Risultato della ricerca: povertà

CHE SUCCEDE?

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MIGRANTI, SE L’EUROPA SA SOLO ALZARE MURI. GUERRA IN ETIOPIA. SUL REDDITO DI CITTADINANZA
11 Novembre 2021 su C3dem.
[SEGUE]

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logo76Newsletter n. 238 del 10 novembre 2021

LE ARMI CHE FANNO DA SÉ E LA CHIESA

Carissimi,
[segue]

Giovedì 11 novembre 2021

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Chiunque voglia seguire il convegno Caritas su youtube, oggi giovedì 11 novembre alle ore 17.00 dal titolo *Strumenti di contrasto alla povertà e politiche attive del lavoro* che si terrà presso la sala convegni del Banco di Sardegna in viale Bonaria , potrà collegarsi al seguente link: https://youtube.com/channel/UCvDHhiaz409S2kdiFGv_LEg

Sinodo in cammino.

sinodo-pcc-01SINODO UNIVERSALE
una lettura del documento preparatorio

di Paola Lazzarini su Rocca.
scrittrice, fondatrice e presidente dell’associazione «Donna per la Chiesa», su Rocca 22/2021

La lettura del documento preparatorio per il Sinodo 2021-2023 è una felice esperienza, la riscoperta delle radici sinodali della Chiesa che Papa Francesco sta attuando non solo ci restituisce un senso di comune cammino, ma anche un bel richiamo all’umile apprendimento a cui siamo chiamati per vivere come Chiesa nel terzo millennio. [segue]

America America

a7ea09a4-ec8a-4164-b80f-caf0b9240243a895aa12-499c-4ae1-ac18-30ff36f82392LE MONTAGNE RUSSE DI JOE BIDEN
di Marino de Medici*

Le montagne russe di Joe Biden non finiscono mai. Lo Speaker della Camera dei Rappresentanti, Santa Nancy Pelosi, è riuscita a raffazzonare la legge di 550 miliardi di dollari per le infrastrutture, frutto di un sofferto compromesso tra i moderati e i liberali del partito democratico. Il miracolo propiziato da Santa Nancy è avvenuto quando lo Speaker ha perso solo sei voti di democratici progressisti ma ne ha incamerati tredici repubblicani. I negoziati erano stati estenuanti ma alla fine l’approvazione della legge per le infrastrutture veniva raggiunta grazie all’impegno dei deputati centristi di impegnarsi a favore della più impegnativa legislazione sociale che prevede la spesa di 1 trilione 750 milioni a condizione che venga giudicata finanziariamente praticabile dall’ufficio congressuale del bilancio. [segue]

Reddito di cittadinanza

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Più risorse ma anche più equità ed efficienza
di Fiorella Frarinelli, su Rocca.

Ritocchi o riforma per il Reddito di Cittadinanza? Con la prossima legge di bilancio dovrebbero venire approvati, oltre a un sostanzioso incremento delle risorse dedicate, anche un pacchetto di modifiche che ne migliorino l’equità sociale e l’efficienza. Il Reddito è la più importante misura di welfare firmata dal governo giallo-verde. Quella che l’allora ministro delle politiche sociali Luigi Di Maio salutò, con pose ed entusiasmi da tribuno del popolo, come «l’abolizione della povertà». Pretendendo per ingenuità, incompetenza od entrambe, di combinarla con virtuose politiche di inserimento lavorativo dei beneficiari. Politiche «passive», insomma, fatte furbescamente passare come «attive».

non si è raggiunta la povertà estrema
I due obiettivi sono stati, dal 2018 ad oggi, largamente mancati. Il primo perché una parte delle persone interessate non è stata neppure intercettata (ad agosto 2021 avevano ricevuto un sostegno 1,37 milioni su 2 milioni di famiglie «povere totali», pochissimi gli homeless, i marginali, gli ex detenuti, la nuvola triste e sfilacciata di chi dorme sotto i ponti o vive di espedienti). La causa principale è l’inadeguatezza dei criteri di accesso e della «scala» di articolazione degli assegni. Ma anche l’aver voluto ignorare che la povertà estrema, quella di chi non è solo senza lavoro ma anche senza casa, senza salute, senza istruzione, senza relazioni, è contattabile e coinvolgibile solo dai servizi sociali dei Comuni, dagli operatori di strada, dai volontari delle associazioni e delle parrocchie, da chi può mettere in campo azioni integrate e convergenti, tutti invece esclusi come attori e supporti inutili dallo spiccato centralismo statalista della norma. Il secondo obiettivo si può invece definire, senza timore di esagerare, un clamoroso insuccesso. Perché solo una minima quota di coloro a cui i Centri per l’Impiego avrebbero dovuto nel giro di pochi mesi offrire un lavoro capace di farli uscire dall’indigenza l’ha effettivamente trovato. Ma i Centri, si doveva tenerne conto, funzionano male per tutti, anche per i non disperatamente indigenti (il 59% dei percettori del Reddito non lavora da anni o non ha mai lavorato, missione dunque difficilissima quella di procurarne l’inserimento lavorativo), e non è affatto sicuro, secondo uno studio della Caritas, che il contratto di lavoro regolare a cui pochissimi sono approdati sia stato frutto degli 11.600 «navigator» per lo più inesperti assunti per affiancare gli 8.000 operatori dei Centri, e non, invece, di una loro autonoma e fortunata iniziativa.

come correggere i limiti
Dietro alle contraddizioni e alle molte storture del provvedimento, ci sono difetti di ideazione e di funzionamento che richiederebbero una profonda revisione, ma le condizioni del Paese non permettono vuoti, discontinuità, tempi lunghi. Avanti, dunque, con i ritocchi, solo un restyling dice la diplomatica lingua dei tecnici. Il Dep, il documento di programmazione che fa da intelaiatura alla manovra economica 2022, dispone un finanziamento aggiuntivo di circa 1 miliardo, con cui si arriverebbe a 8,8 totali, la stessa cifra raggiunta nel 2021 quando i fondi sono stati ripetutamente incrementati per far fronte alle emergenze della pandemia. Ma se col nuovo finanziamento si conferma l’utilità e si estende il campo di intervento di una misura in grado se non di far svanire almeno di mitigare la povertà, in che direzione andranno le modifiche? Come si correggeranno i limiti del provvedimento del 2018, accertati da Banca d’Italia e denunciati da tante inchieste? L’approccio del governo Draghi è stato finora equilibrato e molto pragmatico. Ma non è un mistero che nella sua maggioranza ci siano orientamenti diversi. Alcuni, diffusi trasversalmente nella politica come nella pubblica opinione, sono generati dalla convinzione – un pregiudizio, spesso, ma non senza conferme fattuali – che il sussidio non solo non abbia favorito l’ingresso nel lavoro dei beneficiari o almeno di quel terzo di potenzialmente «occupabili» (due terzi dei 3.027.851 percettori del reddito sono fuori dal lavoro in quanto troppo anziani, deboli, malati, impediti da altre condizioni avverse), ma abbia piuttosto incoraggiato il contrario di quel che si dichiarava nelle intenzioni: la non ricerca del lavoro, il non lavoro, il lavoro in nero. In altre posizioni e opposizioni prevalgono, indipendentemente dal merito, ragioni politiche, ovvero di schieramento, collocazione, consenso elettorale, con una forte polarizzazione tra favorevoli e contrari. Matteo Renzi, per esempio, un occhio a Confindustria e tutti e due al centrodestra, minaccia un referendum abrogativo, peraltro tecnicamente poco fattibile prima del 2025. Mentre la numerosa pattuglia dei parlamentari Cinquestelle tende a difendere sempre e comunque la norma originaria perché il Reddito di Cittadinanza è per loro innanzitutto identità e bandiera. Quanto ai leghisti, tutto o quasi dipende dall’esito della strenua difesa della «loro» creatura, quella costosissima «Quota 100» simbolo, anche qui una bandiera, di inossidabile contrarietà alla legge Fornero sulle pensioni e al suo probabile prossimo ritorno. Non sarà facile, dunque, una soluzione che, salvando quello che c’è di buono nel provvedimento – non abbandonare i poveri a loro stessi – introduca correttivi di quello che proprio non va, e che rischia di produr- re ulteriori tensioni sociali. L’esecutivo, e chi più convintamente lo sostiene, sa bene che oltre al problema di una spesa corrente in deficit che continua a salire, c’è la necessità di sventare il rischio del risentimento dei tanti occupati a tempo pieno che percepiscono salari troppo bassi ma che non sono «abbastanza poveri» per accedere al soste pubblico. Inevitabile, quando, a fronte di salari per lavori a tempo pieno che talora non superano i 900 Euro, il valore massimo del sostegno per persona singola è 780 Euro. Si chiama guerra tra poveri, il peggio che possa succedere. Ma come se ne esce senza introdurre anche da noi quel «salario minimo» così malvisto dalle organizzazioni sindacali, e da parte del padronato?

evitare che vada a chi non ha diritto
Ci sono comunque delle priorità. La prima è evitare che il Reddito vada a chi non ne ha diritto. Sugli oltre 3 milioni di percettori dell’estate scorsa, a ben 123.697 è stato revocato l’assegno per dichiarazioni false, le più frequenti relative alla composizione del nucleo familiare, alla mancata dichiarazione sullo stato di detenzione in carcere, alla presenza di condanne di particolare gravità come l’associazione mafiosa. L’incrocio delle anagrafi nazionali informatizzate sarebbe la via maestra per un controllo preventivo a monte della regolarità delle domande, anche perché scovare i furbetti a cose fatte non basta a recuperare i soldi che sono andati alle persone sbagliate.

rivedere la scala delle assegnazioni
La seconda, molto più importante per l’equità sociale del Reddito, è rivedere la scala in base a cui si assegnano le risorse che pena- lizza le famiglie povere numerose e che non tiene conto delle differenze territoriali di costo della vita. C’è una vistosa iniquità sociale tra i 780 Euro assegnati ai single e i 1.080 assegnati a una famiglia con un figlio minore e, ancora di più, i 1.280 assegnati a chi di figli sotto i 10 anni ne ha 3. È qui, si sa, che la povertà è più terribile e pericolosa, e che bisogna a ogni costo evitare i suoi effetti negativi su istruzione, salute, alimentazione, i danni che generano i «poveri di domani». Tanto più se si considera che il contributo per l’affitto di 280 Euro, costitutivo dell’assegno, è eguale per tutti, mentre le esigenze abitative sono diversissime tra chi è solo e le famiglie di 3, 4, 5 componenti (col costo degli affitti che varia enormemente tra città e piccoli centri, e per aree territoriali). Sono inique anche le clausole ostative che escludono dall’accesso all’assegno una parte delle famiglie regolarmente residenti di provenienza straniera, in cui la povertà «totale» morde, secondo Istat, quasi tre volte di più che nelle famiglie italiane, il 25% contro il 9%.

cambiare le regole di avviamento al lavoro
E poi, sempre che i servizi per l’impiego riescano a diventare più efficienti – grazie al programma Gol sulle politiche attive finanziato con le risorse del Pnrr – sono da cambiare anche alcune delle regole stabilite dal Reddito di cittadinanza relative all’avvia- mento al lavoro. La legge dice che la condizione per percepire il reddito è firmare il «patto per il lavoro», con cui chi è abile a lavorare si impegna a mettersi a disposizione dei Centri, accettando e seguendo programmi di formazione e di ricerca attiva del lavoro e valutando le offerte di inserimento lavorativo. Questi patti, ad oggi, sono stati stipulati solo per il 31% degli inviati ai Centri, una percentuale davvero troppo bassa anche considerando che durante il lockdown furono sospesi gli obblighi di presentarsi ricorrentemente agli operatori. Non solo. In nessuna Regione, in quasi tre anni di attuazione, è mai stata applicata la condizionalità per cui se il lavoro offerto viene rifiutato per tre volte, il candidato al lavoro perde l’assegno. La legge attuale dice infatti che il lavoro si può rifiutare se l’offerta non è «congrua», e la congruità consiste in un contratto a tempo indeterminato che garantisca almeno 858 Euro al mese. Ora, al di là che, a differenza che in paesi come la Germania e la Francia, da noi i Centri per l’Impiego sono regionali mentre ad erogare gli assegni è l’istituto nazionale Inps (col risultato che quest’ultimo può ignorare se il percettore del reddito ha ricevuto o no una proposta «congrua», se ci sono stati rifiuti e quante volte), è evidente che la possibilità di rifiutare infinite volte un contratto regolare, ma a tempo determinato o a part time, non è quello che ci vuole per incoraggiare l’uscita dal sussidio e l’ingresso nel lavoro. Le politiche attive del lavoro sono tutt’altra cosa, impraticabili in Centri per l’Impiego così inefficienti e in assenza di obblighi a far decadere il reddito in caso di rifiuto del lavoro e di incentivi ad accettarlo. In altri paesi a fare la differenza sono, da un lato, i buoni servizi erogati dai Centri, in termini sia di tempestivi e non burocratizzati piani individualizzati di qualificazione professionale e di assistenza alla ricerca attiva del lavoro sia della possibilità per un certo periodo di continuare a percepire il reddito di cittadinanza, inizialmente per intero e poi a scalare, cumulandolo con il salario da lavoro, se inferiore ai minimi definiti dalla legge o dai contratti nazionali. Quanto agli incentivi per i datori di lavoro che accettino di assumere i percettori del reddito di cittadinanza, bisognerebbe sapere che quello che per le aziende serie conta davvero non sono le detrazioni fiscali ma la certezza che il lavoratore che si assume abbia sviluppato le competenze fondamentali per svolgere bene le prestazioni previste. Tutt’altra logica, insomma, da quella tipicamente assistenziale delineata dalla norma italiana.

si riuscirà a raddrizzare la barca?
Ci sarebbe quindi molto da cambiare, nella norma e nelle pratiche attuative, per restituire dignità e valore non solo al contrasto delle troppe povertà ma al mondo del lavoro e ai lavoratori. Non saranno le cronache dei giornali che denunciano ogni giorno furbetti, illegalità, cumuli irregolari tra assegni e lavoro nero a cambiare la situazione. Il sostegno alla povertà vera dev’essere rafforzato ed esteso all’intera platea delle persone e delle famiglie povere, ma le politiche attive del lavoro sono un’altra cosa. Riuscirà il governo Draghi a raddrizzare almeno un po’ una barca mal congegnata che fa acqua da tutte le parti? C’è da augurarselo. È anche da qui che si misura la civiltà di un Paese.
Fiorella Farinelli

ROCCA 15 NOVEMBRE 2021
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Astensionismo e disaffezione: la politica e i ceti popolari
5 Novembre 2021 by c3dem_admin | su C3dem.
Esiste un divario crescente, un vero solco, tra la politica e le classi popolari, e questa è una delle cause principali dell’assenteismo. I partiti di sinistra una volta erano partiti di lavoratori e si interessavano alla vita della gente; ora non più.
Qualche proposta concreta su come la politica possa tornare a coinvolgere la vita concreta delle persone

di Sandro Antoniazzi
Nelle recenti elezioni amministrative il tasso di assenteismo è stato particolarmente elevato; non è un fatto nuovo, perché ad ogni elezione si registra un progresso di questo indice negativo, che non si sa come affrontare. [segue]

Che succede?

c3dem_banner_04LA PARTITA DEI DUE PRESIDENTI. ROSY BINDI E IL PD.
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COME SALVARE IL SOLDATO ZAN. COME BATTERE LA CLIMATOCRAZIA. IL NODO CONCORRENZA.
5 Novembre 2021 su C3dem.
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POPOLO, COMUNITA’, SINISTRA… IL QUIRINALE, E LE DUE LEGHE
5 Novembre 2021 su C3dem.
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L’URGENZA DI SCELTE DIFFICILI. L’EMERGENZA CLIMA COME IL COVID
3 Novembre 2021 su C3dem.
[segue]

Un mare di vergogna

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Newsletter n. 52 del 2 novembre 2021

IL G20 E IL MULTILATERALISMO

Cari Amici,
tra i buoni auspici scaturiti dall’incontro del G 20 che si è tenuto con grande sfoggio di occasioni turistiche a Roma, c’è quello di piantare in giro per il mondo un miliardo di alberi entro il 2030, per calmierare, in modo ben più efficace che mediante il risparmio energetico, l’invasione dell’anidride carbonica nell’atmosfera. Per il resto, a cominciare dalla prospettiva di ridurre il riscaldamento climatico a 1 grado e mezzo entro il 2050 (ma l’India ha già detto che lo farà per il 2070) gli auspici non sono stati resi molto credibili, tanto che il segretario generale dell’ONU, Gutierrez, ha espresso papale papale tutta la sua delusione per i risultati raggiunti. Perciò appare più realistico spostare il bilancio del vertice sul fronte dei sogni, come del resto ha fatto Draghi dicendo che è stato un successo anche solo il poter “ mantenere vivi i nostri sogni” in ciò interpretando puntualmente, ma un po’ troppo letteralmente, la profezia di Gioele: “i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni”.
Quello che è mancato al G 20, che del resto fu inventato nel 1999 a beneficio dei suoi primi 7 membri per dare ali alla finanza mondiale, è stato un progetto globale per il futuro del mondo e la visione dei mezzi atti a conseguirlo; il futuro infatti non è solo clima, ma una buona convivenza umana nell’armonia di culture, lingue e genti diverse, guerre dismesse e giustizia realizzata, universalità di diritti e istituzioni capaci di attuarle, sotto la sovranità riconosciuta di una Costituzione pensata e promulgata per tutta la terra. È vero che il presidente Draghi ha identificato nel multilateralismo lo strumento essenziale per stabilire regole adeguate a questo obiettivo, ma esso non può contrarsi a coinvolgere alcuni, anche se ricchi, e non tutti i Paesi, né può partire col piede sbagliato di una contrapposizione tra pretese egemonie, dando per scontata una conflittualità tra quello che fu l’Occidente e grandi Paesi come la Russia e la Cina, con un mondo “Terzo” a fare da spettatore o complice.
Questi sono i limiti della costruzione di un assetto globale, che rimbalzano da Roma a Glasgow, e questo è il cimento a cui la politica è chiamata a confrontarsi: sogni, visioni, ma anche decisioni responsabili e azioni effettive. A cominciare già oggi, non da ipotetiche date negoziate per il futuro.
In “Biblioteca di Alessandria” pubblichiamo un riassunto delle conclusioni del G20, il cui testo in Inglese si può trovare qui. Nel sito Costituente Terra una notizia sul respingimento dei migranti in Libia e un articolo su una nuova violazione israeliana dei diritti palestinesi.
Con i più cordiali saluti

www.costituenteterra

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Diritti umani, diritto disumano

di Luigi Ferrajoli

1.
La nostra civiltà giuridica e politica rischia di naufragare in un mare di vergogna. La vergogna consiste anzitutto nelle innumerevoli violazioni del diritto internazionale e dei diritti fondamentali stabiliti nella nostra Costituzione e nella Carta europea dei diritti in tema di libertà personale, di diritto d’asilo, di divieto di respingimenti collettivi e di dovere di soccorso in mare. Ma c’è un’altra vergogna, forse ancor più grave perché in grado di minare le basi sociali della nostra democrazia. Essa consiste nel discredito e nella squalificazione, fino alla criminalizzazione, dell’impegno civile, morale e politico di quanti salvano in mare la vita di migranti che tentano di raggiungere il nostro paese e di chi si batte in difesa dei loro diritti e della loro dignità di persone. Questa seconda vergogna della nostra vita pubblica è stata inaugurata, all’inizio di questa legislatura, dalle politiche dell’ex ministro Matteo Salvini, che hanno segnato un salto di qualità nelle forme del populismo. Il vecchio populismo penale faceva leva sulla paura per la criminalità di strada e di sussistenza, cioè per fatti enfatizzati ma pur sempre illegali, onde produrre paura e ottenere consenso a misure inutili e demagogiche ma pur sempre giuridicamente legittime, come gli inasprimenti delle pene decisi con i vari pacchetti di sicurezza. Il nuovo populismo punitivo, esattamente al contrario, fa leva sull’istigazione all’odio e sulla diffamazione di condotte non solo lecite ma virtuose, come il salvataggio di vite umane in mare, al fine di alimentare paure e razzismi e ottenere consenso a misure illegali, come la chiusura dei porti, la preordinata omissione di soccorso, le lesioni dei diritti umani e la trasformazione in irregolari di immigrati regolari.

Ebbene, un penoso contributo a questo nuovo populismo punitivo è venuto, nei giorni scorsi, dalla sentenza del Tribunale di Locri che ha condannato Mimmo Lucano a 13 anni e 2 mesi di reclusione e alla restituzione, lui nullatenente, di 702.410 euro da lui investiti nelle attività dell’accoglienza. È una sentenza assurda. Non si dica che essa è consistita nella severa applicazione della legge, o che dovremmo aspettarne la motivazione per pronunciarci sulla sua insensata crudeltà. Sappiamo benissimo che rientra nella discrezionalità dei giudici sia l’interpretazione delle leggi, sia l’accertamento e la valutazione dei fatti e delle prove, sia la determinazione della misura della pena. Era dunque ben possibile una pronuncia diversa, quanto meno nella durata della pena, che è stata quasi il doppio di quella – 7 anni e 11 mesi – già incredibilmente e scandalosamente alta richiesta dal pubblico ministero. La verità è che ci troviamo di fronte a un eccesso, a un surplus di volontà punitiva, che non si spiega se non con l’intento di pronunciare una sentenza esemplare diretta a penalizzare l’accoglienza dei migranti. Ciò che accomuna questa condanna crudele e il populismo crudele di Matteo Salvini, che da ministro promuoveva le omissioni di soccorso nei confronti dei naufraghi e il linciaggio di Carola Rackete per aver disobbedito ai suoi divieti, è la volontà di criminalizzare la solidarietà e il senso di umanità, quali si manifestano nei salvataggi delle vite in mare dei migranti e nelle politiche di accoglienza messe in atto a sostegno di questi disperati. Mimmo Lucano – è noto a tutti – è diventato un simbolo, a livello mondiale, di un modello di accoglienza dei migranti fondato sulla loro integrazione sociale e sul rispetto della loro dignità di persone. Ciò che si è voluto colpire con questa durezza è stato dunque questo modello. Ciò che con essa si è voluto difendere è tutto ciò che Lucano ha voluto combattere: l’intolleranza per i migranti, la loro diffamazione come terroristi o potenziali criminali, la loro oppressione e discriminazione razzista.

Il danno più grave di queste pratiche istituzionali – delle politiche contro gli immigrati di Matteo Salvini come della sentenza del Tribunale di Locri – è il crollo del senso morale a livello di massa provocato dall’istigazione all’intolleranza nei confronti dei deboli da esse veicolata. È un veleno distruttivo, immesso nella società italiana, che ha abbassato lo spirito pubblico e il senso morale nella cultura di massa, soprattutto dei ceti più deboli. Quando la disumanità e l’immoralità vengono esibite, ostentate a livello istituzionale, attraverso slogan come “prima gli italiani” o “la pacchia è finita” a sostegno dell’omissione di soccorso, oppure con la penalizzazione in eccesso dell’accoglienza e della solidarietà, esse contagiano la società e si trasformano in senso comune. Non sono soltanto legittimate, ma anche assecondate e alimentate. Non capiremmo, senza questo ruolo performativo del senso morale svolto dall’esibizione dell’immoralità al vertice dello Stato, il consenso di massa di cui godettero i totalitarismi del secolo scorso.

