Risultato della ricerca: Vanni Tola

Ministro dell’In(f)erno

sedia di VannitolaSi parlerà molto di questa iniziativa di Famiglia Cristiana. Una presa di posizione chiara e forte del mondo cattolico contro la politica anti immigrati che molti attendevano e auspicavano, anche tra i non credenti. Perché? Perché purtroppo la propaganda xenofoba e antirazzista è riuscita ad insinuarsi, a fare presa, anche fra i cattolici praticanti che in teoria avrebbero dovuto respingerla in toto. Mi spiego meglio, basta parlare con la gente davanti a una chiesa, dopo una funzione religiosa, del problema degli stranieri per trovare tante persone, tanti bravi cristiani che durante la messa hanno pure fatto la comunione, difendere e diffondere concetti inequivocabilmente xenofobi o razzisti. Una contraddizione che l’iniziativa di Famiglia Cristiana potrebbe contribuire a dissolvere. (V.T.)
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Oggi sabato 21 luglio 2018

lampada aladin micromicrodemocraziaoggisardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413filippo-figari-sardegna-industre-2img_4633Anpi logo nazcostat-logo-stef-p-c_2-2serpi-2ape-innovativabeato-angelico-san-pietro-martire-ingiunge-il-silenzio-dettaglio-affresco-ca-1442-lunetta-nel-chiostro-detto-di-santantonino-del-convento-di-san-marco-museo
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Omissione di soccorso, potere di dare la morte
21 Luglio 2018
Luigi Manconi – il manifesto del 17.7.2018, ripreso da Democraziaoggi
Migranti. Sulle navi delle Ong, in realtà, i corpi di donne e uomini di buona volontà già si muovono da tempo. Sono quelli dei componenti degli equipaggi, dei soccorritori e dei volontari, ma anche quelli di coloro che hanno deciso di testimoniare quanto accade […]
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logo linkiestaPer ora solo pugni (e pugnette): ma quand’è che governate, Salvini e Di Maio?.
Meno male che c’era il contratto: i gialloverdi litigano su tutto, dalle nomine alle armi, e si contendono potere e poltrone come i peggiori parvenu. Nel frattempo, di leggi e decreti non c’è traccia. E più si avvicinano le elezioni europee più sale la fame di consenso. Buona ammuina a tutti.
di Francesco Cancellato su LinKiesta.
19 Luglio 2018 – 08:00

CETA. Il governo “naviga a vista” rischiando di andare a sbattere

header-home-ceta_00sedia di VannitolaLa sedia
di Vanni Tola.
Trattati internazionali per regolamentare gli scambi commerciali. Il governo “naviga a vista” rischiando di andare a sbattere. Il caso del trattato con il Canada (CETA) che ha finora favorito l’export italiano e che il governo non intende ratificare.
Negli ultimi decenni si sono attivate nel mondo complesse manovre di riposizionamento delle grandi potenze capitalistiche intercontinentali che hanno al centro la questione di una nuova regolamentazione dei commerci transnazionali, l’allargamento dei mercati, la ridefinizione di quelle che un tempo si chiamavano “aree d’influenza” delle grandi nazioni. Tale processo ha dato origine alla programmazione e stipulazione di diversi trattati commerciali intercontinentali i più noti dei quali sono certamente il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) e il più recente CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement) del quale sentiremo parlare in Italia in questi giorni. [segue]

Ceta

Ceta: più export, ma rischi su Ogm e arbitrati
Quel che c’è da sapere sul Trattato Ue-Canada
Contrasti, paradossi e punti oscuri del Comprehensive Economic and Trade Agreement, l’accordo di libero
scambio tra Ottawa e Europa, in vigore in via provvisoria il 21 settembre 2017 e ora in attesa di ratifica
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Su Il Fatto quotidiano online.
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sedia di VannitolaAladinews si è più volte occupato dei grandi Trattati internazionali sui commerci. Ripropongo, per chi fosse interessato a leggerlo, un mio articolo del 22 Ottobre 2016 sul Trattato CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement) attualmente in vigore (in forma provvisoria) in attesa della approvazione da parte di tutti i governi contraenti il patto, e tra queste l’Italia, che dovrebbe sottoscriverlo o rigettarlo nelle prossime settimane. Il ministro Di Maio ha già dichiarato la contrarietà del Governo in carica a sottoscrivere l’accordo minacciando fuoco e fiamme contro tutti i rappresentati italiani nelle istituzioni internazionali che dovessero osare esprimere opinioni differenti. (V.T.)
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Ricordando Paolo De Magistris

paolodemagistris-27-giu-18A L’Unione Sarda e in Consiglio comunale celebrata la memoria di Paolo De Magistris, il sindaco che fu… un uomo “qualunque” posto controvoglia sul moggio sociale
di Gianfranco Murtas su Fondazione Sardinia.

Nella sala “Giorgio Pisano” de L’Unione Sarda dapprima (sabato 16 giugno), in cattedrale per una messa di suffragio (giovedì 21), infine nell’aula consiliare del municipio (martedì 26) il nome e la personalità complessa e cara di Paolo De Magistris hanno campeggiato riportando all’attualità la sua colta e delicata umanità, il suo profilo morale, la sapienza amministrativa, quel tanto di cultura non soltanto civica, ma prima di tutto civica, ch’egli recò con sé e condivise però, con impagabile generosità, con i cagliaritani attraverso molti suoi libri ed innumerevoli conferenze.
[segue]

Ricordando don Paolo De Magistris

paolo-de-magistri-sindaco-di-caRicordando don Paolo De Magistris (Cagliari, 4 gennaio 1925 – Cagliari, 21 giugno 1998) a vent’anni dalla morte. Commemorazione del Consiglio Comunale di Cagliari, Aula consiliare, martedì 26 giugno 2018.
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Intervento di Franco Meloni

Sono stato consigliere comunale della consigliatura 1980-1985 (VIII) del Comune di Cagliari. All’esordio avevo dunque precisamente 30 anni.
Di don Paolo De Magistris (che aveva 25 anni più di me) ho molti bei ricordi. Innanzi tutto: don Paolo. Così lo chiamavano tutti ed io volentieri mi adeguai perché Lui aveva diritto a un titolo che lo distinguesse, l’altro era Signor Sindaco, per antonomasia come per Ottone Baccaredda. A Lui mi legava un singolare rapporto di rispetto e di affetto: singolare, essendo io all’epoca politicamente distante dalle sue posizioni politiche-partitiche (lui democristiano convinto, io appartenente a un partito di estrema sinistra, Democrazia proletaria, poi denominatosi Democrazia proletaria sarda), ma ambedue cattolici (lui profondamente religioso e praticante assiduo, io molto, molto meno) e, sicuramente, anche per questa comune matrice, spesso sostanzialmente convergenti quanto a sensibilità sociale. Per Lui anche eredità del padre Mondino, il medico dei poveri, il medico della mia famiglia (Diceva mia madre, che lo aveva come medico di famiglia – e che lo considerava Santo – che quando si mostrava rattristata di non poterlo compensare per le sue prestazioni professionali per la nostra famiglia, numerosa e povera, il dottor De Magistris, rispondeva “No ti preocupis Mariuccia. Faimì un’Ave Maria e bai cun Deus”). Ma torniamo a Paolo. Sono stato sempre totalmente convinto della sua personale onestà e ammiratore della sua capacità di abnegazione come uomo al servizio delle Istituzioni e della cittadinanza. Mi affascinava poi la sua profonda cultura e la capacità di dimostrarla, senza spocchia e con quell’umiltà che tuttavia non ne celava il possesso e lo spessore.
Del mio rapporto politico e umano con don Paolo ricorderò tra i tanti episodi che hanno affollato la mia mente nel preparare questo intervento, solo alcuni. Qualcosa in più, ma non molto, lascio scritto nella nota che ho consegnato al Presidente del Consiglio Comunale Guido Portoghese e al Sindaco di Cagliari Massimo Zedda, che qui colgo l’occasione di ringraziare per questo invito, unitamente al ringraziamento alla famiglia di don Paolo e specialmente al figlio Luigi.
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Dunque i Ricordi
Il primo da consiglieri comunali, ambedue soldati semplici (periodo 1980-1984);
il secondo (con una breve aggiunta) quando Lui tornò ad essere Sindaco, a fine consigliatura nel 1984;
il terzo quando Lui aveva abbandonato l’amministrazione e la politica, dopo gli anni 90.

