesco, è cattolico praticante.
Anche alla Statale di Milano uno dei leader del Movimento Studentesco è Luigi Manconi, proveniente da una famiglia di stretta osservanza cattolica, egli stesso da studente liceale è animatore dei gruppi cattolici del dissenso in Sardegna.
All’Università di Trento (dove già nel ’66 si erano verificate agitazioni), i leader del movimento sono in prevalenza di estrazione cattolica. In particolare emerge la figura di Marco Boato (poi fondatore e capo di “Lotta Continua”), attivo in movimenti di ispirazione cristiana, nella FUCI, nelle ACLI e redattore di riviste quali «Dopoconcilio (a Trento) e «Questitalia (a Venezia). Margherita Cagol, che sarà la moglie di Curcio, ha anch’essa un passato da scout e da cattolica praticante.
Anche a Firenze, durante l’occupazione della facoltà di Giurisprudenza, si fa notare un giovane cresciuto nel cattolicesimo postconciliare che proprio in quella città aveva riferimenti di grande profilo, a cominciare da Giorgio La Pira. Piergiuseppe Sozzi da lì a pochi anni diventerà responsabile dell’organizzazione giovanile delle Acli, nel più turbolento periodo della storia dell’organizzazione.
Ma l’apporto dei cattolici al 68 non si può misurare solo per il ruolo che hanno assunto singoli leader direttamente impegnati nel movimento studentesco.