Queste politiche crudeli – questo il loro danno civile e politico – hanno avvelenato la società, in Italia e in Europa. Hanno seminato la paura e l’odio per i diversi, solo perché diversi. Hanno logorato i legami sociali. Hanno screditato, con la diffamazione di quanti salvano vite umane, la pratica elementare del soccorso di chi è in pericolo di vita. Hanno svalutato i normali sentimenti di umanità e solidarietà che formano il presupposto elementare della democrazia e, prima ancora, della convivenza civile. Hanno rifondato le basi ideologiche del razzismo, il quale consiste, essenzialmente, nell’idea che l’umanità è divisa tra chi ha il diritto di vivere e chi non è degno di sopravvivere a causa della sua diversa identità. Perseguire il consenso tramite l’esibizione dell’immoralità e dell’illegalità equivale sempre a deprimere la moralità corrente e ad alterare, nel senso comune, le basi del nostro Stato di diritto, che consistono anzitutto nella dignità della persona, di qualunque persona, nel valore della solidarietà e nella difesa dei diritti fondamentali, che sono tutti leggi dei più deboli in alternativa alla legge del più forte destinata a prevalere ove essi non siano garantiti bensì ignorati o violati.

2.
Se questo è vero, dobbiamo riconoscere che questo nuovo populismo crudele ha fatto della questione migranti la questione di fondo sulla quale si gioca il futuro della nostra civiltà: non solo dell’Italia, ma anche dell’Unione Europea – nata, non dimentichiamolo, contro i razzismi e i nazionalismi, contro i genocidi e i fili spinati, contro i campi di concentramento e contro le oppressioni e le discriminazioni razziali – i cui Paesi membri sono oggi tutti variamente impegnati nella limitazione della libertà di accesso e di circolazione dei migranti. Di più: sulla questione migranti l’intero Occidente rischia il crollo della sua identità morale e politica. Le politiche di esclusione dei migranti e le pratiche repressive della solidarietà ci pongono infatti davanti a una contraddizione scandalosa e a lungo andare insostenibile: la contraddizione tra i nostri conclamati valori – l’uguaglianza, la dignità della persona, l’universalismo dei diritti fondamentali di tutti – e la loro negazione da parte di quelle politiche e di quelle pratiche. È una contraddizione che, se non risolta, renderà impronunciabili gli stessi diritti fondamentali, i quali sono universali e indivisibili oppure, semplicemente, non sono. Sicché non potremo continuare a lungo a proclamarli decentemente come i “valori” dell’Occidente se continuerà questo gigantesco apartheid planetario da cui fuggono i migranti e che esclude dal loro godimento, in contrasto con le tante carte dei diritti che affollano il nostro diritto internazionale e con la nostra celebrata tradizione liberale, oltre un miliardo di persone che vivono in condizioni di povertà estrema e milioni di esseri umani che muoiono ogni anno per fame e per mancanza di acqua potabile e di farmaci salva-vita.

Più in generale, la questione migranti si sta rivelando come una questione centrale per il futuro della democrazia e della pace a livello globale. Affermare la dignità dei migranti come persone equivale infatti ad affermare e a difendere la nostra dignità e, insieme, la dignità della nostra Repubblica. Rifiutare la parola d’ordine “prima gli italiani” equivale a rifiutare il razzismo e la svalutazione dei differenti che stanno dietro queste parole. Lottare contro il veleno razzista che sta diffondendosi nella società equivale a difendere l’identità democratica dei nostri ordinamenti. La questione migranti sta insomma diventando il banco di prova della credibilità dei princìpi di uguaglianza e dignità delle persone sui quali si fondano le nostre democrazie. Se prendiamo sul serio i diritti umani, non possiamo non rifiutare l’odierno paradosso in forza del quale nell’età della globalizzazione tutto, fuorché le persone, può liberamente circolare: comunicazioni e informazioni, merci e capitali alla ricerca dei luoghi nei quali si può massimamente sfruttare il lavoro, inquinare l’ambiente, non pagare le imposte e corrompere i governi. Non possiamo non riconoscere, in breve, che il diritto di emigrare fa parte del diritto vigente, che implica ovviamente il diritto di immigrare in qualche parte della Terra e va perciò garantito almeno quanto la libertà di circolazione delle merci e dei capitali.

C’è poi un’altra ragione della centralità politica della questione migranti. Le stragi nel Mediterraneo saranno ricordate come una colpa imperdonabile perché potevano e potrebbero essere evitate. I terribili effetti dell’attuale chiusura delle frontiere dei Paesi ricchi – le migliaia di persone che muoiono ogni anno nel tentativo di raggiungere le nostre coste; le decine di migliaia di persone cacciate dall’Algeria e lasciate vagare e morire nel deserto del Sahara; quelle rinchiuse in condizioni disumane nell’inferno delle carceri libiche e turche; le migliaia di migranti che si affollano ai nostri confini contro barriere e fili spinati, lasciati al freddo e alla fame; le crudeli espulsioni di immigrati irregolari che talora vivono da anni nei nostri Paesi – sono gli orrori dei nostri tempi che imporranno ai costituenti del futuro un nuovo “mai più”. Di questi crimini i nostri governanti e quanti li hanno votati e sostenuti dovranno un giorno vergognarsi. Non potranno dire: non sapevamo. Nell’età dell’informazione sappiamo tutto. Siamo perfettamente a conoscenza delle migliaia di morti provocati da quelle politiche; delle violenze, degli stupri e delle torture inflitte ai migranti sequestrati nei campi libici; delle forme di sfruttamento selvaggio cui sono sottoposti molti migranti una volta raggiunta l’Italia.
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È uno stralcio dalla relazione svolta dall’Autore al convegno di Magistratura democratica Un mare di vergogna, svoltosi a Reggio Calabria l’1-2 ottobre 2021 (che può leggersi integralmente in www.questionegiustizia: https://www.questionegiustizia.it/articolo/diritti-umani-diritto-disumano).
- Sintesi su Volerelaluna.
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Luigi Ferrajoli
Luigi Ferrajoli, professore emerito di Filosofia del diritto all’Università di Roma Tre, è stato allievo di Norberto Bobbio ed è tra i massimi filosofi del diritto viventi. Già magistrato, è stato, a fine anni Sessanta, tra i fondatori di Magistratura democratica. Tra le sue opere principali: “Manifesto per l’uguaglianza” (2018), “Principia Iuris. Teoria del diritto e della democrazia” (2007), “Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale” (1989), tutti pubblicati da Laterza.

Anpi

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DOCUMENTO PER IL XVII CONGRESSO
NAZIONALE DELL’ANPI APPROVATO DAL
COMITATO NAZIONALE IL 7 MAGGIO 2021

Carla Nespolo ha tracciato una strada, quella del rapporto unitario, del confronto con le altre forze democratiche, della stretta relazione col mondo dell’associazionismo, che intendiamo continuare a perseguire a maggior ragione nella situazione di straordinaria emergenza in cui ci troviamo. Ma ciò che di più profondo ci ha consegnato è la propensione a guardare sempre oltre, a osservare con spirito critico e senso di responsabilità il mondo e il Paese che stanno cambiando, ad ascoltare le opinioni degli altri come un possibile contributo alle nostre, e – assieme – a tenere saldissime le radici dell’Anpi nella concreta esperienza storica della Resistenza e in quell’insieme di valori che sta a noi attualizzare in ogni momento di ogni presente.

CAMBIARE L’ITALIA

Siamo nel pieno di una tragedia mondiale a causa della pandemia e della gigantesca crisi economica e sociale da questa determinata. Da ciò derivano la gravità, l’eccezionalità, l’incertezza del tempo che viviamo. Ma proprio perché crescono la sfiducia, lo scoramento e perfino in tanti casi la disperazione, tanto più occorre promuovere un’idea di cambiamento e così diffondere un messaggio di speranza e di fiducia. Questo è il tempo di una visione del futuro, la visione di un Paese che ritrova le sue radici e dà vita ad una svolta storica.
In Italia, le emergenze attuali, della salute e del lavoro, si aggiungono a tanti ritardi e problemi antichi, di una economia in difficoltà da oltre dieci anni, di un Paese che produce meno ricchezza e poi la distribuisce in modo ineguale e ingiusto, in cui il potere pubblico è insidiato da poteri criminali, che troppi giovani abbandonano perché all’estero trovano migliori condizioni di lavoro e di prospettive personali. Se sono a rischio le condizioni economiche e sociali, è l’intero sistema che si trova in discussione, e si produce una situazione critica per la stessa tenuta della democrazia italiana. La crisi può nascere dalla prolungata difficoltà di reagire, di mantenere le promesse di uguaglianza e giustizia scritte nella Costituzione. Ecco perché vi è bisogno di una risposta straordinaria, che può venire solo, da una piena partecipazione democratica, da un impegno diretto delle forze migliori della società, costruendo una larga unità popolare, dando vita ad una vera e propria nuova fase della lotta democratica e antifascista.
Questo è il senso concreto ed attuale che l’Anpi attribuisce alla storia e tradizione antifascista che rappresenta e per queste ragioni l’Anpi ha avanzato la proposta di una grande alleanza per la persona, il lavoro, la società. La stagione congressuale dell’Anpi mette a tema ‒ in stretto dialogo con la società e la politica ‒ il Paese, la forza della democrazia, un ruolo ed un orizzonte nuovo dello Stato. La piena realizzazione della Costituzione, assumendo l’art. 3 come timone di tutta la rotta da percorrere, è la condizione culturale, ideale, politica nel senso più alto del termine, per il non breve impegno di ricostruzione del Paese su basi più avanzate e solidali. E’ un contributo all’unità del Paese, per superare ritardi storici e disuguaglianze accresciute, per ricostruire un clima di fiducia.
Il nostro Congresso ridisegna così la funzione dell’Anpi nel contesto di una nuova fase storica per l’Italia. L’Anpi delle partigiane e dei partigiani nata nel 1944 si è arricchita diventando, nel 2006, l’Anpi aperta agli antifascisti: oggi definisce la sua natura nazionale e popolare nel vivo del cambiamento indispensabile al Paese, guardando con impegno rinnovato alle giovani generazioni e delle donne, come forze portatrici di rinnovamento e in grado di suscitare nuove energie democratiche. Non una nuova Anpi, ma un’Anpi rinnovata, un’associazione che promuove impegno e nuove forze, che realizza uno spazio pubblico antifascista e repubblicano, parte fondamentale e determinante della più ampia area di associazioni resistenziali.
Da queste premesse deriva la necessità che tutta la fase congressuale sia intrecciata alla costruzione di una vasta rete di relazioni da parte di ogni struttura dell’Anpi che, nella sua autonomia, dialoga con l’associazionismo, il volontariato laico e di ispirazione religiosa, il mondo delle culture, dell’informazione, della scienza, del lavoro in generale, delle istituzioni e delle forze democratiche, oltre che – e in primo luogo – con le altre associazioni resistenziali.
Libertà, eguaglianza, democrazia, solidarietà, pace: sono questi i pilastri valoriali della Resistenza, successivamente incarnati nella Costituzione. E sono perciò anche gli ideali fondamentali dell’Anpi. Ideali che hanno una portata universale, in quanto forniti di uno straordinario carattere espansivo, ma che vanno storicamente declinati in luoghi e tempi determinati. La loro piena realizzazione infatti tende ad essere un orizzonte verso cui muoversi sempre, piuttosto che una realtà compiuta una volta per tutte. Si tratta, appunto, di idee la cui funzione è di essere guida permanente, di dare senso, significato e traguardo alle azioni che vengono condotte.
Tali valori e ideali sono oggi di fatto messi in discussione in modi diversi, e in Paesi e territori diversi. Le libertà spesso sono negate o ridotte: le “libertà di” (per esempio di opinione, di circolazione, di stampa), – peraltro spesso limitate e condizionate ‒ di rado si coniugano con le “libertà da” (per esempio dal bisogno, dallo sfruttamento, dalla fame); l’uguaglianza sembra una chimera, anche perché si accentuano le disuguaglianze; la democrazia viene esplicitamente conculcata, oppure dimezzata, oppure ancora ridotta al pur
necessario diritto di voto. E mentre si affievolisce la partecipazione popolare, in tanti regimi parlamentari la rappresentanza è sacrificata sull’altare di una astratta governabilità; la solidarietà viene incrinata o semplicemente negata, e si tenta di contrapporre situazioni di povertà a situazioni di maggiore povertà e disagio; alla volontà ‒ sempre sostenuta a parole ‒ di garantire una pace globale e duratura si sostituisce nei fatti una macabra normalità della guerra come presunta forma legittima di soluzione delle controversie internazionali.
Eppure nel mondo e nel nostro Paese esistono forze diffuse e operanti che difendono tali valori e ideali perché in essi si riconoscono, e perché sono consapevoli che nessuna prospettiva di cambiamento positivo è possibile a prescindere dalla loro attuazione. Sono forze eterogenee e variamente diffuse, organizzate e non, attente a temi diversi, che vanno dal lavoro alla pace, dalla difesa dell’ambiente alla lotta per la democrazia alla liberazione del proprio Paese.
Veniamo da una lunga storia, quella dell’antifascismo, della dignità e della emancipazione, iniziata durante il regime fascista, proseguita nella Resistenza, continuata nelle lotte per la democrazia e l’attuazione della Costituzione.
Per memoria attiva intendiamo appunto la capacità di trasferire tale eredità nell’azione civile e sociale, politica nell’accezione più larga ed alta della parola, in modo che essa non si limiti alla custodia del passato, ma diventi stella polare del presente e forza propulsiva per il futuro. Dalla memoria attiva della Resistenza, evento fondativo della Repubblica democratica, dobbiamo attingere l’energia e la determinazione necessarie a fronteggiare ogni circostanza sfavorevole, la fiducia nella possibilità di cambiare le cose attraverso l’unità e la partecipazione, lo stimolo alla politica perché riprenda appieno la missione indicata dalla Costituzione, cioè la capacità di progettare e governare il futuro del Paese.

PRIMA PARTE – IL MONDO VISTO DALL’ANPI

Ci sono almeno tre fattori di portata globale che non semplicemente incidono sulle singole situazioni nazionali ma cambiano il modo di pensare della politica, delle culture, delle società. Siamo nella situazione che viene definita di cambio del paradigma: la scala degli avvenimenti è di tale ampiezza, le scelte indispensabili sono di tale grandezza e complessità che il nostro modo di pensare al presente, al futuro, allo sviluppo dell’umanità deve cambiare radicalmente e basarsi su criteri e metodi del tutto nuovi.
Il primo fattore è il cambiamento climatico: il riscaldamento del pianeta procede in modo accelerato, produce devastanti fenomeni atmosferici, determina fenomeni enormi di desertificazione, di riduzione delle masse umide, di mutamento degli equilibri termici degli oceani, di scioglimento dei ghiacci polari e continentali, tanto da minacciare la scomparsa non solo di
aree costiere ma di grandi metropoli di rilievo planetario.
Il secondo fattore è la crisi degli strumenti ‒ che segue alla crisi delle volontà – di governo sovranazionale. L’ONU è da tempo bloccata in una difficoltà di azione, non presente in numerosi punti di tensione ed anche di conflitto armato in Africa, Medio oriente, Asia, in netto deficit di autorevolezza. Il confronto tra grandi potenze, Paesi e soggetti sovranazionali regionali avviene
al di fuori dell’Onu ed anche delle altre Agenzie sovranazionali.
Il terzo fattore è la rivoluzione tecnologica digitale, ampiamente in corso, che ha cambiato e cambierà modalità di lavoro, organizzazione sociale, abitudini, costumi; che incide profondamente sulla formazione del senso comune e lo farà in modo sempre più ampio; che condizionerà i rapporti globali per la stretta connessione con i temi della sicurezza, economica e militare.
Tre fattori estremamente diversi ma per i quali occorre un cambiamento netto di prospettiva, che ciascun Paese può e deve contribuire a determinare.
E il primo cambiamento deve essere la consapevolezza che nessuno si salva da solo: c’è bisogno di un impegno enorme, che richiede grandi sforzi e straordinarie risorse. Il cambiamento climatico ci dice che la politica non può intervenire sulla natura: che, al contrario, la natura decide come deve essere la politica e cosa essa deve fare. La pandemia ha amplificato ulteriormente questo profondo mutamento. Il modello di sviluppo che si è affermato sul pianeta, senza differenze di regime politico, è un modello dissipativo e distruttivo dell’equilibrio tra attività dell’uomo e natura. I rapporti tra i Paesi, in secondo luogo, non si “aggiustano” per forzature progressive ma solo tornando a determinare insieme nuovi strumenti e nuovi obiettivi di coesistenza ed anche competizione, comunque pacifica. E va ripreso con urgenza il tema del superamento degli armamenti nucleari, la cui esistenza si giustifica sempre meno. La rivoluzione digitale inciderà fortemente sullo sviluppo dei singoli Paesi, le cui economie sono attraversate da veloci e intensi processi di trasformazione: occorre operare affinché i dati siano considerati un bene comune, e perché il digitale diventi lo strumento per politiche industriali e sociali non dissipative e sostenibili.

Cambiare il Paese: dalla crisi alla rinascita
È in corso una depressione che colpisce la vita quotidiana dell’intera comunità nazionale, dall’industria ai servizi al commercio alle più disparate forme di lavoro dipendente e di lavoro autonomo, mentre cresce l’esercito degli invisibili e si allarga il differenziale fra nord e sud del Paese.
La crisi è piombata su di una penisola già fortemente segnata dalle iniquità sociali, dal divario economico, dagli squilibri territoriali e dalle contraddizioni insanabili generati da un modello di sviluppo che si è dimostrato incapace di garantire un progresso armonico perché si è fondato sulla abolizione di una ragionevole regolazione e controllo dello Stato sul mercato, sul dominio del privato sul pubblico, sull’esaltazione del concetto di individuo e sulla riduzione e penalizzazione del ruolo della cittadinanza.
Il fallimento di questo modello di sviluppo non riguarda perciò solo la dimensione economica, ma ogni aspetto della vita sociale e culturale del Paese. Da tempo assistiamo ad un progressivo affievolirsi della socialità, ad una caduta verticale della partecipazione popolare, al diffondersi di sentimenti di smarrimento, di paura e di rancore. Il dramma della pandemia ha fatto precipitare la situazione, aggravando la solitudine sociale e creando un’angoscia esistenziale causata dall’incertezza, se non dall’impossibilità di programmare in alcun modo il proprio futuro e persino il proprio presente.
In questo scenario la politica ha dimostrato tratti di larga inadeguatezza, aderendo in modo subalterno alla cultura del neoliberismo, spesso negando legittimazione a qualsiasi indirizzo alternativo di politica economico-sociale, abdicando alla sua vocazione di servizio e al compito di proporre progetti, orizzonti, visioni, ripiegando sulla amministrazione del quotidiano e spesso contaminandosi col malaffare e con l’illegalità. L’attuale sistema dei partiti ha progressivamente smarrito la sua funzione, propria dei primi decenni della repubblica, di cerniera fra società e Stato, rinunciando alla rappresentanza politica degli interessi sociali e arroccandosi nelle istituzioni. Le istituzioni stesse, svuotate della linfa vitale del sistema dei partiti, non più organicamente connesso alla società reale, hanno perso funzionalità, prestigio ed autorevolezza.
Entro questo quadro, in un periodo di tempo relativamente breve, sono cresciute e si sono spesso affermate spinte che chiamiamo populiste,
caratterizzate dal disprezzo delle istituzioni, del sistema dei partiti, dei corpi intermedi. Si è aperta così una falla nella diga democratica. Nel malfunzionamento generale del sistema-Paese sono cresciute spinte eterogenee, con forti propensioni demagogiche e autoritarie, che hanno prodotto un radicale cambiamento degli equilibri elettorali.
La crisi si manifesta anche nel sistema istituzionale. L’immagine del Parlamento è profondamente compromessa da un meccanismo elettorale per cui la gran parte dei parlamentari è nominata, e dunque scarsamente rappresentativa ma anche ‒ in alcuni casi ‒ di discutibile qualità, nonché dalla frequenza degli scandali che coinvolgono esponenti delle istituzioni, a ogni livello. Il taglio del numero dei parlamentari, che inciderà negativamente sull’attività delle Camere, è l’ennesima conferma di una deriva pericolosa, che può mettere in discussione le radici della repubblica.
La pandemia ha drammaticamente messo a nudo la debolezza e l’ambiguità della riforma del Titolo V della Costituzione, com’è dimostrato dalle
violentissime polemiche fra presidenti di Regioni e governo e fra gli stessi presidenti di Regione. Due grandi problemi sono emersi con tutta evidenza.
In primo luogo, l’incongruità di un sistema istituzionale in cui, mentre a livello nazionale vige, sia pur profondamente depauperato, il modello parlamentaristico, a livello regionale si è affermato di fatto un regime presidenziale, peraltro con ben pochi contrappesi. In secondo luogo, si è via via passati da una forma di regionalismo solidale ad una teoria del primato del più forte; l’autonomia appare sempre meno compatibile con il principio costituzionale della repubblica una e indivisibile, fondata sull’espansione della democrazia e della partecipazione dei cittadini, e sempre più un elemento di costante tensione, generata dall’egoismo localistico e dalla competizione
di mercato. A maggior ragione risulta improponibile qualsiasi proposta di autonomia differenziata: al di là di ogni buona intenzione, essa diventa un ulteriore fattore di separazione e ‒ per alcuni aspetti ‒ di frantumazione del Paese. In particolare, verrebbe ulteriormente drammatizzata la condizione del Mezzogiorno, già oggi per molti aspetti allo stremo.
La pandemia, con la conseguente crisi economica, è esplosa come una bomba su un tessuto già profondamente segnato e indebolito, facendo venire al pettine difficoltà e punti di crisi presenti da anni o addirittura da decenni.
Per citarne alcuni: il lavoro, declassato da tempo nella gerarchia dei valori sociali, con un gigantesco arretramento dei salari, dei diritti e della sicurezza dei lavoratori, a testimonianza di un vero e proprio travisamento dello spirito e della lettera della Costituzione a cominciare dal suo fondamento (art.1), e per effetto di un quadro legislativo caratterizzato dalle modifiche peggiorative apportate allo Statuto dei lavoratori e dalla simmetrica mancanza di aggiornamenti legati alle novità nell’organizzazione del lavoro, mentre giace da tre anni in parlamento la proposta di iniziativa popolare della CGIL per una nuova Carta dei diritti del lavoro. Il fenomeno migratorio, per il quale non c’è ancora una chiara politica di accoglienza, di solidarietà e soprattutto di integrazione, anche a causa dei ritardi e delle chiusure da parte dell’UE o di alcuni Paesi membri. La sanità, che, messa alla prova terribile dalla pandemia, ha rivelato i danni determinati dal progressivo ridimensionamento del Servizio sanitario nazionale a vantaggio di un modello privatistico che si è dimostrato fallimentare nel fronteggiare l’emergenza. La scuola, che vive una lunga, grave stagione di crisi perché ha perso gran parte del suo prestigio sociale (di cui fa le spese soprattutto il corpo docente), ha smarrito la sua missione fondamentale, che consiste nella formazione del cittadino. La giustizia, su cui pesano soprattutto i tempi lunghissimi dei processi e gli scandali che ne colpiscono profondamente la credibilità. La legalità, messa quotidianamente in discussione dalla criminalità organizzata e dalle organizzazioni mafiose che coprono oramai il territorio nazionale e che rivelano talvolta collegamenti perversi con la politica. L’informazione, la cui concentrazione in mano a editori “non puri” mette di fatto in discussione il pluralismo delle idee, ed esalta la faziosità. Il fisco, che da un lato non riesce a sanare la piaga dell’evasione e dell’elusione e dall’altro non ottempera più a criteri di progressività e di equa distribuzione degli oneri.
Questo groviglio di problemi si intreccia con problemi storici e permanenti: il persistere e l’aggravarsi della questione meridionale, tara storica che data dai tempi e dai modi dell’unità nazionale, e che si è accentuata da alcuni decenni a causa del costante aumento del differenziale produttivo, economico e sociale fra nord e sud del Paese; la diffusione di vecchie e nuove povertà e di
forme sempre più larghe di esclusione e marginalizzazione sociale, che hanno oramai posto all’ordine del giorno il tema dell’abbandono e del degrado di ogni periferia; una drammatica condizione delle nuove generazioni, private di diritti e di prospettive, di lavoro e di luoghi di socialità, costrette in gran parte a vivere alla giornata, alternando disoccupazione ad attività saltuarie, dequalificate, mal remunerate e spesso pericolose.
L’Italia versa perciò in uno stato di crisi organica, che si verifica allorché in un Paese un intero sistema sociale, politico e economico si trova in un stadio di instabilità così forte da mettere in discussione la sua tenuta e la credibilità stessa delle istituzioni. Quando il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere insorgono pericoli di cesarismo, si profila cioè il rischio di regimi in cui un individuo assume il potere in modo autocratico, sostituendo la partecipazione democratica e la rappresentanza con la delega diretta e plebiscitaria.
Tutto ciò pone all’ordine del giorno la difesa, la tenuta e il rilancio della democrazia, anzi, propriamente, della democrazia costituzionale.
Si parla in generale, ed anche per il nostro Paese, di crisi delle democrazie liberali. In realtà tale definizione per l’Italia è riduttiva e per così dire propagandistica. La democrazia disegnata dalla Costituzione infatti è rappresentativa, perché il popolo elegge i suoi rappresentanti; parlamentare, perché ha al centro del sistema istituzionale il parlamento; partecipata, perché presuppone ed evoca, in forme diverse, la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Certo, la nostra democrazia ha tratti liberali, ma ‒ contestualmente ‒ anche imprescindibili tratti sociali, che nascono dagli ideali di libertà ed eguaglianza coltivati in molteplici forme nella Resistenza e sostenuti nei decenni successivi dalle lotte sociali che hanno contribuito in modo determinante al progresso economico, morale e culturale del nostro Paese. Da tempo questi ultimi tratti sono stati messi progressivamente in secondo piano, con la conseguente crescita di contraddizioni e squilibri e con l’aumento esponenziale del tasso di diseguaglianza. I punti di crisi della democrazia italiana corrispondono prevalentemente alla parziale realizzazione del carattere sociale della democrazia costituzionale.
In questi vuoti si innestano le propensioni e le azioni eversive dell’estrema destra italiana: neofascisti, neonazisti e razzisti intervengono sempre più spesso nelle ferite sociali, dalla povertà alle contraddizioni fra poveri e più poveri (acuite anche dal fenomeno migratorio), dal disagio giovanile al declassamento rapidissimo di ampie fasce di ceti medi e medio-bassi. Le iniziative, spesso di natura squadristica, della “galassia nera” sono peraltro alimentate dalla propaganda incessante delle centrali della paura e dell’odio che operano nella politica, nei media, nei social network, e che hanno dato vita a un diffuso senso comune popolare. L’esito è che, mentre negli anni ‘70 la base sociale delle forze di estrema destra si concentrava simbolicamente in piazza San Babila a Milano o ai Parioli a Roma, oggi si trova nelle periferie.
Alla caduta del secondo governo Conte, provocata dal disimpegno di una forza politica della sua stessa maggioranza, hanno fatto seguito una fase di grave incertezza e la nascita del nuovo governo, in un tumultuoso rimescolamento del sistema politico. Nello scenario del tutto inedito cui siamo di fronte, rimane fermo l’obiettivo dell’Anpi di rivendicare la piena attuazione della Costituzione e una chiara azione di sostegno ad ogni concreta iniziativa
giuridica di contrasto ai fascismi e ai razzismi, che sono l’ospite inquietante
della democrazia italiana in crisi e che vanno combattuti anche sul terreno
sociale e culturale.
Si tratta di una battaglia non certo facile, ma che può essere vinta grazie
alla presenza nel nostro Paese di una vastissima area democratica di popolo,
eterogenea, più o meno organizzata in formazioni sociali, di ispirazione laica
o con convincimenti religiosi, che esprime diverse opzioni politiche ma che si ritrova saldamente unita sui principi della democrazia e sugli ideali dell’antifascismo, e che negli ultimi anni si è attivata pubblicamente decine,
centinaia di volte, in modi diversi, ad attestare una presenza, una fiducia, una
speranza. A questa mobilitazione di massa si sono aggiunte le prese di posizione
di personalità del mondo della cultura, dello spettacolo, dell’informazione, del lavoro. L’elemento portante di questo movimento carsico ma costante di partecipazione democratica è stato l’associazionismo, sia nelle espressioni più
stabili e organizzate a livello nazionale (Arci, Acli, Libera, Cgil, Cisl, Uil), sia in forme nuove, come le Sardine, sia in una miriade di esperienze particolari e locali: un movimento che ha visto sempre la presenza attiva dell’Anpi e delle altre associazioni resistenziali. Un forte impulso a tale movimento è venuto dalle ultime encicliche e dal convegno economico di Assisi (Economy of Francesco). L’incontro fra una rinnovata concezione religiosa del mondo e della vita e la visione laica dell’associazionismo sta contribuendo in modo essenziale a dar forza all’obiettivo della costruzione di una società diversa, che abbia a fondamento la centralità della persona umana, cioè un nuovo
umanesimo. Che è poi, in ultima analisi, l’architrave della Costituzione.
Da questo punto di vista non si possono dimenticare due immagini di straordinaria potenza simbolica in piena pandemia: il Papa da solo in piazza
San Pietro il 28 marzo 2020, il Presidente della Repubblica da solo davanti al
Monumento al Milite Ignoto il 25 aprile 2020.