Cito tutto, sul filo della memoria, essendomi però premurato di verificare i riscontri temporali e quindi l’attendibilità effettuale degli episodi ricordati.
[segue]

«La differenza più importante non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa ai grandi interrogativi dell’esistenza». Comunità di San Rocco: Riflessioni guidate.

zac-s-roccoLA SOFFERENZA E DIO. San Rocco, domenica 10 giugno 2018.
Margherita Zaccagnini.

Vi sarete chiesti: Chi è questa incosciente temeraria che osa affrontare, solo toccare, un argomento simile? Su cui l’umanità si interroga da millenni, per millenni.
La cosa bella è che ho chiesto aiuto a Giovanna per un aspetto pratico: il mio braccio si rifiuta di scrivere al computer o anche a mano per un certo tempo. E lei mi ha dato una dritta formidabile. Anzi tre. “Puoi dividere l’argomento in tre parti:
• La responsabilità del male
• Il discernimento tra bene e male
• L’elaborazione della sofferenza e la nostra risposta.
[segue]

NewsLetter

img_4810Newsletter n. 98 del 19 giugno 2018

SI SI, NO NO

Care amiche ed amici,

E’ online il manifesto sardo duecentosessantatre

pintor il manifesto sardoIl numero 263
Il sommario
Una regione, un popolo, una lingua (Marinella Lőrinczi), Il sardo: una lingua e due macro varietà (Graziano Pintori), Cambiamo le regole sui tirocini in Sardegna: Chi controlla il promotore? (Marco Contu), Alla stretta finale l’esame del disegno di legge regionale sul governo del territorio (Stefano Deliperi), La ricerca di un nuovo equilibrio tra le grandi potenze del mondo (Gianfranco Sabattini), Turchia e dintorni. Come è nata la Turchia moderna? (Emanuela Locci), Frammenti d’amicizia. Ricordando Marc Porcu (Giovanni Dettori), No al Mater Olbia. Sì alla sanità pubblica e gratuita (red), La fortezza Europa ringrazia Salvini (Guido Viale), Qualcosa è cambiata. Assemblea con Felice Besostri (red), La femminilità negata (Daniela Spada), La pistola per l’elettroshock da strada (Piero Cipriano).
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Oggi martedì 12 giugno 2018

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————Avvenimenti&Dibattiti&Commenti———
La Spagna accoglierà la nave Aquarius. Conte ringrazia Sanchez. Salvini: nostra vittoria
Il primo ministro socialista Pedro Sanchez ha annunciato in un intervento alla Moncloa che la Spagna permetterà alla nave Aquarius con oltre 600 migranti a…
ILSOLE24ORE.COM
sedia di VannitolaE’ certamente una soluzione positiva per i naufraghi ma non è né una vittoria né una soluzione politica. Resta l’infamia di aver messo a repentaglio e usato 629 naufraghi per calcolo politico e, perfino, elettorale. Un marchio di infamia sul nostro paese. Occorre certamente ridiscutere gli accordi comunitari sull’accoglienza e l’integrazione diffusa che impegni tutti i paesi dell’Unione e definire le modalità per imporre una corretta applicazione degli stessi. Ma non è neppure immaginabili né per l’Italia, né per l’Europa la possibilità di “chiudere fuori” i diseredati del mondo che scappano da guerre e miseria. (V.T.)
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DOPO IL BRACCIO DI FERRO ITALIA-MALTA
Emergenza Aquarius: viaggio verso la Spagna troppo rischioso per la nave carica di migranti
ILSOLE24ORE.COM
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Aquarius: metafora e paradigma dell’Italietta di oggi.
di Francesco Casula

La vicenda di Aquarius è metafora e paradigma e insieme epifania dell’Italietta in decomposizione. Anzi: in putrefazione.
Viepiù immiserita.
Piegata e ripiegata in se stessa. Chiusa e impaurita. Tutta tesa a difendere miseri e mediocri privilegi: peraltro conseguiti e accumulati spesso sulla pelle e il sangue di chi oggi vorrebbe respingere e annegare.
Con un’infima minoranza opulenta e una stragrande maggioranza impoverita, rassegnata e insieme riottosa.
Con una classe politica che – ieri come oggi – pensa di volare e invece sta precipitando. Nell’abisso.
Nell’abisso dell’arroganza, dell’incompetenza, dell’arbitrio, del privilegio.
Un’Italietta accovacciata, come una cagna, ai piedi di un ragazzotto nordico – cinico, spregiudicato e incolto – che piombato a Roma, gioca pesante. Pur di ingrossare il suo bottino elettorale.
Persino nel Sud e da noi in Sardegna. Dopo averci riempito di insulti e contumelie. Dopo che il suo Nord ci ha messo allo spiedo, per decenni. Anzi: per secoli.
Una cagna accovacciata come negli anni ’30.

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Aquarius svela il volto nero dell’Europa
12 Giugno 2018
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
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Sardegna

sardegna-dibattito-si-fa-carico-181x300sedia di VannitolaLa sedia
di Vanni Tola
Fondi europei – La Sardegna declassata vince la “maglia nera”, a qualcuno pare una vittoria.
Tempo fa, durante il giro d’Italia, si assegnava un premio anche all’ultimo qualificato, la “maglia nera”. Dopo qualche tempo tale premio fu abolito perché si era notato che alcuni ciclisti, fra i meno dotati, facevano “i furbi” rallentando l’andatura per avere almeno il premio di consolazione, la mitica maglia nera. Ho ripensato a questa vicenda quando ho appreso che l’Unione ha recentemente declassato la Sardegna da regione “in transizione” (con Pil tra il 75 e il 90 per cento della media dei bilanci nell’Unione) in regione “meno sviluppata” (Pil inferiore al 75 per cento della media Ue). Niente di cui andare fieri, mi pare. Eppure c’è chi ne parla quasi con compiacimento, perché? Come nel giro d’Italia di qualche tempo fa, anche in Europa, l’assegnazione della “maglia nera” comporta dei vantaggi. Il declassamento ad area “menu sviluppata” infatti, consentirà all’Isola di avere una porzione maggiore di finanziamenti del Fondo di coesione previsto dal bilancio dell’Unione per il periodo 2021-2027, attualmente in fase di definizione. Nella prima bozza del bilancio comunitario il finanziamento previsto per l’Italia ammonterebbe a 43,4 miliardi di euro contro gli attuali 36 miliardi dell’esercizio 2014-2020.
Nel periodo 2014-2020 la Sardegna ha ricevuto 600 milioni di euro tramite il Fondo sociale, 900 milioni di euro con il Fondo per lo sviluppo regionale e 1 miliardo e 300 milioni per il Piano di sviluppo rurale. L’introito futuro per l’Isola, per conseguenza del declassamento, dovrebbe aumentare di circa il 30 per cento. E certamente nessuno degli amministratori regionali si strapperà i capelli o farà plateali autocritiche. Non è neppure inverosimile pensare che durante la campagna elettorale qualcuno di loro possa perfino intestarsi il merito di aver fatto arrivare nell’Isola una quota maggiore di finanziamenti comunitari. Poco importa che l’aumento dei contributi comunitari rappresenti la prova provata dell’incapacità politica di non aver saputo condurre l’Isola al di fuori della fascia delle “regioni in transizione”. Occorre poi soffermarsi un attimo pure su un altro aspetto concernente l’impiego dei fondi comunitari, la scarsa capacità d’impiego degli stessi con il permanente pericolo di dovere restituire all’Unione parte dei contributi ottenuti e non utilizzati.
Entro la fine del 2018 la Regione Sardegna dovrà aver speso 65 milioni di risorse Por del Fondo sociale europeo 2014-2020, per non rischiare di perdere le risorse. Finora sono stati impiegati soltanto 45 milioni. Dovremmo riflettere su queste vicende in un periodo storico nel quale va per la maggiore attribuire all’Unione europea la responsabilità di tutto ciò che non va bene nella realtà isolana e italiana. Sicuramente è necessario lavorare per migliorare il funzionamento dell’Unione ma è pure innegabile che la nostra realtà richieda un salto di qualità nella scelta del quadro politico, nello sviluppo di una reale capacità di riforma dell’esistente, nella programmazione dello sviluppo e nella realizzazione degli investimenti. Le prossime elezioni regionali dovranno cogliere tale aspetto della vicenda e affrontarlo con proposte e programmi seri, concreti e realizzabili. Se poi si vuole fare a gara a chi saprà scaricare meglio le nostre responsabilità su ’Europa, accomodatevi pure. Sarà soltanto un’altra occasione mancata.