5. Certo è che nel 1968 il fenomeno del “dissenso”cattolico risulta molto esteso nelle diverse aree del Paese, toccando anche piccoli centri tradizionalmente assenti dai fermenti culturali. Si tratta di una galassia di realtà spontanee e di base (centri di studi politici e sociali, centri culturali, associazioni, gruppi parrocchiali, che comincia dialogare con il neonato movimento dell’università. Spesso i gruppi nascono intorno a riviste che sviluppano temi di impegno politico e culturale: Quest’Italia a Venezia, Note di Cultura e Testimonianze a Firenze, il Gallo a Genova, il Tetto a Napoli, solo per citare quelle più note.
Alcuni episodi di contestazione ecclesiale e di rottura di appartenenze politiche consolidate fanno da detonatore per tutta questa realtà: le forzate dimissioni di Raniero La Valle, direttore dell’Avvenire d’Italia, divenuto una delle voci più autentiche del rinnovamento conciliare; il successivo manifesto di accusa firmato da decine di associazioni, realtà di base, circoli (tra questi molti delle Acli) sulle responsabilità della gerarchia nel bloccare un discorso libero e pluralistico tra i cattolici; la presa di distanze di molti gruppi dal documento dell’episcopato italiano sul voto dei cattolici nel gennaio del 1968 (ancora proteso a raccomandare il voto unitario, ovvero democristiano); le dimissioni di Corrado Corghi dalla DC, dopo venticinque anni di responsabilità al suo interno, giustificate dall’inconciliabilità tra la sua coscienza di cristiano e le posizioni di politica estera del partito con riferimento alla tragedia del Vietnam; la candidatura di Gian Mario Albani, presidente delle Acli della Lombardia, nelle liste della sinistra indipendente; le dimissioni di Lidia Menapace da consigliera regionale e nazionale della DC; il cosiddetto “controquaresimale di Trento”, dove uno studente cattolico contesta pubblicamente il predicatore nella cattedrale; l’occupazione della cattedrale di Parma da parte di gruppi di giovani del dissenso all’insegna di una “chiesa dei poveri”; l’inizio della contestazione dell’Isolotto, il quartiere periferico di Firenze dove si consuma la rottura tra il parroco don Mazzi e il vescovo di Firenze, Florit.
L’Isolotto diventa immediatamente l’emblema della contestazione cattolica del ’68 e un riferimento anche per i non cattolici, esprimendo una “opzione per i poveri, i rifiutati, gli oppressi, gli affamati e assetati di giustizia”. E mentre la comunità di base di Firenze si collega con diverse realtà in lotta, costruendo legami con la Cattolica di Milano e con varie altre università, la Lettera ad una professoressa di don Milani diventa una sorta di “libretto rosso”, il manifesto del nuovo modello di educazione che il sessantotto intende introdurre: un’educazione non più nozionistica, paternalistica, autoritaria, classista.
6. I cattolici del dissenso alimentano il fenomeno dell’associazionismo. Aprono il confronto con altre esperienze provenienti da diverse radici culturali e politiche. Guardano ai gruppi di estrazione marxista o comunque laica che manifestano posizioni critiche nei confronti dei partiti della sinistra storica e con essi cominciano a creare esperienze di collaborazione. Guardano al movimento studentesco come soggetto in grado di operare nella prospettiva di un’innovazione profonda degli scopi della scuola e dell’università, perseguendo un cambiamento laico e anticlassista delle strutture culturali ed educative, trasformando i rapporti di potere interni alle medesime, agendo autonomamente, senza investiture partitiche.
Ricercano nuove forme di fare politica, attraverso la partecipazione dal basso, con uno spirito critico e dialettico, non riconoscendo più ai partiti tradizionali la volontà di operare per una vera e profonda trasformazione della società italiana e la rappresentanza delle nuove istanze sociali -pur non proponendosi come alternativa al sistema dei partiti.
La rivista Questitalia, diretta da Wladimiro Dorigo, si fa portatrice di un progetto di collegamento tra i circoli e gruppi spontanei caratterizzato dalla ricerca di un nuovo rapporto tra credenti e non credenti per la costruzione di una nuova sinistra. In questo ambito non si contesta solo la copertura ideologica che la gerarchia ecclesiastica offre al sistema capitalistico, comprimendo la presa di coscienza delle masse popolari cattoliche, ma anche le responsabilità della sinistra storica tesa a garantismi concordatari e a dialoghi opportunistici nonché alla conservazione di privilegi confessionali che impediscono la liberazione politica dei cattolici e l’affermazione della laicità dello Stato, contribuendo così a mantenere l’immobilismo del sistema.
Di fatto, se la gerarchia ecclesiastica reagisce duramente rispetto ai “dissidenti cattolici”, l’intera classe politica dimostra di non saper dare risposte efficaci alle istanze sollevate dagli studenti. La reazione di chiusura delle istituzioni accademiche alla domanda di innovazione di metodi e contenuti della didattica, la dura repressione con misure di ordine pubblico delle iniziali forme di lotta non violente, influiranno non poco sull’evoluzione del movimento verso forme di lotta violente.
Sul piano politico la logorata maggioranza di centro sinistra, basata sull’alleanza tra Dc e Psi, incapace di attuare le promesse riforme, si chiude a riccio. I partiti di opposizione di sinistra, il Pci e il Psiup, mostrano inizialmente una maggiore apertura nei confronti del movimento. Il Pci non tarderà a modificare il proprio atteggiamento, dimostrando prima un crescente sospetto e poi un’ aperta ostilità verso un movimento che fuoriesce dal suo ambito d’influenza. Nelle elezioni politiche che si tengono in maggio, il Pci registra una lieve avanzata mentre il neonato Psiup, cui va la maggior parte dei voti del movimento, raccoglie un certo successo.

7. Al cinquantesimo anniversario del 68 parteciperanno in molti, protagonisti di allora e critici del dopo. L’Università e la città di Pisa hanno già indetto la celebrazione dei 50 anni delle Tesi della Sapienza – un documento considerato il punto d’avvio delle elaborazioni, delle proposte e delle proteste che sfociarono da lì a pochi mesi nel movimento del 1968.
Sull’apporto dato a questo processo da esperienze di gruppi e di circoli cattolici – nonché da singole individualità che in quel periodo si imposero con la forza delle loro posizioni e soprattutto, delle loro opposizioni – non c’è discussione.
La discussione è semmai sulla capacità che queste componenti ebbero di distinguersi nella fase in cui la crescita della radicalizzazione ideologica portò prima all’affievolirsi della carica innovatrice del movimento studentesco e poi ad una deriva che sfociò nelle conseguenze nefaste rappresentate dal terrorismo rosso, trasformando in tragedia personale e collettiva quella che doveva essere l’“immaginazione al potere”.