Noi Europei: per una più forte unità politica dell’UE
Il sistema istituzionale dell’Unione Europea non è un sistema pienamente
parlamentare, ed è parte di un complesso meccanismo che rende la
democrazia europea ancora incompiuta. Tale meccanismo merita di essere
profondamente rivisitato in direzione del conferimento di più ampi poteri al
parlamento. È auspicabile che la Conferenza sul futuro dell’Europa produca
il risultato di estendere la partecipazione dei cittadini e di rafforzare la loro reale rappresentanza all’interno delle istituzioni europee.
Com’è noto, un capitolo fondamentale nella storia dell’idea di Europa è stato scritto a Ventotene. L’Europa immaginata da Colorni, Spinelli, Rossi, Hirschmann, si ispirava ai principi di libertà, di democrazia, di eguaglianza
sociale (per mettere fine alle “colossali fortune di pochi” e alla “miseria delle grandi masse”), prima coltivati dagli antifascisti italiani nella clandestinità, poi sbocciati nella Resistenza; un’Europa dei popoli e della solidarietà. Ancora oggi, ottant’anni dopo, il manifesto di Ventotene è un potente antidoto contro i nazionalpopulismi e i sovranismi, e continua a indicarci la prospettiva di una unione continentale come avanzamento ‒ e, per alcuni aspetti, compimento ‒ della rivoluzione democratica che ha sconfitto il nazifascismo.
L’Europa è perciò il luogo dove oggi l’antifascismo può realizzare una delle
sue missioni fondamentali. Sapendo coniugare lo sviluppo con i diritti individuali e collettivi, l’Europa è stata nel dopoguerra la culla del Welfare, e può perciò proporsi come riferimento per altre aree del mondo. Eppure, a
causa della crisi delle democrazie occidentali, in tanti Paesi della UE germina e cresce il virus del nazionalismo, spesso mescolato al razzismo e al nazifascismo: lo stesso virus che portò il mondo alla catastrofe nel 900. Il populismo ha assunto specifici caratteri nazionali, violando, come nel caso della Polonia e dell’Ungheria, alcuni capisaldi del Trattato dell’Unione Europea: ci riferiamo alla tutela della dignità della persona, ai valori della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, allo Stato di diritto e al rispetto dei diritti umani.
Spinte centrifughe e revisioniste di varia natura, provenienti prevalentemente
da alcuni Paesi dell’est, hanno indebolito l’Unione e rischiano di mettere in discussione la sua matrice antifascista; basti pensare alla Risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019 “sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa”, che ha riscritto la storia delle origini della
seconda guerra mondiale attribuendo una notevole responsabilità all’Unione
Sovietica e sminuendo di fatto le colpe del nazifascismo, peraltro in palese
contrasto con lo spirito della Risoluzione del Parlamento europeo del 25 ottobre 2018 “sull’aumento della violenza neofascista in Europa”.
Un’analoga distanza dai principi dello Stato di diritto si verifica in Paesi
europei non UE come l’Ucraina, profondamente inquinata da presenze filonaziste, e la Bielorussia, governata da un regime dispotico e violento.
L’UE, per di più, è da poco uscita da una lunga stagione di politica economica,
aperta dalla crisi del 2007-2008 e improntata alla cosiddetta austerità, che
ha avuto drammatiche conseguenze sociali in vari Paesi, compresa l’Italia, e
risultati catastrofici per la Grecia. Tale politica è stata una delle cause essenziali della caduta di fiducia nell’UE, della crisi della democrazia, del repentino affermarsi dei nazionalpopulismi.
Il cambio di rotta determinato dal dramma della pandemia ha segnato una
discontinuità profonda e positiva che può preludere ad un radicale cambio di
passo, come lasciano intravedere le opzioni relative alla green economy e, più in generale, la maggiore attenzione ai temi dell’ambiente. Eppure rimane
inconfutabile una strutturale debolezza politica e sociale dell’Unione,
dovuta alla mancanza di politiche comuni su temi fondamentali – politica
estera, emigrazione, fisco, lavoro – e all’indebolimento della fiducia dei
popoli nei confronti dell’organismo sovranazionale. Di converso la Brexit, se ha rappresentato traumaticamente un punto di crisi dell’Unione, ha altresì rafforzato la tenuta dell’Unione stessa davanti al pericolo della disgregazione.
In ogni caso l’UE non si mostra ancora pienamente all’altezza della sfida
globale, per la persistenza di piccoli e grandi egoismi nazionali, per i riflessi politici della teoria economica del neoliberismo (da tempo applicata di
fatto in modo esclusivo, seppure con diverse articolazioni, dall’insieme della
UE), per i condizionamenti postumi della Guerra fredda. Va segnalato in proposito il tormentato rapporto con la Russia. Alle giuste critiche per i limiti e le distorsioni del sistema politico di questo Paese e per l’opacità di eventi, situazioni ed episodi imputabili a decisioni del governo russo, si aggiunge spesso nei confronti della Russia un sovraccarico di polemiche e di scontri di carattere geopolitico, che innalzano la tensione in modo preoccupante. Il mondo che ci attende richiede un assetto multipolare, il superamento di ogni residuo di eurocentrismo e al contempo il rafforzamento dell’UE sotto tutti i punti di vista, affinché il vecchio continente, unito, regga la sfida delle grandi potenze politiche ed economiche in occidente e in oriente, a cominciare da Stati Uniti e Cina, senza per questo rinunciare alla cooperazione, al negoziato e a ogni altro strumento che garantisca la pacifica convivenza, il progresso economico e sociale, l’autodeterminazione dei popoli.
È bene che l’Europa abbia confermato il suo sistema di alleanze internazionali e i suoi rapporti transatlantici; ma tale sistema va collocato nel contesto del mondo attuale, in cui la mission difensiva della Nato nei confronti dei Paesi dell’est è venuta ovviamente meno, ma non è chiaro quale sia la nuova funzione ‒ e tantomeno il significato della natura esclusivamente difensiva ‒ dell’alleanza militare. Anche per questo deve essere messa all’ordine del giorno la costruzione di un autonomo sistema di sicurezza europeo.
Inquieta in questo scenario la proliferazione di gruppi e organizzazioni che si
richiamano al fascismo, al nazismo e al razzismo, e che interessa soprattutto
i Paesi dell’est. Sarebbe un gravissimo errore sottovalutare o tollerare questa
evidente realtà, che costituisce una minaccia permanente per la democrazia
e la libertà. Occorre perciò una piena riaffermazione dell’antifascismo come
architrave della costruzione europea e un profondo rafforzamento della
dimensione continentale dell’antifascismo organizzato.
L’Unione Europea, in conclusione, non è altro argomento, estraneo alla
situazione nazionale; essa rappresenta una dimensione decisiva della battaglia
politica, sociale e culturale, e deve diventare il teatro principale della nuova
fase della lotta democratica e antifascista nello spirito, nelle mutate condizioni storiche del nuovo secolo e del nuovo mondo, del Manifesto di Ventotene.

Il mondo in cui viviamo
L’Europa e l’Italia nel nuovo mondo. Ma è davvero nuovo? Lascia sconcertati
la vicenda dei vaccini, la cui ricerca è stata finanziata dai poteri pubblici, ma
la cui produzione e commercializzazione è stata affidata alle multinazionali
del farmaco, che hanno agito in base alle leggi del mercato e non in base al
bisogno sociale. Tutti sanno chi è il presidente degli Stati Uniti, della Russia,
della Cina, ma ben pochi sanno chi è l’amministratore delegato di Microsoft, Amazon, JPMorgan Chase. Eppure il giro d’affari di molte multinazionali sovente supera persino il PIL di tanti Paesi. In un mondo davvero nuovo dovrebbero essere messi a tema il controllo pubblico dell’economia e della finanza, un codice di vincoli e di regole per un sistema produttivo privato che opera al di fuori ed al di sopra di ogni legislazione nazionale. In sostanza, la politica deve tornare al posto di comando.
Certo, non c’è più l’inquietante figura del presidente Trump, ma l’onda lunga del “trumpismo” non si è esaurita e continua a ispirare nazionalismi e protezionismi: in America del Sud con l’incredibile presidenza di Bolsonaro, in Europa con una forte e articolata presenza nazionalpopulista, ed in Asia, per esempio col governo di Narendra Modi in India, mentre nel Myanmar l’opposizione al colpo di stato da parte di un larghissimo movimento popolare che chiede il ripristino della democrazia viene represso in modo sanguinoso.
Negli States è alla prova il nuovo presidente Biden, che propone una visione
del mondo senz’altro diversa da quella di Trump e che ha segnato già punti
a suo favore (a partire dal rientro del suo Paese negli accordi di Parigi per la
difesa dell’ambiente), ma che apre anche inquietanti interrogativi sul possibile
ricorso alla forza militare come mezzo di risoluzione delle controversie con
altri Paesi, come confermato dal raid in Siria del febbraio 2021. La sfida più
grande a cui Biden è atteso è quella della pace e della guerra: ci aspetta una
nuova guerra fredda o finalmente una coesistenza pacifica fondata sulla non ingerenza negli affari interni di altri Stati e sul diritto all’autodeterminazione dei popoli? Anche da questo punto di vista il Medio Oriente rimane una cartina di tornasole, perché chiama in causa le endemiche ingerenze politiche e militari dell’occidente, la condizione di popoli senza Stati come i palestinesi e i curdi, il ruolo di potenze regionali come Turchia, Israele, Arabia Saudita, Iran, Egitto. Si protrae il conflitto israelo-palestinese, la cui unica, equa e ragionevole composizione non può che consistere nella formula “due popoli due Stati”; dura la sanguinosa repressione del governo turco nei confronti del popolo curdo; crescono le tensioni fra Paesi a maggioranza sunnita e Paesi a maggioranza sciita; rimane il rebus libico, dopo che lo Stato è stato di fatto dissolto dall’aggressione militare della Nato del 2011, e si è aperto un calvario di guerre tribali che hanno trasformato la Libia in un teatro di scontri per procura di Stati terzi ingolositi soprattutto dalla ricchezza petrolifera del territorio, nel terreno di una complessa partita politica e diplomatica da cui l’Italia è stata finora sostanzialmente assente.
Da tempo in America Latina è in corso un confronto di dimensioni continentali fra una politica che si prefigge una effettiva indipendenza dagli Stati Uniti d’America, e una politica che si richiama alla dottrina Monroe, e dunque tende a imporre la supremazia degli Stati Uniti nel continente americano. Intanto permane l’embargo commerciale, economico e finanziario degli Stati Uniti contro Cuba, iniziato nel 1962 e ultimo retaggio della guerra fredda. È ora di cancellarlo. Le questioni legate al rispetto delle libertà, della democrazia e dei diritti umani nei Paesi dell’America Latina, alle volte reali, altre volte pretestuose, sovente sollevate per denunciare l’illegittimità di questo o quel governo, si possono affrontare esclusivamente a partire dal rispetto dell’autonomia nazionale e dell’autodeterminazione. La teoria dell’esportazione della democrazia ha già determinato catastrofici effetti in Medio Oriente, laddove, viceversa, nei confronti di regimi in cui libertà, democrazia e diritti umani sono parole vuote, come le petromonarchie, si resta inerti e si stabiliscono in qualche caso, come l’Arabia saudita, addirittura rapporti preferenziali. Seppur in ritardo, bene ha fatto il governo italiano a sospendere le commesse commerciali verso la monarchia saudita. Queste contraddizioni chiamano in causa il progressivo svuotamento di poteri e di legittimità dell’Onu e degli organismi internazionali che ne sono espressione.
Le Nazioni Unite devono recuperare il ruolo di garanti del diritto internazionale e del sistema di sicurezza collettiva, prevenendo o sanando i conflitti, tutelando il principio di non ingerenza, richiamando gli Stati membri al rispetto dei diritti umani.

In questo nuovo mondo c’è un generale indebolimento delle democrazie.
Questo vale per le democrazie cosiddette illiberali, in cui, pur in presenza di elezioni, si nega di fatto la divisione dei poteri e si tende ad asservire il potere legislativo e quello giudiziario all’esecutivo, a conculcare i diritti e
le libertà civili, ma vale anche, sia pur in modo diverso, per le democrazie
rappresentative, svuotate di effettiva partecipazione popolare e con una crisi dei partiti, in particolare dei partiti “storici”, sempre più marcata, sia pur in forme diverse a seconda degli Stati. Colpisce la pressoché totale
scomparsa dell’accezione di “democrazia sociale”, cioè di una democrazia che,
salvaguardando le conquiste del liberalismo, vada oltre, affinché le libertà e i diritti declamati siano effettivamente praticati.
In questo scenario si collocano i grandi temi della contemporaneità, a
cominciare dal fenomeno dell’ondata migratoria, che mostra la distanza
abissale fra le dichiarazioni e i comportamenti in materia di democrazia e
di diritti umani. A fronte di un evento di proporzioni eccezionali, prevale
un atteggiamento di ripulsa e di arroccamento, i cui effetti sono visibili dal
Messico al Mediterraneo alla rotta balcanica, con conseguenze catastrofiche
anche a causa della mancanza di un ordine internazionale e della debolezza e
contraddittorietà delle politiche dell’UE. Ma risposte parcellizzate, confuse e
dunque insufficienti vengono date anche ad altri problemi capitali della fase
attuale, dalla fame nel mondo alla catastrofe annunciata del riscaldamento
globale, dalla piaga del terrorismo islamico agli effetti globali della rivoluzione digitale. Per questo democrazia, nuovo umanesimo, sviluppo sostenibile, pace costituiscono le fondamenta della politica che l’umanità di oggi, e specialmente le nuove generazioni, chiedono a gran voce.

SECONDA PARTE – L’ANPI E LA SFIDA DEL PRESENTE

Noi
Come si colloca l’Anpi in questo mondo e in questo nostro Paese, l’uno e l’altro così cambiati? In primo luogo si colloca attivamente, perché l’Anpi non è la custode di un’antica reliquia, ma un soggetto che fa tesoro della memoria per intervenire nel presente e per disegnare il futuro. Non a caso lo Statuto recita fra l’altro, a proposito della missione dell’Associazione: “battersi affinché i princìpi informatori della Guerra di Liberazione divengano elementi
essenziali nella formazione delle giovani generazioni”; “concorrere alla piena
attuazione, nelle leggi e nel costume, della Costituzione Italiana, frutto della
Guerra di Liberazione, in assoluta fedeltà allo spirito che ne ha dettato gli
articoli”. In queste parole c’è la sostanza dell’idea di “memoria attiva” che
ispira l’associazione, e che consiste nel rendere vivo e operante il sistema di
valori incarnato nella Resistenza e dichiarato nella Costituzione.
L’idea di memoria attiva è la base del “fare politica” dell’Anpi, ossia di
un impegno civile e sociale che, oltre a essere un diritto, è un dovere di
cittadinanza. Chi fa coincidere con la sfera dei partiti il perimetro dei
soggetti di qualsiasi iniziativa che attenga alla politica, rivela una concezione profondamente antidemocratica e ignora la funzione essenziale della
partecipazione nell’impianto costituzionale della democrazia italiana.
L’Anpi, peraltro, ha nella sua storia momenti di forte presenza sul terreno
della politica: così fu nel 1953 nell’opposizione alla cosiddetta “legge truffa”, nel 1960 per impedire il congresso del Msi a Genova e per contrastare il governo Tambroni, negli anni 70 e 80 per fermare la strategia della tensione prima e il terrorismo poi. Recentemente ‒ nel 2006, nel 2016, nel 2020 ‒ l’Anpi ha fatto sentire le sua voce nei referendum costituzionali.
L’Associazione è perciò un attore del dibattito pubblico, pronto anche alla
mobilitazione di piazza laddove sussistano gravi pericoli per la democrazia e
il suo assetto costituzionale.
L’Anpi, in sostanza, come tutte le formazioni sociali, è un soggetto politico,
ma mentre tutti i partiti sono soggetti politici, non tutti i soggetti politici sono partiti. L’Anpi non era, non è e non sarà mai un partito, né può essere oggetto di alcuna speculazione partitica, perché la sua forza morale, ideale e pratica deriva dalla sua natura di “associazione che unisce”, che non è portatrice di una ideologia specifica, che è di parte sì, ma della parte della Costituzione.
Questo non vuol dire rifiutare i partiti o diffidarne pregiudizialmente; vuol dire invece avere a mente i diversi ruoli delle comunità organizzate che strutturano e danno anima al funzionamento della democrazia italiana.
Da tutto ciò deriva la legittimità ed anche l’urgenza, in questa fase drammatica, di una capacità di critica e di proposta, sempre in riferimento a grandi questioni di carattere costituzionale, istituzionale, politico, sociale.