DIBATTITO. Un governo gialloverdenero. Fra populismo ed establishment c’è una terza via? Il paese è altrove, finiamola con le geremiadi M5S-Lega. Sono andati in pezzi i modi in cui si sono formate tutte le nostre categorie politiche, le identità, dalla destra alla sinistra

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Un governo gialloverdenero
di Roberta Carlini

Con il nuovo governo giallo-verde, nato al termine di una lunghissima trattativa continuamente oscillante tra il grottesco e il drammatico, l’Italia ha assunto una nuova collocazione in Europa. Più lontana dal blocco dei Paesi fondatori, quelli del centro, distaccata anche dagli esperimenti e dai problemi del blocco del Sud, che una volta si definiva ironicamente il Club Mediterranee; e vicina al cosiddetto «blocco nero», costituito dai Paesi dell’Est e guidato dall’Ungheria di Orban. Non ci sono dubbi infatti sull’identità politica della coalizione che – non votata dalle urne come alleanza, perché fatta da partiti investiti di un voto popolare forte ma distinto – ha trovato infine l’accordo sulla presa del potere.

l’immigrato come bersaglio
La cartina di tornasole è la presenza di Matteo Salvini all’Interno – l’uomo che ha portato la Lega da Bossi alla Le Pen e che è entrato al Viminale poche ore dopo aver fatto l’ennesimo tweet con un immigrato come bersaglio. Non si tratta solo di una visione del nostro prossimo, e del ruolo di una società evoluta in un mondo complesso (che già non è poco), ma dell’uso sistematico e spregiudicato del capro espiatorio come modo per dirottare il disagio e la protesta sociale, indicando un nemico. Meglio se debole, non organizzato, ovviamente non votante, esterno a noi, e antipatico. Salvini è il pilota di tutto ciò, ma non sarebbe riuscito a portare questa ideologia al potere se non avesse avuto l’apporto dell’indistinto magma del Movimento Cinque Stelle – che già da tempo sul tema aveva cominciato a fare le sue scelte, con la campagna dell’estate scorsa contro i salvataggi in mare – al quale si è poi aggiunto, non a caso, l’appoggio esterno degli eredi tecnici del fascismo, i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni.

l’euro responsabile di tutti i mali
Con la stessa tattica – la costruzione del capro espiatorio – i nuovi governanti hanno costruito il consenso attorno alle loro proposte economiche. Il nemico in questo caso è l’euro. Ma trattandosi di una materia infiammabile, sia la Lega di Salvini, che stampava felpe «no euro», che il M5S di Grillo, che sull’euro voleva fare un referendum, hanno sbianchettato il tema sia dalla campagna elettorale che dalle bozze definitive del proprio programma. Finché non è esploso, grazie all’intervento del presidente della Repubblica che ha ritenuto necessario usare le sue prerogative contro la nomina di Paolo Savona all’economia. Il problema non era tanto in posizioni euroscettiche, o critiche verso la difettosa architettura che regge la moneta unica; ma nell’esistenza di un piano, scritto e pubblicato, per gestire la concreta uscita dell’Italia dall’euro. Spostato Savona – paradossalmente agli Affari Europei – e nominato al suo posto un mini-Savona, ossia un altro navigato, ma meno famoso, professore che frequenta lo stesso establishment universitario-amministrativo, il problema resta: cosa vogliono fare i nostri dell’euro, indicato come responsabile di tutti i mali? Davvero pensano che la base produttiva del Nord, come l’ex ceto medio spaventato che li ha votati, vogliano l’avventura di una Italexit? E davvero pensano che il loro governo abbia la forza e l’autorevolezza per intraprendere la strada della trattativa per far invertire la rotta all’Europa matrigna dell’austerità? Ma soprattutto, a che scopo?

la proposta fiscale
Qui veniamo all’altro elemento che dà identità e sostanza al nuovo governo: la proposta fiscale, della quale già si è parlato sulle colonne di Rocca. Il patto fiscale è quello fondante della cittadinanza, non è una questione tecnica o da lasciare agli esperti. E la flat tax, cavallo di battaglia della Lega recepito con piccolissime modifiche dal contratto Salvini-Di Maio, ha una precisa idea del patto fiscale: non solo quella che le tasse debbano scendere (popolarissima: a chi piace pagare le tasse?) ma che debbano scendere di più per i più ricchi. Che il primo governo populista salito al potere in Europa possa averlo fatto sulla base di una politica che premierà solo una élite, ossia i più ricchi, può sembrare incomprensibile. Ma è esattamente quel che è successo negli Stati Uniti con Trump, che della classe sociale dei super-ricchi incarnava anche personalmente il profilo. Per l’Italia, la proposta contenuta nel contratto di governo comporterebbe la più drastica redistribuzione del reddito dai ceti bassi e medi a quelli abbienti, comunque la si finanzi: con altre tasse – addirittura, il neoministro dell’economia Giovanni Tria ha aperto alla possibilità di finanziarla con un aumento dell’Iva, che è l’imposta che grava di più su chi consuma una quota maggiore del proprio reddito, ossia i più poveri; con tagli alla spesa sociale, come chiedono i rigoristi; o con nuovo debito.
Sulla possibilità di finanziare il taglio fiscale in deficit torna il tema del vincolo/ nemico europeo. Quello che impedirebbe di realizzare i fantastici piani del governo gialloverde sulla base dei suoi diktat. In una situazione normale, per un paese che non è già gravato da un enorme debito, il deficit non è buono o cattivo in sé: dipen- de da quello che se ne fa.
Traducendo con un esempio: si possono regalare 10000 euro al mese a un dirigente benestante – appunto, con la flat tax – o mettere gli stessi soldi in un asilo nido. Nel primo caso, il dirigente ne spenderà una piccola parte e la metterà in circuito nell’economia; nel secondo, i soldi andranno a pagare stipendi delle maestre, sedi, mense, ed entreranno tutti nel circuito dell’economia.