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rocca-4-2018

Per chi voti?

sedia di Vannitola
di Vanni Tola
Dichiarazione di voto, quando e perché. Penso sia importante riflettere prima di cadere nella trappola di chi ti chiede una pubblica dichiarazione di voto, per diversi motivi. Parliamone un attimo. Se sei un militante o convinto sostenitore di una forza politica e decidi di esprimere il tuo orientamento per convincere altri a votare come voti tu, la dichiarazione di voto ha un senso e forse anche una utilità per la parte che rappresenti. Naturalmente stai dando per scontato di essere un riferimento mediatico per qualcuno, per lo meno prima di rispondere dovresti domandarti se lo sei davvero. Tutti gli altri che non rientrano in questa condizione vengono invece sollecitati da amici e conoscenti per esprimere l’orientamento di voto facendo leva su sentimenti quali coraggio e codardia. Se ti esprimi sei coraggioso altrimenti sei codardo. Ci si casca subito, nessuno è codardo né vuole apparire tale quindi tende a dichiarare il proprio voto. Ma a che serve? Che uso fanno di tale dichiarazione coloro che quasi la img_4633pretendono?
(Segue)

Emergenza Italia

lampadadialadmicromicro133Gli editoriali di Aladinews. IL SONNO DELLA RAGIONE CREA MOSTRI
sedia-van-gogh4La sedia
di Vanni Tola
Campagna elettorale, ritorna la strategia della tensione per far vincere le destre. Come in passato con il “pericolo” dell’estremismo rosso, anche stavolta si fa perno sulla paura della gente minacciando la “bomba sociale che sta per esplodere” rappresentata dai migranti. Ignorato l’invito del Presidente della Repubblica ad abbassare i toni del dibattito elettorale e l’invito imperativo del Ministro degli Interno a “non cavalcare l’odio”.
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vauro-ricchi-e-poveri
Flat tax. Se passasse la proposta del centro destra lo stato sociale andrebbe verso la sparizione.
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lampadadialadmicromicro1Gli editoriali di Aladinews.dichiarazione-dei-redditi-2017-il-modello-unico-cambia-nome_1355295
I partiti e la flat tax.
di Roberta Carlini, su Rocca n.4/2018.
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Emergenza Italia

lampadadialadmicromicro133Gli editoriali di Aladinews. IL SONNO DELLA RAGIONE CREA MOSTRI
sedia-van-gogh4La sedia
di Vanni Tola
Campagna elettorale, ritorna la strategia della tensione per far vincere le destre. Come in passato con il “pericolo” dell’estremismo rosso, anche stavolta si fa perno sulla paura della gente minacciando la “bomba sociale che sta per esplodere” rappresentata dai migranti. Ignorato l’invito del Presidente della Repubblica ad abbassare i toni del dibattito elettorale e l’invito imperativo del Ministro degli Interno a “non cavalcare l’odio”.
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Flat tax. Se passasse la proposta del centro destra lo stato sociale andrebbe verso la sparizione.
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lampadadialadmicromicro1Gli editoriali di Aladinews.dichiarazione-dei-redditi-2017-il-modello-unico-cambia-nome_1355295
I partiti e la flat tax.
di Roberta Carlini, su Rocca n.4/2018.
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Elezioni. I partiti la flat tax e l’immigrazione.

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Se passasse la proposta del centro destra lo stato sociale andrebbe verso la sparizione.
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I partiti e la flat tax.
di Roberta Carlini, su Rocca n.4/2018