L’impegno dell’Anpi oggi
La grande alleanza democratica e antifascista
Proprio perché portatrice di una visione laica e libera della cittadinanza
attiva, l’Anpi ha avanzato la proposta della grande alleanza democratica e
antifascista per la persona, il lavoro e la socialità, raccogliendo un’adesione
ampia di movimenti, associazioni, sindacati, forze politiche, ed in primo
luogo di associazioni partigiane. Il respiro di tale proposta infatti richiede
innanzitutto il concorso di tutte le associazioni nate dalla comune esperienza
della Resistenza. Tali associazioni si sono divise e articolate in ragione di uno scenario politico da tempo scomparso, e va perciò avviato un percorso che
prenda atto del superamento delle antiche divisioni nella prospettiva di una
sempre maggiore vicinanza e di una auspicabile ricomposizione.
La proposta è di un’alleanza che riproponga nel dramma presente la centralità
dei valori della solidarietà e della prossimità, due parole chiave, ma sappia
anche guardare al futuro, affinché nell’Italia del dopo Covid non si assista
alla restaurazione dei modelli economici e valoriali del recente passato, ma
si imbocchi la strada del cambiamento. O ci sarà una svolta vera, oppure il
domani riproporrà in forma ancora più grave il dramma della diseguaglianza.
Si tratta dunque di un’alleanza per la Costituzione.
Tale proposta nasce dalla estrema gravità della situazione del Paese, dall’urgenza di una risposta unitaria come unica risposta storicamente e logicamente possibile, dalla necessità di non giocare più soltanto di rimessa,
criticando o contestando questo o quel fenomeno di deriva della democrazia,
ma viceversa di andare all’attacco, svolgendo un ruolo positivo e propositivo.
In sostanza, questo è il momento di una piena assunzione di responsabilità
nazionale e generale, a maggior ragione di fronte alla mancanza di soggetti
partitici in grado di svolgere un’analoga funzione di “levatrice” di una nuova
fase della lotta democratica e antifascista.
Questa scelta dell’Anpi è pienamente coerente con le sue radici, anzi per qualche aspetto è dovuta, perché rinvia, in ultima analisi, alla logica unitaria del Cln e allo slancio di solidarietà del Paese nell’immediato dopoguerra, prima
dell’avvio della guerra fredda, cioè alla fase di ricostruzione dell’Italia distrutta da un regime dittatoriale e dalla guerra. Inoltre, esalta il carattere autonomo e unitario dell’Associazione. I due aggettivi non sono in contraddizione, perché il primo esclude qualsiasi rapporto di dipendenza, il secondo esclude qualsiasi propensione alla chiusura e all’autosufficienza. Oggi non c’è stata una guerra e la dittatura fascista è fuori dalla storia presente: ci sono però un Paese da ricostruire, una fiducia da suscitare, un futuro che deve essere nelle mani dei cittadini.
La proposta di grande alleanza serve in primo luogo a stabilire un clima nuovo, di dialogo, di partecipazione, di condivisione, di ascolto, fra forze politiche, forze sociali, istituzioni, ma anche fra persone, perché è vero, come ha affermato Papa Francesco, che “nessuno si salva da solo”. È inoltre un luogo ove esporre analisi e formulare proposte di indirizzo, opzioni di
priorità, gerarchie di valori condivisi. L’obiettivo dell’alleanza non è quello di sostituirsi al legislatore, ma di stimolarlo e di contribuire alla ricostruzione di un rapporto virtuoso fra la società e il sistema istituzionale. La modalità di tale alleanza non si può definire con un accordo a tavolino; l’alleanza deve manifestarsi in un costante processo unitario e realizzarsi attraverso le tante forme possibili che essa può assumere sull’intero territorio nazionale, in considerazione delle specifiche caratteristiche della storia locale. È dal territorio che possono nascere esperienze, proposte, iniziative. I territori sono le officine dell’alleanza.
Ma i territori sono anche per alcuni aspetti l’obiettivo dell’alleanza. A fronte
degli estesi ed evidenti fenomeni di disgregazione, occorre ricostruire i legami
sociali attraverso una crescente partecipazione, una mobilitazione generale
dei cittadini organizzati, per costruire una nuova cultura della cittadinanza.
Questo comporta per l’Anpi una vasta proiezione nella società civile, un
dialogo ed uno scambio continui con la molteplicità dei soggetti sociali.

La nostra anima e le radici
La nostra anima è la memoria delle radici. Essa si incarna in forma simbolica
e rituale nella mole delle celebrazioni, a cominciare dalla più grande e
significativa: il 25 aprile. Tale data viene ricordata con la dovuta solennità
nella grande maggioranza dei comuni italiani; ma c’è ancora una zona grigia in
cui, anche a causa delle scelte di diverse giunte di destra, non viene festeggiata la Liberazione. È compito di tutte le strutture Anpi impegnarsi affinché in ogni comune il 25 aprile venga degnamente commemorato. Ma assieme a
questa e ad altre date importanti (come il 2 giugno, festa della Repubblica),
l’Anpi è impegnata a coltivare la memoria delle radici in molte altre forme,
come l’onore alle lapidi o l’istallazione delle “pietre d’inciampo”. Per
converso, l’Anpi deve impegnarsi su tutto il territorio nazionale a contrastare
la pericolosissima deriva per cui in alcune realtà si erigono piccoli o grandi
monumenti a personalità del regime fascista o compromesse col fascismo.
Il fronte su cui si sta manifestando una vera e proprio offensiva dell’estrema
destra riguarda la toponomastica, con l’intitolazione di piazze, vie, giardini a fascisti scomparsi. A questa indecente opera di riabilitazione del fascismo
noi dobbiamo contrapporre la valorizzazione delle figure della Resistenza di
maggiore rilievo locale, con particolare riferimento alle centinaia e centinaia
di donne – partigiane, staffette o semplici donne del popolo – seviziate e
uccise dai nazifascisti, a cominciare da quelle insignite di Medaglia d’Oro.
In tale contesto va ricordato il prezioso lavoro, svolto per conto dell’Anpi
nazionale con la collaborazione di tanti comitati provinciali e di tante sezioni
e col sostegno dello Spi-Cgil, da Laura Gnocchi e Gad Lerner, che hanno
raccolto centinaia di video-interviste a partigiane e partigiani. Al volume «Noi
partigiani», pubblicato lo scorso anno, segue la costituzione di un “memoriale
virtuale” in cui sono raccolte tutte le testimonianze. Sarà poi utile un serio
contributo dell’ANPI anche all’approfondimento del tema che si potrebbe
definire “la Resistenza e il futuro”, per cogliere le attese, le speranze, gli intenti
e i progetti di quanti parteciparono in qualsiasi forma alla Resistenza. Tale
approfondimento potrà recare un contributo saliente anche a collegare talune
esperienze della Resistenza (per esempio, le Repubbliche partigiane) ai lavori
(ed ai risultati) della assemblea Costituente, per la formazione dell’attuale
Carta Costituzionale, recando un ulteriore contributo alla memoria, non
solo come conoscenza e ricordo, ma anche come riflessione e valorizzazione
dei contenuti, delle attese e delle speranze della Resistenza.
In ultima analisi la “memoria” dell’Anpi, e cioè la conoscenza, il ricordo,
la valorizzazione del passato e la sua elaborazione critica, a partire dalla
complessa esperienza della Resistenza e della Liberazione, dalla Consulta
nazionale istituita dopo la fine della guerra per portare il Paese alle elezioni
politiche, dai lavori dell’Assemblea Costituente ed infine dall’approvazione
della Costituzione, rappresenta un patrimonio irrinunciabile per affrontare
in modo critico, positivo e propositivo il presente ed il futuro. Siamo davanti
ad una dilagante e generalizzata riscrittura della storia, e a una vera e propria
delegittimazione della ricerca storica, da parte di centri di potere politico e
istituzionale della destra. È urgente perciò dar vita a una nuova narrazione
che faccia della verità storica uno strumento potente di impegno civile e di
cambiamento sociale.

L’antifascismo e l’antirazzismo oggi
Tutta la vigenza congressuale, dal 2016 ad oggi, è stata costellata di iniziative
antifasciste e antirazziste da parte dell’Anpi, nella maggioranza dei casi
unitamente ad altre forze sociali. Dobbiamo essere sempre in prima fila nella
denuncia dell’attività squadristica in ogni sua forma, dei tentativi revisionistici
che si sono moltiplicati negli ultimi anni con l’evidente disegno di ridare
legittimità storica e politica al ventennio, di ogni manifestazione di razzismo, di
discriminazione e di antisemitismo. L’antisemitismo è vivo e vegeto in Europa
e si manifesta con frequenza sempre più preoccupante. È essenziale avere a
mente che qualsiasi riferimento diretto o indiretto al fascismo è in conflitto
con lo spirito della Costituzione e con la natura democratica della repubblica.
Oggi la suggestione fascista non è più limitata ad un gruppo di nostalgici, ma
è condivisa da una parte significativa, pur se non maggioritaria, della pubblica
opinione, ed è assecondata dai gruppi dirigenti dei partiti più vicini al punto
di vista nazionalpopulista, che hanno in gran parte sdoganato il fascismo
legittimandone storia, teorie, idee, costumi, luoghi comuni. L’egemonia della
cultura antifascista passa in primo luogo dalla sconfitta di questi fenomeni.
Negli ultimi anni i punti più alti dell’impegno antifascista dell’Anpi sono
stati la grandiosa manifestazione “Mai più fascismi, mai più razzismi”, da noi
promossa insieme con un vasto arco di forze e tenutasi a Roma il 24 febbraio
2018; la raccolta unitaria di firme su scala nazionale per la messa fuorilegge
delle organizzazioni fasciste e razziste; l’esposto presentato alla Procura della
Repubblica di Roma contro Casa Pound; la lunga campagna di denuncia
della “Galassia nera” sul web lanciata da «Patria indipendente» e ripresa in
vari modi da istituzioni e media; la vasta attività di ricerca storico-giuridica
sulla legislazione antifascista e antirazzista compiuta dall’Anpi nazionale.
Analogamente, la battaglia antirazzista ha avuto carattere permanente e
continuativo su diversi fronti: i migranti, i rom, gli ebrei, gli afroamericani. Un
punto particolarmente alto di impegno è avvenuto a partire dal luglio 2020,
dopo l’omicidio negli States di George Floyd. Assieme, la critica al razzismo
si è realizzata con diverse riflessioni e approfondimenti, in particolare sulle
pagine di «Patria indipendente». È stato messo a fuoco il nesso strettissimo
fra contrasto a fascismi e razzismi e piena attuazione della Costituzione; il
carattere antifascista della Carta fondamentale non si riduce infatti alla pur
essenziale XII Disposizione finale, ma ispira ogni sua parte perché disegna uno
Stato, una società ed un insieme di regole esattamente opposti all’ideologia
fascista e razzista.
La memoria del passato avviene sempre nel presente. Da questo punto di
vista la Resistenza, la guerra, il dopoguerra, la Costituente, la Costituzione
sono temi straordinariamente attuali e oggetto di ricerca storica tutt’altro
che conclusa. L’Anpi ha dato in questi anni un importante contributo alla
conoscenza della Resistenza come fenomeno nazionale (valorizzando il
ruolo del Mezzogiorno e dei meridionali) e come laboratorio istituzionale (le
repubbliche partigiane). Eppure stiamo assistendo a un’offensiva revisionista
senza precedenti, tesa a screditare il movimento partigiano e l’intera lotta
di Liberazione; valga a esempio la ricorrente e stucchevole polemica sulle
foibe. Anche su questo terreno l’Anpi ha risposto non solo contestando un
presunto negazionismo, peraltro mai esistito, ma analizzando il drammatico
fenomeno nel più ampio contesto delle vicende del confine orientale, dal
fascismo di confine all’invasione della Jugoslavia. Questi fronti di ricerca
devono rimanere aperti, e devono essere approfonditi aspetti finora non
sufficientemente studiati: le atrocità commesse dai nazifascisti nei confronti
delle partigiane, delle staffette e in generale delle donne; il ruolo specifico dei ragazzi e dei ragazzini nella Resistenza; il suggestivo e inesplorato argomento del paesaggio partigiano; la “resistenza passiva” degli Internati Militari Italiani.
In ogni attività di ricerca sarà ovviamente necessario coinvolgere gli Istituti
Storici, con particolare riferimento all’Istituto Nazionale “Ferruccio Parri”.

La nostra lotta è la Costituzione
Negli ultimi anni la nostra Carta costituzionale è stata sottoposta a numerosi
tentativi di revisione da noi respinti, in particolare nel 2006 e nel 2016. Nostro compito è, come sempre, concorrere alla sua difesa ed alla sua attuazione. Ma non solo. L’Anpi da tempo è impegnata a favorire la conoscenza, non solo nella lettera ma nello spirito, della Costituzione, nella consapevolezza che essa contiene anche criteri di interpretazione di processi di lunga durata. La conoscenza della Carta fondamentale e la conseguente necessità di difenderla e di applicarne integralmente i princìpi sono da anni un aspetto centrale della nostra attività, a diversi livelli: dalla collaborazione con il Ministero dell’Istruzione, che va potenziata, all’impegno nei referendum costituzionali, all’approfondimento del versante culturale dell’antifascismo attraverso diverse pubblicazioni e seminari. Questo impegno deve incrementarsi e generalizzarsi sul territorio nazionale. Anche per questi aspetti sarà opportuno promuovere la massima collaborazione con le altre associazioni partigiane e resistenziali.

Una nuova statualità democratica e antifascista
La questione generale strategicamente più importante riguarda la natura, i compiti e le funzioni dello Stato italiano; è questa la ragione che porta l’Anpi a proporre alcune linee guida di riforma.
Il disastro della pandemia, il conseguente crollo di tante attività produttive,
commerciali e di servizio, lo scenario di crisi organica in cui versa il Paese
possono e devono essere affrontati dallo Stato, cioè dall’insieme delle
istituzioni che governano il territorio e rappresentano il popolo, all’altezza
delle contraddizioni del nostro tempo. Assistiamo all’anomalo sviluppo di poteri economici e finanziari svincolati da ogni controllo democratico, di fatto concorrenti con i poteri dello Stato, alle volte in grado persino di condizionare tali poteri. Oggi lo Stato italiano, in quanto ancora segnato dalle contraddizioni del passato, è sì parte della soluzione, ma anche del problema, e diviene perciò terreno di lotta politica finalizzata a un suo profondo cambiamento. È giunto il momento di manifestare un nuovo patriottismo
costituzionale, che postula una rigenerazione in senso pratico ed etico della politica.
Già nel 2016, il 22 marzo, il Presidente nazionale dell’Anpi, Carlo Smuraglia,
e la Presidente dell’Istituto Alcide Cervi, Albertina Soliani, consegnarono
al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, un ampio documento contenente proposte operative “Per uno Stato pienamente antifascista”.
Nel documento, assieme alla denuncia dei ritardi e dei limiti di uno Stato
che non si è ancora del tutto uniformato alla natura antifascista della
Costituzione e della Repubblica, si suggeriva una serie di provvedimenti in
materia di legislazione, giustizia, scuola, autonomie, e si affermava la necessità appunto di “un forte patriottismo costituzionale, come base di una corretta convivenza civile”.
In verità le istituzioni di questo Paese non sono mai diventate pienamente
“antifasciste”, come vorrebbe la Costituzione; e ciò perché non sono stati
fatti fino in fondo i conti col fascismo, non si è insegnato sul serio che cosa
è stato veramente il fascismo, si è tenuto un comportamento lassista nei
confronti di atteggiamenti e azioni inaccettabili e pericolosi, non solo nella
società, ma anche nelle istituzioni. Basti pensare ai fatti accaduti a Genova del luglio 2001 durante il G8 e ai comportamenti della polizia, qualificati dalla Corte Europea dei diritti come “ torture”.
Su quali temi si deve impegnare oggi l’Anpi? E per quali proposte? Senza
pretendere di dettare l’agenda del governo e del parlamento, e di surrogare
i partiti nella formulazione di un programma politico generale, ci limitiamo
di seguito a riassumere il punto di vista dell’Associazione su alcune questioni
che hanno particolare rilevanza nel discorso pubblico e che appaiono cruciali
per il futuro della democrazia repubblicana e del nostro Paese.
Anche a partire dalle richieste del documento del 2016, peraltro sostanzialmente
inevase, è opportuno mettere a punto un’idea di Stato che coniughi la sua
necessaria modernizzazione con l’attuazione del disposto costituzionale e con
un profondo arricchimento della natura della democrazia italiana, a partire
dal dettato del secondo comma dell’art. 3 della Costituzione: “E` compito
della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che,
limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Sono perciò i diritti incomprimibili a dover essere garantiti dal bilancio dello Stato, e non l’equilibrio di bilancio a condizionare la loro piena soddisfazione, come già osservato anche dalla Corte Costituzionale. Il principio del pareggio di bilancio (art.81 Cost. nuova formulazione) non può e non deve insomma pregiudicare la tutela dei diritti sociali, essi pure costituzionalmente garantiti.
Occorre, allora, riaffermare lo statuto costituzionale dei diritti sociali contro le tendenze alla loro decostituzionalizzazione, per rivalutare in concreto il principio di solidarietà collettiva, pilastro fondante della nostra democrazia, e la conseguente esigenza di protezione dei soggetti deboli.
Tutto ciò rinvia al carattere sociale della democrazia italiana, in gran parte
inattuato, e pone allo Stato urgenze e doveri finora spesso disattesi.
Lo scopo è dar vita ad una democrazia che si organizza, sia attraverso una
riforma del sistema politico coerente con l’art. 49 (“Tutti i cittadini hanno
diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo
democratico a determinare la politica nazionale”), che comporta anche
l’osservanza di regole di democrazia interna ai partiti, sia attraverso altre forme di partecipazione popolare.

Parlamento, Regioni, enti locali
Il Parlamento deve tornare ad essere specchio del Paese, esaltando la
sua funzione di rappresentanza e riconquistando centralità. Va perciò
contrastata l’allarmante tendenza a dar vita ad una sorta di presidenzialismo
“di fatto”.
Le Regioni non possono essere poteri separati e conflittuali, ma istituzioni
democratiche che valorizzano il territorio di competenza, che operano in
concerto col governo nazionale e in cui va esaltato il ruolo del consiglio
regionale in quanto massima espressione della rappresentanza politica: a
esso deve essere restituita la prerogativa di eleggere il presidente, il cui potere non può non essere bilanciato da opportuni contrappesi. L’Italia risente di decenni di propaganda di secessione delle Regioni ricche e, successivamente, di un federalismo sempre presentato in antitesi e in competizione con lo
Stato unitario. Viceversa, occorre ritornare allo spirito costituzionale per determinare un corretto rapporto fra poteri dello Stato, Regioni e comunità
locali. Lo Stato unitario va ancora pienamente compiuto, superando
differenze e diffidenze che datano dal Risorgimento. Il regionalismo deve
ritrovare il nesso fra la sua specificità territoriale e l’anima solidaristica che fa la Repubblica una e indivisibile. L’Italia è il Paese dei mille Comuni,
cioè di una diffusione di comunità locali con specifiche identità, che vanno
valorizzate e che costituiscono un ineliminabile patrimonio storico, civile,
culturale di carattere nazionale.

Lo Stato, le imprese e i lavoratori
Bisogna accantonare una visione dello Stato come notaio dello sviluppo
e come pagatore in ultima istanza della crisi delle imprese; lo Stato
dev’essere viceversa soggetto regolatore dell’economia, come si legge fra
l’altro negli artt. 41, 42, 43 della Costituzione, che stabiliscono la funzione
sociale dell’impresa, le libertà e i vincoli della proprietà privata, il ruolo
del legislatore nella programmazione dello sviluppo. In particolare, va
finalmente e fermamente attuata la norma costituzionale prevista nel
comma 2 dell’art. 41, che recita “La legge determina i programmi e i
controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa
essere indirizzata e coordinata a fini sociali”, e che segue al primo comma,
dove si legge che “L’iniziativa privata è libera. Non può svolgersi in contrasto
con l’utilità sociale”.
Assieme, occorre operare per una radicale trasformazione della cultura
d’impresa privata, superando il mero utilitarismo competitivo che ha caratterizzato gli ultimi quarant’anni come corollario del pensiero
neoliberista, e recuperando le migliori tradizioni della borghesia
imprenditoriale italiana, dal “contratto della montagna” a Adriano Olivetti.
Si tratta di una battaglia fondamentale anche se difficile, perché occorre
misurarsi con una tradizione profondamente arretrata di settori importanti
della piccola e grande impresa nazionale, troppe volte legati alla rendita
più che all’innovazione, abituati ad uno “Stato minimo” cui però rivolgere
sempre richieste di sostegni, incentivi, contribuzioni.

La questione demografica
L’Italia è in piena crisi demografica: stiamo diventando un Paese a sempre
più elevata età media. La politica demografica richiede ampie riforme: servizi
sociali e di sostegno per le famiglie, progetti educativi fin dalla prima infanzia e riforma dei cicli formativi, contrasto all’abbandono scolastico, rilancio della economia e della produzione di beni e servizi di qualità, interventi per la coesione sociale, superamento delle condizioni di lavoro precario e povero.
Vasto programma, si dirà: ma soltanto il conseguimento di questi obiettivi
riuscirà a cambiare concretamente le condizioni che rendono il futuro una
enorme e minacciosa incognita. Serve una organica e lungimirante visione
d’assieme: infatti si progetta una famiglia, si decide per una genitorialità
consapevole se il Paese si incammina su una strada positiva, aperta al futuro,
di grande innovazione, rassicurante perché comporta una grande, generale
assunzione di responsabilità. Non abbiamo una tradizione e nemmeno una
esperienza in questo campo: abbiamo però la consapevolezza della gravità della
situazione e pensiamo sia una delle priorità per una Italia che guarda avanti.

I beni comuni
Quale soggetto, se non lo Stato nella sua più vasta accezione o – se si vuole
– la Repubblica si deve prendere cura dei beni comuni? Diversi anni fa si
è affermato che “la locuzione ‘beni comuni’ allude non tanto a certi beni,
quanto (soprattutto) a un intero assetto istituzionale che, affermandosi tra il
pubblico e il privato, aspira a costruire un rinnovato circuito democratico: un
pubblico non statalistico e un privato liberato dall’individualismo possessivo”.
Parlare di beni comuni, in sostanza, vuol dire proporre un modello di Stato
democratico che tuteli la fruizione di risorse e servizi essenziali da parte
dell’intera comunità. L’esempio dell’acqua è il più comune ed evidente.
Quello del vaccino è il più attuale. Una nuova statualità e – va aggiunto – una
nuova visione dell’Europa, non possono non misurarsi su questo tema.

Il mondo digitale
Appare riduttivo parlare del digitale solo come un aspetto della organizzazione
della produzione. Siamo di fronte a una innovazione della portata del vapore
o della elettricità, a una forza produttiva nel senso pieno e integrale del
termine, perché tende ad organizzare e a far evolvere in modi nuovi i processi
sociali, conoscitivi, relazionali. Al centro di questa rivoluzione tecnologica
c’è un fattore determinante: i dati. La questione della proprietà dei dati
diventa la questione fondamentale, perché intorno ad essa si intrecciano
tutti gli altri aspetti, relativi all’economia, al controllo sociale, alla tutela della personalità, alla libertà intesa come autodeterminazione [libera e
consapevole]. L’acquisizione, il processamento e l’utilizzazione dei dati può
prefigurare scenari da “grande fratello” orwelliano, ma apre anche prospettive
avanzatissime di progresso individuale e collettivo. La UE è all’avanguardia
nelle misure di tutela della privacy ma è ancora un nano tecnologico, e deve
orientarsi a diventare un protagonista di taglia globale, come il suo livello
scientifico e tecnologico rendono possibile. Al tempo stesso deve sviluppare
una grande iniziativa perché i dati siano considerati e trattati come un bene
comune. La proprietà e il trattamento dei dati è la nuova frontiera delle
battaglie di libertà, per le attuali e per le prossime generazioni.

Lo stato sociale
Va ridisegnato lo stato sociale, cioè l’insieme delle politiche pubbliche tramite
cui si assicurano adeguati livelli di protezione ai cittadini o alla parte di
cittadinanza più in difficoltà.