il match del debito
Ma non siamo in una situazione normale, ci sono limiti alla possibilità di ricorrere a deficit. E la colpa non è tutta della cattiveria dell’Europa, della Germania, di Bruxelles. Un Paese che ha un debito pubblico pari al 132% del proprio prodotto, e che ogni anni deve rifinanziarlo sul mercato, cioè cercare risparmiatori disposti a comprare o rinnovare titoli per 400 miliardi, può ignorare fare nuovi debiti a cuor leggero? Anche se l’euro e l’Europa non ci fossero, o cambiassero di colpo politica, il moloch del debito sarebbe sempre lì. Bisogna gestirlo, usando gli spazi di manovra – cosa non fatta dal governo Renzi, che ha dilapidato la breve tregua data dalla politica monetaria accomodante della Bce. Prima, di fronte a questa realtà, c’era una linea predominante di pensiero: non c’è alternativa, non possiamo fare niente, o quasi niente. Adesso, dalle urne italiane, è venuta fuori confusamente un’alternativa nazionalista, travestita da anti-establishment ma in realtà dannosa soprattutto per le classi subalterne.

l’alternativa
Uscire dalla confusione può essere un effetto positivo della nuova fase politica. A patto però che da qualche parte – da quella che un tempo si definiva la sinistra – venga fuori anche la chiara indicazione di una alternativa europeista, di Europa sociale, indirizzando subito l’attenzione e le risorse comuni alle vere vittime della globalizzazione e della grande trasformazione che stanno vivendo le nostre economie, e costruendo le istituzioni di un bilancio, un governo, una politica sovranazionali. Una strada difficile ma obbligata; possibile però solo se che in tutt’Europa, nelle sue élite come nei suoi popoli, e soprattutto tra gli eredi della sua tradizione socialdemocratica, si prende atto del fallimento politico dell’unificazione monetaria ed economica, che si è manifestato un po’ ovunque ma che adesso ha portato alla svolta italiana; e si passi a una pagina nuova, che sola può arginare il minaccioso blocco nero giunto da Visegrad fino a Roma.

Roberta Carlini
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POLITICA E SOCIETÀ
fra populismo ed establishment c’è una terza via?
di Ritanna Armeni su Rocca

E’ possibile oggi una strada che non sia la scelta fra sovranismo e mercati? In Italia sembra non esistere. Anzi dopo i risultati elettorali del 4 marzo, lo stallo che ne è seguito, le difficoltà emerse nella formazione del governo e infine la crisi istituzionale e la decisione di nuove elezioni, la divaricazione tra i due estremi, se è possibile, si è accentuata. Da una parte i populisti – partiti e cittadini – che non accettano l’Europa, le regole imposte dai grandi centri economici e finanziari, che ritengono dannosa la moneta unica almeno nella sua realizzazione, coercitive le regole di Bruxelles, mortale il rigore imposto in questi anni. Dall’altra chi pensa che non sia possibile per alcun paese del vecchio continente vivere fuori dal contesto europeo, ne accetta le regole (al massimo ne contesta, e flebilmente, alcune) anche quando queste sono dolorose. Per la classe dirigente la globalizzazione economica così come interpretata e codificata dalle istituzioni europee costituisce la strada principale da seguire. Che porterà pur attraverso innegabili sacrifici al rilancio dello sviluppo.
È stato impossibile finora uscire da questa divisione con una proposta che tenga conto delle verità che le due visioni contengono e ne respinga gli elementi ideologici. Difficile in Europa dove la battaglia fra partiti populisti ed establishment è in corso e ha raggiunto una delle sue punte nella Brexit; difficile in altre parti del mondo come gli Stati uniti dove la presidenza di Donald Trump ha sancito la vittoria del populismo.
Che cosa rende difficile una mediazione sociale e politica fra queste due istanze che nascono e si muovono a partire da fenomeni concreti ed esigenze altrettanto reali? I populisti hanno dalla loro sicuramente la sofferenza di gran parte del popolo, della parte meno abbiente e fortunata dei cittadini cui le regole europee hanno imposto sacrifici duri senza offrire la speranza di un’uscita dalla crisi e di un nuovo sviluppo. Rappresentano una base di rabbia reale di cui è sbagliato non tenere conto. Anche se – e questo e il secondo punto importante – essa ha come conseguenza politica il sovranismo, l’idea che senza Europa, fra italiani, la strada per lo sviluppo sarebbe senza ostacoli. E comprende la soluzione con la forza e la brutalità il problema dell’immigrazione, tragedia planetaria di cui non sono responsabili le attuali istituzioni europee, ma che l’Europa certamente non ha aiutato e risolvere.
L’establishment, la classe dirigente del paese, con un seguito consistente anche se ora non maggioritario, ritiene che nessuna politica economica e sociale possa essere perseguita senza un’integrazione europea, che gran parte delle regole imposte dalle istituzioni di Strasburgo costituiscano comunque la base inevitabile tenuto conto anche del nostro debito, che lo sviluppo in un’economia e in una società chiuse sia non solo difficile ma irrealizzabile. Infine che al popolo vada offerta una soluzione credibile e non solo la possibilità di sfogo della rabbia e dell’insofferenza.
Per uscire da questa divisione, per riprendere un discorso realmente politico i due fronti dovrebbero scomporsi. Il motivo per cui questo non avviene sta nell’assenza di un terzo protagonista che in Italia fino a qualche tempo fa era presente, e che anzi nel passato ha rappresentato gran parte del paese e che oggi sembra scomparso. Parliamo di un soggetto di sinistra capace di portare nella società e nel dibattito quella che un tempo e con un termine antico era definita «discrimi- nante di classe». Solo mettendosi le potenti lenti che essa fornisce è possibile oggi distinguere senza pregiudizi quel che c’è di vero nel fiume in piena del populismo: la sofferenza degli ultimi, la delusione dei lavoratori, la paura di un ceto medio impoverito, i timori di tutti per un futuro sempre più incerto. E condannare con severità e convinzione quel che invece porta inevitabilmente verso una società chiusa e razzista, la repulsione verso il diverso, la lotta contro i migranti, l’appiattimento su miti e tradizioni retrive, una cultura povera e provinciale perché impermeabile alle grandi trasformazioni planetarie.
Solo tenendo presente le reali condizioni del popolo – che non è una massa priva di consapevolezza e intelligenza, come gran parte dell’establishment europeista tende a credere – si può pensare a una modifica delle condizioni imposte dalle istituzioni economiche e finanziarie, a una battaglia che superi tutti gli egoismi non solo quelli italiani.
La ricostituzione di un dialogo e poi di un legame fra classe dirigente e il popolo è oggi difficile, anzi alla luce dei recenti avvenimenti politici italiani, appare quasi impossibile se questa non riconosce, traendone le conseguenze, che finora le politiche europee rigoriste e antipopolari, non adeguatamente contrastate, hanno prodotto impoverimento e incertezza. Finché quindi non si elaborano progetti diversi che muovano dalle condizioni sociali degli italiani. Finché non si chiede e pretende un’Europa che sia davvero la patria di tutti.
Fino a qualche tempo fa la presenza di forze dichiaratamente di sinistra, anche se divise e non sempre adeguate, aveva reso questo possibile. Oggi la sinistra è schiacciata nella cultura e nella pratica della classe dirigente, identificata come una casta chiusa nel proprio status, insomma, parte dell’«alto» della società.
Ed ecco che la terza via si stempera fino a scomparire. E i rappresentanti delle vecchie classi dirigenti da un lato e le nuove forze politiche che pensano di rappresentare il popolo dall’altro percorrono strade diverse e inconciliabili. In una lotta che non conosce mediazioni, che non rispetta né le istituzioni né un comune sentire democratico. Che lascia sul terreno tanti e tali detriti e veleni da rendere non più fertile il terreno su cui si muovono.