Estonia, Lettonia, Lituania, Russia, Ucraina, Romania, Macedonia, Al- bania, Bulgaria. Sono questi i modelli fiscali ai quali guarda la proposta del centrodestra italiano sul fisco: la flat tax, la tassa piatta con un’aliquota unica per tutti i redditi, già proposta a più riprese da Berlusconi e stavolta condivisa anche dalla Lega. Se si escludono alcuni piccoli Paesi sparsi qua e là e alcuni paradisi fiscali, gli esempi concreti più importanti di flat tax sono infatti nell’ex mondo comunista. I cui Stati, nella foga di aderire all’economia di mercato, hanno adottato il sistema fiscale più vicino all’ideologia liberista e alla cosiddetta «politica dell’offerta», che ha un principio guida: liberiamo le persone dal peso delle tasse e da schemi troppo complicati, così tutti saranno incentivati a lavorare di più, e l’economia andrà alla grande.
Molte delle critiche, in terra occidentale, alla flat tax si sono concentrate sulla sua realizzabilità, per un’imposta che è pilastro del sistema fiscale come quella sui redditi delle persone fisiche. La curva dell’Irpef vede il prelievo crescere al crescere dei redditi stessi, in misura più che proporzionale: vale a dire, al crescere del reddito tassabile cresce anche l’aliquota. Se si schiacciano tutte le aliquote su una sola, gli effetti sul gettito finale dipenderanno ovviamente dal livello dell’aliquota unica: che può anche essere molto alto, per esempio in Olanda un consiglio di esperti propose di fissarla al 40%. Non è questo il caso delle proposte attualmente sul tappeto in Italia, che vanno dal 15% della Lega al 23% di Forza Italia: attualmente la curva dell’Irpef parte da un’aliquota del 23% per salire fino al 43% per i redditi che sono sopra i 75.000 euro l’anno.

il disegno dell’intero sistema
Ma l’impatto sul gettito non dipende solo dal livello dell’aliquota; è determinante il disegno dell’intero sistema, in particolare l’esistenza o meno di un’area di esenzione dall’imposta – al di sotto di una certa soglia non si paga niente: è la cosiddetta «no tax area» – e il regime delle detrazioni e deduzioni, per esempio quelle attualmen- te esistenti per il reddito dipendente, per i carichi familiari, eccetera. Sia la proposta della Lega che quella di Forza Italia prevedono un allargamento della «no tax area», che attualmente è attorno agli 8mila euro annui. Dunque, l’abbassamento delle aliquote per i redditi medio-alti e l’allargamento della no tax area per i più bassi determinano un effetto molto importante sul gettito. Secondo i calcoli fatti su lavoce.info dagli economisti Massimo Baldini e Leonzio Rizzo, verrebbero a mancare ogni anno, nelle casse dello Stato, circa 58 miliardi: questo «a bocce ferme», cioè escludendo che l’introduzione della flat tax abbia effetti positivi per altre vie, favorendo l’emersione dell’evasione o la ripresa economica. Sono questi invece gli effetti miracolosi su cui contano gli esperti che l’hanno messa a punto per i due partiti, negando che quello delle «coperture» (ossia, il non aprire voragini nel bilancio pubblico) sia un problema. La discussione sull’entità del mancato gettito e dunque sulla sua copertura, è importante, decisiva per la praticabilità della proposta. Sulla quale però basterebbe rifarsi a quanto successo durante il governo Berlusconi II: in quella fase la flat tax entrò in un testo di legge, il governo ricevette la delega dal parlamento a introdurla nel nostro ordinamento (in forma leggermente diversa da quella che si propone ora, ossia con due aliquote, una ordinaria del 23% e una del 33% per i redditi superiori ai 100.000 euro l’anno). Non lo fece mai, poiché non riuscì concretamente a disegnare un sistema che restasse in equilibrio.