Il sistema tributario
Va garantita la piena attuazione dell’art. 53 della Costituzione; va cioè
confermato che la tassazione deve essere informata a rigidi criteri di
progressività, e va condotta una lotta senza quartiere contro l’evasione e
l’elusione, anche con l’assunzione di provvedimenti rigorosi nei confronti
delle aziende con sede fiscale all’estero.

L’immigrazione
I temi dell’immigrazione sono di fatto, quanto meno in parte, nell’agenda
di lavoro dell’Anpi. A ciò siamo chiamati dall’art. 2 della Costituzione, che
recita: “La Repubblica (…) richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Pur avendo promosso
numerosissime iniziative di solidarietà e di prossimità nei confronti di varie
comunità di migranti, in particolare nei momenti più pesanti della pandemia,
abbiamo il dovere di occuparci anche del dramma degli sbarchi e dei naufragi,
denunciando innanzitutto le responsabilità morali di quanti hanno voluto
chiudere gli occhi di fronte al fenomeno, sollecitando politiche di accoglienza,
riaffermando gli inderogabili obblighi del soccorso in mare. Assieme, occorre
battersi per una politica alternativa ai respingimenti sul confine orientale, che creano un circolo vizioso tra Slovenia, Croazia e Bosnia, condannando decine di migliaia di migranti al lager. Ma l’attenzione al tema dev’essere più ampia,
perché esso riguarda il prossimo futuro del Paese, dove il calo delle nascite e
l’aumento dell’età media della popolazione diverranno fattori di fortissimo
squilibrio sociale, produttivo ed economico. Attraverso l’attivazione di
politiche di inclusione, è ragionevole supporre che l’afflusso di migranti e
la presenza di migranti di seconda generazione consentirà un riequilibrio
demografico assolutamente necessario. Il tema della immigrazione non
attiene perciò soltanto al pur necessario aspetto della solidarietà umana, ma
anche a quello del futuro della società italiana. Va affrontato di conseguenza
il problema della “alfabetizzazione” dei migranti, sia in senso proprio (la
conoscenza della lingua italiana) sia dal punto di vista civile (la conoscenza
della Costituzione e, per grandi linee, della storia stessa del nostro Paese).
Occorre su questo punto un intervento lungimirante delle istituzioni.

L’emigrazione
Per la prima volta dopo decenni il nostro Paese è protagonista di una
emigrazione costante e di natura profondamente diversa da quella che
storicamente ha caratterizzato e tormentato la nostra organizzazione sociale
e la vita di milioni di persone. E’ una emigrazione di giovani, spesso dotati
di alti livelli di formazione, che trovano in Europa (e non solo) un adeguato
riconoscimento delle loro qualità e capacità, personali e professionali, ma
anche di interi nuclei familiari che cercano all’estero quanto il Paese non è in
grado di offrire. Non sono i premi fiscali o gli sgravi contributivi gli strumenti adatti a fermare questa emorragia di energie giovanili e di competenze; al contrario, interventi di questa natura rischiano di distorcere modalità corrette e di lungo periodo di costruzione dei profili professionali. Occorre il rilancio dell’apparato produttivo italiano, una politica retributiva – nel settore privato quanto in quello pubblico – che riconosca le qualità professionali, la creazione di ambienti di lavoro, di ricerca, di formazione permanente, di mobilità intelligente, di parità tra uomo e donna; occorre un vero e proprio asse innovativo che trasformi un grande potenziale in una realtà al servizio del Paese, che a questi giovani è stato capace di fornire una formazione spesso altamente qualificata e che paradossalmente rinuncia ad avvalersene.

La sanità
La pandemia ha reso evidenti i limiti della sanità: il fallimento del modello
privatistico in una condizione di emergenza, la necessità di ricostruire al più
presto il tessuto della medicina territoriale e preventiva, esigono risposte
tempestive ed efficaci, che devono comprendere il superamento della
diseguaglianza territoriale nell’erogazione dei servizi sanitari e un rapporto
collaborativo fra Stato e Regioni. Colpisce ancora una volta la vitalità dello
“spirito della Resistenza”; fu infatti la partigiana Tina Anselmi, allora ministro della sanità, a promuovere nel 1978 il Servizio sanitario nazionale, che doveva essere caratterizzato da quattro principi: cioè, come ella stessa disse alla Camera, “globalità delle prestazioni, universalità dei destinatari, eguaglianza del trattamento, rispetto della dignità e della libertà della persona”.

La formazione civile
Va sostenuta attraverso un articolato programma di formazione la crescita di
una nuova coscienza civile, democratica e antifascista (diritti e doveri della
cittadinanza), magari prendendo spunto dagli esempi positivi (solidarietà,
prossimità, dedizione, sacrificio) registrati durante il corso della pandemia,
straordinario ed unico contenitore di esperienze, di successi, di fallimenti
da cui va tratto insegnamento. Il programma di formazione deve rivolgersi a
tutti, e riguardare in particolare la scuola, la magistratura, le forze dell’ordine.
Occorre investire fin dalla scuola nelle politiche di genere, educando alla
parità dei ruoli e insegnando a osservare il mondo anche con lo sguardo delle
donne. In sintesi, nello Stato va avviata una grande “riforma intellettuale e
morale” che ne esalti la natura democratica e antifascista.

La scuola
La scuola pubblica deve mantenere una funzione centrale nella nostra società, in quanto rappresenta una delle principali agenzie educative del Paese. Dopo un lungo periodo di politiche ispirate a una visione utilitaristica della cultura e a una concezione aziendalistica dell’organizzazione scolastica, va ribadito che la finalità della scuola consiste nel formare cittadini attivi e consapevoli, non produttori o consumatori.
L’ANPI sostiene e incoraggia la formazione riflessiva degli insegnanti, affinché siano in grado di suscitare l’interesse e la partecipazione degli studenti ai processi di trasmissione e di rielaborazione critica del sapere, di esaltare la loro autonomia intellettuale, di promuovere lo sviluppo di un atteggiamento cooperativo.
Le recenti disposizioni legislative, a cominciare da quelle relative all’insegnamento dell’educazione civica, unitamente all’accordo AnpiMiur, possono dare vita ad iniziative volte a favorire una migliore conoscenza della Costituzione. Si tratta di un eccellente punto di partenza per ulteriori avanzamenti sul piano della progettualità e della generalizzazione di buone pratiche locali.

La giustizia
Vi sono punti intoccabili della nostra Carta Costituzionale: in particolare i
principi fondamentali e il sistema di diritti e doveri dei cittadini definiti neisuoi primi 54 articoli. L’attuale sistema giudiziario si rivela insufficiente a renderli finalmente effettivi.
I ritardi strutturali nella pronuncia delle sentenze e nello svolgimento
dei processi mostrano il volto di un sistema poco efficiente, che sovente
frustra la legittima aspettativa ad un riconoscimento dei diritti in tempi
certi e ragionevoli. La situazione si è ulteriormente aggravata a causa dei
recenti scandali che hanno interessato l’ordine giudiziario. Tutto ciò
ha causato una crescente sfiducia nell’amministrazione della giustizia da parte della maggioranza dei cittadini. La riforma della giustizia
civile, penale, amministrativa, costituisce uno dei nodi fondamentali da
sciogliere perché la nostra democrazia possa dirsi più compiuta. Le tante
riforme processuali adottate negli ultimi decenni per sveltire i processi si
sono rivelate scorciatoie che non hanno ottenuto i risultati sperati. E’ stata
elusa la prima delle riforme necessarie, ovvero il potenziamento degli uffici
giudiziari, perennemente sotto organico, afflitto dalla drammatica carenza
di magistrati e di personale amministrativo. Alla giustizia va la percentuale
intollerabilmente esigua dell’uno virgola qualcosa per cento del bilancio
dello Stato, mentre la gran parte dell’arretrato, e non solo, è affidato al
lavoro di una magistratura onoraria precaria e senza diritti.
Nonostante questo quadro preoccupante, deve essere tributato un alto
riconoscimento al ruolo straordinario che la Magistratura ha svolto e continua
a svolgere nell’impegno contro l’eversione, contro i poteri occulti, contro la
corruzione economica e politica, contro i grandi poteri criminali delle mafie.
Tale riconoscimento deve tradursi nella ferma difesa dell’indipendenza e
della autonomia della Magistratura, che passa anche attraverso una rigorosa
riaffermazione della sua imparzialità, della ferma condanna di ogni possibile
inquinamento, oltre che attraverso uno specifico intervento ai fini della
formazione storico-politico-giuridica dei magistrati.
Un sistema giudiziario moderno è parte di una battaglia generale per una
società più giusta, per difendere i cittadini quando sono lesi nei loro diritti o quando entrano nelle aule giudiziarie, per lasciarci definitivamente alle spalle l’impianto di un codice penale – il codice Rocco – in vigore dal 1931; per superare definitivamente il problema dell’inumano sovraffollamento delle
carceri e della salvaguardia della dignità dei reclusi; per ottenere una profonda revisione delle norme punitive in materia di immigrazione e di manifestazioni politiche e sindacali contenute nei decreti sicurezza dell’ex Ministro dell’Interno; per dare effettività alla tutela dei meno abbienti con riforme che garantiscano a tutti la possibilità di concreto accesso alla Giustizia.

La difesa dell’ordine democratico
Lo Stato ha il compito specifico ed inalienabile della difesa dell’ordine
democratico e della sicurezza dei cittadini; tale compito cioè non può essere
demandato a privati o ad altri enti. Magistratura e forze dell’ordine devono
essere messe in condizione di garantire la sicurezza e ‒ in particolare ‒ di
contrastare efficacemente l’abnorme sviluppo della criminalità mafiosa.
Forze Armate
Un’attenzione specifica va rivolta alle nostre Forze Armate, il cui ordinamento,
come prescritto dall’art. 52, “si informa allo spirito democratico della
Repubblica”. È noto che da tempo si è passati dalla leva obbligatoria e di
massa al reclutamento professionale. Oggi tanta parte delle donne e degli
uomini che prestano servizio nelle varie armi sono impegnati in forme di
supporto nel contrasto alla pandemia: a tutti loro va il ringraziamento del
Paese. Non possiamo dimenticare però che l’attacco ai diritti del lavoro, che
investe il settore privato ma anche quello pubblico, non risparmia neppure
questa fondamentale struttura dello Stato. Perciò occorre garantire a tutti
gli effettivi delle Forze Armate, qualunque sia il grado rivestito, condizioni
di lavoro e di vita sicure e dignitose, al pari di quelle che dovrebbero essere
riconosciute a tutti i lavoratori.

Disciplina e onore
Un particolare rigore dev’essere esercitato nel far rispettare l’art. 54 Cost., che recita: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di
adempierle con disciplina ed onore”.
In sostanza, va avviato in modo rigoroso un processo di democratizzazione
integrale delle istituzioni.

Lo Stato e i rapporti internazionali
La storia degli ultimi decenni è stata caratterizzata, seppur in misura difforme
a livello globale, da una diminuzione dei poteri degli Stati nazionali rispetto ad altri organismi democratici di natura sovranazionale. Contemporaneamente,
tale “cessione di sovranità” non è significativamente avvenuta nelle grandi
potenze (Usa e Cina, per esempio). Si impone una riflessione sulle misure
da adottare per limitare e controllare i poteri multinazionali privati, oggi
essenzialmente liberi da vincoli e condizionamenti significativi in particolare
per quanto riguarda la tutela dei diritti dei lavoratori, ridotti di fatto alla loro mercé, da un lato; dall’altro, sull’ampiezza e sulle modalità dei trasferimenti di sovranità a poteri sovranazionali pubblici come l’UE, che appariranno tanto più legittimi quanto più l’UE metterà a valore la sua natura democratica, in sostanza quanto più sarà concretamente l’Europa dei popoli. Anche qui ci sentiamo di proporre un grande obiettivo per tutte le forze democratiche, la cultura e la scienza del nostro Paese: il controllo e lo smantellamento degli arsenali nucleari.

I giovani e le donne
L’Anpi mette al centro della sua attenzione il tema delle giovani generazioni e delle donne, che sono le categorie più deboli e di conseguenza le più colpite dalla crisi attuale nel mercato del lavoro. Ciò rappresenta un grave ostacolo allo sviluppo civile e sociale del Paese: una generazione condannata alla disoccupazione o a lavori dequalificati, un genere che mantiene ancora,
nonostante tanti avanzamenti, una condizione di subalternità.
Se è vero che la cultura largamente prevalente è quella delle classi dominanti,
va analizzata la cultura delle nuove generazioni, segnata dalla interruzione
della tradizionale trasmissione della memoria e dalla pressoché contestuale
affermazione, specialmente grazie alla rivoluzione tecnologica e alla
progressione geometrica dello sviluppo del web, di modi del tutto inediti di
comunicazione e di socializzazione, di nuovi stili di vita, di diversi linguaggi, cui corrisponde un pesantissimo ritardo formativo, inteso nella sua accezione più ampia. Pure da questa generazione nascerà la futura classe dirigente che, anche per effetto del blocco dell’ascensore sociale, sarà inesorabilmente condizionata dal ceto di provenienza. C’è il pesante rischio di un ritorno al passato, ad una rigida selezione di censo. Peraltro nei più giovani germogliano nuovi fermenti, in particolare sui temi della tutela ambientale e del riscaldamento globale.
L’approccio dell’Anpi deve escludere qualsiasi atteggiamento predicatorio
o paternalistico, come pure di inerte attesa che i giovani vadano all’Anpi.
È l’Anpi con le sue strutture, i suoi gruppi dirigenti, i suoi attivisti, che
deve andare verso i giovani con la massima capacità di ascolto e la massima
disponibilità. Il tema è vitale anche per il futuro dell’Associazione, la cui
età media è molto alta; l’Anpi ha bisogno di nuova linfa, di nuovi modi di
pensare, di una leva giovane che sia in più diretto contatto con le dinamiche
sociali, psicologiche ed anche esistenziali di un mondo che cambia. La nuova
linfa, lungi dal cambiare la natura dell’Associazione, ne rafforzerà le radici,
dal momento che i protagonisti della Resistenza furono prevalentemente
giovani, ragazzi e ragazzini.
La questione femminile è altro tema centrale per l’Anpi. Pur essendo
la maggioranza e pur avendo, dagli albori del voto del 2 giugno 1946,
raggiunto una serie di obiettivi di emancipazione civile e sociale, le donne
italiane vivono ancora in una condizione discriminata, e in più sono vittime
dell’imbarbarimento del nostro tempo; la violenza contro le donne è un
dramma mondiale e nazionale che conferma la carica di brutalità e di aggressività
diffusa nella pancia della società e alimentata da centrali mediatiche dell’odio
e della paura, da una spettacolarizzazione della violenza oramai abituale. In
Italia peraltro si moltiplicano circoli politici e culturali di stampo oscurantista
che auspicano una generale regressione dei diritti di parità.
Questa deriva va attivamente contrastata e va promossa, contestualmente, una valorizzazione di genere all’interno dell’Anpi. Peraltro, anche in questo caso l’insegnamento viene dalla Resistenza: basti pensare alle partigiane e alle staffette, e di conseguenza al contenuto liberatorio di quella esperienza storica per le donne.

Il lavoro e l’occupazione
La crisi del Paese è in gran parte crisi del lavoro e dell’occupazione, specialmente (ma non solo) a causa degli effetti indiretti della pandemia. Si stima in modo approssimativo, su scala mondiale, una perdita nel 2020 di 144 milioni di posti di lavoro. Il tema è propriamente sindacale e ‒ per altro verso ‒ politico; ma è possibile e del tutto legittima una iniziativa del più ampio mondo dell’associazionismo e in particolare dell’Anpi, in primo luogo affinché la Costituzione torni nei luoghi di lavoro e vengano riaffermati i diritti di libertà, il salario dignitoso, la dignità personale dei lavoratori, la sicurezza sul lavoro, purtroppo non ancora adeguatamente garantita.

L’ambiente e il riscaldamento globale
Il tema dell’ambiente e del riscaldamento globale dev’essere assunto dall’Anpi, nell’ambito e nei limiti delle sue competenze, come una delle attenzioni. Il rientro degli States fra i Paesi sottoscrittori degli accordi di Parigi è senz’altro positivo, ed è importante sottolineare il ruolo trainante dell’UE nel sostegno a tali accordi. Nella più ampia questione ambientale l’Italia conserva però un
ritardo dal punto della coscienza civile ed anche del ruolo delle istituzioni.
Basti pensare agli esiti territorialmente eterogenei della raccolta differenziata dei rifiuti. Da questo punto di vista è bene valorizzare la sensibilità delle giovanissime generazioni e contribuire a determinare punti di convergenza nelle istituzioni e con le istituzioni, in una più generale logica di alleanza democratica, sui tema della difesa ambientale.

I saperi
Il tema della cultura è oggi centrale per l’Anpi e riguarda un ampio spettro di interessi: la ricerca, le arti, le scienze, il pensiero filosofico, le dottrine religiose, ed anche lo spettacolo, i costumi, le credenze. Si è superata l’antica distinzione fra “cultura alta” e cultura materiale, popolare, ed è nato col tempo un ceto intellettuale di massa. Da ciò l’importanza della formazione come strumento di trasmissione e di estensione dei saperi. Eppure su questo terreno le forze democratiche registrano un inquietante ritardo perché, a fronte di un’offensiva culturale delle destre che è profondamente penetrata nella società e che è diventata una vera e propria narrazione, spesso acostituzionale e qualche volta anticostituzionale, non c’è una risposta che vada oltre la replica, la contestazione, la rettifica, e fornisca invece un’altra visione, un’altra narrazione. L’Anpi in questi anni ha prodotto numerosi e meritori lavori in controtendenza, in particolare sul tema della Resistenza. Occorre proseguire su questa strada anche attraverso un rapporto diretto con i vari mondi dei saperi, a cominciare dalle università (con particolare riguardo agli storici), con le associazioni dei docenti, con i centri culturali.

L’informazione
Va ricordato che il tema dell’informazione costituisce parte integrante
di una rigenerazione democratica del Paese sotto vari punti di vista. La
concentrazione delle testate in mano ad editori non puri, cioè a grandi gruppi
finanziari e industriali, una concentrazione che presenta il mondo ad una sola
dimensione, da un solo punto di vista in politica interna ed estera; assieme,
i ripetuti tentativi di conculcare la libertà di stampa e persino la libertà dei
singoli giornalisti di scrivere liberamente; il caos più totale nell’informazione
via web e in particolare via social, luogo prescelto per ogni sorta di fake news
e per ogni aggressione mediatica, a fronte di una scarsa regolamentazione del
settore che, salvaguardando i diritti di libertà, riconosca e definisca le eventuali
fattispecie di reato, sono fattori che distorcono le dinamiche di formazione
dell’opinione pubblica e inquinano la stessa dialettica democratica.

La pace e il disarmo
L’impegno per la pace e il disarmo è un tratto permanente nella lunga storia
dell’Anpi. Tale impegno si misura con una fase di inquietante riarmo delle
potenze globali e regionali. Preoccupa la forte esposizione del nostro Paese
nella produzione e nel commercio di armamenti, sovente in direzione di Stati
direttamente o indirettamente impegnati in teatri di guerra. La presenza
costante dell’Anpi alla tradizionale Marcia della Pace di Assisi attesta questo
impegno.

Il Servizio civile
L’Anpi da alcuni anni ha accesso al Servizio Civile Universale con progetti
inerenti alla promozione della memoria della Resistenza, a partire dalla
catalogazione del materiale documentaristico presente negli archivi provinciali
e nazionali della nostra Associazione. Si tratta per le giovani generazioni di
un‘opportunità di approccio all’attivismo antifascista, e di incontro tra le
nostre istanze formative e un vasto mondo in cerca di orientamento e di
buone pratiche di partecipazione.