Ritanna Armeni
12-2018
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comune_cop_pagina_1Il paese è altrove, finiamola con le geremiadi
M5S-Lega. Sono andati in pezzi i modi in cui si sono formate tutte le nostre categorie politiche, le identità, dalla destra alla sinistra
di Marco Revelli, su il manifesto
EDIZIONE DEL 23.05.2018

Da oggi, come si suol dire, «le chiacchiere stanno a zero». Nel senso che le nostre parole (da sole) non ci basteranno più. D’ora in poi dovremo metterci in gioco più direttamente, più “di persona”: imparare a fare le guide alpine al Monginevro, i passeur sui sentieri di Biamonti nell’entroterra di Ventimiglia, ad accogliere e rifocillare persone in fuga da paura e fame, a presidiare campi rom minacciati dalle ruspe. Perché saranno loro, soprattutto loro – non gli ultimi, quelli che stanno sotto gli ultimi – le prime e vere vittime di questo governo che (forse) nasce.

Dovremmo anche piantarla con le geremiadi su quanto siano sporchi brutti e cattivi i nuovi padroni che battono a palazzo. Quanto “di destra”. O “sovranisti”. Forse fascisti. O all’opposto “neo-liberisti”. Troppo anti-europeisti. O viceversa troppo poco, o solo fintamente. Intanto perché nessuno di noi (noi delle vecchie sinistre), è legittimato a lanciare fatwe, nel senso che nessuno è innocente rispetto a questo esito che viene alla fine di una lunga catena di errori, incapacità di capire, pigrizie, furbizie, abbandoni che l’hanno preparato. E poi perché parleremmo solo a noi stessi (e forse non ci convinceremmo nemmeno tanto). Il resto del Paese guarda e vede in altro modo. Sta già altrove rispetto a noi.

Forse resta dubbioso sulla realizzabilità dei programmi, forse indugia incerto per horror vacui, ma non si sogna neppure di usare le vecchie etichette politiche del Novecento per qualificare un evento fin troppo nuovo e nel suo contenuto sociale inedito, come inedita è la struttura della società in cui è maturata la svolta.

IL FATTO è che questo governo è la diretta espressione del voto del 4 di marzo. E che quel voto ha costituito e rivelato non un semplice riaggiustamento negli equilibri politici, ma un terremoto di enorme magnitudine, una vera apocalisse culturale, politica e sociale. Piaccia o non piaccia (a me personalmente non piace) ma questa coalizione giallo-verde esprime – per quanto sia esprimibile – il messaggio emerso più che maggioritariamente dalle urne. Traduce in termini istituzionali l’urlo un po’ roco che veniva dalle due metà dell’Italia, e che diceva, con toni e sotto colori diversi, che come prima non si voleva e non si poteva più continuare. Che non se ne poteva più. E che quegli equilibri andavano rotti.

FORSE SOLO l’asse tra Cinque stelle e un Pd de-renzizzato avrebbe potuto corrispondere a quegli umori (e malumori), ma la presenza ingombrante del cadavere politico di Matteo Renzi in campo dem l’ha reso impossibile. Non certo un governissimo con tutti dentro, avrebbe potuto farlo. O un governo del Presidente. Che avrebbero finito per generare una gigantesca bolla di frustrazione e rancore da volontà tradita, velenosa per la democrazia quant’altra mai. Cosicché non restava che questo ibrido a intercettare i sussurri e le grida di una composizione sociale esplosa, spaesata e spaventata come chi abiti un paesaggio post-catastrofico, geneticamente modificato da una qualche mutazione di stato.

ED È QUESTO il secondo punto su cui riflettere. Questo nostro trovarci a valle di una «apocalisse» come l’ho chiamata, pensando all’accezione in cui Ernesto De Martino usava l’espressione «apocalisse culturale». Cioè una «fine del mondo» (questo era il titolo del suo libro). Anzi, la fine di un mondo. Che è appunto la nostra condizione. Perché un mondo è davvero finito. È andato in pezzi: il mondo nel quale si sono formate pressoché tutte le nostre categorie politiche, e si sono strutturate tutte le nostre pregresse identità, dalla destra alla sinistra, e si sono formalizzati i nostri linguaggi e concetti e progetti. Nessuna di quelle parole oggi acchiappa più il reale. Nessuno di quei modelli organizzativi riesce a condensare un qualche collettivo. Nessuna di quelle identità sopravvive alla prova della dissoluzione del “Noi” che parte dal default del lavoro e arriva a quello della democrazia.

CONTINUIAMO testardamente a cercar di cacciare dentro il cavo vuoto dei nostri vecchi concetti i pezzi di una realtà che non vuol prenderne la forma e si ribella decostruendosi prima ancor di uscire di bocca. Continuiamo a sognare la bella unità tra diritti sociali e diritti umani universali che il movimento operaio novecentesco aveva miracolosamente realizzato, e non ci accorgiamo che non sono più “in asse”. Che oggi i primi sono giocati contro i secondi, da questo stesso governo che a politiche feroci sul versante della sicurezza – alla negazione dei diritti umani – associa un’attenzione alle politiche sociali (per lo meno per quanto riguarda il loro riconoscimento nel programma) sconosciuta ai precedenti.

LIQUIDIAMO come «il più a destra, in tutta la storia della Repubblica» questo governo (non è che il governo Tambroni nel 1960 o quelli Berlusconi-Fini della lunga transizione scherzassero…), senza riflettere sul fatto che i due partiti che lo compongono hanno in pancia una bella percentuale di elettorato “di sinistra” (un buon 50% i cinque stelle, un 30% o giù di lì la Lega). Mentre pressoché tutta la stampa “di destra” (da Vittorio Feltri a quelli del Foglio e del Giornale), i quotidiani mainstream, gli opinion leaders “di regime” (pensiamo a Bruno Vespa), le agenzie di rating, i Commissari europei, ostenta pollice verso. Qualcosa evidentemente si è rotto nei meccanismi della nostra produzione di senso.

D’ALTRA PARTE nemmeno il popolo è più quello di una volta: il popolo dei populismi classici, unità morale portatrice di virtù collettive, unito a coorte e pronto alla morte. È al contrario una disseminazione irrelata di individualità. L’ha mostrato perfettamente la ricerca su «Chi è il popolo» realizzata da un gruppo di giovani ricercatori nelle nostre periferie e presentata sabato scorso a Firenze: il tratto comune a tutte le interviste era l’assenza di denominatori comuni. La perdita del senso condiviso della condizione e dell’azione. La scomparsa dall’orizzonte esistenziale del conflitto collettivo, in un quadro in cui l’unica potenza sociale riconosciuta, l’unico titolare del comando, è il denaro, inattingibile nella sua astrattezza e quindi incontrastabile.

SE UN NOME vogliamo dargli, è “moltitudine”, non tanto nel senso post-operaista del termine, come nuova soggettività antagonistica, ma in senso post-moderno e post-industriale: l’antica «classe» senza più forma né coscienza. Decostruzione di tutte le aggregazioni precedenti. In qualche misura «gente»… Cosicché anche i populismi che si aggirano, nuovi spettri, per il mondo sono populismi anomali: populismi senza popolo.