chi ci guadagna
Ma, per quanto importante, questa discussione rischia di oscurare l’aspetto redistributivo della proposta, di impedire di guardare dentro la scatola della flat tax e capire a chi vanno i suoi doni. In altre parole: non si può fare, ma, ove si potesse, sarebbe giusto farlo? A chi vanno i benefici della flat tax? Ai più ricchi, ai più poveri, a tutti? Tornando ai calcoli di Baldini e Rizzo, difficilmente smentibili poiché basati sui numeri e sul dettaglio delle proposte di Forza Italia e Lega, si ha un quadro molto chiaro: tutti risparmieremmo qualcosa, nel magico mondo della flat tax, ma ai più ricchi andrebbe decisamente meglio. Chi sta agli scalini più bassi del reddito, e guadagna attorno ai 1000 euro al mese, «risparmierà» 102 euro l’anno, meno di 9 euro al mese. Chi invece sta ai piani più alti, e guadagna 7000 euro al mese, avrà un risparmio d’imposta attorno ai 900-1000 euro al mese (a seconda che si attui lo schema della Lega o quello di Forza Italia). In percentuale, la fascia più bassa del reddito risparmierà l’1% di imposta, quella più alta risparmierà tra l’11 e il 14%. Insomma, la flat tax premierà di più i redditi più alti, e sarà molto vantaggiosa per quelli altissimi. Come pensa il centrodestra di prendere i voti della maggioranza da una proposta che premia una minoranza? Si conta su un effetto di illusione ottica, lo stesso che ha ammaliato gli elettori di Trump: se io ho in tasca qualche spicciolo in più, è comunque positivo, non darò peso al fatto che chi sta meglio di me starà, alla fine, molto meglio. Ma soprattutto, fa presa il messaggio generale, quello che ha cominciato a radicarsi trent’anni fa e ancora scalda i cuori: le tasse non piacciono a nessuno, non sono viste come utili a qualcosa (per esempio, a pagare per i beni pubblici, a manutenere le rotaie in modo che i treni non deraglino, a far funzionare gli ospedali), né come uno strumento per redistribuire tra chi ha di più e chi ha di meno. Un messaggio così forte che trascina con sé gli argomenti razionali, quelli che sono alla base anche della nostra Costituzione che sancisce il principio della progressività dell’imposizione.