L’organizzazione
Dal Congresso Nazionale che abbiamo celebrato nel maggio del 2016,
l’Anpi è stata diretta da tre Presidenti: Carlo Smuraglia, Carla Nespolo,
Gianfranco Pagliarulo, fatto unico nella lunga storia dell’Associazione. Negli
ultimi anni l’attività dell’Anpi è stata condizionata dalle restrizioni imposte
dalla pandemia e dalla tragica malattia di Carla Nespolo. Nonostante questo, l’insieme dell’Associazione ha svolto un lavoro di straordinaria quantità e qualità, scandito da eventi nazionali del tutto peculiari: le grandi
manifestazioni antifasciste, la diffusa attività solidale delle Sezioni e dei
Comitati provinciali nei confronti delle persone in difficoltà a causa del Covid, il 25 aprile sui balconi e sui social, la rosa sulle tombe delle Costituenti il 2 giugno, la già menzionata campagna antirazzista sui social, i diversi convegni di carattere storico. Grazie a queste attività e alla forte presenza dell’Anpi nel dibattito pubblico, l’Associazione conta oggi circa 130 mila iscritti e gode, in sostanza, di buona salute. Va pure segnalato che tale andamento appare in controtendenza rispetto in particolare alle adesioni ai partiti, a conferma che alla crisi dell’attuale sistema politico corrisponde un relativo rafforzamento delle comunità di natura associativa.
Questo quadro, pur positivo per l’Anpi, deve essere di sprone per il superamento dei limiti ancora presenti. L’età media degli iscritti è elevata
e occorre di conseguenza, come già detto, una specifica attenzione ai
giovani, con l’obiettivo di dar vita a una nuova leva di antifascisti. Va
inoltre prestata una particolare attenzione alle donne. Ancora: dall’analisi
della composizione sociale dell’Anpi (e in specie dei suoi gruppi dirigenti)
emerge la necessità di promuovere una maggiore presenza di alcune
figure sociali e di cittadini residenti nell’Italia meridionale ove, per ovvie
ragioni storiche, l’Anpi è mediamente più debole. Analogamente, occorre
rinnovare i gruppi dirigenti con la promozione di giovani, di donne, di persone provenienti dal mondo dei lavori subordinati e dei servizi. In questa fase di rinnovamento, nella confusa situazione politica e sociale del Paese, vanno a maggior ragione rigorosamente osservate le regole statutarie e, assieme, va elevata la qualità del dibattito politico-culturale potenziando la formazione degli iscritti e dei dirigenti, valorizzando il pluralismo, contrastando in modo energico personalismi e provincialismi, evitando che il pur salutare confronto dialettico si sclerotizzi su posizioni pregiudiziali e contrapposte laddove è responsabilità di tutti, in primo luogo degli organismi dirigenti, pervenire sempre a una sintesi virtuosa e produttiva.
L’esperienza ha dimostrato l’utilità della nomina da parte del Comitato nazionale di un coordinatore per ognuna delle grandi aree geografiche
che corrispondono al Nord, al Centro e al Sud d’Italia, con l’incarico
di coadiuvare la Presidenza e la Segreteria nazionale nella gestione della
Associazione. È quindi opportuno confermare questa scelta.
Più complesso è il tema dei coordinamenti regionali, che hanno dato vita
in questi anni a esperienze eterogenee. Anche alla luce dello Statuto, che
prevede tre soli livelli territoriali di direzione (nazionale, provinciale, di
sezione), sembra preferibile delegare alle strutture provinciali di ciascuna
regione la facoltà di costituire, d’intesa con il Comitato nazionale, un
Coordinamento regionale composto da uno a tre rappresentanti designati
in egual misura da ciascun Comitato provinciale, con il compito primario
di rappresentare l’Associazione nei rapporti con le Istituzioni regionali e
di curare le relazioni con le organizzazioni sociali, sindacali, politiche e
culturali del medesimo livello.
Ove costituito, il Coordinamento regionale, salvo diversa determinazione del Comitato nazionale, ha sede nella città capoluogo della Regione, usufruisce della sede e dei servizi di quel Comitato provinciale ed elegge tra i suoi componenti un Coordinatore che coincide, in linea di massima, con la figura del presidente del Comitato provinciale del capoluogo.
Nelle realtà territoriali di maggior dimensione i Comitati provinciali possono promuovere dei Coordinamenti di Zona, che raggruppino al proprio interno più sezioni e che possono nominare, sempre d’intesa con il Comitato provinciale, una struttura di coordinamento e un coordinatore.
Vanno ulteriormente estese le esperienze di costruzione di autonome Sezioni ANPI sia nel territorio sia nei luoghi di lavoro e di studio.
Anche a questo fine è necessario che le sezioni con un numero rilevante
di iscritti si sdoppino, a maggior ragione se fra i tesserati vi sono gruppi di
lavoratori di un’azienda o di studenti o di personale scolastico.
Viene confermata la scelta di dar vita al coordinamento nazionale donne
perché, sebbene la Costituzione repubblicana stabilisca l’uguaglianza
formale fra i sessi, consuetudini sociali e culturali fanno da freno
all’attuazione di una reale parità fra uomini e donne. Si ravvisa al contempo
l’opportunità di rivedere la composizione dell’organismo, al fine di renderlo
maggiormente rappresentativo, e di riconsiderarne le dimensioni. Il coordinamento nazionale donne deve diventare strumento di lavoro agile e radicato nel contesto dell’attualità politica, presente ed attivo nella rete
delle associazioni che si occupano di tematiche di genere.
Rimane comunque la necessità, per il futuro del nostro Paese, di cambiare il
paradigma di approccio alla politica, stabilendo un riequilibrio degli sguardi
che consenta di individuare nuove strategie utili ad orientare verso politiche di autentica promozione della parità di genere e dell’inclusione, e innanzitutto a estirpare l’odioso fenomeno della violenza contro le donne.
Particolare attenzione va rivolta la tema della formazione interna,
verificando la possibilità di articolarla su un livello elementare e diffuso,
rivolto in particolare ai nuovi iscritti, su un livello medio, riservato ai
dirigenti provinciali, e su un livello più specialistico.
Un importante strumento politico di conoscenza e di orientamento è
l’anagrafe degli iscritti. Grazie all’anagrafe è infatti possibile “conoscere”
l’Anpi: la composizione sociale, l’età media e il genere dei tesserati, nonché
le dinamiche che ne conseguono. Oggi vi sono 65 Comitati provinciali
presenti in anagrafe per un totale di 90.000 iscritti registrati (su circa
130.000), a fronte di 26 Comitati provinciali per un totale di 25.000
iscritti del precedente congresso nazionale (maggio 2016). Si tratta di un
avanzamento fondamentale, sebbene l’allestimento dell’anagrafe sia un
adempimento ancora sottovalutato da parte di alcune realtà, e sebbene si
avverta il bisogno di curarne ulteriormente l’aggiornamento.
Il tema della comunicazione è oggi essenziale. Ai tre strumenti nazionali
già esistenti ed insostituibili – l’ufficio stampa, il sito www.anpi.it e il
periodico www.patriaindipendente.it – si è aggiunta una linea editoriale
anche con l’obiettivo di operare in sinergia con la formazione.
Sono inoltre attivi tre profili social, facebook, twitter e instagram, con un sempre più crescente numero di follower. Comitati provinciali e sezioni si stanno attrezzando per una comunicazione social efficace, e questo processo va intensificato per realizzare una rete antifascista in tutto il Paese.
Nella Federazione Internazionale Resistenti (FIR) l’Anpi è oggi rappresentata da un vicepresidente e da due membri dell’esecutivo. Tali presenze sono indispensabili al fine di un rinnovamento e di una maggiore capacità di intervento della Federazione. A questo proposito, è importante garantire un supporto continuo da parte degli organismi dirigenti nazionali
della nostra Associazione all’attività della FIR, che si mostra ancora troppo
limitata e discontinua, laddove sarebbero urgenti una intensificazione e un
coordinamento unitario dell’attività antifascista e antirazzista nell’intero
spazio europeo. Su proposta della delegazione italiana, è allo studio della
FIR la costituzione di una associazione collaterale molto più larga, che
comprenda associazioni con specifiche mission (sindacali, ambientaliste,
culturali, ecc.) ma impegnate sul terreno dell’antifascismo.

Le regole dell’Anpi
Qualsiasi comunità piccola o grande si organizza in base a un sistema di regole.
Le regole dell’Anpi sono fissate nello Statuto e nel Regolamento. Tali regole
vanno sempre interpretate in modo rigoroso, al fine di una migliore efficacia
dell’attività complessiva dell’Associazione. Tale esigenza vale a maggior
ragione oggi, davanti ad una forte offensiva delle destre estreme e all’insidiosa iniziativa culturale revisionista tesa a colpire la memoria e la funzione della Resistenza nella storia d’Italia.
I dati del tesseramento 2019 e i primi dati del 2020 confermano un forte
rafforzamento dell’Anpi. Contemporaneamente si realizza ogni anno un
notevole turn over sia degli iscritti sia anche di parte dei gruppi dirigenti;
tutto ciò rende urgente un piano di formazione ed assieme richiede una
grande attenzione per il rispetto delle regole, al fine di un’armonica crescita
dell’Associazione.
Va sottolineato che tutti gli incarichi, fino ai più importanti, sono a termine;
che, di pari passo con i processi formativi, vanno promosse nuove leve di
giovani dirigenti; che i gruppi dirigenti devono operare con spirito unitario,
al fine di assicurare la massima concordia nella vita interna dell’Associazione; che l’orientamento sulle questioni di carattere generale viene deciso dal
Comitato Nazionale, il quale (art. 5 dello Statuto) “provvede a controllare le attività dei Comitati provinciali”, “a risolvere eventuali vertenze in seno
all’Associazione”, “ad adottare tutti i provvedimenti necessari al buon
funzionamento dell’Associazione”.
Una particolare attenzione va prestata alle pagine dell’Associazione sui social.
La prudenza e il buon senso devono ispirare qualsiasi intervento affidato a
questi strumenti, evitando prese di posizione e commenti che contraddicano gli orientamenti dell’Anpi o che si prestino ad attacchi ‒ per quanto
strumentali ‒ da parte degli avversari politici, com’è avvenuto in qualche caso
in passato e continua, seppur raramente, ad avvenire. Da questo punto di vista è assolutamente necessario che i gruppi dirigenti locali controllino il dibattito sui social, e che chi segue le pagine Anpi dia prova di senso di responsabilità, distinguendo sempre fra le sue legittime ma personali opinioni e il punto di vista dell’Associazione. Analoga attenzione va prestata agli altri media ed in particolare alla stampa locale, evitando accuratamente di esternare le problematiche interne all’associazione. L’insieme di queste cautele rinvia al punto d) dell’art. 2 dello Statuto, che recita: “Tutelare l’onore e il nome partigiano contro ogni forma di vilipendio e di speculazione”.
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Che succede?

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IL PD E IL PROPORZIONALE, IL PD E L’ALLEANZA LARGA
23 Ottobre 2021 su C3dem.
[segue]

Per una cultura della cura, della bellezza e dell’incontro.

verdePer una cultura della cura, della bellezza e dell’incontro.
Dalla Laudato si’ alla Fratelli tutti

di S.E. Mons. Erio Castellucci
Arcivescovo di Modena, Vescovo di Carpi
Vicepresidente della Conferenza Episcopale Italiana

* * *
“Un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della
terra, di tutte le cose, visibili e invisibili”. Non solo dunque
degli esseri umani, ma di tutte le creature. Il Credo
convoglia in poche parole interi brani della Bibbia: dal
primo capitolo della Genesi, con il suo ritornello: “era cosa
buona/bella”, ai Salmi (cf. in particolare i Salmi 8, 102 e
144). Per questa comune origine, la Scrittura stabilisce tra
gli esseri umani e gli altri elementi creati delle connessioni
strette, quasi tessendo un’unica tela. E se solo con san
Francesco il filo di questa tessitura cosmica sarà esplicitato
con il linguaggio della “fraternità/sororità”, già la prima
pagina biblica nella quale compare la parola “fratello” –
quella drammatica di Caino e Abele – si stabilisce un
legame stretto tra l’uomo e la terra.
“Sono forse io il custode di mio fratello?” (Genesi 4,9). Tra
le migliaia di domande della Bibbia, quella rivolta da Caino
a Dio – che gli aveva chiesto dove fosse suo fratello Abele –
è la più drammatica di tutte. Esprime nello stesso tempo
menzogna, indifferenza e cinismo. Caino sapeva benissimo
dov’era suo fratello, perché l’aveva appena ucciso e lasciato
steso al suolo. Colpisce, nel breve episodio, la ripetizione
del termine “suolo” per ben sei volte. Caino, del resto, era
un “lavoratore del suolo”, cioè un agricoltore. Ad un certo punto, sembra che nell’assassinio di Abele
sia stato gravemente offeso non solo il fratello ucciso e nemmeno solo il Signore, ma anche il suolo.
Dio infatti dice a Caino che dovrà andare “lontano dal suolo che ha aperto la bocca per ricevere il
sangue” di Abele; e gli riferisce che anche il suolo protesta contro la sua mano omicida: “quando
lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti”.
L’intero creato, insieme al Creatore, si rivolta contro il crimine fratricida. Dunque, fin dalle narrazioni bibliche iniziali, grandi parabole intese a svelare non dei fatti storici ma il cuore umano,
“tutto è connesso”: Dio, l’uomo, il suolo. Del resto proprio questa parola, “suolo”, in ebraico adamàh,
contiene la parola “uomo”, adàm. E il termine con il quale Caino tenta di discolparsi, “custode”, in
ebraico shomèr, ricorre come verbo pochi capitoli prima (2,15), quando Dio pose Adamo nel giardino
perché lo coltivasse “e lo custodisse” (shamàr). L’uomo è dunque custode del fratello e del giardino, è
guardiano del proprio simile e della terra. Adamo e Caino, usurpando il posto di Dio, saranno cattivi
custodi del creato e dei fratelli. Quando si lascia incustodito il suolo, ne soffre anche il fratello; e
quando si maltratta il fratello, anche il suolo si affligge.
Le Scritture ebraiche e cristiane leggono in profonda connessione la custodia della natura creata e la
custodia della società umana. Ma solo san Francesco, come già accennato, arriverà a chiamare con lo stesso termine, “fratello” e “sorella”, l’una e l’altra. Il Santo di Assisi definisce per primo il legame tra tutti gli esseri non solo a partire dalla fede nell’unico Creatore, ma anche a partire dalla fede nell’unico Padre: se il Credo proclama Dio “Padre Onnipotente”, prima ancora che “Creatore”, significa che tutto il creato origina da questa paternità e che tutte le creature – e non solo quelle animate e
intelligenti – sono legate dalla figliolanza e, sono legate tra loro dalla fraternità/sororità. “Frate” per lui non è solo il compagno che condivide il battesimo e la vita religiosa, ma è anche il sole, il vento, il fuoco. “Sora” per lui è Chiara, è ciascuna donna, ma è anche l’acqua, la terra, la luna. La “rete fraterna” intessuta da San Francesco indica già, con singolare profezia, gli elementi del creato che oggi vengono valorizzati come fonti di energia pulita: sole, aria, acqua, vento, terra… e poteva farlo per quello sguardo con il quale “contemplava nelle cose belle il Bellissimo” (San Bonaventura, Leggenda maggiore, X: FF 1162).
* * *
L’intreccio tra la custodia per i propri simili e la custodia per l’ambiente non è certo un’invenzione
dei nostri tempi: quando papa Benedetto XVI parla di “ecologia umana” e papa Francesco di “ecologia
integrale”, danno voce ad una tradizione biblica e cristiana di millenni. E le due ultime encicliche di
papa Bergoglio dicono che “tutto è connesso” e che “tutti siamo connessi”.
“Sei proprio tu il custode di tuo fratello”: così sottintende il Signore nella sua risposta a Caino: “la
voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo”. La terra, bagnata di sangue, grida insieme all’innocente ucciso. “Il grido della terra e il grido dei poveri”, come li definisce papa Francesco
nell’enciclica Laudato si’ (24 maggio 2015, n. 49), si mescolano assieme. Già mezzo secolo fa, quando ancora pochi coglievano il rapporto tra questione ambientale e questione sociale, scriveva papa Paolo VI: «non soltanto l’ambiente materiale diventa una minaccia permanente: inquinamenti e rifiuti, nuove malattie, potere distruttivo totale: ma è il contesto umano, che l’uomo non padroneggia più, creandosi così per il domani un ambiente che potrà essergli intollerabile: problema sociale di vaste dimensioni che riguarda l’intera famiglia umana» (Octogesima Adveniens, 14 maggio 1971, n. 21). Nella sua prima enciclica, poi, papa Giovanni Paolo II rilanciò l’allarme, ricordando «certi fenomeni, quali la minaccia di inquinamento dell’ambiente naturale nei luoghi di rapida industrializzazione, oppure i conflitti armati che scoppiano e si ripetono continuamente, oppure le prospettive dell’autodistruzione mediante l’uso delle armi atomiche, all’idrogeno, al neutrone e simili, la mancanza di rispetto per la vita dei non nati» (Redemptor hominis, 4 marzo 1978, n. 8). Papa Wojtyła, in ventisette anni di pontificato, ritornerà decine di volte sulla connessione tra temi ecologici e sociali.
Così come Benedetto XVI, che vi dedica ampio spazio all’interno della sua enciclica sociale, arrivando
a dire: «il sistema ecologico si regge sul rispetto di un progetto che riguarda sia la sana convivenza in
società sia il buon rapporto con la natura» (Caritas in veritate, 29 giugno 2009, n. 51). Anche i grandi
documenti ecumenici, scritti insieme alle Chiese ortodosse e alle Comunità protestanti, hanno offerto
pregevoli contributi. Nel solco dei suoi predecessori, papa Francesco dedica un’intera enciclica all’argomento, prendendo in prestito le prime parole dal Cantico delle creature di San Francesco e
indicando come sottotitolo “la cura della casa comune”. L’idea della casa, òikos/oikìa, è contenuta nel termine stesso di “ecologia”, che significa “governo/gestione della casa”.
Proprio l’immagine della casa, insieme a quella del giardino e del suolo, ci aiuta a comprendere la
connessione tra uomo e natura, di cui lui è coltivatore e custode. Dio affida all’essere umano una “casa”, il creato, formata da abitazione, orto e giardino. Consegnando alla sua creatura più intelligente il resto delle creature, Dio non fa un rogito, non opera un passaggio di proprietà, ma fa semmai un
comodato, assegnando un bene con il compito di utilizzarlo responsabilmente e restituirlo in buono stato. Ed è questa responsabilità a definire il compito umano della custodia della “casa”: responsabilità verso il padrone, verso la famiglia che la abita e la abiterà, verso la casa stessa, giardino e orto compresi. Se l’uomo è l’apice della natura, consapevole di esistere come soggetto, fatto a “immagine e somiglianza” di Dio (cf. Gen 1,26-27), il resto della creazione non è semplice oggetto a disposizione dell’uomo, materia inerte che lui possa sfruttare a proprio arbitrio.
* * *
L’equivoco, tragico, che tanto disagio causa nel mondo moderno, è sorto dall’illusione che la natura
fosse una cava più che una casa: una miniera inesauribile di materiali da estrarre e utilizzare senza criterio. Quando l’uomo si fa predatore della natura, anziché suo custode e coltivatore, la casa si
trasforma in cava, il rispetto in profitto, la responsabilità in utilità. Un antropocentrismo esagerato,
divenuto negli ultimi secoli una sorta di narcisismo, saldatosi con le diverse fasi della rivoluzione
industriale, ha fatto scivolare talvolta l’uso delle risorse naturali in abuso; specialmente l’estrazione e il consumo dei combustibili fossili, senza un’adeguata regolazione, ha immesso progressivamente nell’atmosfera dei gas nocivi che l’hanno inquinata e hanno incentivato quell’effetto-serra che risulta
la causa principale dell’aumento della temperatura media nel nostro pianeta, determinando il fenomeno del surriscaldamento globale, riconosciuto dalla comunità scientifica come dato da ricondurre, almeno in parte, all’attività dell’uomo. Gli effetti, che in altre epoche si misuravano in migliaia o addirittura milioni di anni – le “ere geologiche” – sono ora percepibili su una scala di decenni: scioglimento dei ghiacciai, fenomeni atmosferici estremi, squilibri nella fauna e nella flora con la rapida scomparsa di specie animali e vegetali, disagi di intere popolazioni, compresa la lotta per l’acqua potabile, i conflitti per l’accaparramento delle risorse e le migrazioni climatiche.
Il legame tra il comportamento umano nei confronti dell’ambiente e nei confronti dei propri simili è evidente a chiunque non voglia chiudere gli occhi davanti alla realtà, ai dati e alle statistiche. È
evidente, oggi più di qualche decennio fa, che il problema non è semplicemente tecnico, ma etico: si
tratta di guadagnare non solo strumenti meno inquinanti, ma soprattutto comportamenti più responsabili. Le annuali Conferenze internazionali sul clima rendono evidente come la sfida riguardi proprio l’etica: anche per questo i loro orientamenti spesso cadono nel vuoto, perché incontrano poi nei singoli Stati delle politiche maldisposte verso l’assunzione di impegni che implicano sacrifici, cambiamenti di stili e abitudini, e quindi appaiono impopolari e tutt’altro che premianti, anzi punitivi, dal punto di vista elettorale.
* * *
Le società impostate su logiche prevalentemente economiche e finanziarie, come quelle imperanti
nell’Occidente capitalistico o nell’Oriente dei grandi paesi emergenti – soprattutto Cina e India –
faticano ad accettare culturalmente e ad integrare programmaticamente il valore della sobrietà, anzi
il vantaggio della sobrietà: perché non procura un beneficio immediato, ma un giovamento su larga
scala e su tempi lunghi. Dove prevale la logica del consumo e del profitto immediato, difficilmente si
fa strada il senso della responsabilità verso gli altri popoli e le future generazioni.
In queste società la natura non solo non viene considerata una casa da custodire, ma nemmeno una
semplice cava di materiali da estrarre; diventa piuttosto una cassa, un conto corrente alimentato dalla
speculazione, da una logica di mercato e da una finanza spregiudicata. Impressionano certo i dati
assoluti legati alla fame nel mondo, che colpisce ancora più di 820 milioni di persone, e quelli legati
alla sete, che ne coinvolge più di un miliardo. Ma questi dati, insieme ad altri indicatori delle povertà
planetarie, potrebbero suscitare una reazione simile a quella di Caino: “sono forse io il responsabile
delle ingiustizie nel mondo?”. È più utile, per rendersi conto delle sperequazioni legate all’uso delle
risorse, considerare l’impronta ecologica, ossia l’area della superficie terrestre in grado di fornire le
risorse occorrenti per il consumo quotidiano e lo smaltimento dei rifiuti. Per avere un termine di
paragone, si pensi che se l’impronta ecologica di un abitante degli Stati Uniti è 8,2, quella di un
abitante del Bangladesh è 0,7. Limitandoci al tasso di inquinamento, si può ricordare che un cittadino
nordamericano immette nell’atmosfera mediamente tanta anidride carbonica quanto due cittadini
europei e 160 cittadini etiopi. Si intuisce l’inadeguatezza di un approccio puramente demografico alla
questione ecologica: «incolpare l’incremento demografico e non il consumismo estremo e selettivo di
alcuni è un modo per non affrontare i problemi» (Laudato si’, n. 50).
Oggi possiamo misurare addirittura l’impronta ecologica dell’intero pianeta anche in termini
cronologici. Il 29 luglio 2019 è stato l’Overshoot Day, il “giorno del sorpasso”, che si calcola ogni anno mettendo in rapporto la biocapacità del globo, cioè l’insieme delle risorse generate dalla terra, con l’impronta ecologica dell’umanità, cioè il consumo totale di risorse per l’intero anno. In sette mesi, dal primo gennaio al 29 luglio, il pianeta ha dunque esaurito tutte le risorse naturali che è in grado di rinnovare in un anno. Nei successivi cinque mesi del 2019 l’uomo è vissuto “a credito”, consumando ciò che la terra non riesce a rigenerare. E non si tratta solo di cibo, ma anche di aria, terra e acqua: il sistema vegetale mondiale, attraverso la fotosintesi clorofilliana, può assorbire annualmente 20 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, a fronte dei 36 miliardi immessi nell’atmosfera, aggravando il riscaldamento globale e i cambiamenti climatici. Ciò che più preoccupa è che l’Overshoot Day continua a retrocedere: nel 1971 cadeva il 21 dicembre, nel 1981 il 12 novembre, nel 1990 il 13 ottobre, nel 2000 il 23 settembre, nel 2018 il primo agosto… Sembra che l’intero pianeta stia prendendo la forma di Leonia, una delle città fantastiche descritte da Italo Calvino: «ogni anno la città s’espande, e gli immondezzai devono arretrare più lontano; l’imponenza del gettito aumenta e le cataste
s’innalzano, si stratificano, si dispiegano su un perimetro più vasto (…). Il risultato è questo: che più
Leonia espelle roba più ne accumula» (Le città invisibili, 1972).
* * *
Negli incontri che si stanno moltiplicando dovunque e in tutte le sedi, anche nelle comunità cristiane
e in vista della Settimana sociale di Taranto, è facile che qualcuno esprima un senso di frustrazione e
impotenza rispetto ai dati e alle previsioni. Non mancano poi le accuse di catastrofismo da una parte
e di negazionismo dall’altra; etichette spesso cavalcate politicamente. Ma l’unico atteggiamento
costruttivo, in questo come in tutti i campi del vivere civile, è quello di una concreta progettualità.
Ciascuno, secondo le proprie competenze e i propri ruoli, può e deve fare qualcosa per rendere più
abitabile la nostra casa comune.
A cominciare da uno stile personale sobrio, sostenibile, sano. Tutto comincia sempre dalla conversione
dei singoli: il mare è composto di tante gocce: “sono proprio io il custode di mio fratello!”. La custodia verso l’altro e verso il creato, che diventa non solo rispetto ma vera e propria responsabilità, è uno stile globale, integrale: è impossibile custodire i fratelli abusando del creato o custodire il creato facendo violenza ai fratelli. Uno stile più attento ad evitare sprechi di energia e di materie prime e consumi inutili, a ridurre le immissioni di gas nocivi nell’atmosfera, a favorire il riciclo dei rifiuti secondo i criteri dell’economia circolare, fa bene alla propria salute psicofisica, oltre che al pianeta.
È chiaro che non basta: occorre ben altro. Ma il famoso e troppo usato “benaltrismo”, oltre che costituire un comodo alibi, dimentica che il bene “altro” comincia dal bene che compio io, da “questo”
bene. E quando il bene dei singoli si somma, in realtà si moltiplica: diventa bene “nostro”. La seconda
sfera d’azione, quindi, è quella educativa. È cresciuta negli ultimi anni, tanto da diventare per i cristiani un “segno dei tempi”, la sensibilità ecologica specialmente nei ragazzi e nei giovani. Il sistema educativo scolastico e universitario forma alla sostenibilità le persone – docenti, alunni, famiglie – facendo leva sui dati scientifici e sul senso di responsabilità etico di ciascuno. I risultati si vedono e vanno incentivati: l’educazione stessa, la cultura diffusa, plasma stili personali sobri e rispettosi verso il creato e verso gli altri.
L’impegno nella formazione personale e nell’educazione dei ragazzi e dei giovani diventa così una forza sociale, fa opinione, desta l’attenzione dei mondi economici e tecnologici. Questi ambiti planetari si
collocano ben oltre la nostra portata e tuttavia interagiscono con i diversi corpi sociali. Noi cittadini
abbiamo la possibilità di influire, quando ci organizziamo, sulle grandi scelte nei settori del
commercio, della ricerca scientifica e della tecnologia. Possiamo “votare con il portafoglio”, cioè
orientare acquisti e investimenti in modo da favorire i comportamenti virtuosi delle aziende, degli
enti di ricerca e delle banche. In non poche situazioni, ad esempio, le preferenze motivate dei consumatori e dei clienti hanno determinato scelte più sostenibili da parte dei produttori e degli
erogatori di beni.
Il mondo politico internazionale sta prendendo coscienza, ormai da decenni, della gravità rivestita
dalla questione ecologica e dalla sua connessione con la questione sociale. La Conferenza di Rio de
Janeiro nel 1992, il Protocollo di Kyoto nel 1997, la Conferenza di Parigi nel 2015, sono solo alcune
delle tappe più significative di questo cammino. Nel settembre 2015 le Nazioni Unite hanno approvato
l’Agenda 2030, che individua 17 obiettivi e 169 sotto-obiettivi per uno sviluppo sostenibile, attraverso
la lotta contro le povertà, le ingiustizie e il degrado dell’ambiente. Le amministrazioni locali, secondo le loro competenze e risorse, si stanno interrogando e muovendo su questa scia. L’Agenda 2030 è
perfettamente in linea con l’enciclica Laudato si’, pubblicata tre mesi prima. La Chiesa cattolica infatti si sta attivando a tutti i livelli, sotto la decisiva spinta del magistero degli ultimi pontefici, che richiede una migliore integrazione, nella formazione catechistica, della custodia dell’altro con la custodia del creato e l’adozione di criteri di sostenibilità anche nella nuova edilizia di culto e nella manutenzione delle strutture. La cura del creato è da tempo entrata anche nelle agende ecumeniche, dando vita a documenti e soprattutto ad esperienze – compresa l’annuale Giornata del Creato – che coinvolgono cattolici, ortodossi e protestanti. Ed ha fatto il suo ingresso solenne, soprattutto con la Dichiarazione di Abu Dhabi, nel dialogo islamo-cristiano.
* * *
La consapevolezza che il creato è “la nostra casa comune” non potrà che farci bene. Quando trattiamo la natura come “cava” da cui estrarre materie prime, o “cassa” da cui guadagnare profitti, cadiamo nell’illusione di una “indifferenza” dell’ambiente rispetto ai nostri comportamenti. Essendo però il creato una vera e propria “casa”, le nostre azioni nei suoi confronti si riflettono su di noi. Se la casa è sporca, se teniamo le finestre chiuse anziché far entrare aria pulita, se gettiamo i rifiuti sul pavimento invece di portarli fuori, se sprechiamo acqua, luce e gas inutilmente, se lasciamo crescere
umidità e muffa, ne risentiamo prima di tutto noi, perché ci indeboliamo e ci ammaliamo; e ne
risentono i familiari, in casa con noi, specialmente quelli meno difesi come i piccoli, gli anziani, i più fragili. Questo succede troppo spesso nel mondo, “casa comune” dove lo sfruttamento e l’inquinamento fanno ammalare e indeboliscono soprattutto chi non ha sufficienti forze per difendersi.
L’impegno per la salvaguardia del creato è una piattaforma comune a cristiani, ebrei e membri di
altre religioni, a credenti e non credenti, a tutti gli uomini di buona volontà. Il grido del suolo e il
grido di Abele, sono gli orizzonti di impegno comune per un presente e un futuro sostenibile e dignitoso.