Per questo è bene rimetterci in gioco «in basso». Nella materialità della vita comune. Corpi tra corpi. A imparare il nuovo linguaggio di un’esperienza postuma. Lasciando da parte, almeno per il momento, ogni velleità di rappresentanza che non riuscirebbe a essere neppure rappresentazione.
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Festival dello sviluppo sostenibile 2018

festival-sviluppo-2018- Il programma delle manifestazioni
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Salviamoci insieme!

festival-sviluppo-2018
Sostenibilità

di Enrico Giovannini

1. Da Marx allo sviluppo sostenibile

gli-occhiali-di-piero1-150x1501419“Perché dovrebbe importarmene delle generazioni future? Cosa hanno fatto per me?” Questa famosa frase di Groucho Marx, attore di grande successo della prima metà del secolo scorso, noto per il suo senso dell’umorismo sarcastico, sintetizza in modo assolutamente mirabile il tema della sostenibilità e ci interroga profondamente come persone e come membri della comunità umana. Infatti, abbiamo ormai un’evidenza scientifica consolidata sul fatto che il modello di sviluppo che abbiamo seguito nel corso degli ultimi due secoli, ma soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, sia insostenibile sul piano non solo ambientale, ma anche economico e sociale. Anzi, tutte le analisi ci segnalano che alcuni fenomeni fortemente destabilizzanti (si pensi al cambiamento climatico, alle migrazioni o all’aumento delle disuguaglianze) stanno verificandosi con una velocità superiore a quella prevista solo alcuni anni fa. Ciò vuol dire che il problema che abbiamo di fronte non riguarda solo le generazioni future, ma anche la nostra generazione, il che risolve alla radice l’obiezione di Marx (Groucho).

In effetti, già nel 1972, con il Rapporto I limiti dello sviluppo del Club di Roma, i modelli matematici disponibili all’epoca (molto meno sofisticati di quelli di cui disponiamo oggi) indicavano che, dati i tassi di crescita previsti per la popolazione, la produzione e lo sfruttamento delle risorse, entro un centinaio di anni si sarebbe determinato un declino improvviso ed incontrollabile della popolazione e della capacità economica, a causa del collasso delle condizioni economiche, sociali e ambientali del pianeta. Peraltro, confrontando le traiettorie previste dal Rapporto con gli andamenti effettivi delle variabili chiave (Figura 1), emerge chiaramente come questi ultimi siano quasi perfettamente in linea con le prime, il che dimostrerebbe, come alcuni autori sostengono, che negli ultimi quaranta anni il mondo abbia seguito una politica di “Business As Usual (BAU)”, nonostante i tanti impegni presi nel corso degli anni a migliorare l’efficienza energetica, a ridurre l’inquinamento, ecc.

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Confronto tra le previsioni del Rapporto “I limiti dello sviluppo” e gli andamenti effettivi.

Per valutare la storia passata si pensi che è solo nel 1987, cioè quindici anni dopo il Rapporto del Club di Roma, che il famoso “Rapporto Bruntland” (intitolato Our Common Future) introduce il concetto di “sviluppo sostenibile”, definito come “lo sviluppo che soddisfa i bisogni della presente generazione senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”. Ed è solo quest’anno, con la nuova Agenda 2030, cioè dopo quasi vent’anni, che l’obiettivo di portare il mondo su un sentiero di sostenibilità, non solo ambientale, viene riconosciuto come meritorio di unire tutti i paesi del mondo.
Peraltro, nonostante il fatto che il Rapporto Bruntland individuasse quattro pilastri della sostenibilità, quello economico, quello sociale, quello ambientale e quello istituzionale (per molti anni sostanzialmente dimenticato), gran parte delle persone, compresi i policy maker e i dirigenti delle imprese, ha interpretato la questione della sostenibilità come un problema sostanzialmente legato alle questioni ambientali. Si è trattato, purtroppo, di un gravissimo errore concettuale, con drammatiche conseguenze sulle politiche economiche e sociali condotte in tutto il mondo. Un simile errore ha riguardato il modo di rappresentare graficamente la questione della sostenibilità, con tre cerchi (relativi all’economia, alla società e all’ambiente) parzialmente sovrapposti, con l’area di intersezione indicata come “l’area della sostenibilità”. In effetti, la sostenibilità deve riguardare l’unione delle tre (o quattro) dimensioni, non solo la loro intersezione, al cui interno, eventualmente, si concentrano i problemi legati ai trade-off delle scelte “settoriali”. Ad esempio, sappiamo che alcuni comportamenti ambientalmente più sostenibili sono anche economicamente e socialmente più convenienti, mentre in altri casi si tratta effettivamente di scegliere di rinunciare a benefici in un campo a favore di una maggiore sostenibilità nel medesimo campo o in altri campi.

2. “Quello che non possiamo misurare non lo possiamo nemmeno gestire”

Il concetto di sostenibilità proposto dalla Commissione Bruntland ha un’indubbia forza evocativa e appare facilmente comprensibile sul piano intuitivo. Purtroppo, misurare quanto una certa combinazione di condizioni economiche, sociali, ambientali ed istituzionali sia sostenibile nel tempo presenta enormi difficoltà concettuali e pratiche.
Uno dei primi progetti che mi trovai a gestire appena nominato, nel gennaio 2001, Chief Statistician dell’OCSE, riguardò proprio la misura dello sviluppo sostenibile, nell’ambito di una ricerca estremamente articolata in cui l’Organizzazione si era lanciata in quegli anni. Ebbene, fin dall’inizio della ricerca emerse come la sostenibilità fosse estremamente difficile da misurare. Mentre sul piano economico, e in parte su quello ambientale, tale concetto appariva abbastanza radicato nella letteratura e nella pratica statistica, era sul versante sociale che le difficoltà erano quasi insormontabili. Infatti, la sostenibilità di un modello di crescita economica, la sostenibilità finanziaria, la sostenibilità dei sistemi pensionistici, solo per fare alcuni esempi, erano temi abbondantemente indagati già quindici anni fa, sui quali l’evidenza statistica e la modellistica econometrica fornivano indicazioni utili per la conduzione di politiche orientate a favorire la sostenibilità nel tempo delle condizioni economiche e finanziarie (anche se ciò non eviterà la crisi del 2008-2009).

In quegli anni stava crescendo significativamente anche la ricerca sulla questione della sostenibilità ambientale. Ancorché con una distanza enorme rispetto alle tematiche economiche, cominciavano a svilupparsi sistemi articolati di indicatori ambientali (disponibili, però, con ritardi temporali enormi rispetto a quelli economici e solo con riferimento ai paesi industrializzati), così come modelli econometrici che legavano la dimensione economica a quella ambientale. Una caratteristica comune di tali modelli era l’uso del concetto di “soglia”, oltre la quale una particolare condizione del sistema economico-ambientale veniva giudicato “insostenibile” (si pensi al caso della concentrazione di anidride carbonica o di altri inquinanti nell’atmosfera). Coerentemente, sia sul piano economico che su quello ambientale, si andava diffondendo l’uso di valori “soglia” nella legislazione europea o nazionale, come nel caso dei famosi “parametri di Maastricht” o dei limiti alla concentrazione di talune particelle nell’aria dei centri urbani.

Diversamente che in campo economico e ambientale, il concetto di sostenibilità sociale appariva, invece, estremamente sfuggente. La mancanza di una “teoria della rivoluzione” in grado di indicare valori “soglia” della disoccupazione, della povertà, dell’esclusione sociale, ecc.,oltre la quale si potrebbe determinare un’ insostenibilità sociale (cioè una rivoluzione) rendeva estremamente difficile integrare questa dimensione nel quadro concettuale della sostenibilità. Nell’ambito del progetto dell’OCSE al quale ho fatto riferimento, si propose anche di guardare alla sostenibilità delle istituzioni che sovrintendono a importanti politiche sociali (la sanità, la previdenza, l’assistenza, l’educazione, ecc.): in questo modo, però, la sostenibilità sociale veniva fondamentalmente ricondotta alla sostenibilità finanziaria delle politiche sociali, un concetto che, evidentemente, spostava l’attenzione dai risultati per i cittadini (outcome) agli strumenti con i quali si conducono le politiche (input), il che rendeva questo approccio assolutamente insoddisfacente.