schieramento di partiti e coalizioni
I risultati delle elezioni del 4 marzo ci diranno quanto questo argomento (insieme agli altri, non economici) sia ancora dominante. Certo la destra – data per vincente soprattutto nel Nord – continua a farne il suo cavallo di battaglia. E gli altri partiti? Anche nella proposta fiscale dei 5 stelle (che, a stare ai sondaggi, sono forti ovunque ma soprattutto dilagano nel Mezzogiorno) c’è una revisione delle aliquote, non una flat tax ma un abbassamento generale, che porterebbe risparmi di imposta un po’ a tutti, in modo più equamente spalmato. Anche in questo caso, con scarsissima preoccupazione per la copertura finanziaria. Il Pd invece punta soprattutto su una revisione degli assegni familiari per premiare le famiglie con figli e, quanto alle aliquote dell’Irpef, promette una ristrutturazione. Mentre Liberi e Uguali disegna un sistema nel quale si taglia l’Irpef solo sui redditi più bassi e più in generale si riduce il peso del prelievo fiscale e contributivo sul lavoro.
Chissà se, nella gara continua alle promesse mirabolanti, nella campagna elettorale ci sarà il tempo e il modo, per ciascuno, di chiedere conto ai propri candidati degli effetti concreti dei piani fiscali delle coalizioni e dei partiti. Resta il fatto che quelli che hanno per ora il vento in poppa propongono un nuovo patto fiscale, che è lontano dallo spirito della Costituzione ed è anche poco affidabile dal punto di vista della effettiva realizzabilità. Ma, a quanto pare, dopo anni nei quali si è scavato il solco tra politica e società, e i politici hanno perso man mano credibilità, una parte del Paese pare pronta ad affidarsi all’incredibile.
Roberta Carlini
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ROCCA n. 4, 15 FEBBRAIO 2018.
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IL SONNO DELLA RAGIONE CREA MOSTRI
sedia-van-gogh4La sedia
di Vanni Tola
Campagna elettorale, ritorna la strategia della tensione per far vincere le destre. Come in passato con il “pericolo” dell’estremismo rosso, anche stavolta si fa perno sulla paura della gente minacciando la “bomba sociale che sta per esplodere” rappresentata dai migranti. Ignorato l’invito del Presidente della Repubblica ad abbassare i toni del dibattito elettorale e l’invito imperativo del Ministro degli Interno a “non cavalcare l’odio”.
Il sospetto che il gesto stragista di un fascista non fosse un episodio occasionale generato da uno squilibrato era nell’aria. Molti hanno pensato, con ragione, ad un gesto inserito in una precisa strategia del terrore finalizzata a garantire e rafforzare l’affermazione elettorale delle destre. Diversi segnali lo confermano. Intanto l’atteggiamento dell’autore del gesto che viene descritto come assolutamente non pentito e lucidamente convinto, e magari anche fiero, della strage compiuta. Poi l’immediato appoggio al suo operato di una formazione di destra, Forza Nuova, che con tempestività annuncia sostegno morale e assistenza legale all’autore del fatto criminale. Via a seguire Salvini che, pur condannando il gesto in sé, dichiara che la responsabilità dell’accaduto va ricercata nella “invasione” di clandestini in atto. Simile la posizione della Meloni (Fratelli D’Italia). Inizialmente fuori dal coro Silvio Berlusconi che, nelle prime ore dopo la vicenda, preferisce attribuire il gesto ad uno squilibrato. Giusto il tempo di comprendere che non poteva lasciare al solo Salvini la gestione della strategia della paura ed ecco che anche Berlusconi decide di cavalcare l’odio. E’ lui che conia la definizione di “bomba sociale pronta ad esplodere” intendendo con tale definizione la presenza di un eccessivo numero di immigrati clandestini in Italia. Poco importa se i dati sull’immigrazione dimostrano inconfutabilmente l’infondatezza di qualunque minaccia di invasione del Paese. I livelli di migranti sono nella norma degli altri paesi europei, non è in atto nessuna islamizzazione del Paese, nessun tentativo di sostituzione etnica degli italiani con altre popolazioni e altre scemate analoghe. L’effetto previsto del folle gesto di un fascista ha ottenuto l’effetto sperato, rilanciare con forza le ragioni delle destre, diffondere paura e ansia tra la gente, favorire la scelta elettorale di quelle forze politiche che si candidano per la tutela e lo ristabilimento dell’ordine e la pulizia etnica. La palla è in campo e con quella si giocherà. Nessuno verificherà più di tanto l’irrazionalità del concetto di “bomba sociale” pronta a deflagare. Se lo dice Berlusconi, molti non hanno difficoltà a crederlo. La altre forze politiche, quelle che dovrebbero essere antagoniste e alternative al blocco delle destre, si guardano bene dallo schierarsi in modo deciso contro questa operazione. Lo fanno per vari e innumerevoli motivi e con occhio attento agli umori della gente e ai sondaggi elettorali. Ma lo fanno anche perché non hanno saputo rimuovere quella vergogna immane rappresentata dalla legge Bossi-Fini che sta alla base di tutte le distorsioni ideologiche e le riserve mentali che hanno determinato una errata politica di controllo e governo dei movimenti migratori. Ma anche perché la politica di controllo dell’emigrazione, dell’accoglienza e dell’integrazione del governo Renzi si é rivelata, a dir poco, inadeguata. E, da ultimo, il silenzio imbarazzato della sinistra è determinato dal fatto che, quello che viene rappresentato come una vittoria del Governo e del ministro Minniti, il calo del numero di immigrati sbarcati in questi mesi, è frutto di un accordo miserabile e vigliacco con la Libia del quale non ci si può che vergognare. Gli sbarchi sono diminuiti perché i libici bloccano i migranti richiudendoli in carceri improvvisate che rassomigliano molto più ai lager nazisti piuttosto che a centri di raccolta e smistamento di migranti. E mentre gli organi di stampa si interrogano su eventuali rapporti di conoscenza tra la ragazza massacrata e il suo carnefice ci si interroga sul profilo psicologico del fascista che ha realizzato la strage, tutto procede come da copione. Salvini continua a predicare odio con ossessive presenze televisive, Berlusconi cerca di scavalcarlo a destra per ribadire la sua premiership sullo schieramento di destra Intanto e le altre forze portano avanti come possono le loro misere strategie elettorali che ci condurranno quasi certamente al governo delle grandi ammucchiate o a nuove elezioni. Si pensava che sarebbe stata una campagna elettorale col botto, ma si pensava principalmente ad un botto metaforico non a quello reale. Invece siamo già alla “bomba sociale pronta ad esplodere” e nessuno sa che altro potranno inventarsi ancora.

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