Videomessaggio di Papa Francesco in occasione del IV Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari (EMMP)

2e44801c-9d6f-4f46-9c5d-23d539e3626e“(…) mettere l’economia al servizio dei popoli per costruire una pace duratura fondata sulla giustizia sociale e sulla cura della Casa comune”.
Videomessaggio del Santo Padre in occasione del IV Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari (EMMP), 16.10.2021
[B0669]

Originale in lingua spagnola, segue la traduzione in lingua italiana

Pubblichiamo di seguito il testo del Videomessaggio che il Santo Padre Francesco ha inviato ai partecipanti alla seconda Sessione del IV Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari (EMMP), che si è svolta sabato 16 ottobre online:

Videomessaggio del Santo Padre

Hermanas, hermanos, queridos poetas sociales:

1. Queridos Poetas Sociales

Así me gusta llamarlos, poetas sociales, porque ustedes son poetas sociales, porque tienen la capacidad y el coraje de crear esperanza allí donde sólo aparece descarte y exclusión. Poesía quiere decir creatividad, y ustedes crean esperanza; con sus manos saben forjar la dignidad de cada uno, la de sus familias y la de la sociedad toda con tierra, techo y trabajo, cuidado, comunidad. Gracias porque la entrega de ustedes es palabra con autoridad capaz de desmentir las postergaciones silenciosas y tantas veces educadas a las que fueron sometidos —o a las que son sometidos tantos hermanos nuestros—. Pero al pensar en ustedes creo que, principalmente, su dedicación es un anuncio de esperanza. Verlos a ustedes me recuerda que no estamos condenados a repetir ni a construir un futuro basado en la exclusión y la desigualdad, el descarte o la indiferencia; donde la cultura del privilegio sea un poder invisible e insuprimible y la explotación y el abuso sea como un método habitual de sobrevivencia. ¡No! Eso ustedes lo saben anunciar muy bien. Gracias.

Gracias por el vídeo que recién compartimos. He leído las reflexiones del encuentro, el testimonio de lo que vivieron en estos tiempos de tribulación y angustia, la síntesis de sus propuestas y sus anhelos. Gracias. Gracias por hacerme parte del proceso histórico que están transitando y gracias por compartir conmigo este diálogo fraterno que busca ver lo grande en lo pequeño y lo pequeño en lo grande, un diálogo que nace en las periferias, un diálogo que llega a Roma y en el que todos podemos sentirnos invitados e interpelados. «Para encontrarnos y ayudar mutuamente necesitamos dialogar» (FT 198), ¡y cuánto!

Ustedes sintieron que la situación actual ameritaba un nuevo encuentro. Sentí lo mismo. Aunque nunca perdimos el contacto —y ya pasaron seis años, creo, del último encuentro, el encuentro general—. Durante este tiempo pasaron muchas cosas; muchas cosas han cambiado. Son cambios que marcan puntos de no retorno, puntos de inflexión, encrucijadas en las que la humanidad debe elegir. Se necesitan nuevos momentos de encuentro, discernimiento y acción conjunta. Cada persona, cada organización, cada país y el mundo entero necesita buscar estos momentos para reflexionar, discernir y elegir, porque retornar a los esquemas anteriores sería verdaderamente suicida, y si me permiten forzar un poco las palabras, ecocida y genocida. Estoy forzando, ¡eh!

En estos meses muchas cosas que ustedes denunciaban quedaron en total evidencia. La pandemia transparentó las desigualdades sociales que azotan a nuestros pueblos y expuso —sin pedir permiso ni perdón— la desgarradora situación de tantos hermanos y hermanas, esa situación que tantos mecanismos de post-verdad no pudieron ocultar.

Muchas cosas que dábamos por supuestas se cayeron como un castillo de naipes. Experimentamos cómo, de un día para otro, nuestro modo de vivir puede cambiar drásticamente impidiéndonos, por ejemplo, ver a nuestros familiares, compañeros y amigos. En muchos países los Estados reaccionaron. Escucharon a la ciencia y lograron poner límites para garantizar el bien común y frenaron al menos por un tiempo ese “mecanismo gigantesco” que opera en forma casi automática donde los pueblos y las personas son simples piezas (cf. S. Juan Pablo II, Carta enc. Sollicitudo rei socialis, 22).

Todos hemos sufrido el dolor del encierro, pero a ustedes, como siempre, les tocó la peor parte: en los barrios que carecen de infraestructura básica (en los que viven muchos de ustedes y cientos y cientos y millones de personas) es difícil quedarse en casa, no sólo por no contar con todo lo necesario para llevar adelante las mínimas medidas de cuidado y protección, sino simplemente porque la casa es el barrio. Los migrantes, los indocumentados, los trabajadores informales sin ingresos fijos se vieron privados, en muchos casos, de cualquier ayuda estatal e impedidos de realizar sus tareas habituales agravando su ya lacerante pobreza. Una de las expresiones de esta cultura de la indiferencia es que pareciera que este tercio sufriente de nuestro mundo no reviste interés suficiente para los grandes medios y los formadores de opinión, no aparece. Permanece escondido, acurrucado.

Quiero referirme también a una pandemia silenciosa que desde hace años afecta a niños, adolescentes y jóvenes de todas las clases sociales; y creo que, durante este tiempo de aislamiento, se incrementó aún más. Se trata del estrés y la ansiedad crónica, vinculada a distintos factores como la hiperconectividad, el desconcierto y la falta de perspectivas de futuro que se agrava ante el contacto real con los otros —familias, escuelas, centros deportivos, oratorios, parroquias—; en definitiva, la falta de contacto real con los amigos, porque la amistad es la forma en que el amor resurge siempre.

Es evidente que la tecnología puede ser un instrumento de bien, y es un instrumento de bien que permite diálogos como éste y tantas otras cosas, pero nunca puede suplantar el contacto entre nosotros, nunca puede suplantar una comunidad en la cual enraizarnos y hacer que nuestra vida se vuelva fecunda.

Y si de pandemia se trata, no podemos dejar de cuestionarnos por el flagelo de la crisis alimentaria. Pese a los avances de la biotecnología millones de personas fueron privadas de alimentos, aunque estos estén disponibles. Este año, 20 millones de personas más se han visto arrastradas a niveles extremos de inseguridad alimentaria, ascendiendo a [muchos] millones de personas; la indigencia grave se multiplicó, el precio de los alimentos escaló un altísimo porcentaje. Los números del hambre son horrorosos, y pienso, por ejemplo, en países como Siria, Haití, Congo, Senegal, Yemen, Sudán del Sur pero el hambre también se hace sentir en muchos otros países del mundo pobre y, no pocas veces, también en el mundo rico. Es posible que las muertes por año por causas vinculadas al hambre puedan superar a las del COVID.[1] Pero eso no es noticia, eso no genera empatía.

Quiero agradecerles porque ustedes sintieron como propio el dolor de los otros. Ustedes saben mostrar el rostro de la verdadera humanidad, esa que no se construye dando la espalda al sufrimiento del que está al lado sino en el reconocimiento paciente, comprometido y muchas veces hasta doloroso de que el otro es mi hermano (cf. Lc 10,25-37) y que sus dolores, sus alegrías y sus sufrimientos son también los míos (cf. GS 1). Ignorar al que está caído es ignorar nuestra propia humanidad que clama en cada hermano nuestro.

Cristianos o no, han respondido a Jesús, que dijo a sus discípulos frente al pueblo hambriento: «Denles ustedes de comer» (Mt 14,16). Y donde había escasez, el milagro de la multiplicación se repitió en ustedes que lucharon incansablemente para que a nadie le faltase el pan (cf. Mt 14,13-21). ¡Gracias!

Al igual que los médicos, enfermeros y el personal de salud en las trincheras sanitarias, ustedes pusieron su cuerpo en la trinchera de los barrios marginados. Tengo presente muchos, entre comillas, “mártires” de esa solidaridad sobre quienes supe por medio de muchos de ustedes. El Señor se los tendrá en cuenta.

Si todos los que por amor lucharon juntos contra la pandemia pudieran también soñar juntos un mundo nuevo, ¡qué distinto sería todo! Soñar juntos.

2. Bienaventurados

Ustedes son, como les dije en la carta que les envié el año pasado,[2] un verdadero ejército invisible, son parte fundamental de esa humanidad que lucha por la vida frente a un sistema de muerte. En esa entrega veo al Señor que se hace presente en medio nuestro para regalarnos su Reino. Jesús, cuando nos ofreció el protocolo con el cual seremos juzgados —Mateo 25—, nos dijo que la salvación estaba en cuidar de los hambrientos, los enfermos, los presos, los extranjeros, en definitiva, en reconocerlo y servirlo a Él en toda la humanidad sufriente. Por eso me animo a decirles: «Felices los que tienen hambre y sed de justicia porque serán saciados» (Mt 5,6), «felices los que trabajan por la paz, porque serán llamados hijos de Dios» (Mt 5,9).

Queremos que esa bienaventuranza se extienda, permee y unja cada rincón y cada espacio donde la vida se vea amenazada. Pero nos sucede, como pueblo, como comunidad, como familia e inclusive individualmente, tener que enfrentar situaciones que nos paralizan, donde el horizonte desaparece y el desconcierto, el temor, la impotencia y la injusticia parece que se apoderan del presente. Experimentamos también resistencias a los cambios que necesitamos y que anhelamos, resistencias que son profundas, enraizadas, que van más allá de nuestras fuerzas y decisiones. Esto es lo que la Doctrina social de la Iglesia llamó “estructuras de pecado”, que estamos llamados también nosotros a convertir y que no podemos ignorar a la hora de pensar el modo de accionar. El cambio personal es necesario, pero es imprescindible también ajustar nuestros modelos socio-económicos para que tengan rostro humano, porque tantos modelos lo han perdido. Y pensando en estas situaciones, me vuelvo pedigüeño. Y paso a pedir. A pedir a todos. Y a todos quiero pedirles en nombre de Dios.

A los grandes laboratorios, que liberen las patentes. Tengan un gesto de humanidad y permitan que cada país, cada pueblo, cada ser humano tenga acceso a las vacunas. Hay países donde sólo tres, cuatro por ciento de sus habitantes fueron vacunados.

Quiero pedirles en nombre de Dios a los grupos financieros y organismos internacionales de crédito que permitan a los países pobres garantizar las necesidades básicas de su gente y condonen esas deudas tantas veces contraídas contra los intereses de esos mismos pueblos.

Quiero pedirles en nombre de Dios a las grandes corporaciones extractivas —mineras, petroleras—, forestales, inmobiliarias, agro negocios, que dejen de destruir los bosques, humedales y montañas, dejen de contaminar los ríos y los mares, dejen de intoxicar los pueblos y los alimentos.

Quiero pedirles en nombre de Dios a las grandes corporaciones alimentarias que dejen de imponer estructuras monopólicas de producción y distribución que inflan los precios y terminan quedándose con el pan del hambriento.

Quiero pedirles en nombre de Dios a los fabricantes y traficantes de armas que cesen totalmente su actividad, una actividad que fomenta la violencia y la guerra, y muchas veces en el marco de juegos geopolíticos que cuestan millones de vidas y de desplazamientos.

Quiero pedirles en nombre de Dios a los gigantes de la tecnología que dejen de explotar la fragilidad humana, las vulnerabilidades de las personas, para obtener ganancias, sin considerar cómo aumentan los discursos de odio, el grooming, las fake news, las teorías conspirativas, la manipulación política.

Quiero pedirles en nombre de Dios a los gigantes de las telecomunicaciones que liberen el acceso a los contenidos educativos y el intercambio con los maestros por internet para que los niños pobres también puedan educarse en contextos de cuarentena.

Quiero pedirles en nombre de Dios a los medios de comunicación que terminen con la lógica de la post-verdad, la desinformación, la difamación, la calumnia y esa fascinación enfermiza por el escándalo y lo sucio, que busquen contribuir a la fraternidad humana y a la empatía con los más vulnerados.

Quiero pedirles en nombre de Dios a los países poderosos que cesen las agresiones, bloqueos, sanciones unilaterales contra cualquier país en cualquier lugar de la tierra. No al neocolonialismo. Los conflictos deben resolverse en instancias multilaterales como las Naciones Unidas. Ya hemos visto cómo terminan las intervenciones, invasiones y ocupaciones unilaterales; aunque se hagan bajo los más nobles motivos o ropajes.

Este sistema con su lógica implacable de la ganancia está escapando a todo dominio humano. Es hora de frenar la locomotora, una locomotora descontrolada que nos está llevando al abismo. Todavía estamos a tiempo.

A los gobiernos en general, a los políticos de todos los partidos quiero pedirles, junto a los pobres de la tierra, que representen a sus pueblos y trabajen por el bien común. Quiero pedirles el coraje de mirar a sus pueblos, mirar a los ojos de la gente, y la valentía de saber que el bien de un pueblo es mucho más que un consenso entre las partes (cf. Exhort. ap. Evangelii gaudium, 218); cuídense de escuchar solamente a las elites económicas tantas veces portavoces de ideologías superficiales que eluden los verdaderos dilemas de la humanidad. Sean servidores de los pueblos que claman por tierra, techo, trabajo y una vida buena. Ese “buen vivir” aborigen que no es lo mismo que la “dolce vita” o el “dolce far niente”, no. Ese buen vivir humano que nos pone en armonía con toda la humanidad, con toda la creación.

Quiero pedir también a todos los líderes religiosos que nunca usemos el nombre de Dios para fomentar guerras ni golpes de Estado. Estemos junto a los pueblos, a los trabajadores, a los humildes y luchemos junto a ellos para que el desarrollo humano integral sea una realidad. Tendamos puentes de amor para que la voz de la periferia con sus llantos, pero también con su canto y también con su alegría, no provoque miedo sino empatía en el resto de la sociedad.

Y así soy pedigüeño.

Es necesario que juntos enfrentemos los discursos populistas de intolerancia, xenofobia, aporofobia —que es el odio a los pobres—, como todos aquellos que nos lleve a la indiferencia, la meritocracia y el individualismo; estas narrativas sólo sirvieron para dividir nuestros pueblos y minar y neutralizar nuestra capacidad poética, la capacidad de soñar juntos.

3. Soñemos juntos

Hermanas y hermanos, soñemos juntos. Y así, como pido esto con ustedes, junto a ustedes, quiero también trasmitirles algunas reflexiones sobre el futuro que debemos construir y soñar. Dije reflexiones, pero tal vez cabría decir sueños, porque en este momento no alcanza el cerebro y las manos, necesitamos también el corazón y la imaginación: necesitamos soñar para no volver atrás. Necesitamos utilizar esa facultad tan excelsa del ser humano que es la imaginación, ese lugar donde la inteligencia, la intuición, la experiencia, la memoria histórica se encuentran para crear, componer, aventurar y arriesgar. Soñemos juntos, porque fueron precisamente los sueños de libertad e igualdad, de justicia y dignidad, los sueños de fraternidad los que mejoraron el mundo. Y estoy convencido de que en esos sueños se va colando el sueño de Dios para todos nosotros, que somos sus hijos.

Soñemos juntos, sueñen entre ustedes, sueñen con otros. Sepan que están llamados a participar en los grandes procesos de cambio, como les dije en Bolivia: «El futuro de la humanidad está, en gran medida, en sus manos, en su capacidad de organizarse, de promover alternativas creativas» (Discurso a los movimientos populares, Santa Cruz de la Sierra, 9 julio 2015). Está en sus manos.

“Pero esas son cosas inalcanzables”, dirá alguno. Sí. Pero tienen la capacidad de ponernos en movimiento, de ponernos en camino. Y ahí reside precisamente toda la fuerza de ustedes, todo el valor de ustedes. Porque son capaces de ir más allá de miopes autojustificaciones y convencionalismos humanos que lo único que logran es seguir justificando las cosas como están. Sueñen. Sueñen juntos. No caigan en esa resignación dura y perdedora… El tango lo expresa tan bien: “Dale que va, que todo es igual. Que allá en el horno se vamo a encontrar”. No, no, no caigan en eso por favor. Los sueños son siempre peligrosos para aquellos que defienden el statu quo porque cuestionan la parálisis que el egoísmo del fuerte o el conformismo del débil quieren imponer. Y aquí hay como un pacto no hecho, pero es inconsciente: el egoísmo del fuerte con el conformismo del débil. Esto no puede funcionar así. Los sueños desbordan los límites estrechos que se nos imponen y nos proponen nuevos mundos posibles. Y no estoy hablando de ensoñaciones rastreras que confunden el vivir bien con pasarla bien, que no es más que un pasar el rato para llenar el vacío de sentido y así quedar a merced de la primera ideología de turno. No, no es eso, sino soñar, para ese buen vivir en armonía con toda la humanidad y con la creación.

Pero, ¿cuál es uno de los peligros más grandes que enfrentamos hoy? A lo largo de mi vida —no tengo quince años, o sea, cierta experiencia tengo—, pude darme cuenta de que de una crisis nunca se sale igual. De esta crisis de la pandemia no vamos a salir igual: o se sale mejor o se sale peor, igual que antes, no. Pero nunca saldremos igual. Y hoy día tenemos que enfrentar juntos, siempre juntos, esta cuestión: ¿Cómo saldremos de estas crisis? ¿Mejores o peores? Queremos salir ciertamente mejores, pero para eso debemos romper las ataduras de lo fácil y la aceptación dócil de que no hay otra alternativa, de que “éste es el único sistema posible”, esa resignación que nos anula, de que sólo podemos refugiarnos en el “sálvese quien pueda”. Y para eso hace falta soñar. Me preocupa que mientras estamos todavía paralizados, ya hay proyectos en marcha para rearmar la misma estructura socioeconómica que teníamos antes, porque es más fácil. Elijamos el camino difícil, salgamos mejor.

En Fratelli tutti utilicé la parábola del Buen Samaritano como la representación más clara de esta opción comprometida en el Evangelio. Me decía un amigo que la figura del Buen Samaritano está asociada por cierta industria cultural a un personaje medio tonto. Es la distorsión que provoca el hedonismo depresivo con el que se pretende neutralizar la fuerza transformadora de los pueblos y en especial de la juventud.

¿Saben lo que me viene a la mente a mí ahora, junto a los movimientos populares, cuando pienso en el Buen Samaritano? ¿Saben lo que me viene a la mente? Las protestas por la muerte de George Floyd. Está claro que este tipo de reacciones contra la injusticia social, racial o machista pueden ser manipuladas o instrumentadas para maquinaciones políticas y cosas por el estilo; pero lo esencial es que ahí, en esa manifestación contra esa muerte, estaba el “samaritano colectivo” —¡que no era ningún bobeta!—. Ese movimiento no pasó de largo cuando vio la herida de la dignidad humana golpeada por semejante abuso de poder. Los movimientos populares son, además de poetas sociales, “samaritanos colectivos”.

En estos procesos hay tantos jóvenes que yo siento esperanza…; pero hay muchos otros jóvenes que están tristes, que tal vez para sentir algo en este mundo necesitan recurrir a las consolaciones baratas que ofrece el sistema consumista y narcotizante. Y otros, es triste, pero otros optan por salir del sistema. Las estadísticas de suicidios juveniles no se publican en su total realidad. Lo que ustedes realizan es muy importante, pero también es importante que logren contagiar a las generaciones presentes y futuras lo mismo que a ustedes les hace arder el corazón. Tienen en esto un doble trabajo o responsabilidad. Seguir atentos, como el buen Samaritano, a todos aquellos que están golpeados por el camino pero, a su vez, buscar que muchos más se sumen en este sentir: los pobres y oprimidos de la tierra se lo merecen, nuestra casa común nos lo reclama.