È solo alla metà degli anni Duemila, dopo aver fronteggiato enormi resistenze da parte delle autorità statistiche nazionali (in nome di argomentazioni alquanto ridicole, come “lo sviluppo sostenibile è una questione politica e la statistica ufficiale deve starne alla larga”), che riuscii a promuovere la prima task-force internazionale sulla misura dello sviluppo sostenibile, con la partecipazione dell’OCSE, dell’Eurostat, dell’ONU e di alcuni istituti di statistica. Il risultato fu una prima lista di indicatori di sviluppo sostenibile, ma soprattutto l’elaborazione di un approccio concettuale basato sul “capitale”, declinato in quattro dimensioni: il capitale prodotto (cioè quello economico), il capitale naturale, il capitale umano e il capitale sociale. L’attenzione al capitale si spiega con il fatto che esso collega il passato, il presente e il futuro, in quanto è a partire da esso che, attraverso processi produttivi, culturali, istituzionali e politici, vengono non solo realizzati beni e servizi che passano per il mercato e soddisfano i bisogni economici della società, ma vengono anche soddisfatti bisogni immateriali, alltrettanto importanti per il benessere delle persone, e vengono prodotte esternalità i cui costi o benefici influenzano le condizioni della società e dell’ecosistema.

Parallelamente, è in quegli anni che, proprio grazie alle iniziative dell’OCSE (come il primo Forum Mondiale sulla “Statistica, Conoscenza e Politica” che organizzammo a Palermo nel 2004), prese le mosse il movimento mondiale per andare “oltre il PIL”, così come la revisione del Sistema dei Conti Nazionali, lo sviluppo del Sistema dei Conti Economici ed Ambientali, la predisposizione dei manuali sulla misura di diverse dimensioni del benessere (compreso quello soggettivo e la felicità), la pubblicazione di un manuale metodologico sugli indicatori compositi finalizzati a sintetizzare in un “solo numero” indicatori relativi a diverse dimensioni del benessere, nonché alla sua sostenibilità nel tempo.
Possiamo quindi affermare che, nel corso degli ultimi quindici anni, la statistica “ufficiale” ha fatto passi enormi verso la misura dello sviluppo sostenibile. Ciononostante, siamo ancora lontani dal raggiungimento dell’obiettivo di misurare in modo soddisfacente tutte le forme di capitale, specialmente il capitale umano e il capitale sociale.

Manca poi una metrica comune nella quale esprimere tali misure, vista l’impossibilità di tradurre in termini monetari fenomeni ai quali non è possibile associare un “prezzo”. È anche cresciuta la consapevolezza che cercare di ottenere un indicatore unico in grado di sintetizzare le dimensioni economiche, sociali e ambientali, si scontra con ostacoli concettuali e metodologici probabilmente insormontabili. Infine, poiché la sostenibilità è un concetto legato alle dinamiche future, è indispensabile integrare le informazioni di natura statistica sul presente e sul passato con quelle relative al futuro derivanti dalla modellistica, a patto che quest’ultima prenda in considerazione le interazioni tra le diverse dimensioni e le non linearità che da tali interazioni possono scaturire (i cosiddetti tipping points).

3. Gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile e l’Agenda 2030

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Nel settembre del 2015 i paesi membri delle Nazioni Unite hanno approvato la nuova Agenda per lo sviluppo sostenibile e i relativi Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (OSS) da raggiungere entro il 2030. Si è trattato di un evento storico da più punti di vista. Infatti:

è stato confermato, anche grazie alle informazioni statistiche ora disponibili e alle previsioni sulle future tendenze, il giudizio sull’insostenibilità dell’attuale sentiero di sviluppo, non solo sul piano ambientale, ma anche su quello economico e sociale. In questo modo è stata superata l’idea che la sostenibilità fosse unicamente una questione ambientale e si è affermata una visione veramente integrata delle diverse dimensioni dello sviluppo;
tutti i paesi del mondo sono chiamati a contribuire allo sforzo di portare lo sviluppo globale su un sentiero sostenibile, senza più distinzione tra paesi sviluppati, emergenti e in via di sviluppo, anche se, evidentemente, le problematiche possono essere diverse a seconda del livello di sviluppo già conseguito. Ciò vuol dire che ogni paese dovrà impegnarsi a definire una propria strategia di sviluppo sostenibile che consenta di raggiungere gli obiettivi definiti dall’Agenda Globale e che l’ONU svolgerà un continuo monitoraggio dello stato di attuazione di tali strategie;
è stato sancito come l’attuazione dell’Agenda richieda un forte coinvolgimento di tutte le componenti della società, dalle imprese al settore pubblico, dalla società civile alle istituzioni filantropiche, dalle università e dai centri di ricerca agli operatori dell’informazione e della cultura. Nessuno è escluso dallo sforzo di cambiamento, anche se le forme di coinvolgimento delle diverse componenti vanno definite a livello nazionale, ferma restando la promozione di momenti di coordinamento regionale e globale da realizzare a cura delle organizzazioni e dei network internazionali delle diverse constituencies.
Il processo di cambiamento verrà monitorato attraverso un complesso sistema fatto di 17 obiettivi, 169 target e circa 200 indicatori. Sarà rispetto a tali parametri che ciascun paese verrà valutato periodicamente e starà alle opinioni pubbliche internazionali e nazionali usare l’evidenza fornita dagli indicatori per mettere sotto pressione i decisori, pubblici e privati, e per orientare i propri comportamenti nella direzione giusta. Anche in questo caso, la sfida è globale, in quanto anche nei paesi sviluppati non tutti i dati necessari per il monitoraggio sono attualmente disponibili o tempestivi. Per questo, l’ONU ha promosso una riflessione non solo su come utilizzare la cosiddetta “Data Revolution” per produrre i dati necessari, ma anche su come favorire l’uso dei dati per migliorare la sostenibilità dei processi economici e sociali. Il Rapporto al Segretario Generale predisposto dal Gruppo di esperti internazionali che ho coordinato l’anno scorso contiene numerose proposte, molte delle quali in fase di implementazione.

4. Le implicazioni per l’Europa e l’Italia

L’Europa è stata, da molti anni a questa parte, all’avanguardia nelle politiche a favore dello sviluppo sostenibile. Il livello di benessere economico raggiunto nella prima metà degli anni 2000, il modello di economia sociale di mercato realizzato in molte aree del continente e l’attenzione alla protezione dell’ambiente naturale, soprattutto nei paesi nordici, hanno condotto l’Unione Europea non solo ad adottare legislazioni orientate a ridurre gli impatti negativi dei processi economici sui fenomeni ambientali e sociali, ma anche a darsi obiettivi ambiziosi per gli anni futuri (si pensi alla Strategia Europa 2020) e a battersi in campo internazionale per la firma di accordi orientati a rendere più sostenibile il futuro del pianeta.
Con la crisi avviata nel 2008-2009 la situazione è mutata significativamente: la priorità è divenuta quella di assicurare la sostenibilità finanziaria delle economie europee, anche a costo di rigorose politiche di austerity, e di far ripartire la crescita economica e l’aumento dell’occupazione. La nuova Commissione Europea ha riflesso questo cambiamento di prospettiva, definendo, nell’estate del 2014, priorità in linea con le preferenze degli Stati Membri e del Parlamento Europeo. Anche l’Italia ha subito un simile cambiamento, con un’attenzione soprattutto alle questioni economiche e finanziarie.
L’adozione della nuova Agenda Globale pone l’Europa e l’Italia di fronte ad una triplice sfida di enorme complessità:

integrare gli OSS nei propri programmi a breve e medio termine, così da evitare la coesistenza di agende differenti e incoerenti, nelle quali esigenze politiche di breve termine diventano sistematicamente prioritarie (si pensi alla questione della sicurezza, dopo i drammatici eventi di Parigi) e magari determinano interventi che aumentano i costi a medio-lungo termine, richiedendo aggiustamenti ancora più difficili da realizzare sul piano politico, ancorché ritardati nel tempo. D’altra parte, disegnare politiche per raggiungere gli OSS richiede un approccio integrato difficilmente compatibile con le articolazioni settoriali delle strutture governative: di conseguenza, è richiesto uno straordinario sforzo di integrazione di competenze e punti di vista diversi;
sviluppare sul piano concettuale un nuovo modello di sviluppo (andando “oltre il PIL”, cioè evitando di basarsi unicamente su una crescita quantitativa) che integri in modo innovativo le opportunità derivanti dalle nuove tecnologie, riduca i costi di transizione, soprattutto in termini sociali, sia attraente sul piano politico e si basi su una piena collaborazione tra soggetti privati e pubblici;
essere credibili a livello internazionale, così da poter promuovere i propri valori in tutto il mondo e sostenere il cambiamento globale, coniugando annunci in linea con gli OSS e pratiche concrete che migliorino la qualità della vita delle persone, superando i timori derivanti da sommovimenti socio-economici globali (quali le migrazioni) o locali, che alimentano il populismo politico. Tutto ciò richiede una leadership politica notevole, capace di rendere un paese o un’istituzione in grado di essere forward-looking e coerente nel tempo rispetto alle scelte di fondo.
Realizzare tutto ciò comporta un cambiamento culturale straordinario, impossibile senza un forte coinvolgimento delle opinioni pubbliche nazionali, la cui attenzione venga sistematicamente posta sulle tematiche dello sviluppo sostenibile come definito dalla nuova Agenda Globale, superando gli stereotipi e le logiche settoriali.
In questo contesto, cosa dovrebbe fare l’Italia per presentarsi come un “campione della sostenibilità”? In primo luogo, introdurre il concetto di sviluppo sostenibile nella propria Costituzione, così da orientare la legislazione futura e le decisioni dei tribunali al riconoscimento dell’equità intergenerazionale (si pensi al caso dei “diritti acquisiti” di tipo previdenziale). Alcuni paesi – dall’America Latina alla Nuova Zelanda – l’hanno già fatto e i tribunali di Olanda e Stati Uniti hanno recentemente avallato azioni legali da parte dei cittadini per la difesa degli ecosistemi come beni comuni, spronando governi e aziende a fare di più nella lotta ai cambiamenti climatici.

D’altra parte, non si può pensare di gestire problemi migratori, politiche sociali e una conversione dell’apparato industriale in chiave di sostenibilità attraverso interventi parcellizzati, mettendo un settore (o un ministero) contro l’altro. I paesi più attenti al tema dello sviluppo sostenibile utilizzano principi del “governo integrato” che l’OCSE definisce come un sistema di coordinamento indispensabile nella progettazione e nell’attuazione di politiche trasversali. Va quindi superata l’attuale divisione del lavoro novecentesca tra i ministeri. La Svezia, per esempio, ha istituito un ministero dedicato al “futuro” per monitorare la coerenza dell’intera azione legislativa in chiave di sostenibilità ed equità intergenerazionale. Il secondo passo potrebbe, quindi, essere la sostituzione del “Comitato interministeriale per la programmazione economica” con uno dedicato allo “sviluppo sostenibile”, come il Governo di cui ho avuto l’onore di far parte si apprestava a fare all’inizio del 2014.

In terzo luogo, l’Italia dovrebbe dare un minor peso a dinamiche economiche di breve periodo, superando il “capitalismo trimestrale” che Hillary Clinton ha criticato di recente. L’Italia potrebbe allora utilizzare il sistema degli indicatori di “Benessere Equo e Sostenibile” (BES), sviluppato dall’Istat e dal Cnel, non solo per tracciare le dinamiche economiche, sociali e ambientali ex-post, ma anche per valutare le politiche future, secondo quanto previsto da una proposta di legge già presentata in Parlamento. La Legge di Stabilità in discussione potrebbe essere l’occasione per introdurre, come ha fatto recentemente la Francia, un obbligo da parte del governo di valutare l’impatto delle proposte di legge utilizzando i diversi domini del BES. Allo stesso modo, i progetti d’investimento nelle infrastrutture (tipicamente approvati dal CIPE) dovrebbero essere basati su analisi costi-benefici che diano più importanza a impatti futuri rispetto a quelli a breve termine, seguendo l’esempio di un numero crescente di investitori privati, come nel caso del Club of Long Term Investors, che vede la presenza di un folto gruppo di società italiane.
A livello internazionale, infine, l’Italia dovrebbe farsi promotrice di norme che sostengano i principi del benessere sociale e ambientale. Non sarà, infatti, possibile realizzare i nuovi obiettivi finché l’economia globale resterà dominata da un sistema finanziario altamente speculativo e da accordi commerciali che minano la coesione sociale e l’ambiente. Come affermato dal Segretario Generale dell’ONU e dal Papa nella recente Enciclica, c’è bisogno di un nuovo quadro di regole che dimostrino come il benessere sociale, economico e ambientale siano indivisibili.

Conclusioni

Nella sua recente Enciclica “Laudato si’”, Papa Francesco ha scritto:
“L’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme, e non potremo affrontare adeguatamente il degrado ambientale, se non prestiamo attenzione alle cause che hanno attinenza con il degrado umano e sociale. Di fatto, il deterioramento dell’ambiente e quello della società colpiscono in modo speciale i più deboli del pianeta”

e ha sottolineato come

“La nozione di bene comune coinvolge anche le generazioni future. Le crisi economiche internazionali hanno mostrato con crudezza gli effetti nocivi che porta con sé il disconoscimento di un destino comune, dal quale non possono essere esclusi coloro che verranno dopo di noi. Ormai non si può parlare di sviluppo sostenibile senza una solidarietà fra le generazioni.”

Per chi spende la propria vita formando le giovani generazioni e ricercando le soluzioni più idonee per affrontare e risolvere i problemi di oggi e di domani, queste parole costituiscono un richiamo fortissimo alla nostra responsabilità di persone che operano all’interno di questa comunità accademica e, più in generale, all’interno della comunità umana.
Se non noi, chi? Se non adesso, quando?

Angelo Becciu nominato cardinale da Papa Francesco

3407dc97-e336-4ba9-9694-f6451e81a89cMons. Angelo Becciu è stato nominato cardinale da Papa Francesco. Biografia su wikpedia. L’investitura ufficiale avverrà nel Concistoro del 29 giugno 2018.
Mons. Becciu è molto legato alla Sardegna, dove torna quasi ogni mese a Pattada, suo paese natale, e a Ozieri, dove risiedono i fratelli. L’ultima visita a Cagliari in occasione della messa in Cattedrale per Sa die de sa Sardigna (28 aprile 2018).
La notizia su La Repubblica.it.
La vitalità di una cultura si misura a partire dalla sua capacità di saper condividere e comunicare i propri valori, dall’apertura al dialogo con le altre culture e dal continuo desiderio di ricercare sempre nuove sintesi che sappiano coniugare tradizione e innovazione
di Angelo Becciu
Testo scritto dell’intervento di mons. Angelo Becciu per il convegno svolto nel salone del Palazzo Viceregio in occasione di “Sa Die de sa Sardigna”, 28 aprile 2018.
[segue]