Quiero ofrecer algunas pistas. La Doctrina social de la Iglesia no tiene todas las respuestas, pero sí algunos principios que pueden ayudar a este camino a concretizar las respuestas y ayudar tanto a los cristianos como a los no cristianos. A veces me sorprende que cada vez que hablo de estos principios algunos se admiran y entonces el Papa viene catalogado con una serie de epítetos que se utilizan para reducir cualquier reflexión a la mera adjetivación degradatoria. No me enoja, me entristece. Es parte de la trama de la post-verdad que busca anular cualquier búsqueda humanista alternativa a la globalización capitalista, es parte de la cultura del descarte y es parte del paradigma tecnocrático.

Los principios que expongo son mesurados, humanos, cristianos, compilados en el Compendio elaborado por el entonces Pontificio Consejo “Justicia y Paz”.[3] Es un manualito de la Doctrina social de la Iglesia. Y a veces cuando los Papas, sea yo, o Benedicto, o Juan Pablo II decimos alguna cosa, hay gente que se extraña, ¿de dónde saca esto? Es la doctrina tradicional de la Iglesia. Hay mucha ignorancia en esto. Los principios que expongo, están en ese libro, en el capítulo cuarto. Quiero aclarar una cosa, están compilados en este Compendio y este Compendio fue encargado por san Juan Pablo ll. Les recomiendo a ustedes y a todos los líderes sociales, sindicales, religiosos, políticos y empresarios que lo lean.

En el capítulo cuarto de este documento encontramos principios como la opción preferencial por los pobres, el destino universal de los bienes, la solidaridad, la subsidiariedad, la participación, el bien común, que son mediaciones concretas para plasmar a nivel social y cultural la Buena Noticia del Evangelio. Y me entristece cuando algunos hermanos de la Iglesia se incomodan si recordamos estas orientaciones que pertenecen a toda la tradición de la Iglesia. Pero el Papa no puede dejar de recordar esta doctrina, aunque muchas veces le moleste a la gente, porque lo que está en juego no es el Papa sino el Evangelio.

Y en este contexto, quisiera rescatar brevemente algunos principios con los que contamos para llevar adelante nuestra misión. Mencionaré dos o tres, no más. Uno es el principio de solidaridad. La solidaridad no sólo como virtud moral sino como un principio social, principio que busca enfrentar los sistemas injustos con el objetivo de construir una cultura de la solidaridad que exprese —literalmente dice el Compendio— «una determinación firme y perseverante de empeñarse por el bien común» (n. 193).

Otro principio es estimular y promover la participación y la subsidiariedad entre movimientos y entre los pueblos capaz de limitar cualquier esquema autoritario, cualquier colectivismo forzado o cualquier esquema estado céntrico. El bien común no puede utilizarse como excusa para aplastar la iniciativa privada, la identidad local o los proyectos comunitarios. Por eso, estos principios promueven una economía y una política que reconozca el rol de los movimientos populares, «la familia, los grupos, las asociaciones, las realidades territoriales locales; en definitiva, aquellas expresiones agregativas de tipo económico, social, cultural, deportivo, recreativo, profesional y político, a las que las personas dan vida espontáneamente y que hacen posible su efectivo crecimiento social». Esto en el número 185 del Compendio.

Como ven, queridos hermanos, queridas hermanas, son principios equilibrados y bien establecidos en la Doctrina social de la Iglesia. Con estos dos principios creo que podemos dar el próximo paso del sueño a la acción. Porque es tiempo de actuar.

4. Tiempo de actuar

Muchas veces me dicen: “Padre, estamos de acuerdo, pero, en concreto, ¿qué debemos hacer?”. Yo no tengo la respuesta, por eso debemos soñar juntos y encontrarla entre todos. Sin embargo, hay medidas concretas que tal vez permitan algunos cambios significativos. Son medidas que están presentes en vuestros documentos, en vuestras intervenciones y que yo he tomado muy en cuenta, sobre las que medité y consulté a especialistas. En encuentros pasados hablamos de la integración urbana, la agricultura familiar, la economía popular. A estas, que todavía exigen seguir trabajando juntos para concretarlas, me gustaría sumarle dos más: el salario universal y la reducción de la jornada de trabajo.

Un ingreso básico (el IBU) o salario universal para que cada persona en este mundo pueda acceder a los más elementales bienes de la vida. Es justo luchar por una distribución humana de estos recursos. Y es tarea de los Gobiernos establecer esquemas fiscales y redistributivos para que la riqueza de una parte sea compartida con la equidad sin que esto suponga un peso insoportable, principalmente para la clase media —generalmente, cuando hay estos conflictos, es la que más sufre—. No olvidemos que las grandes fortunas de hoy son fruto del trabajo, la investigación científica y la innovación técnica de miles de hombres y mujeres a lo largo de generaciones.

La reducción de la jornada laboral es otra posibilidad, el ingreso básico uno, es una posibilidad, la otra es la reducción de la jornada laboral. Y hay que analizarla seriamente. En el siglo XIX los obreros trabajaban doce, catorce, dieciséis horas por día. Cuando conquistaron la jornada de ocho horas no colapsó nada como algunos sectores preveían. Entonces, insisto, trabajar menos para que más gente tenga acceso al mercado laboral es un aspecto que necesitamos explorar con cierta urgencia. No puede haber tantas personas agobiadas por el exceso de trabajo y tantas otras agobiadas por la falta de trabajo.

Considero que son medidas necesarias, pero desde luego no suficientes. No resuelven el problema de fondo, tampoco garantizan el acceso a la tierra, techo y trabajo en la cantidad y calidad que los campesinos sin tierras, las familias sin un techo seguro y los trabajadores precarios merecen. Tampoco van a resolver los enormes desafíos ambientales que tenemos por delante. Pero quería mencionarlas porque son medidas posibles y marcarían un cambio positivo de orientación.

Es bueno saber que en esto no estamos solos. Las Naciones Unidas intentaron establecer algunas metas a través de los llamados Objetivos de Desarrollo Sostenible (ODS), pero lamentablemente desconocidas por nuestros pueblos y las periferias; lo que nos recuerda la importancia de compartir y comprometer a todos en esta búsqueda común.

Hermanas y hermanos, estoy convencido de que el mundo se ve más claro desde las periferias. Hay que escuchar a las periferias, abrirle las puertas y permitirles participar. El sufrimiento del mundo se entiende mejor junto a los que sufren. En mi experiencia, cuando las personas, hombres y mujeres que han sufrido en carne propia la injusticia, la desigualdad, el abuso de poder, las privaciones, la xenofobia, en mi experiencia veo que comprenden mucho mejor lo que viven los demás y son capaces de ayudarlos a abrir, realísticamente, caminos de esperanza. Qué importante es que vuestra voz sea escuchada, representada en todos los lugares de toma de decisión. Ofrecerla como colaboración, ofrecerla como una certeza moral de lo que hay que hacer. Esfuércense para hacer sentir su voz y también en esos lugares, por favor, no se dejen encorsetar ni se dejen corromper. Dos palabras que tienen un significado muy grande, que yo no voy a hablar ahora.

Reafirmemos el compromiso que tomamos en Bolivia: poner la economía al servicio de los pueblos para construir una paz duradera fundada en la justicia social y el cuidado de la Casa común. Sigan impulsando su agenda de tierra, techo y trabajo. Sigan soñando juntos. Y gracias, gracias en serio, por dejarme soñar con ustedes.

Pidámosle a Dios que derrame su bendición sobre nuestros sueños. No perdamos las esperanzas. Recordemos la promesa que Jesús hizo a sus discípulos: “siempre estaré con ustedes” (cf. Mt 28,20); y recordándola, en este momento de mi vida, quiero decirles también que yo voy a estar con ustedes. También lo importante es que se den cuenta de que está Él con ustedes. Gracias.

_____________________

[1] “El virus del hambre se multiplica”, Informe de Oxfam del 9 de julio de 2021, en base al Global Report on Food Crises (GRFC) del Programa Mundial de Alimentos de las Naciones Unidas.
[2] Carta a los movimientos populares, 12 abril 2020.
[3] Dicasterio para el Servicio del Desarrollo Humano Integral, Compendio de la Doctrina Social de la Iglesia, 2004.

[01413-ES.01] [Texto original: https://movpop.org/wp-content/uploads/2021/07/IT-Comunicato-stampa-2-IV-IMMP.pdf
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Traduzione in lingua italiana

Sorelle, fratelli, cari poeti sociali!

1. Cari poeti sociali

Così mi piace chiamarvi, “poeti sociali”. Perché voi siete poeti sociali, in quanto avete la capacità e il coraggio di creare speranza laddove appaiono solo scarto ed esclusione. Poesia vuol dire creatività, e voi create speranza. Con le vostre mani sapete forgiare la dignità di ciascuno, quella delle famiglie e quella dell’intera società con la terra, la casa e il lavoro, la cura e la comunità. Grazie perché la vostra dedizione è parola autorevole, capace di smentire i rinvii silenziosi e tante volte “educati” a cui siete stati sottoposti, o a cui sono sottoposti tanti nostri fratelli. Ma pensando a voi credo che la vostra dedizione sia principalmente un annuncio di speranza. Vedervi mi ricorda che non siamo condannati a ripetere né a costruire un futuro basato sull’esclusione e la disuguaglianza, sullo scarto o sull’indifferenza; dove la cultura del privilegio sia un potere invisibile e insopprimibile e lo sfruttamento e l’abuso siano come un metodo abituale di sopravvivenza. No! Questo voi lo sapete annunciare molto bene. Grazie.
[segue]

CheFare? Buone pratiche

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CHE FARE?
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Volere la Luna: che fare? Un confronto aperto
22-09-2021 – di: Livio Pepino

L’ultima assemblea e la festa di Volere la Luna appena conclusa ci hanno lasciato alcuni punti fermi e la comune convinzione della necessità, per il nostro futuro, di un supplemento di riflessione. Il modo migliore per farlo è aprire un ampio confronto: tra di noi, con i nostri interlocutori abituali e con chi ci guarda con interesse. Finita l’estate possiamo partire, prendendo le mosse da alcuni dati e dalla riflessione assembleare.

1.
Tre anni fa, quando abbiamo costituito Volere la Luna, lo abbiamo fatto partendo da un’analisi sintetizzata così nel preambolo dello statuto
:

L’Associazione “VOLERE LA LUNA – Laboratorio di cultura politica e di buone pratiche” nasce dalla constatazione degli enormi cambiamenti prodotti dalla grande trasformazione di fine-secolo, con la conseguente crisi economica e sociale, e dalla necessità di sperimentare risposte nuove e adeguate. L’aumento vertiginoso delle diseguaglianze, la rottura dei legami sociali e della solidarietà, la crescita della povertà e dell’indigenza, vissute troppo spesso in solitudine, l’imbarbarimento del comune sentire (con la sua coda velenosa di aggressività, disprezzo di sé e dell’altro, xenofobia e razzismo), sono gli effetti più evidenti. Così come l’indebolirsi delle forme di partecipazione e della rappresentanza, soprattutto per gli strati più fragili, e la sempre più evidente inefficacia degli strumenti tradizionali di difesa e di giustizia sociale, dal welfare alle forme di organizzazione politica e sociale (partiti e sindacati).

La prima verifica deve, dunque, riguardare la perdurante correttezza (o meno) di quell’analisi. E la risposta è, purtroppo, assai agevole.
La situazione economica, sociale e politica si è, in questi tre anni, ulteriormente aggravata, e non solo per la comparsa della pandemia. In estrema sintesi, e limitandosi alla situazione nazionale (che, per quella internazionale, il tragico fallimento dell’ennesimo tentativo di “esportare la democrazia con le armi”, questa volta in Afghanistan, è tanto clamoroso da non richiedere commenti):

a1) l’involuzione del sistema politico ha assunto proporzioni macroscopiche. Abbiamo l’ennesimo governo di tecnici, ancor più inquietante di quelli del passato: guidato dal banchiere simbolo di quel potere economico-finanziario che, nell’ultimo decennio, ha soppiantato la politica; con il potere reale, all’interno del Governo, affidato a un bureau emanazione diretta del presidente; con un prefetto e l’ex capo della polizia in posti chiave; con l’attribuzione dei “pieni poteri” per l’emergenza Covid a un generale che partecipa alle riunioni istituzionali e percorre il Paese in tuta mimetica o con una sfilza di onorificenze sul petto (tanto da evocare inquietanti figure di governi sudamericani di qualche decennio fa). E ciò avviene con l’euforico consenso dei partiti tradizionali (ormai indistinti nelle scelte economiche e di politica internazionale), senza reale opposizione da parte delle organizzazioni sindacali tradizionali (salvo eccezioni impercettibili) e con l’unanime appoggio della grande stampa (segnata da una ulteriore concentrazione). Morta la speranza (dettata dalla disperazione più che da segnali specifici) che il M5Stelle introducesse nella scena politica elementi di rinnovamento e confermata l’incapacità di aggregazione dei frammenti di quella che un tempo si chiamava sinistra radicale, il futuro del Paese, stando ai sondaggi (e ferme le eccezioni di alcune città), vedrà l’egemonia della destra, con l’unica incertezza di chi ne sarà l’azionista di maggioranza;

a2) a fronte di ciò continua, in modo evitabile e sacrosanto, la fuga dei cittadini da questa politica (come dimostra il flop delle primarie del centro-sinistra nelle grandi città) e deperiscono fino a scomparire gli stessi luoghi della rappresentanza, a cominciare dal Parlamento (minato dalla incapacità di affrontare i temi fondamentali, dalla delegittimazione intervenuta con la demagogica riduzione dei parlamentari e dalla sirena vincente del maggioritario) della cui esistenza non si accorge più nessuno;

a3) intanto la povertà e la disuguaglianza sono ulteriormente cresciute (a livello nazionale e nei territori). Pochi mesi fa il report annuale dell’Istat ha fotografato la crisi segnalando che, nel nostro Paese, sono in condizioni di povertà assoluta oltre 2 milioni di famiglie, pari a 5,6 milioni di persone, e in condizioni di povertà relativa 2,6 milioni di famiglie, pari a 8 milioni di persone. E ciò avviene non per mancanza di ricchezza ma per la distribuzione abissalmente diseguale delle risorse, che si è ulteriormente aggravata durante la pandemia (basti pensare che nel 2020 i 36 miliardari italiani hanno guadagno 45,6 miliardi in più rispetto al 2019). Né si vedono prospettive di una inversione di tendenza, neppure grazie agli ingenti fondi europei di prossima erogazione, posto che il Piano nazionale di ripresa e resilienza – al di là di alcuni riconoscimenti di facciata – resta solidamente ancorato al modello di sviluppo che ha portato alla crisi sociale, economica e ambientale in atto, come dimostra icasticamente il fatto che in una delle sue ultime formulazioni il PNRR ripeteva ben 257 volte i termini “concorrenza”, “impresa” e “competizione”, mentre la parola “disuguaglianze” si affacciava solo 7 volte (due delle quali riferite al genere).

In questo quadro è verosimile che la conflittualità diffusa prodotta dalla catastrofe sociale (che si acuirà con lo sblocco dei licenziamenti e degli sfratti) non trovi interpreti adeguati e che ad essa si risponda con una ulteriore involuzione autoritaria del sistema (già anticipata dalle politiche migratorie e dai vari decreti sicurezza). Lo segnalano anche fonti non sospette, come il papa di Roma: «La persona fragile, vulnerabile, si trova indifesa davanti agli interessi del mercato divinizzato, diventati regola assoluta. Oggi, alcuni settori economici esercitano più potere che gli stessi Stati: una realtà che risulta ancora più evidente in tempi di globalizzazione del capitale speculativo. Il principio di massimizzazione del profitto, isolato da ogni altra considerazione, conduce a un modello di esclusione – automatico! – che infierisce con violenza su coloro che patiscono nel presente i suoi costi sociali ed economici, mentre si condannano le generazioni future a pagarne i costi ambientali. […] Questo fenomeno mette a rischio le istituzioni democratiche e lo stesso sviluppo dell’umanità. In concreto, la sfida presente […] è quella di contenere l’irrazionalità punitiva, che si manifesta, tra l’altro, in reclusioni di massa, affollamento e torture nelle prigioni, arbitrio e abusi delle forze di sicurezza, espansione dell’ambito della penalità, la criminalizzazione della protesta sociale, l’abuso della reclusione preventiva e il ripudio delle più elementari garanzie penali e processuali» (discorso indirizzato dal Papa il 15 novembre 2019 ai partecipanti al XX Congresso mondiale Associazione internazionale di diritto penale).
L’analisi che stava alla base della costituzione di Volere la Luna ne esce ampiamente confermata e, con essa, la scelta di rimanere fuori dalle dinamiche della politica istituzionale e delle competizioni elettorali (anche solo per sostenere il meno peggio).

2.
Più complicato è, come sempre, il che fare. Anche in questo caso conviene partire dal progetto esposto nel preambolo dello statuto
:

Volere la luna significa proporsi quello che può sembrare impossibile a molti, ma che in realtà dovrebbe essere normale: cambiare radicalmente il proprio modo di essere, di pensare, agire, cooperare e aggregarsi, tenendo fermi i valori di riferimento di un solidarismo radicale. Il mondo è cambiato, è ora di cambiare noi stessi. E il nostro modo di stare insieme. A cominciare da tre obiettivi primari: contrastare le diseguaglianze, promuovere ma soprattutto praticare forme di partecipazione solidale, favorire la rinascita di un pensiero libero e critico. Cioè non limitarsi a proclamare i propri valori, ma praticarli concretamente, con azioni positive quotidiane, creazione di occasioni di prossimità, di spazi, anche limitati, di relazione, di strumenti di comunicazione aperti e critici.

Ci abbiamo provato e ci stiamo provando. Ed è dalla valutazione dell’esperienza che dobbiamo muovere per definire le prospettive future. Due le principale linee su cui ci siamo mossi:

b1) anzitutto abbiamo cercato e trovato un luogo in cui radicarci, almeno a Torino, convinti che senza una presenza fisica sul territorio non ci siano le condizioni per promuovere partecipazione solidale. Quel luogo è la casetta di via Trivero, con annessi capannone e pergolato. Lì abbiamo cominciato a costruire relazioni (con le persone e con le realtà associative più prossime) e a sviluppare attività sociali (sportelli gratuiti di consulenza legale, sanitaria e sulla casa; partecipazione a interventi di aiuto materiale alle fasce di popolazione più in difficoltà; offerta di “pasti sospesi”, anche per promuovere socialità) e culturali (film, dibattiti, presentazione libri, mostre, biblioteca). I risultati sono, per ora, ridotti, per un doppio ordine di ragioni: i limiti imposti dalla normativa per la prevenzione della pandemia (che da un anno e mezzo hanno inevitabilmente abbattuto le attività in presenza e i rapporti diretti) e il mancato incremento del numero di persone coinvolte, in particolare di giovani (per ragioni molteplici, non ultima delle quali ancora la pandemia). Non mancano, peraltro, i progetti, considerata l’auspicabile normalizzazione delle attività e i lavori in programma per rendere i locali più agibili soprattutto nel periodo invernale, a cominciare dall’apertura di un’aula studio, di un forno per la panificazione comunitaria una volta la settimana e via elencando;

b2) parallelamente abbiamo cercato di contribuire alla rinascita di un pensiero libero e critico, essenzialmente su due piani: la realizzazione e l’implementazione del sito e l’organizzazione di momenti di formazione via web (ultimo dei quali il ciclo di studio sul Piano nazionale di ripresa e resilienza dello scorso luglio). Il sito ha raggiunto in questi anni un numero lusinghiero di collaboratori (oltre 100, a dimostrazione della progressiva costruzione di una vera e propria comunità di riferimento) e di visitatori (una media di 60.000 mensili, che non sono pochi per un sito funzionante esclusivamente sul volontariato dei redattori) ed ha avuto molti riconoscimenti circa la qualità e tempestività di interventi. Più difficile si è rivelato, invece, il decollo degli incontri di formazione che, forse anche per la stanchezza del lavoro via web, hanno avuto un numero di fruitori modesto.

Quali, a questo punto, le direttrici e le prospettive di lavoro? Essenzialmente tre, secondo le indicazioni emerse dall’assemblea:

c1) proseguire e intensificare il radicamento nel territorio con una presenza continuativa e solidale capace di creare comunità e partecipazione. È questo il presupposto per un reale rinnovamento della politica: non andare nei territori (come ormai tutti, a parole, sostengono) ma esserci (che è cosa profondamente diversa e che risponde a una logica di coinvolgimento e non di colonizzazione). Ciò significa, da un lato, consolidare l’esperienza torinese e promuovere e realizzare altrove esperienze analoghe; dall’altro, definire meglio le attività e modalità di presenza nel territorio;

c2) potenziare il sito come luogo di confronto, di approfondimento, di segnalazione di buone pratiche nella direzione di “un altro mondo possibile”. Ciò richiede una supplemento di riflessione sulle nostre modalità di comunicazione, un ulteriore allargamento della comunità dei collaboratori e, soprattutto, la costruzione di una rete con siti analoghi (nella convinzione che solo una dimensione collettiva può determinare, per tutti, un salto di qualità);

c3) lavorare a una formazione-azione politica a livello nazionale. È, all’evidenza, il settore più difficile per carenza di risorse e di presenza nel Paese ma è una prospettiva ineludibile (anche qui senza velleità di autosufficienza e nella consapevolezza che il percorso sarà lungo e senza scorciatoie). Le vie principali finora perseguite e da consolidare – certamente insufficienti ma utili come punto di partenza – sono la costruzione di una sorta di scuola di formazione politica (da organizzare con una pluralità di altri soggetti e con metodologie partecipative) e l’impegno in alcune campagne politiche strategiche e capaci di coinvolgimento (la modifica in senso proporzionale della legge elettorale, una politica dell’abitare solidale e che salvaguardi il territorio, nuove tutele del lavoro etc.)

È, quella sin qui esposta, una semplice scaletta, una traccia per un confronto di cui abbiamo bisogno per proseguire. Speriamo che sia un confronto ampio, franco e propositivo. Ad esso vogliamo dedicarci nei prossimi mesi.
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DIBATTITO. CHE FARE?
Stare nei territori, ma anche ridefinire un progetto
11-10-2021 – di: Riccardo Barbero su VOLERELALUNA.
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Che succede?

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IL PD E UNA (POSSIBILE) NUOVA AREA RIFORMISTA
Su C3dem
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VATICANO, FEDI UNITE PER IL PIANETA: CAMBIARE ROTTA PER AVERE FUTURO
Su C3dem.
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Oggi venerdì 8 ottobre 2021

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——————-Opinioni, Commenti e Riflessioni———————–
Tornare sul voto tedesco è utile al futuro dell’Italia
8 Ottobre 2021
Alfiero Grandi su Democraziaoggi.
Il voto in Germania è stato seguito più per la previsione che l’uscita di scena di Angela Merkel non avrebbe favorito il suo partito, la CDU, e a sorpresa Scholz, candidato di punta socialdemocratico, avrebbe superato sia i popolari tedeschi che i verdi, dati per favoriti all’inizio della campagna elettorale. Quando alla nevrosi dell’informazione […]
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- Francesco affida l’economia ai giovani: «L’ultima generazione che può salvarci»
di papa Francesco, in “Avvenire” del 3 ottobre 2021